Obiettivo Harmony

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Ciro Cumulo
00mercoledì 8 settembre 2010 09:19
Come ormai tutti voi saprete, il mestiere del futuro è fare lo scrittore di Harmony. I soft porno per casalinghe, che parlano di casalinghe, stallieri, principi, monarchia e collegi. Ho convinto uno stimato scrittore emiliano (N.N.G.G.) a convertirsi agli Harmony, e chiunque volesse partecipare al progetto è benaccetto, il nostro nome collettivo sarà PAUL D'IVOIRE.

Questo che segue è il primo (e la bozza del secondo) capitolo del celebre Harmony che non farò mai (sono palesemente andato fuori tema).


GIARDINIERE DI PASSIONE

Reiner,
Capitolo 1

La carrozza percorreva le impervie strade sterrate della Carinzia, e un torrenziale temporale imperversava, tamburellando contro i vetri smerigliati goccioloni che sferzavano come sassate.
Il vetturino, un improbabile sosia di Francesco Giuseppe, starnutiva e bestemmiava, sobbalzando ogni volta che una pozzanghera o una buchetta lungo il percorso alterassero l’incedere e il procedere sghembo della traballante teiera che ci racchiudeva. Era la prima volta che mi allontanavo di casa senza i genitori, o perlomeno senza l’affettuosa compagnia della mia nutrice, la signora Frida Klein, che per l’occasione mi aveva riempito un cesto di biscotti al burro. Ma in cuor mio sapevo, che sarebbe passato molto tempo prima che io avessi potuto risentire un altro affettuoso rimbrotto di Frida, o godere dei calorosi abbracci dei miei, o delle risa dei miei amici di Vienna, rinvigorite dagli allegri schiamazzi dei figlioli dei servi, allegramente malvestiti di stracci variopinti che nemmeno la miseria più nera poteva sbiadire. Con una lettera di raccomandazioni in mano, con tanto di sigillo del casato ed imbellettata dalla pomposa firma di mio padre, mi apprestavo a recarmi al Collegio di Klagenfurt, dove avrei trascorso circa cinque anni della mia vita, apprendendo le belle arti, studiando i classici della letteratura latina e greca, non trascurando il diritto e l’educazione alla disciplina. Ma ciò a cui anelavo maggiormente, era di misurarmi nelle lezioni di scherma, fioretto, tiro con l’arco, il pancrazio e la lotta greco-romana. In cuor mio sognavo di diventare un fedele ed implacabile servitore della patria, ardevo di passione per l’Aquila d’Austria, avevo una fiducia cieca per la monarchia, e non mi turbavano i recenti avvenimenti politici, la grave crisi finanziaria culminata col crollo della borsa di Vienna, lo scacco diplomatico a Parigi dopo la guerra in Crimea e la sconfitta in Italia del 1859. Questa mia passione per gli sport, ed il mio desiderio di entrare nell’esercito per fare carriera, riempivano i miei sogni di bambino di otto anni. I miei occhi sognanti fissavano i goccioloni carichi d’acqua infrangersi sui vetri, e quasi non avevo rivolto parola a mio cugino ed agli altri due ragazzini che condividevano con me le scomodità di questo viaggio.
Filippo Schwarzenberg, mio cugino, era impettito e fiero, impeccabile nel suo completo bianco, alto, bello, arrogante per come ti fissava dall’alto al basso e per come riusciva ad arrotare le erre appositamente per vezzo, temibile, invidiato, stimato. Il pupillo degli Schwarzenberg. Lo adoravo.
Karl Heinz, seduto al suo fianco, sembrava un monaco in penitenza. Teneva la testa bassa, questo bambino malaticcio, e tossiva spesso in modo sconveniente.
Di fianco a me, invece, sedeva un bambino timido e taciturno che aveva detto di chiamarsi Ignaz. Chissà se anche lui, e Filippo, e Karl Heinz, erano così ansiosi come me di giungere a Klagenfurt.
Tre ore dopo, il diluvio era cessato. Come tipicamente accade nei temporali autunnali, la luminosità sfolgorante e l’aria calda avevano preso il posto del grigiore e dell’acqua, con tanta repentina evidenza, che quando la carrozza si arrestò, sotto i bastioni del Collegio, e noi scendemmo, ci sembrò di sbocciare come dei boccioli di rosa, e lo spettacolo di tanta magnificenza ci tolse il fiato.
Ad accoglierci, un servitore in abiti da contadino. Prese consegna dei pretenziosi roani del tiro che ci aveva condotto sin qui, e li portò alle stalle, seguito dal cocchiere. Ci indicò con un gesto della mano la direzione che avremmo dovuto prendere. Filippo entrò per primo, e noi lo seguimmo. Eravamo dentro il Collegio.
In pochi, rapidi minuti mi trovai a stringere mani. Il direttore, un uomo austero con dei baffi incredibili. Il maestro di religione, un monaco domenicano grasso e molle. Dei personaggi secondari, funzionari, servitori, tutori. Qualcuno prese la lettera di raccomandazioni che portavo e la appoggiò da qualche parte. Qualcun altro disse qualcosa, ci spiegò l’ubicazione di qualche posto ed aggiunse dell’altro, ma ero troppo eccitato per stare ad ascoltare.
Noi quattro ragazzi fummo condotti via, lungo un corridoio che non avevamo mai percorso prima, e attraverso una porta che non avevamo mai visto, uscimmo alla luce abbagliante del mondo esterno. Era questo il momento della separazione. Il direttore del Collegio, in piedi, teneva le mani appoggiate sulle spalle di Filippo. Egli perciò era già stato prescelto fra di noi. Ma pur appoggiandosi a Filippo, vedevo come teneva gli occhi fissi su di me, quasi volesse imprimersi indelebilmente la mia immagine nella mente; ma quali potessero essere i suoi pensieri, non riuscivo a immaginare. Restò tutto il tempo in silenzio.
“Venite, ragazzi miei” mormorò il maestro di religione. “Su venite. Voi tre diventerete seminaristi. Vivrete qui, nel Collegio, e forse grandi cose vi attendono.”
La delusione in quel momento fu forse la più acuta che avessi mai provato fino ad allora. Non sarei diventato un soldato, niente conquiste, niente gloria per me: avrei trascorso la vita a chiuso in un monastero a recitare rosari.
“Da questa parte” continuò il vecchio maestro con voce pigolante. “E’ giunto il momento della vostra, ehm, iniziazione.”
Mentre il direttore conduceva via il mio amico Filippo, noi tre fummo scortati nel vasto cortile, dove quattro uomini in vesti sacerdotali ci stavano aspettando.
Tutti e quattro avevano le maniche arrotolate che mettevano in mostra i muscoli solidi e rigonfi delle braccia, e un’espressione sul viso come se covassero un rancore speciale per i ragazzi della nostra età, un’espressione che ricorderò per tutta la vita. Esitammo tutti e tre, presi da paura, e cercammo di nasconderci dietro la pingue figura del maestro. Ma ora nemmeno lui era nostro amico.
“Cominciate da questo qui” disse con la voce stranamente alterata, afferrando Karl Heinz per le spalle e spingendolo in avanti. Karl Heinz non conservò la sua dignità di figlio di un ufficiale austriaco e lanciò un urlo di terrore quando i sacerdoti lo afferrarono per le braccia, torcendogliele crudelmente, mentre lo conducevano ad un basso altare di pietra nel centro del cortile.
Anche se era settembre, l’autunno stentava ancora ad arrivare, e quel giorno, dopo la piovuta che aveva imperversato durante il viaggio in carrozza, faceva molto caldo. Noi ragazzi indossavamo soltanto la maglietta e i pantaloncini, e questi i sacerdoti strapparono di dosso a Karl Heinz, con la stessa freddezza con la quale avrebbero tolto la pelle a un coniglio. Il ragazzino continuava a strillare come se lo stessero spellando vivo davvero.
Da principio, io capii molto poco di quel che stava accadendo. Vidi due sacerdoti immobilizzare Karl Heinz sulla pietra dell’altare per le braccia e le gambe, mentre un terzo, che teneva in mano un laccio di cuoio, si fece avanti e strinse in un nodo scorsoio le parti intime di Karl Heinz, strozzandogli lo scroto con il laccio. Tutto fu eseguito con la massima calma, come un lavoro qualsiasi. Ignaz e io guardammo inorriditi, mentre il quarto prete tirava fuori un coltello e con la lama ricurva tagliava lo scroto, il cui contenuto insanguinato si riversò sulle gambe di Karl Heinz. Credetti per un attimo che l’aria dovesse spaccarsi in due per le urla di dolore e di terrore.
E poi, naturalmente, mi fu tutto chiarissimo: resi eunuchi, ci saremmo pallidamente arresi alla vita monacale, senza opporre resistenza.
“Come osano?” pensai. “Come osano fare una cosa simile?” Osavano, tuttavia, e quando sentii la mano del maestro sulla mia spalla, capii che era venuto il mio turno.
Alzai lo sguardo sulla sua faccia glabra e vidi che mi sorrideva: aveva la pelle del collo floscia e tremolante ad ogni movimento, il grasso e molle maestro.
“No! Io no!”
Ormai con Karl Heinz avevano finito. Uno degli uomini prese una torcia dalla quale gocciolava pece bollente che servì a cauterizzare la ferita. Karl Heinz urlò un’altra volta, senza che nessuno gli prestasse ascolto. Gli occhi del sacerdote erano ora su di me.
“Avanti, Reiner” mi sussurrò il maestro. “E’ questione di un momento. Fa vedere che ragazzo coraggioso sei!”
Mi spinse con gentilezza in avanti. I sacerdoti si limitavano ad aspettarmi e uno teneva in equilibrio sul palmo della mano il coltello ricurvo, quasi per gioco. Feci un passo, poi un altro, un altro ancora. A malapena sapevo quel che stavo facendo.
Io sarei diventato un soldato, e un soldato ripete a se stesso che non ha paura del dolore e della morte. Non avevo paura di soffrire… E in quanto alla morte, appena sapevo cosa fosse. Ma questo disonore, questa vergogna… No, non poteva essere!
In quel momento seppi che cosa dovevo fare.
Non si aspettavano minimamente una resistenza. Mi avvicinai a loro rassegnato, ad occhi bassi, da bravo ragazzo come mi avevano insegnato ad essere. L’uomo col coltello in mano era più vicino a me e voltava le spalle all’altare, sicuro di avermi in suo potere.
Non ero che un bimbo, ma ero già agile e veloce. Continuai ad avanzare strascicando i piedi e tenendo gli occhi abbassati. Poi, all’ultimo istante, quando già il sacerdote stava allungando la mano verso di me, mi avventai contro di lui con tutta la forza di cui ero capace. Fu sufficiente: lo colpii proprio sopra le ginocchia, spingendolo violentemente con le mani aperte, ed egli barcollò, perdendo l’equilibrio. Cadde all’indietro sulla pietra dell’altare e, come avevo previsto, si lasciò sfuggire il coltello di mano.
La lama ruzzolò sul pavimento di pietra e nell’attimo in cui tutti quanti si stavano riprendendo dalla sorpresa io ebbi il tempo di raccoglierla e correre a ripararmi su di un albero, arrampicandomi velocemente e portandomi a cavalcioni su un grosso ramo. Fui rapido come un leprotto, con il cuore che mi batteva furiosamente. Allora mi voltai, con il coltello in pugno, per affrontare i miei carnefici.
“Venite a prendermi!” gridai: ero impazzito dalla paura, mescolata però ad una strana sensazione che non avevo mai conosciuto prima.
“Non è che un bambino, anche se reagisce come un leone, eh?” disse un sacerdote, il più autorevole nel parlare, quello disarmato dal coltello. “Avanti, toglietegli la lama!”
Mentre io continuavo ad agitare minaccioso la mia arma, il maestro si avvicinò, cercando di salire sull’albero. “Dammi quel coltello, sei al Collegio adesso e devi obbedire… ahi!”
Si era avvicinato troppo: il coltello gli aprì un taglio nella mano e il sangue rosso sprizzò sul braccio, colando fino a terra.
Poi, una risata giunse al mio orecchio, una risata simile al tuono. Come osavano? Ero a tal punto pieno di rabbia che avrei voluto mettermi a piangere, finché non mi accorsi che non erano i sacerdoti a ridere. Allora scorsi dall’altra parte del cortile la sgraziata figura di un ciccione intabarrato. Veniva verso di noi.
“E’ il maestro di ginnastica e delle arti di combattimento, il generale Seipel” disse il maestro di religione, mentre si medicava la ferita alla mano con una garza sterile preparata per noi. “Vedrai che adesso ti calmerà lui!”.
Le ginocchia mi diventarono molli come cera e mi lasciai scivolare giù dai rami, fino a trovarmi al cospetto di Seipel, che rappresentava per me il mio più grande sogno. Solo entrando nel corso da lui diretto, sarei potuto diventare un soldato. Solo lui avrebbe potuto impedire che diventassi un monaco.
“Vieni qui ragazzo, vieni e lasciati guardare.” disse con una voce piena di gentilezza, che sembrava aliena a quel corpo asimmetrico. Quando mi appoggiò le mani sulle spalle, gli occhi mi si velarono di lacrime.
“Non avere paura, ragazzo. Se ti applicherai negli sport io ti farò grande. Che cosa ne dici? Va meglio così? Ti sarà risparmiato il coltello.”
Il maestro di religione si schiarì la gola: “E l’altro, Seipel?”
Ci eravamo dimenticati completamente di Ignaz, il quale se ne stava nascosto dietro un cespuglio, come se volesse scomparire del tutto. Non so cosa provai per lui in quel momento, ma forse il mio cuore era troppo saturo di emozioni per sentire ancora qualcosa.
“Credo che un leone sia sufficiente per oggi, no? Completate il vostro lavoro.”
I sacerdoti furono svelti questa volta e Ignaz non ebbe la minima opportunità di resistere, sollevato come fu da terra per le braccia e le gambe. Urlò, riempiendo l’aria della sua voce acuta, ma in un attimo fu trascinato all’altare e il crudele coltello cominciò la sua opera.
“No, non voltarti, ragazzo” disse Seipel, che mi prese sottobraccio e mi allontanò dal maestro di religione e dal barbaro macello del mio amico Ignaz. “Impara ad essere uomo e a non avere paura del sangue.”
Così, dunque, venni ammesso al corso di ginnastica e delle arti di combattimento, dove avrei potuto ufficialmente iniziare la mia ascesa al mondo militare. Quello fu il mio primo giorno di scuola.

Reiner,
Capitolo 2

Chiuso nel Collegio, ignoravo che quel giorno di settembre era carico d’eventi per la storia del mio paese. Il fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe, il bonario Massimiliano “il botanico”, era stato avvicinato da monarchici messicani che avevano cercato di circuirlo, promettendogli una allettante fortuna nel Nuovo Mondo. Massimiliano era un uomo colto, si era guadagnato la reputazione di un liberale, e conosceva le terre impervie d’oltreoceano poiché si era già cimentato, e per puro diletto, in una spedizione scientifica nelle foreste del Brasile. C’era chi lo voleva in Messico, ed era pronto ad offrirgli la Corona Imperiale. Nel frattempo era scoppiata la guerra di secessione americana e l'Imperatore dei Francesi Napoleone III ne aveva approfittato per invadere Città del Messico ed un plebiscito (di dubbia natura, dato che avvenne mentre le truppe francesi occupavano militarmente Città del Messico) confermò la caduta del Presidente in carica, Benito Juárez, e la proclamazione dell'Impero.
In considerazione degli indubbi meriti guadagnati come governatore del Lombardo-Veneto e dell'evidente disagio maturato con il fratello imperatore, Massimiliano parve il candidato ideale alla instaurazione di una monarchia moderata. Accettò la corona nel 1863. Francesco Giuseppe si vendicò, imponendogli la perdita di tutti i titoli che a lui competevano presso la casa regnante austriaca.
Durante il viaggio per raggiungere il Messico, tuttavia, Massimiliano si sottrasse alla lettura di libri sul Messico che gli erano stati messi a disposizione, preferendo impiegare il tempo scrivendo un manuale sull’etichetta di Corte.
Massimiliano sbarcò a Veracruz il 28 maggio 1864, ma fin dall'inizio si trovò coinvolto in serie difficoltà con i liberali messicani, capeggiati dallo stesso Juárez, che rifiutarono di riconoscerlo e continuarono a combattere le truppe francesi.
L'Imperatore e l'Imperatrice Carlotta scelsero, quale residenza, il Castello di Chapultepec, sulla collina che sovrasta Città del Messico e che era stato rifugio degli antichi sovrani aztechi.
Poiché Massimiliano e Carlotta non avevano figli, adottarono Agustín de Iturbide y Green e suo cugino Salvador de Iturbide y de Marzán, entrambi nipoti di Agustín de Iturbide, che aveva brevemente regnato, quale Imperatore del Messico nel 1820. Ad Agustín venne assegnato il titolo di "Sua Altezza, il Principe di Iturbide" e venne proclamato erede al trono.
Con disappunto degli alleati conservatori, Massimiliano adottò molte delle politiche liberali proposte dall'amministrazione Juárez, come la riforma terriera, la libertà di religione e l'estensione del diritto di voto alle classi contadine. Massimiliano dapprima offrì a Juarez l'amnistia se si fosse alleato alla corona, quindi, al suo rifiuto, ordinò la fucilazione di tutti i suoi sostenitori arrestati: si trattò tuttavia di un grave errore tattico che ebbe il solo risultato di esacerbare gli oppositori al suo regime.
Dopo la fine della guerra di secessione americana gli Stati Uniti cominciarono a rifornire di armi i repubblicani giacché, dal1866, l'abdicazione di Massimiliano, almeno al di fuori del Messico, sembrava ormai cosa fatta. Massimiliano, di converso, stava tentando di arruolare, per il suo esercito, ufficiali dell'Esercito statunitense da contrapporre alle forze di Benito Juárez.
Nello stesso 1866, inoltre, Napoleone III, di fronte alla resistenza messicana ed all'opposizione degli Stati Uniti, ritirò le sue truppe. L'Imperatrice Carlotta tornò in Europa per cercare appoggi al regime del marito dapprima a Parigi, poi a Vienna ed a Roma dal Papa Pio IX, ma i suoi sforzi fallirono e, a causa di un profondo collasso emozionale, non rientrò in Messico.
Nonostante l'abbandono del Messico da parte dello stesso Napoleone III, il cui ritiro fu un duro colpo per la causa imperiale, Massimiliano si rifiutò di abbandonare, a sua volta, i suoi sostenitori e, ritiratosi nel febbraio 1867 a Querétaro, vi sostenne un assedio durato alcune settimane. L'11 maggio l'Imperatore Massimiliano decise di tentare una fuga attraverso le linee nemiche, ma venne intercettato e, sottoposto ad una corte marziale, condannato alla fucilazione.
Molti sovrani d'Europa ed altre preminenti figure (tra cui Victor Hugo e Giuseppe Garibaldi) inviarono messaggi e lettere in Messico affinché fosse risparmiata la vita a Massimiliano, ma Juárez rifiutò di commutare la sentenza ritenendo che fosse necessario inviare il segnale che il Messico non avrebbe mai più tollerato governi imposti da potenze straniere.
La sentenza venne eseguita il 19 giugno 1867 da un plotone di esecuzione composto da sette unità; insieme a Massimiliano vennero fucilati i generali Miguel Miramón e Tomás Mejía. Il corpo di Massimiliano I venne imbalsamato ed esposto in Messico, prima di essere sepolto, l'anno successivo, nella Cripta Imperiale a Vienna.
Quel 19 di giugno me lo ricordo ancora vividamente, e resterà impresso nella mia mente per sempre, perché fu l’ultimo mio giorno al Collegio. Con ottimi voti nelle discipline sportive, una predisposizione per le arti, in particolare la musica, e buoni voti nelle materie umanistiche, a discapito di quelle scientifiche, a tredici anni appena compiuti, entrai nell’esercito austriaco come semplice fante, e venni stanziato nel Lombardo-Veneto con centinaia di altre giovani reclute, per garantire all’Aquila l’amministrazione del vasto territorio dell’Impero. A 18 anni venni promosso Vormeister e a 19 Korporal, ed abbastanza agevolmente riuscii a diventare Feuerwerker nell’artiglieria ancora prima del mio ventesimo compleanno, guadagnandomi un posto al tavolo dei sottoufficiali. Ovviamente la mia carriera non era nemmeno paragonabile alla sfolgorante ascesa al successo di Filippo Schwarzenberg, il più giovane tenente a capo di uno dei sei battaglioni del reggimento “Imperatore”, il più esclusivo dell’intero Esercito Austriaco, composto da soldati scelti reclutati nel Tirolo.
Mio cugino ed io ci incontrammo per la prima volta dalla fine del Collegio in una serata di congedo in cui avevamo entrambi già bevuto moltissimo. Lo scenario era una pidocchiosa taverna milanese, la birra una brodaglia imbevibile che mi faceva rimpiangere gli intrugli di Anton Dreher. Lui era seduto al tavolo dei biondissimi ufficiali, crema dell’Esercito. Con i denti bianchissimi in esposizione, i Perfetti ridevano sventagliando i mustacchi inappuntabili, senza perdere compostezza nonostante fossero quasi tutti alticci. Io ero seduto al bancone, da solo, intento a rimirare il mio moncherino: un dannato villano mi aveva staccato l’indice della mano sinistra di netto, con un morso animalesco. L’avevo abbattuto come un cane, perché infondo l’italiano è un cane, un incrocio tra un lupo rabbioso ed un bastardo. Sputai nel bicchiere vuoto. Solo dei cani chiamerebbero questo piscio “birra”.
Il mio sguardo e quello di mio cugino si erano già incontrati più volte, ma non ci eravamo rivolti un cenno. Lui non si sarebbe mai degnato di parlarmi, io lo invidiavo e lo amavo al punto d’odiarlo.
Filippo Schwarzenberg sussurrò qualcosa all’orecchio del cameriere.
Il cameriere fece finta di pulire un bancone, poi venne verso di me.
“State imbarazzando il tenente. Dovete lasciare il locale. Se ve ne andrete subito, provvederà il magnanimo tenente a pagare le vostre birre”
“Può dire al magnanimo tenente di fottersi”
Il cameriere piroettò dietro il bancone, servì un bicchiere di vino a degli italiani addestrati bene, che probabilmente erano collaborazionisti, poi ronzò intorno a mio cugino ed infine mormorò qualcosa mentre raccoglieva i bicchieri vuoti al loro tavolo. Dopo il solito teatrino, tornò da me.
“Ve ne dovete andare”
Afferrai il cameriere per il bavero. Alzai la voce, in modo che mio cugino mi sentisse senza che ci fosse bisogno di inviare di nuovo il piccione viaggiatore.
“Un'altra birra, italiano. E dì al mio amabile cugino, che se lo imbarazza tanto la mia presenza, può venire a prendermi, e può buttarmi fuori a calci, se la cosa lo aggrada. O se non ha paura.”
Filippo Schwarzenberg si alzò di scatto, con la mano già pronta ad estrarre lo spadino.
“Siete ubriaco, Reiner. Altrimenti non avreste avuto l’ardire di provocarmi!”
“Fottiti”
Gli ufficiali amici di Filippo si alzarono in piedi, alle sue spalle. Ne contai sei. Quello che non contai fu il numero delle botte che ricevetti da ognuno di loro. Dopo qualche minuto di lotta impari, mi trovai a sputare sangue sulla strada deserta.
Mi rialzai in piedi a fatica. La testa girava vorticosamente, avvertii un violento senso di nausea, quindi mi piegai di nuovo su me stesso e vomitai birra e sangue sulla mia divisa bianca. Puzzavo di carogna d’italiano, barcollai rintronato fin dentro la taverna, di nuovo.
“Farabutto d’uno Schwarzenberg, da quando sei diventato così vigliacco? Guardami: non uno di questi lividi deriva da una tua percossa. E’ così che sei diventato tenente? Scappando nelle retrovie? Se sei un uomo, vieni a misurarti con me!”
Filippo si tolse i guanti bianchi ed iniettandomi un velenosissimo sguardo rancoroso, mi venne incontro. Sguainò lo spadino, aspettai che qualcuno me ne porgesse uno anche a me, per regolarizzare l’incontro, ma non fu così. Mi trovavo disarmato.
Un fendente maldestro di Filippo, che era furente di rabbia, rovesciò e frantumò vari bicchieri di cristallo che erano impilati ordinatamente su una cassapanca. Il rumore assordante dei cocci che s’infrangevano sul pavimento paralizzò per alcuni secondi il mio sbigottito cugino, consentendomi di scavalcare con un balzo la cassapanca, che rovesciai contro di lui, facendolo arretrare di qualche passo. Saltai al collo di Filippo con tutto il mio peso. Filippo perse l’equilibrio e finì con lo schiantarsi sui cristalli acuminati, con un lancinante urlo di dolore. Orribilmente ferito, il cugino svenne. Con le ginocchia sanguinanti, mi rialzai subito.
“Mi dispiace, avreste dovuto darmi una spada”
Così, davanti agli ufficiali impietriti, e a qualche italiano spaventato, camminai lentamente verso l’uscita. Nessuno tentò di fermarmi.
Quando finalmente l’oste disperato prestò soccorso a Filippo, si accorsero delle orribili ferite.
“Un chirurgo, presto! Sanguina abbondantemente!”
“Attenzione, è pieno di vetri!”

In tutta la regione la mia avventura destò scalpore. Venni immediatamente radiato dall’Esercito, feci di tutto per cancellare le mie tracce, mi nascosi a Milano mentre tutti i soldati austriaci conoscevano la mia faccia e mi ricercavano, vivo o morto.
Mózes, l’ungherese che si occupava delle stalle, mi era rimasto fedele. Aveva accettato di ospitarmi temporaneamente da lui, e due settimane dopo l’incidente ero ancora rintanato nel suo rifugio.
Mi disse che aveva incontrato il dottor Belisari, il chirurgo che aveva operato Filippo.
Il dottore stava consolando una ragazza in lacrime, parlavano di mio cugino.
“Volevo notizie sulla salute di Filippo” aveva detto lei.
“Ehm… Siete una parente, signorina?” aveva risposto lui.
“Sono la sua fidanzata. Dovevamo sposarci. Senza quei tragici avvenimenti…”
“Sposarvi! In questo caso devo dirvi la verità. Camminiamo un po’, volete?”
Il dottore e la ragazza si erano addentrati nel parco, dopo essere passati sotto il maestoso Arco della Pace, fatto edificare settant’anni fa dai francesi. Mózes, il mio ungherese, li aveva seguiti, e non si era perso una parola del dialogo, che continuò a riferirmi.
“Il signor Filippo è fuori pericolo, ma in che stato! E’ caduto rovinosamente su tutto quel vetro, che è penetrato in profondità. Ho fatto tutto quello che potevo, le mutilazioni però sono gravi, soprattutto per quanto riguarda la sua virilità. Credo che il vostro fidanzato… ehm, mi capite?”
“Credo… Credo di sì! E’ senza rimedio?”
“Suvvia, non disperate! Forse, con tanto amore e pazienza, potreste ridargli fiducia… Sapete, certe cose succedono prima di tutto nella testa! Al momento però è molto giù di corda…”
I danni inferti al mio consanguineo erano un oltraggio più al suo onore che alla sua salute fisica. Filippo non mi avrebbe mai perdonato una tale onta, dovevo lasciare l’Italia al più presto possibile, sparire per un po’.
Zeman81
00mercoledì 8 settembre 2010 13:22
appena ho tempo lo leggo
Black Francis
00mercoledì 8 settembre 2010 13:23
Re:
Zeman81, 08/09/2010 13.22:

appena ho tempo lo leggo




Ecco bravo poi mi fai il riassunto.

5 righe massimo.
Bruttoformo
00mercoledì 8 settembre 2010 13:27
Re:
Ciro Cumulo, 08/09/2010 9.19:

Come ormai tutti voi saprete, il mestiere del futuro è fare lo scrittore di Harmony. I soft porno per casalinghe, che parlano di casalinghe, stallieri, principi, monarchia e collegi. Ho convinto uno stimato scrittore emiliano (N.N.G.G.) a convertirsi agli Harmony, e chiunque volesse partecipare al progetto è benaccetto, il nostro nome collettivo sarà PAUL D'IVOIRE.

Questo che segue è il primo (e la bozza del secondo) capitolo del celebre Harmony che non farò mai (sono palesemente andato fuori tema).


GIARDINIERE DI PASSIONE

Reiner,
Capitolo 1

La carrozza percorreva le impervie strade sterrate della Carinzia, e un torrenziale temporale imperversava, tamburellando contro i vetri smerigliati goccioloni che sferzavano come sassate.
Il vetturino, un improbabile sosia di Francesco Giuseppe, starnutiva e bestemmiava, sobbalzando ogni volta che una pozzanghera o una buchetta lungo il percorso alterassero l’incedere e il procedere sghembo della traballante teiera che ci racchiudeva. Era la prima volta che mi allontanavo di casa senza i genitori, o perlomeno senza l’affettuosa compagnia della mia nutrice, la signora Frida Klein, che per l’occasione mi aveva riempito un cesto di biscotti al burro. Ma in cuor mio sapevo, che sarebbe passato molto tempo prima che io avessi potuto risentire un altro affettuoso rimbrotto di Frida, o godere dei calorosi abbracci dei miei, o delle risa dei miei amici di Vienna, rinvigorite dagli allegri schiamazzi dei figlioli dei servi, allegramente malvestiti di stracci variopinti che nemmeno la miseria più nera poteva sbiadire. Con una lettera di raccomandazioni in mano, con tanto di sigillo del casato ed imbellettata dalla pomposa firma di mio padre, mi apprestavo a recarmi al Collegio di Klagenfurt, dove avrei trascorso circa cinque anni della mia vita, apprendendo le belle arti, studiando i classici della letteratura latina e greca, non trascurando il diritto e l’educazione alla disciplina. Ma ciò a cui anelavo maggiormente, era di misurarmi nelle lezioni di scherma, fioretto, tiro con l’arco, il pancrazio e la lotta greco-romana. In cuor mio sognavo di diventare un fedele ed implacabile servitore della patria, ardevo di passione per l’Aquila d’Austria, avevo una fiducia cieca per la monarchia, e non mi turbavano i recenti avvenimenti politici, la grave crisi finanziaria culminata col crollo della borsa di Vienna, lo scacco diplomatico a Parigi dopo la guerra in Crimea e la sconfitta in Italia del 1859. Questa mia passione per gli sport, ed il mio desiderio di entrare nell’esercito per fare carriera, riempivano i miei sogni di bambino di otto anni. I miei occhi sognanti fissavano i goccioloni carichi d’acqua infrangersi sui vetri, e quasi non avevo rivolto parola a mio cugino ed agli altri due ragazzini che condividevano con me le scomodità di questo viaggio.
Filippo Schwarzenberg, mio cugino, era impettito e fiero, impeccabile nel suo completo bianco, alto, bello, arrogante per come ti fissava dall’alto al basso e per come riusciva ad arrotare le erre appositamente per vezzo, temibile, invidiato, stimato. Il pupillo degli Schwarzenberg. Lo adoravo.
Karl Heinz, seduto al suo fianco, sembrava un monaco in penitenza. Teneva la testa bassa, questo bambino malaticcio, e tossiva spesso in modo sconveniente.
Di fianco a me, invece, sedeva un bambino timido e taciturno che aveva detto di chiamarsi Ignaz. Chissà se anche lui, e Filippo, e Karl Heinz, erano così ansiosi come me di giungere a Klagenfurt.
Tre ore dopo, il diluvio era cessato. Come tipicamente accade nei temporali autunnali, la luminosità sfolgorante e l’aria calda avevano preso il posto del grigiore e dell’acqua, con tanta repentina evidenza, che quando la carrozza si arrestò, sotto i bastioni del Collegio, e noi scendemmo, ci sembrò di sbocciare come dei boccioli di rosa, e lo spettacolo di tanta magnificenza ci tolse il fiato.
Ad accoglierci, un servitore in abiti da contadino. Prese consegna dei pretenziosi roani del tiro che ci aveva condotto sin qui, e li portò alle stalle, seguito dal cocchiere. Ci indicò con un gesto della mano la direzione che avremmo dovuto prendere. Filippo entrò per primo, e noi lo seguimmo. Eravamo dentro il Collegio.
In pochi, rapidi minuti mi trovai a stringere mani. Il direttore, un uomo austero con dei baffi incredibili. Il maestro di religione, un monaco domenicano grasso e molle. Dei personaggi secondari, funzionari, servitori, tutori. Qualcuno prese la lettera di raccomandazioni che portavo e la appoggiò da qualche parte. Qualcun altro disse qualcosa, ci spiegò l’ubicazione di qualche posto ed aggiunse dell’altro, ma ero troppo eccitato per stare ad ascoltare.
Noi quattro ragazzi fummo condotti via, lungo un corridoio che non avevamo mai percorso prima, e attraverso una porta che non avevamo mai visto, uscimmo alla luce abbagliante del mondo esterno. Era questo il momento della separazione. Il direttore del Collegio, in piedi, teneva le mani appoggiate sulle spalle di Filippo. Egli perciò era già stato prescelto fra di noi. Ma pur appoggiandosi a Filippo, vedevo come teneva gli occhi fissi su di me, quasi volesse imprimersi indelebilmente la mia immagine nella mente; ma quali potessero essere i suoi pensieri, non riuscivo a immaginare. Restò tutto il tempo in silenzio.
“Venite, ragazzi miei” mormorò il maestro di religione. “Su venite. Voi tre diventerete seminaristi. Vivrete qui, nel Collegio, e forse grandi cose vi attendono.”
La delusione in quel momento fu forse la più acuta che avessi mai provato fino ad allora. Non sarei diventato un soldato, niente conquiste, niente gloria per me: avrei trascorso la vita a chiuso in un monastero a recitare rosari.
“Da questa parte” continuò il vecchio maestro con voce pigolante. “E’ giunto il momento della vostra, ehm, iniziazione.”
Mentre il direttore conduceva via il mio amico Filippo, noi tre fummo scortati nel vasto cortile, dove quattro uomini in vesti sacerdotali ci stavano aspettando.
Tutti e quattro avevano le maniche arrotolate che mettevano in mostra i muscoli solidi e rigonfi delle braccia, e un’espressione sul viso come se covassero un rancore speciale per i ragazzi della nostra età, un’espressione che ricorderò per tutta la vita. Esitammo tutti e tre, presi da paura, e cercammo di nasconderci dietro la pingue figura del maestro. Ma ora nemmeno lui era nostro amico.
“Cominciate da questo qui” disse con la voce stranamente alterata, afferrando Karl Heinz per le spalle e spingendolo in avanti. Karl Heinz non conservò la sua dignità di figlio di un ufficiale austriaco e lanciò un urlo di terrore quando i sacerdoti lo afferrarono per le braccia, torcendogliele crudelmente, mentre lo conducevano ad un basso altare di pietra nel centro del cortile.
Anche se era settembre, l’autunno stentava ancora ad arrivare, e quel giorno, dopo la piovuta che aveva imperversato durante il viaggio in carrozza, faceva molto caldo. Noi ragazzi indossavamo soltanto la maglietta e i pantaloncini, e questi i sacerdoti strapparono di dosso a Karl Heinz, con la stessa freddezza con la quale avrebbero tolto la pelle a un coniglio. Il ragazzino continuava a strillare come se lo stessero spellando vivo davvero.
Da principio, io capii molto poco di quel che stava accadendo. Vidi due sacerdoti immobilizzare Karl Heinz sulla pietra dell’altare per le braccia e le gambe, mentre un terzo, che teneva in mano un laccio di cuoio, si fece avanti e strinse in un nodo scorsoio le parti intime di Karl Heinz, strozzandogli lo scroto con il laccio. Tutto fu eseguito con la massima calma, come un lavoro qualsiasi. Ignaz e io guardammo inorriditi, mentre il quarto prete tirava fuori un coltello e con la lama ricurva tagliava lo scroto, il cui contenuto insanguinato si riversò sulle gambe di Karl Heinz. Credetti per un attimo che l’aria dovesse spaccarsi in due per le urla di dolore e di terrore.
E poi, naturalmente, mi fu tutto chiarissimo: resi eunuchi, ci saremmo pallidamente arresi alla vita monacale, senza opporre resistenza.
“Come osano?” pensai. “Come osano fare una cosa simile?” Osavano, tuttavia, e quando sentii la mano del maestro sulla mia spalla, capii che era venuto il mio turno.
Alzai lo sguardo sulla sua faccia glabra e vidi che mi sorrideva: aveva la pelle del collo floscia e tremolante ad ogni movimento, il grasso e molle maestro.
“No! Io no!”
Ormai con Karl Heinz avevano finito. Uno degli uomini prese una torcia dalla quale gocciolava pece bollente che servì a cauterizzare la ferita. Karl Heinz urlò un’altra volta, senza che nessuno gli prestasse ascolto. Gli occhi del sacerdote erano ora su di me.
“Avanti, Reiner” mi sussurrò il maestro. “E’ questione di un momento. Fa vedere che ragazzo coraggioso sei!”
Mi spinse con gentilezza in avanti. I sacerdoti si limitavano ad aspettarmi e uno teneva in equilibrio sul palmo della mano il coltello ricurvo, quasi per gioco. Feci un passo, poi un altro, un altro ancora. A malapena sapevo quel che stavo facendo.
Io sarei diventato un soldato, e un soldato ripete a se stesso che non ha paura del dolore e della morte. Non avevo paura di soffrire… E in quanto alla morte, appena sapevo cosa fosse. Ma questo disonore, questa vergogna… No, non poteva essere!
In quel momento seppi che cosa dovevo fare.
Non si aspettavano minimamente una resistenza. Mi avvicinai a loro rassegnato, ad occhi bassi, da bravo ragazzo come mi avevano insegnato ad essere. L’uomo col coltello in mano era più vicino a me e voltava le spalle all’altare, sicuro di avermi in suo potere.
Non ero che un bimbo, ma ero già agile e veloce. Continuai ad avanzare strascicando i piedi e tenendo gli occhi abbassati. Poi, all’ultimo istante, quando già il sacerdote stava allungando la mano verso di me, mi avventai contro di lui con tutta la forza di cui ero capace. Fu sufficiente: lo colpii proprio sopra le ginocchia, spingendolo violentemente con le mani aperte, ed egli barcollò, perdendo l’equilibrio. Cadde all’indietro sulla pietra dell’altare e, come avevo previsto, si lasciò sfuggire il coltello di mano.
La lama ruzzolò sul pavimento di pietra e nell’attimo in cui tutti quanti si stavano riprendendo dalla sorpresa io ebbi il tempo di raccoglierla e correre a ripararmi su di un albero, arrampicandomi velocemente e portandomi a cavalcioni su un grosso ramo. Fui rapido come un leprotto, con il cuore che mi batteva furiosamente. Allora mi voltai, con il coltello in pugno, per affrontare i miei carnefici.
“Venite a prendermi!” gridai: ero impazzito dalla paura, mescolata però ad una strana sensazione che non avevo mai conosciuto prima.
“Non è che un bambino, anche se reagisce come un leone, eh?” disse un sacerdote, il più autorevole nel parlare, quello disarmato dal coltello. “Avanti, toglietegli la lama!”
Mentre io continuavo ad agitare minaccioso la mia arma, il maestro si avvicinò, cercando di salire sull’albero. “Dammi quel coltello, sei al Collegio adesso e devi obbedire… ahi!”
Si era avvicinato troppo: il coltello gli aprì un taglio nella mano e il sangue rosso sprizzò sul braccio, colando fino a terra.
Poi, una risata giunse al mio orecchio, una risata simile al tuono. Come osavano? Ero a tal punto pieno di rabbia che avrei voluto mettermi a piangere, finché non mi accorsi che non erano i sacerdoti a ridere. Allora scorsi dall’altra parte del cortile la sgraziata figura di un ciccione intabarrato. Veniva verso di noi.
“E’ il maestro di ginnastica e delle arti di combattimento, il generale Seipel” disse il maestro di religione, mentre si medicava la ferita alla mano con una garza sterile preparata per noi. “Vedrai che adesso ti calmerà lui!”.
Le ginocchia mi diventarono molli come cera e mi lasciai scivolare giù dai rami, fino a trovarmi al cospetto di Seipel, che rappresentava per me il mio più grande sogno. Solo entrando nel corso da lui diretto, sarei potuto diventare un soldato. Solo lui avrebbe potuto impedire che diventassi un monaco.
“Vieni qui ragazzo, vieni e lasciati guardare.” disse con una voce piena di gentilezza, che sembrava aliena a quel corpo asimmetrico. Quando mi appoggiò le mani sulle spalle, gli occhi mi si velarono di lacrime.
“Non avere paura, ragazzo. Se ti applicherai negli sport io ti farò grande. Che cosa ne dici? Va meglio così? Ti sarà risparmiato il coltello.”
Il maestro di religione si schiarì la gola: “E l’altro, Seipel?”
Ci eravamo dimenticati completamente di Ignaz, il quale se ne stava nascosto dietro un cespuglio, come se volesse scomparire del tutto. Non so cosa provai per lui in quel momento, ma forse il mio cuore era troppo saturo di emozioni per sentire ancora qualcosa.
“Credo che un leone sia sufficiente per oggi, no? Completate il vostro lavoro.”
I sacerdoti furono svelti questa volta e Ignaz non ebbe la minima opportunità di resistere, sollevato come fu da terra per le braccia e le gambe. Urlò, riempiendo l’aria della sua voce acuta, ma in un attimo fu trascinato all’altare e il crudele coltello cominciò la sua opera.
“No, non voltarti, ragazzo” disse Seipel, che mi prese sottobraccio e mi allontanò dal maestro di religione e dal barbaro macello del mio amico Ignaz. “Impara ad essere uomo e a non avere paura del sangue.”
Così, dunque, venni ammesso al corso di ginnastica e delle arti di combattimento, dove avrei potuto ufficialmente iniziare la mia ascesa al mondo militare. Quello fu il mio primo giorno di scuola.

Reiner,
Capitolo 2

Chiuso nel Collegio, ignoravo che quel giorno di settembre era carico d’eventi per la storia del mio paese. Il fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe, il bonario Massimiliano “il botanico”, era stato avvicinato da monarchici messicani che avevano cercato di circuirlo, promettendogli una allettante fortuna nel Nuovo Mondo. Massimiliano era un uomo colto, si era guadagnato la reputazione di un liberale, e conosceva le terre impervie d’oltreoceano poiché si era già cimentato, e per puro diletto, in una spedizione scientifica nelle foreste del Brasile. C’era chi lo voleva in Messico, ed era pronto ad offrirgli la Corona Imperiale. Nel frattempo era scoppiata la guerra di secessione americana e l'Imperatore dei Francesi Napoleone III ne aveva approfittato per invadere Città del Messico ed un plebiscito (di dubbia natura, dato che avvenne mentre le truppe francesi occupavano militarmente Città del Messico) confermò la caduta del Presidente in carica, Benito Juárez, e la proclamazione dell'Impero.
In considerazione degli indubbi meriti guadagnati come governatore del Lombardo-Veneto e dell'evidente disagio maturato con il fratello imperatore, Massimiliano parve il candidato ideale alla instaurazione di una monarchia moderata. Accettò la corona nel 1863. Francesco Giuseppe si vendicò, imponendogli la perdita di tutti i titoli che a lui competevano presso la casa regnante austriaca.
Durante il viaggio per raggiungere il Messico, tuttavia, Massimiliano si sottrasse alla lettura di libri sul Messico che gli erano stati messi a disposizione, preferendo impiegare il tempo scrivendo un manuale sull’etichetta di Corte.
Massimiliano sbarcò a Veracruz il 28 maggio 1864, ma fin dall'inizio si trovò coinvolto in serie difficoltà con i liberali messicani, capeggiati dallo stesso Juárez, che rifiutarono di riconoscerlo e continuarono a combattere le truppe francesi.
L'Imperatore e l'Imperatrice Carlotta scelsero, quale residenza, il Castello di Chapultepec, sulla collina che sovrasta Città del Messico e che era stato rifugio degli antichi sovrani aztechi.
Poiché Massimiliano e Carlotta non avevano figli, adottarono Agustín de Iturbide y Green e suo cugino Salvador de Iturbide y de Marzán, entrambi nipoti di Agustín de Iturbide, che aveva brevemente regnato, quale Imperatore del Messico nel 1820. Ad Agustín venne assegnato il titolo di "Sua Altezza, il Principe di Iturbide" e venne proclamato erede al trono.
Con disappunto degli alleati conservatori, Massimiliano adottò molte delle politiche liberali proposte dall'amministrazione Juárez, come la riforma terriera, la libertà di religione e l'estensione del diritto di voto alle classi contadine. Massimiliano dapprima offrì a Juarez l'amnistia se si fosse alleato alla corona, quindi, al suo rifiuto, ordinò la fucilazione di tutti i suoi sostenitori arrestati: si trattò tuttavia di un grave errore tattico che ebbe il solo risultato di esacerbare gli oppositori al suo regime.
Dopo la fine della guerra di secessione americana gli Stati Uniti cominciarono a rifornire di armi i repubblicani giacché, dal1866, l'abdicazione di Massimiliano, almeno al di fuori del Messico, sembrava ormai cosa fatta. Massimiliano, di converso, stava tentando di arruolare, per il suo esercito, ufficiali dell'Esercito statunitense da contrapporre alle forze di Benito Juárez.
Nello stesso 1866, inoltre, Napoleone III, di fronte alla resistenza messicana ed all'opposizione degli Stati Uniti, ritirò le sue truppe. L'Imperatrice Carlotta tornò in Europa per cercare appoggi al regime del marito dapprima a Parigi, poi a Vienna ed a Roma dal Papa Pio IX, ma i suoi sforzi fallirono e, a causa di un profondo collasso emozionale, non rientrò in Messico.
Nonostante l'abbandono del Messico da parte dello stesso Napoleone III, il cui ritiro fu un duro colpo per la causa imperiale, Massimiliano si rifiutò di abbandonare, a sua volta, i suoi sostenitori e, ritiratosi nel febbraio 1867 a Querétaro, vi sostenne un assedio durato alcune settimane. L'11 maggio l'Imperatore Massimiliano decise di tentare una fuga attraverso le linee nemiche, ma venne intercettato e, sottoposto ad una corte marziale, condannato alla fucilazione.
Molti sovrani d'Europa ed altre preminenti figure (tra cui Victor Hugo e Giuseppe Garibaldi) inviarono messaggi e lettere in Messico affinché fosse risparmiata la vita a Massimiliano, ma Juárez rifiutò di commutare la sentenza ritenendo che fosse necessario inviare il segnale che il Messico non avrebbe mai più tollerato governi imposti da potenze straniere.
La sentenza venne eseguita il 19 giugno 1867 da un plotone di esecuzione composto da sette unità; insieme a Massimiliano vennero fucilati i generali Miguel Miramón e Tomás Mejía. Il corpo di Massimiliano I venne imbalsamato ed esposto in Messico, prima di essere sepolto, l'anno successivo, nella Cripta Imperiale a Vienna.
Quel 19 di giugno me lo ricordo ancora vividamente, e resterà impresso nella mia mente per sempre, perché fu l’ultimo mio giorno al Collegio. Con ottimi voti nelle discipline sportive, una predisposizione per le arti, in particolare la musica, e buoni voti nelle materie umanistiche, a discapito di quelle scientifiche, a tredici anni appena compiuti, entrai nell’esercito austriaco come semplice fante, e venni stanziato nel Lombardo-Veneto con centinaia di altre giovani reclute, per garantire all’Aquila l’amministrazione del vasto territorio dell’Impero. A 18 anni venni promosso Vormeister e a 19 Korporal, ed abbastanza agevolmente riuscii a diventare Feuerwerker nell’artiglieria ancora prima del mio ventesimo compleanno, guadagnandomi un posto al tavolo dei sottoufficiali. Ovviamente la mia carriera non era nemmeno paragonabile alla sfolgorante ascesa al successo di Filippo Schwarzenberg, il più giovane tenente a capo di uno dei sei battaglioni del reggimento “Imperatore”, il più esclusivo dell’intero Esercito Austriaco, composto da soldati scelti reclutati nel Tirolo.
Mio cugino ed io ci incontrammo per la prima volta dalla fine del Collegio in una serata di congedo in cui avevamo entrambi già bevuto moltissimo. Lo scenario era una pidocchiosa taverna milanese, la birra una brodaglia imbevibile che mi faceva rimpiangere gli intrugli di Anton Dreher. Lui era seduto al tavolo dei biondissimi ufficiali, crema dell’Esercito. Con i denti bianchissimi in esposizione, i Perfetti ridevano sventagliando i mustacchi inappuntabili, senza perdere compostezza nonostante fossero quasi tutti alticci. Io ero seduto al bancone, da solo, intento a rimirare il mio moncherino: un dannato villano mi aveva staccato l’indice della mano sinistra di netto, con un morso animalesco. L’avevo abbattuto come un cane, perché infondo l’italiano è un cane, un incrocio tra un lupo rabbioso ed un bastardo. Sputai nel bicchiere vuoto. Solo dei cani chiamerebbero questo piscio “birra”.
Il mio sguardo e quello di mio cugino si erano già incontrati più volte, ma non ci eravamo rivolti un cenno. Lui non si sarebbe mai degnato di parlarmi, io lo invidiavo e lo amavo al punto d’odiarlo.
Filippo Schwarzenberg sussurrò qualcosa all’orecchio del cameriere.
Il cameriere fece finta di pulire un bancone, poi venne verso di me.
“State imbarazzando il tenente. Dovete lasciare il locale. Se ve ne andrete subito, provvederà il magnanimo tenente a pagare le vostre birre”
“Può dire al magnanimo tenente di fottersi”
Il cameriere piroettò dietro il bancone, servì un bicchiere di vino a degli italiani addestrati bene, che probabilmente erano collaborazionisti, poi ronzò intorno a mio cugino ed infine mormorò qualcosa mentre raccoglieva i bicchieri vuoti al loro tavolo. Dopo il solito teatrino, tornò da me.
“Ve ne dovete andare”
Afferrai il cameriere per il bavero. Alzai la voce, in modo che mio cugino mi sentisse senza che ci fosse bisogno di inviare di nuovo il piccione viaggiatore.
“Un'altra birra, italiano. E dì al mio amabile cugino, che se lo imbarazza tanto la mia presenza, può venire a prendermi, e può buttarmi fuori a calci, se la cosa lo aggrada. O se non ha paura.”
Filippo Schwarzenberg si alzò di scatto, con la mano già pronta ad estrarre lo spadino.
“Siete ubriaco, Reiner. Altrimenti non avreste avuto l’ardire di provocarmi!”
“Fottiti”
Gli ufficiali amici di Filippo si alzarono in piedi, alle sue spalle. Ne contai sei. Quello che non contai fu il numero delle botte che ricevetti da ognuno di loro. Dopo qualche minuto di lotta impari, mi trovai a sputare sangue sulla strada deserta.
Mi rialzai in piedi a fatica. La testa girava vorticosamente, avvertii un violento senso di nausea, quindi mi piegai di nuovo su me stesso e vomitai birra e sangue sulla mia divisa bianca. Puzzavo di carogna d’italiano, barcollai rintronato fin dentro la taverna, di nuovo.
“Farabutto d’uno Schwarzenberg, da quando sei diventato così vigliacco? Guardami: non uno di questi lividi deriva da una tua percossa. E’ così che sei diventato tenente? Scappando nelle retrovie? Se sei un uomo, vieni a misurarti con me!”
Filippo si tolse i guanti bianchi ed iniettandomi un velenosissimo sguardo rancoroso, mi venne incontro. Sguainò lo spadino, aspettai che qualcuno me ne porgesse uno anche a me, per regolarizzare l’incontro, ma non fu così. Mi trovavo disarmato.
Un fendente maldestro di Filippo, che era furente di rabbia, rovesciò e frantumò vari bicchieri di cristallo che erano impilati ordinatamente su una cassapanca. Il rumore assordante dei cocci che s’infrangevano sul pavimento paralizzò per alcuni secondi il mio sbigottito cugino, consentendomi di scavalcare con un balzo la cassapanca, che rovesciai contro di lui, facendolo arretrare di qualche passo. Saltai al collo di Filippo con tutto il mio peso. Filippo perse l’equilibrio e finì con lo schiantarsi sui cristalli acuminati, con un lancinante urlo di dolore. Orribilmente ferito, il cugino svenne. Con le ginocchia sanguinanti, mi rialzai subito.
“Mi dispiace, avreste dovuto darmi una spada”
Così, davanti agli ufficiali impietriti, e a qualche italiano spaventato, camminai lentamente verso l’uscita. Nessuno tentò di fermarmi.
Quando finalmente l’oste disperato prestò soccorso a Filippo, si accorsero delle orribili ferite.
“Un chirurgo, presto! Sanguina abbondantemente!”
“Attenzione, è pieno di vetri!”

In tutta la regione la mia avventura destò scalpore. Venni immediatamente radiato dall’Esercito, feci di tutto per cancellare le mie tracce, mi nascosi a Milano mentre tutti i soldati austriaci conoscevano la mia faccia e mi ricercavano, vivo o morto.
Mózes, l’ungherese che si occupava delle stalle, mi era rimasto fedele. Aveva accettato di ospitarmi temporaneamente da lui, e due settimane dopo l’incidente ero ancora rintanato nel suo rifugio.
Mi disse che aveva incontrato il dottor Belisari, il chirurgo che aveva operato Filippo.
Il dottore stava consolando una ragazza in lacrime, parlavano di mio cugino.
“Volevo notizie sulla salute di Filippo” aveva detto lei.
“Ehm… Siete una parente, signorina?” aveva risposto lui.
“Sono la sua fidanzata. Dovevamo sposarci. Senza quei tragici avvenimenti…”
“Sposarvi! In questo caso devo dirvi la verità. Camminiamo un po’, volete?”
Il dottore e la ragazza si erano addentrati nel parco, dopo essere passati sotto il maestoso Arco della Pace, fatto edificare settant’anni fa dai francesi. Mózes, il mio ungherese, li aveva seguiti, e non si era perso una parola del dialogo, che continuò a riferirmi.
“Il signor Filippo è fuori pericolo, ma in che stato! E’ caduto rovinosamente su tutto quel vetro, che è penetrato in profondità. Ho fatto tutto quello che potevo, le mutilazioni però sono gravi, soprattutto per quanto riguarda la sua virilità. Credo che il vostro fidanzato… ehm, mi capite?”
“Credo… Credo di sì! E’ senza rimedio?”
“Suvvia, non disperate! Forse, con tanto amore e pazienza, potreste ridargli fiducia… Sapete, certe cose succedono prima di tutto nella testa! Al momento però è molto giù di corda…”
I danni inferti al mio consanguineo erano un oltraggio più al suo onore che alla sua salute fisica. Filippo non mi avrebbe mai perdonato una tale onta, dovevo lasciare l’Italia al più presto possibile, sparire per un po’.


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Era da tanto che non la usavo...
Ciro Cumulo
00mercoledì 8 settembre 2010 13:59
La versione 2.0 del mio Harmony sarà un western. Devo solo comprare tantissimi western di serie B a 2 euro nei cassoni della festa dell'Unità.
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