Note sul libro dell’ESODO

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:23
CAPITOLO 4
Capitolo 4

Siamo invitati a fermarci ancora ai piedi del monte Horeb, «dietro al deserto», per vedervi l’incredulità del­l’uomo e la grazia illimitata di Dio manifestarsi in modo sorprendente. «Mosè rispose e disse: Ma ecco, essi non mi crederanno e non ubbidiranno alla mia voce, perché diranno: L’Eterno non t’è apparso» (vers. 1). Com’è difficile vincere l’incredulità del cuore umano e quanta fatica questo fa a confidarsi in Dio! Com’è lento l’uomo a lanciarsi in avanti basandosi sulla semplice promessa dell’Eterno! Tutto è naturale eccetto quello. Il più debole fuscello visibile all’occhio dell’uomo è con­siderato un fondamento infinitamente più solido dell’in­visibile «roccia dei secoli» (Isaia 26:4). La natura si precipiterà con ardore verso un qualunque canale uma­no o una qualunque cisterna rotta, piuttosto di rimanere vicina ad una sorgente nascosta di «acqua viva» (Ge­remia 2:13; 17:13).

Dovremmo pensare che Mosè ne avesse viste e udite abbastanza da porre fine a tutte le sue paure. Il fuoco consumante nel pruno che non si consumava; la grazia in tutta la sua accondiscendenza; i grandi e pre­ziosi soprannomi di Dio; la missione divina; la certezza della presenza di Dio, tutte queste cose avrebbero do­vuto soffocare ogni pensiero timoroso e trasmettere al cuore una ferma certezza. Tuttavia Mosè solleva ancora delle domande, e Dio gli risponde ancora; come l’ab­biamo notato ogni domanda serve a mettere in evidenza una nuova grazia.

«E l’Eterno gli disse: Che è quello che hai in mano? Egli rispose: Un bastone» (vers. 2). L’Eterno voleva prendere Mosè così com’era e servirsi di ciò che aveva in mano. Il bastone, col quale Mosè aveva guidato le pecore di Ietro, stava per essere adoperato per la libe­razione dell’Israele di Dio, per castigare il paese d’Egit­to, per tracciare, attraverso il mare, una via al popolo riscattato dall’Eterno e per far scaturire l’acqua dalla roccia che rinfrescò gli eserciti assetati d’Israele, nel deserto. Dio si serve degli strumenti più deboli per compiere i suoi più gloriosi disegni. «Un bastone», «un corno» (Giosuè 6:5), «un pan tondo d’orzo» (Giu­dici 7:13), «una brocca d’acqua» (1 Re 19:6), «una fionda» (1 Samuele 17:50): tutto, in poche parole, può servire, nella mano di Dio, per il compimento del­l’opera ch’egli si è proposto. Gli uomini credono che non si possano raggiungere grandi fini se non con grandi mezzi; ma non sono quelle le vie di Dio. Egli si serve di un verme come del sole scottante, d’un ricino come del «vento soffocante di oriente» (ved. Giona 4).

Ma Mosè doveva imparare una lezione importante sia riguardo al bastone, sia riguardo alla mano che do­veva servirsene. Egli doveva imparare e il popolo do­veva convincersi.

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:24
«E l’Eterno disse: Gettalo in terra. Egli lo gettò in terra ed esso diventò un serpente; e Mosè fuggì dinanzi a quello. Allora l’Eterno disse a Mosè: Stendi la tua mano e prendilo per la coda. Egli stese la mano e lo prese ed esso ritornò un bastone nella sua mano. Questo farai, disse I’Eterno, affinché credano che l’Eterno, l’Iddio dei loro padri, l’Iddio d’Abrahamo, l’Iddio d’Isac­co e l’Iddio di Giacobbe t’è apparso» (vv. 3-5). Il ba­stone diventò un serpente e Mosè fuggì dinanzi ad esso; ma, all’ordine dell’Eterno, lo prese per la coda e questo diventò un bastone. Nulla può esprimere me­glio di questa figura l’idea della potenza di Satana ri­volta contro lui stesso, ed abbiamo molti esempi di questo fatto nelle vie di Dio e in Mosè stesso. Il ser­pente è completamente sotto il potere di Cristo; e, quando sarà arrivato alla fine della sua insensata car­riera, sarà gettato nello stagno di fuoco per raccogliere, nel corso dei secoli dell’Eternità, i frutti della sua opera. «Il serpente antico», «l’accusatore» e «l’avversario», eternamente atterrato sotto il bastone dell’Unto di Dio (Apocalisse 12:9-10).

«L’Eterno gli disse ancora: Mettiti la mano in seno. Ed egli si mise la mano in seno; poi, cavatala fuori, ecco che la mano era lebbrosa, bianca come neve. E l’Eterno gli disse: Rimettiti la mano in seno. Egli si rimise la mano in seno; poi, cavatasela di seno, ecco che era ritornata come l’altra sua carne» (vers. 6-7). La mano coperta di lebbra e la sua purificazione, rappresentano l’effetto morale del peccato e il modo con cui il pec­cato è stato tolto dall’opera perfetta di Cristo. Messa in seno, la mano sana diventa lebbrosa: e la mano leb­brosa, nel seno, diventa sana. La lebbra è una ben nota figura del peccato: ora il peccato è entrato per mezzo del primo uomo ed è stato tolto dal secondo. «Poiché per mezzo d’un uomo è venuta la morte, così anche per mezzo d’un uomo è venuta la risurrezione dei morti» (1 Corinzi 15:21). Per mezzo d’un uomo è venuta la caduta e per mezzo d’un uomo la redenzione: dall’uomo venne l’offesa, dall’uomo il perdono; dall’uomo il pec­cato, dall’uomo la giustizìa; per mezzo dell’uomo la morte venne nel mondo, per mezzo dell’uomo la morte fu abolita e furono introdotte la vita, la giustizia e la gloria. Così, non soltanto il serpente stesso sarà vinto e confuso, ma ogni traccia del suo odioso e abomine­vole lavoro sarà completamente distrutta e cancellata dal sacrificio espiatorio di Coluì che «è stato manifestato per distruggere le opere del diavolo» (1 Giovanni 3:8).
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:24
«E se avverrà che non credano neppure a questi due segni e non ubbidiscano alla tua voce, tu prenderai del­l’acqua del fiume e la verserai sull’asciutto; e l’acqua che avrai preso dal fiume, diventerà sangue sull’asciut­to» (vers. 9). Impariamo qui, con un’immagine espres­siva e solenne, quali conseguenze porta con sé il rifiu­tare di sottomettersi alla testimonianza divina. Questo miracolo non doveva essere fatto se non nel caso in cui i due precedenti fossero stati rigettati: prima di tutto esso doveva servire da segno per Israele, poì da piaga per l’Egitto (confr. Esodo 7:17).

Tuttavia il cuore di Mosè non è ancora soddisfatto. «E Mosè disse all’Eterno: Ahimé, Signore, io non sono un parlatore; non lo ero in passato e non lo sono da quando tu hai parlato al tuo servo; giacché io sono tardo di parola e di lingua» (vers. 10). Che vergognosa viltà! Solo la pazienza infinita di l’Eterno poteva soppor­tarla. Del resto, quando Dio stesso dice «Io sarò con te», non dà forse al suo servitore la garanzia infallibile che, di tutto ciò di cui potrà aver bisogno, nulla gli man­cherà? Se aveva bisogno d’una lingua eloquente, l’«Io sono» non era forse con lui? Eloquenza, potenza, sag­gezza, energia, non era tutto racchiuso in quel tesoro inesauribile?

«E l’Eterno gli disse: Chi ha fatto la bocca dell’uo­mo? o chi rende muto o sordo o veggente o cieco? non son io, l’Eterno? Or dunque va, e io sarò con la tua bocca, e t’insegnerò quello che dovrai dire» (vers. 11 e 12). Grazia perfetta, incomparabile! Grazia degna di Dio! Non v’è nessuno che sia come l’Eterno, il nostro Dio, la cui paziente grazia supera tutte le nostre diffi­coltà e basta abbondantemente a tutti i nostri bisogni e a tutta la nostra debolezza. «Io, l’Eterno», dovrebbe far tacere per sempre tutti i ragionamenti del nostro cuore carnale. Ma, ahimé! è difficile dominare questi ragionamenti: essi compaiono sempre, turbando la no­stra pace e disonorando questo Essere benedetto che si presenta alle nostre anime nella sua pienezza essen­ziale affinché ci serviamo di questa pienezza, secondo i nostri bisogni.


Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:25
Bisogna ricordare sempre che, quando il Signore è con noi, le nostre mancanze e le nostre infermità diven­tano per lui un’occasione per mostrare la sua grazia sufficiente a tutto, e la sua pazienza perfetta. Se Mosè se ne fosse ricordato non si sarebbe preoccupato della sua scarsa eloquenza. L’apostolo Paolo imparò a dire «Mi glorierò piuttosto delle mie debolezze, onde la po­tenza di Cristo riposi su me. Per questo io mi compiac­cio in debolezze, in ingiurie, in necessità, in persecu­zioni, in angustie per amor di Cristo; perché, quando son debole, allora sono forte» (2 Corinzi 12:9-10). Questo è certamente il linguaggio di chi è molto avanti nella scuola di Cristo. È l’esperienza di un uomo che non si sarebbe spaventato di non possedere una lingua eloquente dal momento che aveva trovato nella pre­ziosa grazia del Signore Gesù, una risposta a tutti i suoi bisogni. La conoscenza di questa verità avrebbe dovuto liberare Mosè dalla sfiducia e dalla timidezza ec­cessive che lo dominavano. La sicurezza che, nella sua misericordia, il Signore gli avrebbe concesso di essere con la sua bocca, avrebbe dovuto tranquillizzarlo sul fatto dell’eloquenza. Colui che ha fatto la bocca del­l’uomo poteva, se ce n’era bisogno, riempirla della più potente eloquenza. Per la fede questo era semplice; ma ahimé, il povero cuore incredulo conta molto di più su una lingua eloquente che su Colui che l’ha creata. Que­sto fatto ci sembrerebbe inspiegabile se non sapessimo da quali elementi è composto il cuore dell’uomo. Que­sto cuore non può confidare in Dio e di qui deriva quella mancanza di fede nell’Iddio vivente che si riscontra an­che nei credenti quando si lasciano, anche solo un poco, dominare dalla carne.

Così nel caso che ci occupa Mosè continua a esi­tare: «E Mosè disse: Deh! Signore, manda il tuo mes­saggio per mezzo di chi vorrai» (v. 13). Si trattava di rifiutare il glorioso privilegio di essere il solo messag­gero di l’Eterno a Israele in Egitto.

Sappiamo tutti come l’umiltà prodotta da Dio sia una grazia inestimabile. «Siate rivestiti di umiltà» è un principio divino; e l’umiltà è, senza contraddizione, l’or­namento più convenevole per un miserabile peccatore. Ma rifiutare di prendere il posto che Dio ci assegna o di percorrere la via ch’Egli ci traccia, non è umiltà. In Mosè, evidentemente, ciò che lo tratteneva non era umiltà poiché «l’ira dell’Eterno s’accese contro Mosè», e non era nemmeno debolezza soltanto. Fino a che que­sto sentimento rivestiva i caratteri della timidezza, per quanto fosse, del resto, riprovevole, Dio, nella sua infi­nita grazia, lo sopportò e rispose con ripetute pro­messe; ma quando divenne incredulità e durezza di cuore, la giusta collera di l’Eterno s’accese contro Mosè. E così, invece di essere l’unico strumento nell’opera della testimonianza e della liberazione di Israele, do­vette condividere con un altro questo privilegio.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:25
Non v’è null’a che disonori Dio e che sia pericoloso per noi più di una falsa umiltà. Quando, col pretesto che non possediamo certe virtù o determinate qualifiche, ci rifiutiamo di prendere il posto che, nella sua grazia, Dio ci assegna, non è umiltà, dal momento che se fossimo convinti di possedere queste virtù e queste qualità, ci arrogheremmo il diritto di pretendere un tale posto. Se, per esempio, Mosè avesse avuto quel grado di eloquen­za che stimava necessario per compiere il suo mini­sterio, possiamo pensare che non avrebbe esitato ad obbedire all’appello di Dio. Si tratta ora di sapere che grado di eloquenza ci sarebbe voluto per lui; e la ri­sposta è che, per Dio, nessuna eloquenza umana sa­rebbe bastata, mentre, con Lui, il meno eloquente degli uomini diventa un ministro potente.

Questa è una grande verità pratica. L’incredulità è orgoglio e non umiltà. Essa rifiuta di credere Dio per­ché non trova nell’«io» una ragione di credere. Se, per qualcosa che è in me, rifiuto di credere quando Dio parla, faccio Dio bugiardo (1 Giovanni 5:10). Se, quan­do Dio manifesta il suo amore, rifiuto di credere per il solo motivo che non mi ritengo degno di quest’amore, faccio Dio bugiardo e mostro l’orgoglio del mio cuore. Il solo pensiero di poter meritare qualcosa di meglio dell’inferno, sarebbe la prova di una profonda ignoranza della mia condizione e di ciò che Dio richiede da me: rifiutare di prendere il posto che mi è assegnato dal­l’amore redentore, grazie all’espiazione compiuta da Cristo, vuol dire fare Dio bugiardo e disonorare il sa­crificio della croce. L’amore di Dio si spande spontaneamente: non sono i miei meriti ad attirarlo ma la mia miseria. E non si tratta del posto che io merito, ma di quello che Cristo merita. Cristo prese sulla croce il posto di peccatore, affinché il peccatore potesse pren­dere posto con Lui nella gloria. Cristo sopportò ciò che il peccatore merita affinché questi possa spartire con lui ciò ch’Egli merita. L’io è così completamente messo da parte: ed è quella la vera umiltà. Nessuno può es­sere veramente umile prima d’aver raggiunto il lato ce­leste della croce; ma là si trova la vita, la giustizia e il favore divino. Allora, la si è fatta finita con se stessi, per sempre. Non si cerca più, non si spera più di tro­vare del bene o della giustizia in se stesso, ma ci si nutre dell’abbondanza di un altro. Si è moralmente pronti ad unire la propria voce a quelli che, nell’eternità, fa­ranno risuonare i cieli delle loro lodi, dicendo: «Non a noi, o Eterno, non a noi, ma al tuo nome, dà gloria...» (Salmo 115:1).

Non sarebbe bene soffermarsi sugli sbagli e sulle debolezze di un servitore onorato da Dio come Mosè e del quale leggiamo che «fu fedele in tutta la casa di Dio come servitore per testimoniar delle cose che do­vevano essere dette» (Ebrei 3:5). Però, se è vero che non dobbiamo soffermarci su queste infermità in uno spirito di soddisfazione personale come se, in simili circostanze, noi avessimo agito diversamente, dobbia­mo tuttavia, da ciò che la Scrittura ci insegna a questo riguardo, cercare di trarre le sante lezioni che essa ha, evidentemente, lo scopo di darci. Dovremmo imparare a giudicare noi stessi e a confidarci realmente in Dio, affinché, messo da parte il nostro io, Dio possa agire in noi, per mezzo di noi e per noi. Questo è il vero se­greto della potenza.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:26
Abbiamo visto che Mosè si privò, per colpa sua, del privilegio di essere il solo strumento dell’Eterno nel­l’opera gloriosa che stava per compiere. Ma c’è dell’al­tro. La collera dell’Eterno s’accese contro Mosè, «ed egli gli disse: Non c’è Aaronne, tuo fratello, il levita? Io so che parla bene. E per l’appunto ecco ch’egli esce ad incontrarti, e, come ti vedrà, si rallegrerà in cuor suo. Tu gli parlerai e gli metterai le parole in bocca; io sarò con la tua bocca e con la bocca sua e v’insegnerò quello che dovete fare. Egli parlerà per te al popolo; e così ti servirà di bocca e tu sarai per lui come Dio. Or prendi in mano questo bastone col quale farai i prodigi» (vv. 14, 17). Questo passo è una miniera di istruzioni pratiche assai preziose. Abbiamo visto i ti­mori e i dubbi di Mosè, malgrado tutte le promesse e le assicurazioni ch’egli riceveva dalla grazia divina. Ed ora, benché Mosè non abbia guadagnato, così, niente di più in fatto di potenza reale; benché nella bocca di Aaronne non ci fossero né più virtù né più potenza che nella sua; benché fosse lui, Mosè, a dover parlare ad Aaronne, lo vediamo pronto a partire da quando può contare sulla presenza e sulla collaborazione di un mortale, povero e debole come lui: e lui non aveva sa­puto obbedire quando l’Eterno gli ripeteva la promessa di essere con lui.

Caro lettore, non è forse, tutto ciò, uno specchio fedele nel quale si riflettono il mio e il vostro cuore? Siamo tutti disposti a confidare in altre cose piuttosto che nell’Iddio vivente. Appoggiati e protetti da un mor­tale come noi, corriamo arditamente e senza paura: in­vece tremiamo, esitiamo, dubitiamo quando abbiamo la luce del favore del Maestro per incoraggiarci e la forza del suo braccio onnipotente per sostenerci. Questo dovrebbe umiliarci profondamente davanti al Signore e indurci a cercare di conoscerlo meglio, per saperci con­fidare perfettamente in lui, e per camminare con un passo più fermo, perché abbiamo Lui solo per risorsa e per nostra parte. La compagnia di un fratello è senza dubbio assai preziosa: «due valgono più che uno so­lo» (Ecclesiaste 4:9) sia nel lavoro che nel riposo o nel combattimento. Il Signore Gesù mandò i suoi disce­poli due a due (Marco 6:7) poiché l’unione vale sem­pre più dell’isolamento; tuttavia, se la nostra cono­scenza personale di Dio e l’esperienza della sua pre­senza non sono in grado di farci camminare da soli, la presenza di un fratello ci sarà assai poco utile.
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:26
È da notare che Aaronne, la cui compagnia sembra aver soddisfatto Mosè, fu colui che più tardi fece il vitello d’oro (Esodo 32:21). Vediamo così, spesso, che la persona, la cui presenza ci sembra necessaria per progredire e aver successo, diventa poi una sorgente di dispiaceri per i nostri cuori. Ci sia dato di ricordarlo sempre! Comunque sia, Mosè alla fine obbedisce; ma prima di essere completamente preparato alla missione alla quale era chiamato dovette attraversare ancora un altro doloroso esercizio; bisogna che Dio imprima con la sua propria mano, sulla natura umana, la sen­tenza di morte. Mosè imparò importanti lezioni «dietro il deserto» e deve ora impararne una ancora più impor­tante «in viaggio, nel luogo dove albergava»(v. 24).

È cosa seria essere servitore del Signore: una edu­cazione ordinaria non può qualificare uno per una si­mile vocazione. Bisogna che la natura sia mortificata e mantenuta in una posizione di morte. «Avevamo già noi stessi pronunciato la nostra sentenza di morte affinché non ci confidassimo in noi medesimi ma in Dio che risuscita i morti» (2 Corinzi 1:9).

Ogni servitore, per essere benedetto nel suo ser­vizio deve imparare qualcosa di questa sentenza di morte sul proprio io. Per questa via passò Mosè, fa­cendo esperienze personali, prima di essere moral­mente adatto alla sua missione. Stava per far udire a Faraone questo solenne messaggio: «Così dice l’Eter­no: Israele è il mio figliuolo, il mio primogenito; e io ti dico: Lascia andare il mio figliuolo, affinché mi serva; e se tu ricusi di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò il tuo figliuolo, il tuo primogenito» (vv. 22, 23).

Questo era un messaggio di morte e di giudizio, ma quello per Israele era di vita e di salvezza. Tuttavia bi­sogna che colui che vuole parlare di morte e di giu­dizio, di vita e di salvezza, da parte di Dio, realizzi prima di tutto, nella sua propria anima, la potenza di queste cose.

Mosè, al principio, ci appare, in figura, come cori­cato nella morte (nel canestro di giunchi): ma entrare nell’esperienza della morte di se stesso, è un’altra cosa. Per questo leggiamo: «Or avvenne che essendo Mosè in viaggio, nel luogo dov’egli albergava, l’Eterno gli si fece incontro e cercò di farlo morire. Allora Sefora prese una selce tagliente, recise il prepuzio del suo figliuolo e lo gettò ai piedi di Mosè dicendo: Sposo di sangue tu mi sei. E l’Eterno lo lasciò. Allora ella disse: Sposo di sangue per via della circoncisione» (vv. 24-26).
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:27
Questo passo ci chiarisce un profondo segreto della storia personale e famigliare di Mosè. È evidente che, fino a quel momento, Sefora si era opposta all’applica­zione della «selce tagliente» all’oggetto delle sue affe­zioni naturali; aveva evitato il marchio che doveva es­sere impresso nella carne di ogni membro dell’Israele di Dio; non sapeva che la sua relazione con Mosè implicava la morte della natura umana; essa indietreggiava «davanti alla croce»; era naturale, ma Mosè aveva ce­duto davanti a lei a questo riguardo e ciò spiega quella misteriosa scena. Se Sefora rifiuta di circoncidere suo figlio, l’Eterno metterà la mano su suo marito, e se Mosè accondiscende ai sentimenti di sua moglie, l’Eterno cer­cherà di farlo morire. La sentenza di morte dev’essere scritta sulla natura umana e se cerchiamo di sfuggirle da una parte la incontreremo da un’altra.

Abbiamo già notato che Sefora rappresenta una figura interessante e istruttiva della Chiesa. Essa fu unita a Mosè nel pe­riodo della sua vita in cui era rigettato e il passo che abbiamo citato ci insegna che la Chiesa deve conoscere Cristo come colui al quale è unita per mezzo del san­gue. È suo privilegio bere il suo calice ed essere bat­tezzata del suo battesimo. Essendo crocifissa con Lui bisogna che sia resa conforme alla sua morte, che mor­tifichi le sue membra che sono sulla terra, che prenda ogni giorno la sua croce e lo segua. La sua relazione con Cristo è basata sul sangue e la manifestazione della potenza di questa relazione implica necessaria­mente la morte della natura. «E in Lui voi avete tutto pienamente. Egli è il capo d’ogni principato e d’ogni po­testà; in lui voi siete anche stati circoncisi d’una cir­concisione non fatta da mano d’uomo, ma della circon­cisione di Cristo, che consiste nello spogliamento del corpo della carne: essendo stati con lui sepolti nel bat­tesimo nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede nella potenza di Dio che ha risuscitato lui dai morti» (Colossesi 2:10-12).
Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:27

Questa è la dottrina rela­tiva alla posizione della Chiesa con Cristo, dottrina piena dei più gloriosi privilegi per la Chiesa e per cia­scun membro che ne fa parte: remissione intiera dei peccati, giustizia, accettazione completa, sicurezza eterna, perfetta comunione con Cristo nella gloria: essa comprende tutto. «In lui voi avete tutto pienamente!» Che cosa si potrebbe aggiungere a ciò che è completo? «La filo­sofia», «le dottrine degli uomini», «gli elementi del mondo», «il mangiare o il bere», «le feste, i noviluni, i sabati», «non toccare, non assaggiare, non maneg­giare», «i comandamenti e le dottrine degli uomini», «i giorni, i mesi, i tempi, gli anni»? (vedere Colossesi 2). Qualcuna di queste cose, o tutte insieme potrebbero forse aggiungere uno iota a ciò che Dio dichiara com­pleto? Potremmo domandarci se, dopo i sei giorni di lavoro impiegati da Dio per l’opera della creazione, l’uomo avrebbe potuto intraprendere di dare l’ultima mano a ciò che Dio aveva dichiarato molto buono!

Non dobbiamo, per nessuna ragione, intravedere questo stato di perfezione come qualcosa che il cristiano debba ancora raggiungere, o a cui non sia ancora arrivato, do­vendovi però tendere con perseveranza senza essere mai sicuro di possederla fino all’ora della morte o da­vanti al trono di giudizio. Questa perfezione è la parte del figlio di Dio, del più debole, del meno istruito, di quello che ha meno esperienza. Il più debole dei santi è compreso nel «voi» dell’apostolo. Tutti i figliuoli di Dio hanno tutto pienamente in Cristo. Paolo non dice avrete, o forse avrete, o sperate d’avere, o pregate per avere; ma lo Spirito Santo dichiara in modo assoluto e categorico che «voi avete tutto pienamente». Questo è il vero punto di partenza per il cristiano, e sarebbe capovolgere ogni cosa il prendere per punto d’arrivo ciò che Dio ha fatto punto di partenza.

Ma qualcuno potrà dire: Non abbiamo dunque dei peccati, dei difetti, delle imperfezioni? Ne abbiamo, cer­tamente. «Se diciamo d’esser senza peccato inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi» (1 Giovanni 1:8). Ab­biamo il peccato in noi ma non su noi. Inoltre davanti a Dio non siamo in noi ma in Cristo. È «in Lui» che abbiamo tutto pienamente. Dio vede il credente in Cri­sto, con Cristo e come Cristo: è questa la nostra con­dizione immutabile e la nostra eterna posizione come cristiani. «Lo spogliamento del corpo della carne» è stato effettuato dalla circoncisione di Cristo; il credente non è nella carne (Romani 7:5; 8:9), benché la carne sia in lui; esso è unito a Cristo nella potenza d’una vita nuova ed eterna e questa vita è inseparabilmente legata alla giustizia divina nella quale il credente è stabilito da­vanti a Dio. Il Signore Gesù ha tolto tutto ciò che era contro il credente e lo ha avvicinato a Dio introducen­dolo davanti a Lui nello stesso favore di cui egli stesso gode. In una parola, Cristo è la nostra giustizia (1 Corinzi 1:30; 2 Corinzi 5:21) ; questo mette fine a tutte le que­stioni, risponde a tutte le obiezioni, impone il silenzio ad ogni dubbio; «poiché e colui che santifica e quelli che son santificati provengon tutti da uno» (Ebrei 2:11).

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:28

Questa serie di verità proviene dal «tipo» che ci è presentato nella relazione di Mosè con Sefora. Ed ora abbandoneremo per un momento «il deserto», ma non dimentichiamo le grandi lezioni e le sante impressioni che abbiamo ricevute e che sono così essenziali per ogni servitore di Cristo e ogni messaggero dell’Iddio vi­vente. Chi vuole servire ed essere benedetto nel suo servizio, nell’importante opera di evangelizzazione o nei diversi ministeri della casa di Dio, che è la Chiesa, avrà bisogno di lasciarsi comprenetrare dalle preziose istru­zioni che Mosè ricevette ai piedi del monte Horeb e mentre era in viaggio «nel luogo dove egli albergava».

Se si prestasse alle cose di cui ci siamo occupati l’attenzione che esse meritano, non si vedrebbero tante per­sone correre senza essere mandate; non si vedrebbero tanti credenti lanciarsi nel ministerio al quale non sono mai stati destinati. Bisogna che quelli che vogliono pre­dicare, o insegnare, o esortare, o esercitare un mini­sterio, qualunque esso sia, esaminino accuratamente loro stessi per sapere se veramente sono stati prepa­rati, ammaestrati e mandati da Dio. Senza ciò la loro opera non sarà riconosciuta da Dio e neanche bene­detta per gli uomini, e più presto essi si ritireranno meglio sarà, tanto per loro stessi quanto per quelli ai quali hanno voluto imporre il pesante giogo di ascoltarli. Un ministerio d’istituzione umana sarà sempre fuori po­sto nella sacra cinta della Chiesa di Dio. Bisogna che ogni servitore sia dotato da Dio, ammaestrato e man­dato da Lui.

«E l’Eterno disse ad Aaronne: Va nel deserto incon­tro a Mosè. Ed egli andò, lo incontrò al monte di Dio e lo baciò. E Mosè riferì ad Aaronne tutte le parole che l’Eterno l’aveva incaricato di dire e tutti i segni porten­tosi che gli aveva ordinato di fare »(vv. 27-28).

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:28

Questa bella scena di unione e di tenero e fraterno amore costituisce un contrasto sorprendente con ciò che avvenne fra questi due uomini nel loro pellegrinaggio, attraverso il deserto. Quarant’anni di vita nel deserto non possono far altro che portare dei grandi mutamenti negli uomini e nelle cose. È tuttavia piacevole fermarsi un momento sui primi tempi del cammino del credente, mentre le austere realtà della vita del deserto non hanno ancora, in nessun modo, fermato lo slancio delle vive e generose affezioni; quando l’inganno, la corruzione e la ipocrisia non hanno ancora distrutta la fiducia del cuore e posto l’essere morale sotto la fredda influenza d’una disposizione sospettosa.

È fin troppo vero, ahimé, che spesso interi anni di esperienza non hanno portato che a questo triste ri­sultato. Beato colui che, sebbene i suoi occhi siano stati aperti per vedere la natura umana ad una luce più chia­ra di quella che dà il mondo, sa servire con l’energia della grazia che sgorga dal seno di Dio. Chi ha mai co­nosciuto come Gesù le profondità e la scaltrezza del cuore umano? Gesù «conosceva tutti perché non aveva bisogno della testimonianza d’alcun uomo, poiché egli stesso conosceva quello che era nell’uomo». Egli cono­sceva così bene gli uomini che «non si fidava di loro» (Giovanni 2:24-25). Non poteva prestar fede a ciò di cui gli uomini fanno professione, né sancire le loro pretese. E nonostante ciò, chi fu mai così pieno di grazia come lui, così amoroso, tenero, compassionevole? Con un cuo­re che comprendeva tutti, poteva simpatizzare con cia­scuno. Non permise che la conoscenza perfetta dell’ini­quità dell’uomo lo tenesse lontano dalla miseria degli uomini. «Andava di luogo in luogo facendo il bene». Perché? Forse perché credeva che tutti quelli che lo cir­condavano fossero sinceri? No, ma perché «Iddio era con lui» (Atti 10:38). Ecco l’esempio che Dio ci pone dinanzi. Seguiamolo, anche se, ad ogni passo, dobbiamo calpestare l’io e tutti i suoi interessi.

Chi si augurerebbe di possedere questa saggezza, questa conoscenza della natura umana e questa espe­rienza che non fanno altro che indurre gli uomini a rac­chiudersi nel cerchio di un freddo egoismo e a riguar­dare il mondo con occhi di oscura diffidenza? Un risultato simile non può provenire da qualcosa che appartenga a una natura celeste. Dio dà la sapienza, ma non una sa­pienza che chiude il cuore alle invocazioni del bisogno e della miseria dell’uomo. Ci dà invece una conoscenza della natura umana non tale da farci afferrare con egoi­stica avidità ciò che erroneamente chiamiamo «nostro». Egli dà esperienza ma non un’esperienza che ci induca a diffidare di tutto il mondo eccetto che di noi stessi. Se camminiamo seguendo le orme del Signore Gesù, se siamo compenetrati dal suo spirito e di conseguenza lo manifestiamo, se, in poche parole, possiamo dire «per me vivere è Cristo», allora, attraversando il mondo con la conoscenza di ciò che Egli è, avendo rapporti con gli uomini pur sapendo cosa dobbiamo aspettarci da essi, possiamo, per grazia, manifestare Cristo in mezzo alla scena nella quale Dio ci ha posti. Le cause che ci fanno agire e gli oggetti che ci animano sono tutti in alto, dove è Colui che è «lo stesso ieri, oggi e in eterno» (Ebrei 13:8).

Gian-
00giovedì 21 aprile 2011 18:29
È pure là che il cuore di questo caro e grande servi­tore, dalla storia del quale abbiamo raccolte già tante vere e profonde lezioni, trovava la grazia e la forza che l’hanno condotto attraverso tristi scene della vita del deserto. Senza paura di sbagliare possiamo affermare che alla fine, malgrado le prove e le lotte dei quaranta anni, Mosè poté abbracciare il suo fratello sul monte Hor con lo stesso affetto di quando lo aveva incontrato al principio «al monte di Dio» (Esodo 4:27; 18:5). Questi due incontri ebbero luogo, è vero, in circostanze assai diverse. Al monte di Dio i due fratelli, s’incontrarono, si abbracciarono, e si misero in marcia insieme per com­piere la loro divina missione. Sul monte Hor s’incontra­rono per ordine di l’Eterno (Numeri 20:25), perché Mosè spogliasse il suo fratello dei vestiti sacerdotali e lo ve­desse raccolto presso il suo popolo a causa di uno sba­glio al quale egli stesso aveva partecipato. Le circo­stanze cambiano; gli uomini possono separarsi l’uno dall’altro, ma in Dio «non c’è variazione né ombra prodotta da rivolgimento» (Giacomo 1:17).

«Mosè ed Aaronne dunque andarono, e radunarono tutti gli anziani dei figliuoli d’Israele. E Aaronne riferì tutte le parole che l’Eterno aveva dette a Mosè, e fece i prodigi in presenza del popolo. E il popolo prestò loro fede. Essi intesero che l’Eterno aveva visitato i fìgliuoli d’Israele e aveva veduto la loro afflizione, e si inchina­rono e adorarono» (vers. 29-31).

Quando interviene Dio bisogna che ogni barriera crolli. Mosè aveva detto: «Ma essi non mi crederanno»; ma non si trattava di sapere se avrebbero creduto a lui bensì se avrebbero creduto a Dio. Chi può considerarsi semplicemente come l’inviato da Dio, può anche essere perfettamente tranquillo per quanto riguarda l’accetta­zione del suo messaggio; e questa beata certezza non lo distoglie per nulla dalla tenera e affettuosa sollecitu­dine verso quelli a cui è mandato. Al contrario essa lo preserva dall’inquietudine disordinata dello spirito che non può fare altro che contribuire a rendere un uomo inadatto a portare una testimonianza ferma, elevata e perseverante. Un inviato di Dio dovrebbe sempre ricor­darsi che il messaggio che porta è il messaggio di Dio. Quando Zaccaria dice all’angelo: «A che conoscerò io questo?», quest’ultimo non fu per nulla turbato da quella domanda, ma rispose: «Io son Gabriele, che sto davanti a Dio; e sono stato mandato a parlarti e recarti questa buona notizia» (Luca 1:18-19). I dubbi del mortale non turbano nell’angelo il sentimento della dignità del suo messaggio; egli sembra dire: Come puoi tu dubitare quando dalla sala del trono della Maestà nei cieli ti è stato ora inviato un messaggio? È così che ogni messag­gero di Dio, secondo la sua misura, dovrebbe andare, e con questo spirito rilasciare il suo messaggio.


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