MOSTRE A MILANO: ANDY WARHOL

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Eva34
00martedì 28 settembre 2004 11:12
La rivoluzione dell’arte: Andy Warhol (e gli altri)

Grande esposizione-evento dedicata al padre della Pop Art, emblema della cultura americana degli anni '60 e '70

Warhol: fra i protagonisti di una rivoluzione. Per capirne il senso, e per visitare al meglio la importante mostra della Triennale, dobbiamo fare un passo indietro.
In una foto del 1964 vediamo schierati in fila Tom Wesselman, Roy Lichtenstein, James Rosenquist, Andy Warhol, Claes Oldenburg: sono loro, e pochi altri, che hanno cambiata la storia dell'arte nel mondo occidentale, e anche fuori. Ciascuno proponendo una lettura diversa della società che allora cominciava a chiamarsi «del consumo» da parte dei teorici della Scuola di Francoforte emigrati in USA., Horckeimer e Adorno, cui si aggiungeva Herbert Marcuse.
Sono gli artisti Pop che, alla Biennale di Venezia del 1964, con la forza della loro nuova cultura, segnano la fine dell'Informale europeo e, negli USA, della Action Painting; la loro ricerca si impone grazie anche ad un giro forte di gallerie, coordinate da Leo Castelli e collegate a importanti musei cui non manca il supporto di strutture pubbliche e private statunitensi.



Vediamo dunque questa bella mostra di Andy Warhol. Prima di tutto, una indicazione al visitatore, le opere sono raggruppate tematicamente, non in ordine cronologico, serve dunque offrire alcune indicazioni sul metodo di lavoro dell'artista. In mostra i primi pezzi sono delle pubblicità disegnate negli anni 50: scarpe, stivaletti, contorno netto, campitura in oro, riduzione del volume a due dimensioni.
Ecco dunque una prima scoperta del «pubblicitario» Warhol: nel mondo dei volumi e delle tensioni pastiche l'immagine piatta ha sempre grande efficacia, e questo vuol dire, per l'artista, negare il suo segno delicato, vibrante, un segno che viene dalla école de Paris; per questo segno da alcuni si parla di Matisse, ma a me sembra che il dialogo sia con la tradizione del Surrealismo parigino degli anni 30.

Diversi i modelli dei compagni di strada: Lichtenstein il fumetto che dilata e appiattisce alla ricerca del retino; Oldenburg la monumentalità assurda degli hamburger; Rosenquist la scansione mastodontica delle illustrazioni. Warhol invece dialoga con la fotografia che gli sembra il mezzo per estraniarsi dalla realtà, per preservarla ma anche per neutralizzarla, come testimoniano tanti suoi scritti e la organizzazione stessa della «Factory», la fabbrica di un nuovo sistema di simboli.
Subito, infatti, negli anni 60, la rivoluzione dell'immagine è compiuta dopo qualche incertezza iniziale, quando Warhol punta sul fumetto, diciamo Dick Tracy oppure Popeye. La scelta è dunque l'uso della fotografia; Warhol, che da pubblicitario di immagini fotografiche se ne intende, capisce che, se vuole creare una figura nuova ma di grande impatto sul pubblico, deve usare un simbolo, una icona già nota, magari anche usurata, però modificandola.
Ecco dunque Marilyn o Liz Taylor, o Jackie Kennedy: in mostra si possono vedere le foto originali che sono punto di partenza per la invenzione. Warhol ha scelto le immagini delle dive nel momento del trionfo, ma Marilyn era appena morta e Liz malata; quanto a Jackie la vediamo in momenti diversi della esistenza, dalla felicità all'angoscia, una storia intera in quegli scatti.

Il nuovo procedimento consiste nel serigrafare su tela le immagini di base, quindi colorarle con colori sintetici a tinte piatte, determinando così l'estraniamento della foto originaria, aumentato dalla moltiplicazione dell'immagine, dalla sua dilatazione, oltre che dalle scansioni giustapposte del colore. Warhol inventa uno spazio bidimensionale nel quale le forme plastiche diventano illustrazione, come per farle rientrare nello spazio di un libro di figure. Warhol porta avanti questa sua ricerca fino alla fine, cominciando con Flowers, Campbell Soup Can, Brillo Box (1964), Coca Cola.
La critica si è chiesta molte volte se Warhol e gli altri Pop intendessero rifiutare la società del consumo americana, come fanno i Pop inglesi e molti altri in Europa, ma gli artisti statunitensi vogliono gettare dei ponti in territori finora preclusi all'arte, vogliono porsi al centro di un nuovo sistema di comunicazione. Così Warhol disegna copertine di dischi, si collega al rock e ai suoi protagonisti, fonda "Interview", la rivista che diventa la chiave per interpretare la rivoluzione culturale a New York, gira film che puntano sulla dimensione del tempo, come quello sull'Empire, proprio come le sue opere pittoriche che vogliono fermare la durata e trasformarla in memoria.

Negli anni la sua ricerca, che aveva iniziato esaltando lo spazio del consumo di immagine della gente, si accosta al mondo dei protagonisti; così Warhol inventa decine di ritratti, fra anni 70 e 80, scattati con la Polaroid, ma non solo, e stampati in serigrafia su tela, ritratti efficaci, da Ileana Sonabend a Krizia, da Mapplethorpe a Beuys, da Armani a Coveri, che riprendono anche un poco tutti i maggiori protagonisti della musica, della scena, del mondo dell'arte della New York fra anni 70 e 80.
Alla fine Warhol riscopre la pubblicità e inventa nuove immagini in bianco e nero, anche degli stivali, come alle origini, mentre in altre ricerche riscopre la pittura sia in collaborazione con Keith Haring che con Jean-Michel Basquiat. Sono sue le ultime opere, come «Vesuvio» e «Ultima Cena», questa realizzata a Milano, che segna anche l'addio dell'artista spentosi a New York il 22 febbraio 1987.
Nel bel volume di catalogo (Skira) sono importanti le testimonianze, ma sarebbe servito anche un saggio storico-critico che inquadrasse la ricerca di Warhol nel contesto dell'arte del suo tempo. Perché, certo, la rivoluzione della fotografia inventata da Warhol cambia il nostro modo di vedere la società dentro cui viviamo, ma gli altri del gruppo hanno costruito un simile discorso intrecciandolo anche con Warhol.
Insomma, questo di Warhol è un capitolo importante, ma non il solo, di una storia molto complessa che sarà tutta da ripensare, come sanno bene i curatori Gianni Mercurio e Daniela Morera, perché qui, agli inizi degli anni 60, si colloca lo snodo della nuova cultura, quella dell'arte, della musica, del teatro, del cinema in Occidente.


L’EVENTO «The Andy Warhol Show», alla Triennale di Milano (viale Alemagna 6, biglietti 7 euro, ridotto 5,50 euro, tel. 02.72.43.41), fino al 9 gennaio 2005. Il catalogo è edito da Skira (38 euro)
LE OPERE
In esposizione circa 200 dipinti, oltre a foto, lavori grafici, disegni e filmati
VISITE GUIDATE
Ad Artem organizza itinerari guidati alla mostra per gruppi (tel. 02.65.97.728)
IN GALLERIA
La mostra alla Triennale non è l’unico omaggio milanese a Warhol. Alla Galleria Carla Sozzani (corso Como 10, ore 21) esposizione fotografica di David McCabe e Billy Name «Andy Warhol, The Silver Factory and the Sixties», e Christopher Makos ha inaugurato il Photology Shop di via Moscova 25, con una rassegna intitolata «Celebrities and Andy Warhol»



tratto da vivimilano
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