Arrivo sulla del fiume e mi siedo.
La luce filtra attraverso le foglie verdi degli alberi e si riflette sull’acqua dando al tutto un’immagine surreale.
Leo è tranquillo nel suo passeggino, si guarda intorno stupito, forse chiedendosi che posto è mai questo.
Ho sempre pensato che i luoghi dai quali proveniamo rimangano impressi nel nostro dna e che vengano trasmessi ai nostri figli, così che essi provengano da molteplici luoghi.
Guardando Leo, però, devo ricredermi.
Lui non appartiene a questa terra, il suo luogo d’origine non è questo, e forse non lo è neppure il mio.
A volte penso che Leo provenga da qualche dimensione sconosciuta, come spesso lo ho pensato di suo padre.
Eppure so benissimo dove è stato concepito e dove è nato mio figlio, come lo so, a grandi linee, di Luca.
È difficile spiegare questa sensazione. Ci sono momenti in cui lo guardo e quei suoi occhi strani emanano una luce e sembra che sia lui l’adulto, il genitore, non io.
Non so cosa provo in questo momento.
Credevo che tornare avrebbe alleviato il peso che ho dentro ma mi manca casa mia.
Questo posto non mi è familiare, non lo riconosco.
La persona che abitava qui non esiste più.
Non posso fare a meno di pensare al giorno in cui ho deciso di partire, di scappare, di decidere che quello era il giorno dell’ultima umiliazione e del primo occhio nero.
Ero su questa stessa riva, con quel ridicolo vestito troppo elegante che Mauro aveva preteso che indossassi per il pranzo con i suoi, in bilico sui tacchi a spillo nonostante la mia altezza perché “è così che deve vestirsi una donna”.
Poi tutto era precipitato, non ricordo il motivo, se mai Mauro ha avuto bisogno di un motivo.
Non so quale cosa abominevole avevo fatto per farlo arrabbiare tanto. Forse un commento in disaccordo con quello che aveva appena detto o qualcosa di più stupido.
Aveva aperto la porta di casa come una furia e aveva cominciato a sputarmi addosso tutti gli insulti che in quegli anni erano diventati tanto familiari, arrabbiandosi di più perché non riusciva a trovare qualcosa di nuovo che avesse effetto su di me.
Ormai ero immune, avevo imparato a chiudere la mente. Mi isolavo fin quando non era troppo esausto o fin quando si convinceva che ero troppo stupida per capire.
Il primo ceffone mi colpì di sorpresa e quando arrivò il secondo ero ancora troppo stordita per reagire.
Gli altri non li contai..
Non so quanto tempo passò prima di rendermi conto che era tutto finito, che Mauro non era più in casa.
Sentivo in bocca il gusto del sangue che, con mia enorme soddisfazione, era schizzato un po’ sul vestito. Avevo il viso in fiamme ma dentro non sentivo niente.
Ricordo di aver pensato che sono gli uomini giusti a ferirti, non quelli sbagliati.
Così presi la decisione, andai nello studio dove sapevo teneva i soldi, chiamai un taxi e me ne andai sui miei tacchi alti.
Il treno correva veloce da ormai un numero interminabile di ore, io sentivo solo il freddo del finestrino e gli occhi incuriositi dei miei compagni di viaggio che mi scrutavano cercando di capire.
Dovevo avere un aspetto tremendo con l’occhio gonfio che cominciava a scurirsi, il vestito macchiato di sangue e senza valigie.
Ancora oggi mi domando perché nessuno abbia chiamato la vigilanza, forse perché più che paura facevo pena o forse perché quando il Destino entra in gioco, le regole degli esseri umani cessano di esistere.
Ma questo è un pensiero che ho maturato solo dopo, quando ho capito che le coincidenze troppo numerose non possono essere attribuite al caso ma a quello spirito monello del Destino.
[Modificato da Stregadelmare 08/01/2006 15.24]