Lo Zen alla guerra, una documentazione sul ruolo svolto dal buddhismo zen a sostegno del militarismo giapponese

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La Visione
00sabato 23 aprile 2011 17:03
Brian Victoria


TITOLO: Lo Zen alla guerra, una documentazione sul ruolo svolto dal buddhismo zen a sostegno del militarismo giapponese
AUTORE: Brian Victoria
CASA EDITRICE: Sensibili alle foglie
PAGINE: 359
COSTO: 18,20€
ANNO: 2001
FORMATO: 21 cm X 14 cm
REPERIBILITA': Raro nelle librerie di Milano

Premessa importante: io non conosco nulla, e nulla mi interessa, dei dettami della dottrina zen nel buddhismo. Di certo chi, invece, ne ha conoscenza potrà ancor di più apprezzare questo saggio, che io ho trovato interessantissimo perché permette di capire bene il supporto che la religione diede al militarismo e all'espansionismo imperiale giapponese.

L'autore è esso stesso un prete buddhista, quindi non è tacciabile di voler infangare la sua stessa religione, semplicemente negli anni 70, vivendo in Giappone, voleva schierarsi contro la guerra in Vietnam. Il suo maestro lo sconsigliò, in quanto, gli disse, “i preti non si occupano di politica”, a questo punto l'autore iniziò ad interessarsi a come il buddhismo si “interessò” alla politica nel periodo storico che va dal 1868 al 1945. Scoprendo che il buddhismo giapponese non solo si interessò di politica, ma andò ben oltre, appoggiando totalmente la dittatura fascista imperiale e le sue guerre di aggressione.

Gli stessi leaders buddhisti di quel periodo, in particolare quelli zen, avevano la certezza che il merito di aver spinto volontariamente il popolo giapponese, e i suoi soldati in primis, a sacrificare senza problemi la vita per lo Stato e l'Imperatore erano state le dottrine metafisiche del buddhismo zen, in particolare la dottrina “dell'assenza dell'io/sé” (“muga”).

Nella prefazione l'autore lancia l'ipotesi che Hitler fu influenzato, nello scrivere il Mein Kampf, anche da come i giapponesi si identificassero nello Stato, annullando l'individualismo. L'idea tedesca di Hitler dello Stato somigliasse allo Yamato-damashii, cioè lo “£spirito del Giappone”. Sia questa ipotesi dell'autore che tutto il saggio nascono dalla sua preoccupazione che morti i “cattivi” della seconda guerra mondiale si pensi che il male sia morto con loro. Mentre il timore è che se le idee che permisero il “male” non vengono sconfitte, prima o poi, ci ritroveremo di fronte il male.

L'autore inizia spiegando come era organizzato il buddhismo giapponese nell'era Tokugawa, quella precedente all'era Meiji. Per consolidare il proprio potere Tokugawa (e i suoi successori) creò il buddhismo istituzionalizzato, in cui tutti i templi erano sotto il controllo dello Stato, così i preti diventarono quasi dei funzionari governativi.
Quindi si passa al periodo della Restaurazione Meiji, e al passaggio del buddhismo dal potere dello Stato Tokugawa a quello dell'Imperatore Meiji. Nella nuova costituzione Meiji era prevista la separazione tra buddhismo e shintoismo (parziale unione creata durante da Tokugawa), trasformando l'ultima in religione di Stato (lo shinto di Stato).
Quindi, nei primi anni dell'era Meiji, il buddhismo fu avversato, in quanto non era la “vera” religione autoctona, cioè lo shintoismo. La religione era posta sotto l'autorità “dell'ufficio dei riti” (jingi kyoku), ma dato che questo ufficio era retto da fanatici sostenitori della “cultura nazionale” (kokugaku) il buddhismo era diventato un nemico da eliminare, per esempio vennero chiusi migliaia di templi e spretati migliaia di prelati. I vertici del buddhismo istituzionale reagirono in tre modi a questa situazione di pericolo per la loro religione: sovvenzionarono il nuovo Stato Meiji (a corto di finanze); si schierarono subito col nuovo fermento nazionalista; scatenarono una campagna anticristiana (nota come “rifiuti del male ed esaltazione del bene”, “haja kensho”).
Grazie anche ad alcune sommosse di protesta di cittadini contro la repressione verso il buddhismo, oltre alle tre azioni sopra descritte, il governo Meiji rivedette la stretta sul buddhismo.
Di conseguenza, nel 1889), i vertici dell'ex buddhismo istituzionale cercarono di creare il “nuovo buddhismo” (shin bukkyo), per dimostrare al governo Meiji che il nuovo buddhismo, nonostante fosse nato all'estero, poteva essere di supporto sociale ed economico al nuovo Giappone nazionalista. Infatti, per prima cosa, il nuovo buddhismo si impegnò materialmente ed economicamente nella colonizzazione dell'isola di Hokkaido, formalmente giapponese, ma realmente non controllata fino ad allora.
I vertici del nuovo buddhismo si schierano anche in favore della modernizzazione forzata del paese imposta dalla Restaurazione Meiji, per dimostrare che il buddhismo non era contrario alla scienza moderna, diventata uno degli imperativi della modernizzazione.
Il nuovo buddhismo poté dare prova della propria fedeltà ed utilità all'imperatore Meiji con la prima guerra sino-giapponese del 1894-95. Numerose furono le attività dei vertici buddhisti giapponesi, ma anche dei singoli monaci o templi, in favore della guerra e in supporto dei famigliari dei soldati deceduti, oltre come missionari buddhisti giapponesi nella Cina conquistata (già buddhista...). Nessuna organizzazione buddhista si mosse per il pacifismo e contro la guerra (tranne uno sparuto gruppo), anzi, si esaltava il buddhismo come spinta e risorsa per vincere la guerra. Grazie al buddhismo, predicavano gli stessi monaci, l'esercito e il Giappone avrebbero affermato la propria superiorità sulla Cina, e la superiorità del buddhismo giapponese su quello del resto dell'Asia. In particolare i monaci buddhisti enfatizzavano l'utilità della dottrina zen per avere soldati migliori, che combattessero “senza il proprio io”. Tutto il clero buddhista fino al 1945 si identificava in questi 5 punti (riporto integralmente dal libro):
1 Il Giappone ha il diritto di perseguire come meglio crede le proprie ambizioni nell'ambito del commercio e degli affari;
2 Se un qualsiasi pagano (jama jedo) proveniente da un qualsiasi paese interferisce con tale diritto merita di essere punito per aver ostacolato il progresso dell'intera umanità;
3 tale punizione verra eseguita con il sostegno pieno ed incondizionato delle religioni del Giappone, perché essa non avrà altro scopo che di assicurare il trionfo della giustizia;
4 I soldati, nell'eseguire la punizione con il suggello della religione, devono offrire la propria vita allo Stato senza ombra di esitazione o di rimpianto;
5 Svolgere il proprio dovere verso lo Stato sul campo di battaglia è un atto religioso.
Dopo la vittoria contro la Russia nel 1905 si potevano sommare questi altri 3 punti (riporto):
1 Le guerre condotte dal Giappone non solo sono guerre giuste, ma di fatto, sono espressione della compassione buddhista;
2 Partecipare alle guerre del Giappone e combattere fino alla morte è un'occasione per pagare il debito di gratitudine sia al Buddha che all'Imperatore;
3 L'esercito giapponese è formato da decine di migliaia di bodbisattva, sempre pronti all'estremo sacrificio.
In particolare la dottrina zen era considerata fautrice di ardore in battaglia e cieca obbedienza verso i superiori. Sawaki Kodo (1880-1965) fu uno dei preti zen più impegnati in questo durante la guerra. Kodo, che combatté nella guerra russo-giapponese, fu uno dei maggiori fautori dell'unità fra zen e guerra, impegnandosi attivamente a favore del nazionalismo e del colonialismo imperiale giapponese. Per Kodo, ed in seguito un altro importante esponente come D. T. Suzuki, ad uccidere non era la volontà del soldato buddhista (che non avrebbe potuto proprio in quanto buddhista), ma l'omicidio era compiuto indipendentemente dalla volontà dell'individuo, così lo zen trascende la ragione. Ecco uno dei pensieri di Kodo su come si dovevano comportare i soldati: “Bisogna obbedire agli ordini dei propri superiori, a prescindere dal loro contenuto. E' così facendo che diventerete all'istante fedeli servitori dell'Imperatore e perfetti soldati”.
Un altro importante maestro zen, Rinzai Nantembo (1838-1925), riguardo alla vita e alla morte affermava: “A parte lealtà e dovere, vita e morte non esistono!”.
Anche Nantembo era un fervente nazionalista e sostenitore dell'esercito.
Ci fu, comunque, una sparuta quantità di preti buddhisti contrari al nazionalismo e al colonialismo,ed avversi all'appoggio che il clero dava allo Stato, furono chiamati “preti buddhisti radicali”. L'episodio più famoso che li vide protagonisti fu “l'alto tradimento” (taigyaku jiken) del 1910, in cui una 30entina di persone (di cui 3 preti buddhisti radicali) tentarono una cospirazione per uccidere alcuni membri della famiglia imperiale. Furono tutti arrestati, 24 condannati a morte, tra cui il leader del gruppo, il prete Uchiyama Gudo. L'autore dedica a loro un capitolo con le loro iniziativa a favore della popolazione povera e dei diritti dei contadini sfruttati. Questa, seppur minima e labile, opposizione di una sparuta minoranza di preti buddhisti spinse i vertici di tutte le sette a dimostrare in tutti i modi la loro fedeltà all'imperatore, e la fedeltà del buddhismo allo Stato.
A questo punto l'autore entra nel dettaglio del tema del saggio, con la seconda parte dal titolo: “Militarismo giapponese e buddhismo”.
La vittoria del Giappone contro la Russia generò un dibattito interno sui motivi della superiorità nipponica. Tutti concordarono che fosse stato lo “yamato-damashii” (lo spirito giapponese”) a dare la forza al nuovo Giappone di sconfiggere gli occidentali. Per Shaku Soen e Nukariya Kaiten, due esponenti di spicco del “nuovo buddhismo”, era lo zen a creare lo “spirito giapponese”, per il quale il soldato (ma non solo) giapponese non esitava a sacrificare la vita. Il bushido, per questi intellettuali buddhisti, riviveva nell'era Meiji (e sotto i successivi imperatori) e il buddhismo era stato elaborato a partire dalle dottrine zen. Arai Sekizen, uno dei capi della scuola Soto Zen (e abate del tempio di Sojiji) fece questa dichiarazione nel 1925: “Il buddhismo non si oppone assolutamente alla guerra... la pace è l'idelae naturale dell'uomo. E' il sommo ideale dell'uomo. Il Giappone è amante della pace e quindi, anche se entra in guerra, sarà sempre una guerra per la pace...”.
Alla fine degli anni 20 il buddhismo istituzionale appoggiava totalmente l'espansione militare giapponese. In tutte le zone conquistate dai giapponesi furono aperte missioni di preti buddhisti giapponesi, tutte le sette parteciparono a questa “evangelizzazione”, tanto che alla fine della guerra le missioni erano centinaia. Ovviamente lo scopo non era aiutare le popolazioni conquistate, ma suscitare , tramite la presenza di una figura famigliare come un monaco buddhista, la lealtà verso l'imperatore. Inoltre quasi tutte queste missioni fungevano anche come centro di spionaggio per catturare i partigiani locali, oltre a dare supporto logistico alle truppe d'occupazione giapponesi.
Nel 1931 fu fondata la “Lega della gioventù per rivitalizzare il buddhismo” (“Shinko bukkyo seinen domei”), che si prefiggeva di non seguire le altre sette nel militarismo dello Stato. Erano giovani, non appartenevano al clero ufficiale ed erano una esigua minoranza, ma si schierano apertamente contro le sette del buddhismo istituzionalizzato, il presidente della Lega era Seno Giro. La Lega era favorevole alla pace mondiale, ad aiutare la parte più debole della società e i contadini vessati dai nobili proprietari terreni e dallo Stato, ma era anche con Hitler e i nazismo. Nel 1936 Seno fu arrestato, e dopo mesi di interrogatori ammise le proprie colpe e denunciò gli altri membri della Lega, che fu sciolta. La Lega fu l'unica associazione buddhista che negli anni 30 si oppose al governo, ci furono, però, anche singoli buddhisti che si schierano contro lo Stato nipponico, contestandone le leggi. L'autore racconta le loro storie di alcuni di loro: Ono Onyu, Kondo Genko, Takenaga Shogan, Daiun Giko.
Il successivo passo dei leaders buddhisti, dopo aver appoggiato tutte le politiche dei governi, fu la nascita del “buddhismo secondo la via imperiale” (kodo bukkyo). In pratica la sottomissione di una religione, formulata in termini dottrinali, all'imperatore, che era la guida di un'altra religione, lo shinto. Nel capitolo l'autore riporta gli interventi dottrinali dei leaders buddhisti dell'epoca a sostegno del buddhismo secondo la via imperiale. Uno dei precetti più importanti, oltre alla sacralità ed inviolabilità dell'imperatore, era l'obbligo alla cieca obbedienza verso gli editti imperiali, che diventavano obblighi religiosi.
A questo punto si poneva il problema, per un buddhista, di giustificare e sostenere le guerre (e quindi le uccisioni di persone e animali) compiute dallo Stato giapponese. Vengono riportati sia gli scritti che gli autori di questa dottrina, tutti preti buddhisti di alto rango. Furono due studiosi zen, Hayashiya Tomojjiro e Shimakage Shikai, nel 1937 a stilare queste dottrine pro guerra nel saggio “In che modo il buddhismo vede la guerra”.
Semplificando i concetti “buddhisti giapponesi” a favore della guerra erano:
il buddhismo non condanna la guerra, dipende se la guerra è giusta o ingiusta;
quando una guerra si prefigge di realizzare le mete del buddhismo è giusta;
salvare gli esseri senzienti e guidarli sulla via del buddhismo è una cosa giusta, ed è all'imperatore del Giappone che spetta questo ruolo di guida;
dove l'imperatore vede ingiustizia può anche usare la guerra per interrompere l'ingiustizia;
le uccisioni in guerra sono un passaggio inevitabile per creare una compassione più forte;
le guerre promosse dal buddhismo mirano a promuovere la perfezione dello Stato e del singolo individuo;
se gli individui fossero perfetti non si sarebbero guerre (!!!);
quando l'imperatore fa una guerra è per eliminare le guerre;
la guerra è utile anche al nemico, in quanto gli fa capire i propri errori.
Riporto questa integralmente:
“Se il livello di saggezza dei popoli di tutto il mondo aumentasse, le cause che scatenano la guerra scomparirebbero e non ci sarebbero più guerre. Se però, in un'epoca in cui la situazione è tale che all'umanità è impossibile porvi fine, non v'è altra scelta se non dar corso a guerre compassionevoli, portatrici di vita sia a se stessi che al proprio nemico. Grazie alle guerre compassionevoli le nazioni impegnate nel conflitto hanno modo di migliorare se stesse e la guerra si estinguerà da sola”.
Le scuole zen Rinzai e Soto ebbero un importante ruolo nel far nascere lo zen dello Stato imperiale e lo zen del soldato. Il bushido era nato dallo zen, quindi lo zen portava il soldato all'ardimento militare. L'autore analizza gli scritti di Notone Inazo, Shaku Soen, Fueoka Seisen, Nukariya Kaiten, Iida Toin, Furukawa Taigo, D.T. Suzuki, Seki Seisetsu sul rapporto tra zen, bushido e ardimento militare (tutto molto interessante).
Lo zen permette di rinunciare alla vita senza problemi, vita e morte sono indifferenti, inoltre lo zen insegna l'obbedienza assoluta verso il proprio superiore, e che lo scopo del guerriero è solo di distruggere il nemico, senza mai esitare. E' chiaro come sia la filosofia giusta per creare il soldato perfetto, lo fu al tempo del bushido, lo restava in quegli anni.
Uno dei concetti base di tutti questi “studiosi” era che, come scritto nel bushido, non è chi uccide con la spada ad uccidere, ma è la spada ad uccidere. Il soldato non vorrebbe uccidere, ma il nemico appare e fa di se stesso la vittima (…). In questo modo si sollevava il soldato, o il giapponese in generale, da qualsivoglia responsabilità di ordine morale, ed era una religione a farlo. Contemporaneamente l'esercito imperiale sfruttava e sollecitava questi scritti di studiosi religiosi. I manuali, l'addestramento, gli ordini scritti e verbali erano improntati alla filosofia del bushido e dello zen in battaglia. Un esempio sta nel fatto che nei manuali di guerra per i soldati e gli ufficiali le parole “resa”, “ritirata” e “difesa” vennero eliminate, solo l'attacco era considerato lecito, oltre all'obbedienza cieca.
L'autore, in quest'ottica, passa ad analizzare la storia del tenente colonnello Sugitomo Guro, il militare ideale secondo lo zen, tanto che dopo la sua morte fu dichiarato “Gunshin”, “Dio della guerra”. Inoltre sono riportati e analizzati gli scritti del maestro zen di Sugitomo, Yamazaki Ekiju, che ne forgiò lo spirito. Questi due personaggi non furono gli unici maestri zen a propagandare lo zen come arma militare. L'autore passa in rassegna, spiegandone le attività, gli altri maestri zen che impegnarono se stessi, e la propria religione, nello sforzo bellico: Hata Esho, Yamada, Reirin, Kurebayashi Kodo, Hitane Jozan, Fukuba Oshu, Hrada Daiun Sogaku, Masunaga Reibo.
Oltre alla teologia zen e alla propaganda per la trasformazione del soldato zen perfetto, in cosa si impegnarono materialmente le varie scuole zen in favore della guerra?
Opere di conforto interno in favore dei famigliari dei soldati deceduti in battaglia.
Cappellani militari in battaglia e la fondazione di missioni nelle zone occupate.
Particolari cerimonie religiose per assicurare la vittoria in battaglia, ma anche per annientare l'America e l'Inghilterra.
La raccolta di fondi per costruire mezzi militari.
La formazione di istruttori per motivare i cittadini, specialmente i lavoratori, trasformandoli in “guerrieri industriali”.
Infine gli stessi preti zen accettarono di andare a lavorare nelle fabbriche di armi, diventando essi stessi “guerrieri industriali”.
Il primo capitolo della terza parte del libro fa una cosa poco consueta, ma molto interessante, in saggi di questo tipo: riporta le giustificazioni, le abiure, lo scarica barile e le mere arrampicate sugli specchi degli stessi studiosi e preti buddhisti dopo la sconfitta della guerra. Inoltre sono riportate dichiarazioni di leader e studiosi buddhisti che anche dopo la guerra continuavano a giustificarla, pur senza mantenere i toni da fanatismo imperiale.
Studiosi, leader buddhisti e semplici preti che prima del 15 agosto 1945 facevano dichiarazioni e scrivevano articoli e libri con concetti che si son letti nei capitoli precedenti del libro, dovettero in fretta “ricollocarsi” nel nuovo Giappone democratico, passando da militaristi a pacifisti.
Per esempio D.T. Susuzi, pur ammettendo gli errori del buddhismo giapponese nell'appoggiare il militarismo, scarica subito la colpa sullo shintoismo, non assumendosi mai la responsabilità dell'influenza che ciò che scrisse potesse avere avuto.
Solo 4 scuole buddhiste fecero dichiarazioni di responsabilità nello sforzo bellico, e nessuna prima di 40 anni dalla fine della guerra, cioè solo dal 1985 in poi (ricordo che questo saggio è stato scritto nel 1997, quindi assunzioni di responsabilità avvenute in seguito non possono essere state riportate).
L'autore riporta le dichiarazioni di pentimento di queste 4 scuole, e fa delle considerazioni su tutte le altre numerose e importanti scuole buddhiste che (fino al 1997) si guardavano bene dallo scusarsi.
Ed in questo (è una mia considerazione personale) i leaders e le scuole buddhiste hanno ripetuto un comportamento identico agli altri gruppi sociali, o di singoli individui, in Giappone, compresi governi e politici: Nessuna scusa per i massacri o scuse tardive e non chiare.
L'autore riporta e commenta anche gli scritti di uno dei pochi studiosi buddhisti che, dopo la guerra, si pentì del proprio appoggio religioso al militarismo: Ichikawa Hakugen.
Ichikawa Hakugen è anche uno dei pochi intellettuali giapponesi ad aver cercato di analizzare il, perché e il come successe ciò.
Sono riportate anche le analisi di altri due studiosi, Hakayama Noriaki e Matsumoto Shiro, sulle cause dottrinali che permisero di sottomettere il buddhismo alla Stato.
Durante la guerra lo zen venne usato non solo per addestrare i soldati in battaglia, ma anche i “guerrieri industriali”, cioè i lavoratori. Dopo la guerra, con l'avvento della democrazia e dei diritti individuali, compreso quello sindacale (che durante il fascismo giapponese era stato poco alla volta eliminato), le aziende usarono lo “zen aziendale” per mantenere la presa sui lavoratori. Le aziende negli anni 50 si resero conto che la scuola non inculcava più le “virtù” come l'obbedienza e la sottomissione, quindi fecero fare dei corsi zen ai dipendenti direttamente nei monasteri zen, ovviamente i monasteri zen erano pagati per questi corsi. Un altro scopo di questo addestramento zen era annullare l'individualità, il lavoratore dovrà fare quello che fanno gli altri, obbedendo agli ordini senza eccepire, rispettando le direttive di chi è anche un solo gradino più in alto nell'organigramma aziendale. In pratica vennero riproposti, seppur con minore fanatismo ed intensità, i sistemi di indottrinamento usati prima della fine della guerra verso i militari.
Si potrebbe pensare che lo zen aziendale sia stato meno spietato dello zen imperiale, in quanto non richiedeva il sacrificio della vita. Non lo richiedeva esplicitamente, perché dagli anni 70 iniziò il fenomeno tutto giapponese chiamato “karoshi”, “morte da superlavoro”, oppure chi falliva nel proprio compito lavorativo si suicidava.
Benché il nuovo esercito di autodifesa giapponese sia improntato al rispetto dei dettami di una costituzione pacifista, lo zen è ancora praticato dai suoi membri, e insegnato nell'esercito. Anche in questo caso è cambiata solo “l'intensità” dell'insegnamento.





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