Libertà e vita, libertà è vita.

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Heithel
00mercoledì 22 ottobre 2008 20:42
Non so se c'entri qualcosa in questa sezione ma mi pareva di sì U__U
So che è noiosa ma non vi costringo di certo a leggerla.

Ovvio che se qualcuno si desse la pena mi farebbe piacere, ma comprendo perfettamente che è molto più semplice mandare affanculo due settimane di lavoro piuttosto che sforzarsi a capire quello che c'è scritto.

Tutto a vostra discrezione.

Buona lettura nel caso.



MATTEO CAPRA

LICEO GINNASIO STATALE G.M. DETTORI, III^ A

TESINA D’ESAME DI STATO DELL’ANNO SCOLASTICO 2007/2008:

Libertà e vita, libertà è vita.

Dal momento che il protocollo d’esame richiede la presentazione di una tesina mi atterrò passivamente al procedimento, come ho fatto in tutto il mio corso di studi, dalla prima elementare fino a questo momento, sottomettendomi a determinate regole imposte da un’autorità con facoltà definite secondo principi ignoti alla massa e che tuttavia vengono da essa ignorati; ma d’altronde sottomettersi e adeguarsi a principi tuttavia infondati, risulta essere l’unico modo per ottenere la libertà di agire nella vita: senza questa tesina non avrei la possibilità di conseguire un diploma, che mi permetterà di conseguire una laurea che a sua volta dandomi un lavoro mi concederà indipendenza economica, e con essa la possibilità di agire secondo quelle che sono le mie aspettative. Finché questo attestato non mi sarà conferito, non avrò possibilità di azione secondo quelle che sono le mie possibilità o volontà e mi sarà quindi privato il vivere stesso, poiché vivere è libertà di azione e questa finora è stata negata da vincoli burocratico- economici.
Da questo filo conduttore che lega insieme la libertà e la vita, si dipartirà questa tesina, dal momento che vita è libertà e, allo stesso tempo libertà è vita: si vive solo quando si è liberi di agire, e solo quando si è liberi di agire si può dire di avere la possibilità di vivere (o meglio sopravvivere).

Tale percorso tuttavia non può essere sviluppato prima di aver definito il concetto e il valore della vita.
Anzitutto vi è da stabilire se l’uomo vive o sopravvive. Poco tempo fa, sia al fine di comporre questo scritto sia per mio interesse personale, mi sono dato la pena di indagare su alcune opinioni per comprendere tale aspetto, confrontando il mio pensiero con quello di altre persone; ho posto una domanda su quanto valesse la vita per ciascuno e le risposte pervenutemi, e che fra poco citerò, hanno dato come risultato un velo di istinto di conservazione a priori, normale in ogni entità, ma che tuttavia risulta essere privo di fondamento. Un esempio di ciò viene chiaramente messo in evidenza da risposte come: “…e comunque, alla vita ti ci aggrappi nel momento stesso in cui hai rischiato di perderla.” E se tuttavia non interessasse perderla? Altre persone hanno replicato che si vive in funzione di un’altra entità come un figlio o un affetto: “…la mia vita è sua e perciò devo assolutamente essere presente…cosa conta per me della mia vita ora ha poco conto,se paragonato a quanto vale per questo qualcuno.” , “La maggior parte di ciò che faccio lo faccio in vista del prossimo, di chi mi circonda. Di per sé la mia vita può contare molto ma non conterebbe moltissimo se non ci fossero gli altri a renderla così preziosa.” Ma la vita è di chi la vive e la utilizza come meglio crede. Si può più che altro dire che il bambino o qualunque altro affetto (un bambino in particolar modo) si troverebbe nei guai se venisse a mancare tale persona. Ma a questo punto si vive per far vivere un’ altra persona. E perché questa persona dovrebbe vivere? Che vantaggi ne trarrebbe? Vivere anch’ essa per farne vivere un’ altra? E poi? Si andrebbe avanti in un ciclo continuo insensato, allora si vive per far sopravvivere gli altri? E perché gli altri dovrebbero sopravvivere? A che pro? E perché soprattutto a causa mia? Allora la vita non è altro che un servilismo? E perché gli altri che vivono a causa mia dovrebbero vivere? “Quando penso che vivere non abbia alcun senso guardo gli occhi di mio figlio...E vedere quel cucciolo d’ uomo crescere, conquistare il suo mondo a piccoli passi....questo si che da senso alla mia vita...” E che senso ha che lui conquisti il suo mondo? E dopo che lo si vede compiere tale azione? E’ un passatempo più o meno nobile che permette di ingannare il tempo nell’ attesa della fine. Una cerchia di persone ha tentato anche il fronte dell’arricchimento personale: “…ciò che ne scaturisce dalle sofferenze o dai piaceri è un qualcosa che rimane a me,mi insegna a capire tante cose e sostanzialmente mi piace.” Anche questa risposta ad ogni modo non soddisfa la causa primaria, tutto questo servirebbe solo per ingannare il tempo prima dello spegnimento, difatti tutto questo accumularsi di soddisfazione non porterà a nulla al momento in cui subentrerà la morte, l’arricchirsi servirà solo per far aumentare di qualità “l’attesa”. Mi sono state poste domande scaturite ovvie da un tema che pesa, e da risposte che sono difficili da accettare e, a seconda dei casi, anche da ammettere: “Se per te la vita non ha senso” , mi viene chiesto, “che ci fai ancora qua? Attendi?” Ovviamente si, l’istinto di conservazione ci impedisce di anticipare la fine e nell’ attesa si inganna il tempo coltivando hobby più o meno ammirevoli, come fanno tutti gli esseri umani aspettando lo spegnimento. Tali domande vengono inevitabilmente partorite a causa del fatto che molte persone non si rendono conto di ciò, e la maggior parte lo fa senza chiedersi il perché. Altra palese dimostrazione del fatto che le persone vadano avanti passivamente, evitando argomenti pericolosi, guidate dall’istinto di conservazione, è dimostrato dal fatto che mi è stato consigliato anche di non pormi tali problemi, ed è questo il pensiero comune che viene per la maggioranza rispettato: “Se passi la vita a chiederti che senso abbia vivere, ti trovi a novant’ anni che non hai mai fatto nulla per cui valga la pena stare al mondo.” E se non mi interessasse arrivare a novant’ anni senza aver fatto nulla per la quale valga la pena vivere? Che senso avrebbe far qualcosa di eclatante se poi dopo lo spegnimento andrà perduto? Sempre che non vada perduto addirittura subito dopo esser stato fatto, come accade nella maggior parte dei casi, inoltre produrre una miriade di azioni degne di lode senza mai essersi chiesti perché equivale esattamente a non produrre nulla poiché tutto è stato prodotto senza un senso compiuto ma semplicemente perché andava prodotto. Una caratteristica reiterata scaturisce dal fatto che molte risposte si basano sul trovare, in modo del tutto paradossale, la motivazione della vita, nella vita stessa “La vita è fine a se stessa e come tale va apprezzata con gioie e dolori...”, ma proprio perché è fine a se stessa che è priva di senso. Ho ricevuto repliche di tipo culturale vedendomi citato Freud: “Il signor Freud diceva al tempo che siamo più pronti ad accettare un dolore conosciuto (il dolore di vivere) piuttosto che sperimentare qualcosa della quale non sappiamo nulla (paura della morte).” Ci si può anche trovare in disaccordo su alcuni punti della filosofia freudiana, se ormai la sofferenza di vivere è tanta da non riuscire più a tollerarla non ha senso continuare, e si potrebbe anche preferire la novità della morte, se poi ci si convince che la morte è uno spegnimento e una cessazione di questo tirare avanti insensato allora la fine sarebbe solo una liberazione, ciò è testimoniato empiricamente dal fatto che avvengono suicidi. Come ultime risposte ho ricevuto sfoggio di coraggio che tuttavia non riesce a risalire la causa fondante del vivere: “…e poi io credo che ci voglia più coraggio a vivere che a morire.” Indubbiamente sì, è proprio perché la vita è un travaglio continuo che sarebbe meglio abbandonarla, essendo questa un continuo arrampicarsi sugli specchi estenuante e noioso. Il resto delle risposte sono poi da ricondurre a una digressione di insulti non certo consoni o adatti ad essere riportati su una tesina. Gli insulti, come anche il resto delle risposte, sono stati palesemente causati dal fatto che le persone non si pongono mai questi quesiti troppo pericolosi e che minano l’istinto di conservazione stesso. Anche ammettere di avere, e di essere mossi da un istinto di conservazione, risulta estremamente difficoltoso, ad ogni modo il fatto che su decine di risposte nessuna sia stata in grado di fornire una causa prima fondante del perché si vive, bisogna matematicamente dedurre che la vita non è vivere ma un sopravvivere; ponendo così risposta alla domanda posta pocanzi, se ne deduce che l’uomo sopravvive.

Concessomi un tanto noioso quanto necessario excursus (ma pur sempre meno tediante della parte che seguirà), procederò adesso con rapportare il tema della libertà e della vita, con il programma svolto durante l’anno, svolgendo così la parte del testo meno interessante e stimolante.

Il discorso prodotto qualche riga sopra è palesemente nichilista, ma non per questo deve essere soggetto ad accusa: il nichilismo è una filosofia come tante altre e come tutte le altre ci si può trovare in disaccordo ma non è accettabile, su nessuna filosofia, una qualunque accusa. Ad ogni modo penso sia evidente che avendo prodotto un discorso simile non vi è alcun disaccordo con il nichilismo ma un sentimento esattamente opposto.
Il termine nichilismo (dal latino nihil, nulla, da cui nihilismo, secondo una dizione desueta e dal latino medioevale nichil dello stesso significato) designa in senso generico l'atteggiamento o la dottrina volti a negare in modo definitivo e radicale l'esistenza di qualsiasi valore in sé e l'esistenza di una qualsiasi verità oggettiva. Nella sua versione più estrema, il nichilismo considera la realtà stessa come radicalmente inconoscibile.
In un significato più comune, il nichilismo è unaconcezione delle cose, in base alla quale la realtà sarebbe inesorabilmente destinata a declinare nel nulla, ovvero, dal punto di vista etico, sarebbe indeterminabile o assente una finalità ultima che orienti il corso delle cose e la vita dell'uomo. Siccome l’uomo è limitato e sperimenta ogni giorno questo limite nella morte e nelle sue dolorose anticipazioni, allora egli può essere spinto a considerare - al di là di quanto se ne sia coscienti - che il niente sia il vero senso dell’essere. L’affermazione nichilista nega pertanto, in questo senso, vera consistenza alla realtà e di conseguenza esclude che l'uomo possa fare esperienza della verità in quanto tale, considerata come oggettiva e universale.
Se da una parte il "nichilismo metafisico" afferma che il mondo non ha senso (perché la morte è l'orrore che tutto annienta) e termina così in un assurdo, dall'altra il nichilismo dei nostri giorni predica l’accettazione da parte dell’uomo della propria condizione e l’inutilità delle speranze che sono fuori dalla sua portata. Ovviamente la discussione sul nichilismo con la quale ci si può trovare più facilmente in accordo è proprio questa, ovvero la parte più moderata, al momento infatti, in cui si cade nell’estremismo la cerchia di individui che potrà interfacciarsi con un simile pensiero si ridurrà notevolmente. Un classico modello di nichilismo estremizzato lo si può ritrovare in Nietzsche.
In Nietzsche il fenomeno del nichilismo è un atteggiamento di fuga e di disgusto nei confronti del mondo concreto e assume il carattere ambiguo e ambivalente di vera e propria cifra interpretativa, sia teorica che pratica, della civiltà occidentale. In senso più esplicitamente negativo, esso viene descritto come segno dei tempi, sintomo della decadenza in cui versa la civiltà; nello stesso tempo, in positivo, il crepuscolo dei valori e degli idoli, la situazione in cui si trova l’uomo moderno e contemporaneo che , avendo perso i valori supremi quali dio, la verità, il bene ecc. , finisce per avvertire, di fronte all’essere lo sgomento del vuoto e del nulla. Nietzsche tuttavia si autodefinisce come il primo perfetto nichilista della storia d’Europa proprio perché ha vissuto appieno in sé il nichilismo stesso e del quale ne è pervaso in tutte le sue parti e in tutte le sue forme. Il filosofo a questo punto è ormai sopra di esso e oltre esso, bisogna stabilire ora come mai Nietzsche nonostante abbia attraversato il nichilismo, si ritiene superiore e ad uno stadio seguente ad esso. Nei “Frammenti postumi” l’argomento viene introdotto tramite la domanda: “Che cos’è il nichilismo?”, la risposta a questa domanda, che risulta in accordo con la mia indagine sul valore della vita, è che per il filosofo (e anche per il pensiero contemporaneo) manca il fine, manca la risposta al “perché?”, e a questa domanda anche i valori supremi si vaporizzano perché l’uomo con la metafisica si è immaginato se i fini assoluti e dei valori fondanti che sono rivelati completamente fallaci in ogni loro punto: ad esempio l’essere, non è unico poiché molteplici sono le forme, non è vero in quanto non esiste una verità assoluta, non è buono poiché la verità deraglia dalle nostre aspettative etiche, tenendo anche in considerazione che ognuno ha le sue aspettative etiche e il proprio concetto di buono e molti altri esempi potrebbero esser fatti all’infinito dal momento che i valori che possono essere svalutati sono pressoché infiniti. Da questa totale disgregazione di valori, dal momento che nessun valore permane senza salvarsi dalla distruzione l’uomo inevitabilmente incorre nel nichilismo, quando si è cercato un senso a tutto e ci si è resi conto che questo tutto non ha senso, e che nulla di esistente o di pensabile abbia un senso, tanto che a chi cerca viene a mancare il coraggio. Quanto più l’uomo si è arricchito e illuso di valori tanto più ne rimane deluso al momento in cui si rende conto che questi decadono pateticamente; un esempio di ciò Nietzsche lo da quando parla del post-cristiano, che avendo smesso di credere nell’aldilà nel dio-provvidenza e quant’altro, sente un incredibile senso di vuoto, che era colmato da determinati valori, e che questi, scomparendo, altro non hanno lasciato che un’enorme camera d’aria. Questa sensazione egli la può intuire solo ed esclusivamente dopo essere passato attraverso il cristianesimo, verrà quindi il momento di pagare di essere stati cristiani per così tanti secoli. Vi è una perdita del proprio centro di gravità che permetteva di vivere (o di sopravvivere). Il nichilismo afferma quindi che il mondo non avendo quella serie di significati forti come unità verità assoluta ecc. che erano presenti in metafisica, non ha nessun senso, il credere quindi nelle categorie di ragione è la causa del nichilismo e si è quindi misurato il valore del mondo secondo fattori effimeri che appartengono ad un mondo completamente fittizio. Secondo Nietzsche tuttavia la domanda nichilista “A che scopo?” procede nella solita vecchia abitudine di avere come fine, un fine posto e dato da un’entità esterna, identità che il nichilismo stesso nega. Tuttavia mi vedo quasi costretto ad oppormi al pensiero di Nietzsche: il fatto che egli trovi risposta nel momento in cui viene posta come soluzione una contraddizione è una conclusione fallace. Poiché è semplice dire che il nichilismo sbagli perché il fine viene posto da un’entità abbondantemente negata, ma se lo scopo non venisse proprio posto? Se venisse ricercato costantemente da un soggetto senza ricorrere alla ricerca di qualcosa che lo dia, ma semplicemente cercando una meta nell’infinita lista che ci si pone innanzi? Se fosse una creazione di fini limitata al soggetto cercante e non vincolata ad entità esterne? Se ci fosse una ricerca tendente asintoticamente all’infinito scartando ogni nuovo fine che viene trovato? Il filosofo afferma di essere nichilista in modo superiore, poiché è patologica la generalizzazione che nulla ha un senso, il nichilismo appare come uno stato intermedio di negazione della vita necessario per la seguente accettazione della vita stessa, come il procedimento opposto a quello del post-cristiano, che deve passare attraverso il cristianesimo per poterlo poi negare: attuando questo percorso egli crede di superare il nichilismo stesso, convinzione resa necessaria, dal momento che il nichilismo è diventato anche per il filosofo insopportabile, incorrendo così, come egli stesso afferma, nella sconfitta senza rendersene conto, è di Nietzsche infatti l’affermazione “tanto che a chi cerca viene a mancare il coraggio”. E proprio perché gli vengono a mancare le forze e il coraggio che Nietzsche si vede costretto ad attuare il superamento del nichilismo. Tale procedimento consiste nell’accettare il rischio e la fatica di dare un senso al caos del mondo dopo la morte degli antichi valori e la nascita dei nuovi, ed è qua il significato del superamento nietzscheano del nichilismo; ma se in questi nuovi valori non si trovasse soddisfazione? Se risultassero effimeri a loro volta? Allora se ne cercherebbero di altri dopo aver abbandonato questi nuovi. E se questi altri nuovi risultassero sempre vani? Allora la soluzione nietzscheana al nichilismo altro non sarebbe che un ritorno al nichilismo stesso: una ricerca e una negazione asintotica di nuovi fini. La soluzione data da Nietzsche è comprensibilmente legata all’istinto di conservazione, e quindi alla volontà insensata di sopravvivere, poiché anche se egli si predica nichilista risulta comunque attaccato alla vita e questo attaccamento lo costringe a trovare una soluzione anche se tuttavia questa risulta non essere soddisfacente a dare un senso primo alla vita, ma comunque una soluzione necessaria perché non riesce a tollerare la situazione di insensatezza nella quale egli stesso si è posto.
In Nietzsche dunque la parola nichilismo designa l'essenza della crisi che ha investito la civiltà europea moderna: per Nietzsche il nichilismo è un evento che porta con sé decadenza e spaesamento, tanto da costituire una sorta di malattia da cui il mondo moderno è affetto; tale malattia condurrebbe alla disgregazione del soggetto morale, alla debilitazione della volontà e alla perdita del fine ultimo dell'esistenza (nichilismo passivo).
Anche Schopenhauer nella sua filosofia tratta sotto un certo aspetto il problema fra il vivere e il sopravvivere, cadendo in una sorta di nichilismo differente tuttavia da quello nietzscheano, e solo tangente il nichilismo standard, con un contatto lieve ma che può tuttavia essere riscontrato. Il nichilismo in cui incorre Schopenhauer riguarda il suo pessimismo cosmico: La volontà di vivere causa nell'uomo il desiderio. Però difficilmente i desideri si realizzano e la mancata realizzazione di un desiderio causa sofferenza. Il piacere, che è assenza di dolore, si ha quando un desiderio si realizza. Però è qualcosa di effimero perché ben presto, in mancanza di altri desideri, si tramuta in noia. La vita umana è quindi un altalenarsi di dolore e noia, passando per la sensazione effimera del piacere. E’ palese che questo si chiama sopravvivere e andare avanti per inerzia, in uno stato di costante scontento nel quale si prosegue senza una causa, un motore, il tutto sviluppato nell’esatto concetto che ho prodotto con l’intervista sul valore della vita, sopravvivere senza una causa prima, il non avere un fine fondante che muove gli altri fini, non è forse altresì nichilismo?
Un altro esempio schopenhaueriano che è possibile citare riguardante questo tema è il nirvana: questo termine della cultura buddista indica l’esperienza del nulla. Vi è una negazione del mondo, se il mondo è un nulla, poiché composto da elementi frivoli, non interessanti o sofferenti, il nirvana è un tutto, poiché costituisce tutto ciò che si è sempre cercato per fuggire al nulla del mondo, è una pace libera dalla moltitudine di offerte del mondo che per quanto possano essere varie non soddisfano ciò che un soggetto cerca, vi è dunque un trovare la propria soddisfazione in un pacifico nulla, piuttosto che in un tutto, che non offrendo nulla di allettante, diventa automaticamente un nulla. L’accettazione del nulla o addirittura la scelta di un nulla e il rifiuto di un tutto che risulta vacuo è fare del nichilismo la propria condotta di vita.

Avendo sviluppato finora l’argomento vita, è giunto il momento di rapportarlo al discorso libertà. In un autore si trova in modo rilevante quest’aspetto: Luigi Pirandello.
Alla base della visione del modo pirandelliano vi è una concezione vitalistica: la realtà è tutta un movimento vitale perpetuo e costante, e un flusso continuo e indistinto. Tutto ciò che si diparte da questo flusso, si rapprende e si irrigidisce, comincia il suo processo di degradazione e morte. Questo procedimento avviene in modo estremamente palese ed estremamente frequente nella vita dell’uomo, tanto da diventare la regola. L’uomo tende ad una cristallizzazione del proprio io in forme individuali, e a bloccarsi in una realtà che l’individuo stesso si pone. Anche le altre persone, vedendo il soggetto dall’esterno, secondo la prospettiva di ciascuno, donano ad esso delle forme, che sono modi di interpretazione prettamente personale di ciascun individuo. Noi crediamo di essere un'unica entità per noi stessi e per chi ci guarda, mentre in verità siamo tanti individui diversi a seconda della visione soggettiva di chi ci osserva. Ogni soggetto potrà ad esempio creare su di se l’immagine dell’onesto lavoratore, mentre da altre persone è visto come un arrivista senza scrupoli. Ognuna di queste forme è una costruzione fittizia, una maschera che noi stessi ci imponiamo e che, in primis, il contesto sociale ci impone. Sotto questa maschera non c’è nessuno, o meglio vi è il fluire indistinto di molteplici forme in costante trasformazione.
L’individuo tuttavia soffre terribilmente al momento in cui il suo io viene cristallizzato dagli altri in forme che lui stesso non riconosce essere parte di se, l’uomo si vede quindi vivere, e si vede vissuto dagli altri, nel compiere gli atti abituali che gli impone la sua maschera, imposta a sua volta dal contesto sociale nel quale in quel momento egli si trova immerso. Queste forme sono sentite dal soggetto come una trappola dal quale egli cerca invano di liberarsi. La società, che appare a Pirandello, e che è costantemente anche sotto i nostri occhi nella vita di tutti i giorni, è un’enorme pupazzata, una costruzione artificiosa e fittizia che impoverisce irrigidisce e cristallizza la vita dell’uomo facendolo morire, anche se egli empiricamente continua il suo corso vitale e persiste per inerzia nella sua sopravvivenza. L’uomo non ha più la libertà di agire secondo quelli che sarebbero i suoi istinti o i suoi desideri ed è quindi come se fosse morto: un corpo che compie atti imposti dal contesto sociale è solo un corpo, ma non un’ entità che ha in sé la vita, sarà solo un ingranaggio della comunità. Se non vi è libertà di azione, ma questa libertà è imposta da qualunque fattore come appunto il contesto sociale, non vi è vita. La soluzione sarebbe un rifiuto delle forme della vita sociale dei suoi istituti che essa impone, e il motore che dovrebbe muovere (ma che solo in rarissimi casi muove realmente) tale desiderio dovrebbe essere un bisogno disperato di autenticità, di immediatezza e di spontaneità vitale, una soluzione che la maggior parte delle persone non attua per mancanza di coraggio nel remare contro quelle che sono regole sociali imposte non si sa bene con quale criterio, ma che tutti tendono insensatamente a rispettare, probabilmente a causa del fatto che il “perché?”, che dovrebbe accendere questo motore, non viene neanche lontanamente pensato. Quello che dovrebbe essere il principio fondante (ma che ripeto solo in rarissimi casi lo è) è un carattere di fondo anarchico (non certo inteso nella violenta accezione moderna), insofferente dei legami della società, l’odio nei confronti delle convenzioni, le finzioni su cui la vita sociale si fonda, le maschere e le parti fittizie che essa impone.
Risulta più che palese, parlando anche (e soprattutto) relativamente al nostro mondo contemporaneo, che chiunque si palesi senza maschera o che addirittura utilizzi una maschera diversa o anche solo semitrasparente, viene inevitabilmente adocchiato in modo negativo dal resto della massa. Nella società odierna questo è mostrato in modo estremamente rilevante. Anche le caratteristiche più futili come l’abbigliamento, o il taglio di capelli ad esempio, fa divenire un soggetto immediatamente oggetto di critica, esclusivamente perché questi pochi fattori lo fanno uscire dalla maschera che accomuna la maggioranza degli individui presenti in quel momento, che immediatamente assumono tutti il medesimo costume di critici verso colui il quale presenta una maschera diversa. Nel momento in cui un soggetto poi decide di palesare il proprio fluire indistinto e quindi abbandona la maschera, dagli altri individui viene percepito immediatamente come indossatore di un altro travestimento (sebbene egli li abbia abbondantemente abbandonati tutti) che sarà inevitabilmente errato solo perché risulta essere differente o in minoranza rispetto al branco esaminatore.
Uno degli istituti in cui si manifesta questo tipo di trappola che separa l’uomo dall’immediatezza della vita può essere considerata la famiglia per il suo carattere opprimente, le tensioni segrete, gli odi, i rancori, le ipocrisie, e menzogne che si mescolano alla vita degli affetti viscerali ed oscuri. Contestualizzando il discorso ad un ambiente che risulta estremamente aderente ad una tesina possiamo riscontrare la trappola anche nell’ambiente scolastico, per i comportamenti che l’istituzione impone, per gli atteggiamenti che le autorità dirigenti e tutrici degli studenti pretendono dagli studenti stessi, per le condotte che gli alunni impongono ad altri compagni e a se stessi, regolando modi di fare, modi di dire, discorsi prodotti, modi di vestire e perfino modi di guardare gli altri individui con i quali essi si rapportano. E’ empiricamente manifestato che nel momento in cui un individuo (trattando ora l’argomento limitatamente all’ambito scolastico, ma che può essere esteso ad ogni contesto) agisce in un modo in cui nessuno della massa avrebbe mai agito, viene adocchiato con un atteggiamento di stupore, ammirazione, disapprovazione e qualunque altra emozione che non sia quella della più totale pacatezza e indifferenza di chi non si stupisce. Atteggiamenti che possono essere tranquillamente trascurati, ma che solo perché questi appaiono lievemente diversi e uscenti dalla maschera vengono sottolineati ed evidenziati in modo eccessivo. Un ambiente dove se uno zaino ha una molletta che ciondola da quest’ ultimo, allora tale zaino diverrà oggetto di commenti e critiche, quando una molletta non dovrebbe essere nel modo più assoluto motivo di stupore, altrimenti ogni stendino dovrebbe essere oggetto di estrema meraviglia o critica. Anche questo mio esempio sarà senza alcun dubbio oggetto di stupore e opposizione, poiché risulta uscente dalla maschera di studente modello trattare di stendini e mollette, sebbene tali oggetti siano contestualizzati ai fini di esemplificare le maschere pirandelliane, argomento che è prettamente aderente al programma. Ma tale relazione fra il mio esempio ed il programma svolto, non essendo così immediata, richiede un minimo di ragionamento, esperimento mentale che la massa, che mantiene la maschera delle regole sociali (e persiste nel vedermi con la maschera di studente che non deve trattare di determinati argomenti) non si da la pena di iniziare, poiché il discorso che è uscente dalla maschera scolastica, seppur mantenga un collegamento con essa, viene immediatamente identificato come negativo.
Tutto il discorso prodotto qualche riga sopra ha avuto come fine quindi il collegare la libertà di agire come il proprio Io impone (e non come detta la maschera sociale) come espressione massima di vita. La società in quanto tale è quindi condannabile perchè negazione del movimento vitale. Non si dovrebbe avere una verità oggettiva fissata a priori una volta per tutte, cosa che invece viene abbondantemente manifestata in modo critico nella produzione di Pirandello, come anche nella vita di tutti i giorni. Ognuno dovrebbe avere la sua verità che nasce dal suo modo oggettivo di vedere le cose. Tale fatto non viene assolutamente applicato, e da ciò derivano i comportamenti di universalità che componevano la società di Pirandello e che compongono la società odierna; avvenimenti che possono e che stanno diventando addirittura pericolosi, poiché se la massa deve assumere tutta la stessa maschera di valori accomunanti, avremo allora una società che ha come valori il bell’ aspetto estetico: una bella scorza che non è rilevante se non accoglie nulla al suo interno; o i valori di patria e famiglia i quali nessuno rispetta empiricamente ma che vengono manifestati a parole come principio fondante. Un intorbidimento dei valori che divengono fittizi, e di una degradazione progressiva della sincerità: se i valori di patria e famiglia per un individuo non sono fondanti non dovrebbero essere manifestati come tali, e sarebbe più onorevole mostrare la sincerità nel non averli come valori fondamentali, piuttosto che fingere che essi lo siano perché la maschera sociale lo impone; tralasciando infine il fatto che l’uniformità a senso unico non è mai produttiva.

Un evidentissima epifania di quella che fu una delle più grandi privazioni di libertà della storia, furono i lager della seconda guerra mondiale. Dei luoghi in cui la negazione di liberà e la privazione di individualità venne attuata all’estremo, luoghi in cui le persone vennero oggettivamente private della propria identità, facendo diventare il loro nome un codice numerico, uniformadole anche esteticamente come ad esempio con il taglio di capelli e l’imposizione di una divisa. Una negazione di identità, di libertà e quindi di vita non solo concettuale ma in questo caso anche fisica.
Andiamo ora ad esaminare il lager alcune delle sue angolazioni e in alcuni dei suoi funzionamenti. Il sistema dei lager venne inizialmente impiegato (1933) per confinare gli oppositori politici al nazismo (comunisti, socialdemocratici, obiettori di coscienza) allo scopo di "rieducarli". In seguito vennero usati per la detenzione e lo sterminio degli ebrei, e di altre categorie di indesiderati (zingari, omosessuali, apolidi ecc.) La parola "lager" in tedesco significa "magazzino". Dal punto di vista ideologico era quindi considerato un luogo (analogamente ai Glavnoye upravleniye lagerey, i gulag sovietici) in cui esercitare una stretta sorveglianza su un considerevole numero di individui (che le SS, cui spettava la gestione dei lager, chiamavano "pezzi" ) .
I lager più famigerati presenti sul territorio di Germania, Austria e Polonia (Governatorato Generale), furono quelli di Auschwitz, Buchenwald, Dachau, Mauthausen. In Italia funzionarono i campi di concentramento di, fra gli altri, Fossoli (frazione di Carpi), Borgo San Dalmazzo, Bolzano e la Risiera di San Sabba.
Come già affermato nei campi di concentramento venivano reclusi per motivazioni prive di senso delle persone che non avevano alcuna colpa se non avere determinate religioni, ideologie politiche, etnie e quant’altro il nazismo decidesse di bandire, in questi lager i prigionieri venivano, come noto, abitualmente sfruttati, torturati, massacrati e uccisi. Ma che senso può assumere il concetto di "assassinio" quando ci troviamo a dover parlare di una produzione in massa di cadaveri? Non bisogna dimenticare inoltre che un uomo può anche essere ucciso e distrutto nella persona, senza che debba necessariamente essere ucciso fisicamente: "la cosa veramente da comprendere è che l' "anima" può essere distrutta anche senza distruggere l'uomo fisico, che anima, carattere e individualità sembrano in certe circostanze, manifestarsi soltanto nella rapidità o lentezza con cui si disintegrano. Il risultato finale è in ogni caso costituito da uomini senz'anima, uomini che non possono più essere compresi psicologicamente, e il cui ritorno al mondo umano psicologicamente o altrimenti intelligibile somiglia da vicino alla resurrezione di Lazzaro".
Può ritenersi indicativo per tracciare il profilo di un lager anche il concetto di "Nacht und Nebel" (col favore della notte e della nebbia) sotto la cui denominazione i nazisti, con la precisione ed il rigore che li ha caratterizzati fino alla fine, erano soliti registrare le loro operazioni nei lager. La radicalità delle misure intese a trattare gli uomini come se non fossero mai esistiti, facendoli sparire nel senso letterale della parola, non è spesso avvertita a prima vista, perché il sistema nazista, come anche quello staliniano, non è uniforme, ma consiste di una serie di categorie in virtù delle quali le persone sono trattate in modo diverso.
Nel caso dei lager nello specifico, la separazione delle categorie era interna allo stesso campo, ma senza venire mai a contatto l'una con l'altra; spesso la separazione fra i prigionieri era più rigorosa dell'isolamento dal mondo esterno.
Il vero orrore dei campi di concentramento e sterminio sta nel fatto che gli internati, anche se per caso riescono a rimanere in vita, sono tagliati fuori dal mondo dei vivi più efficacemente che se fossero morti, perché il terrore impone l'oblio. Qui l'omicidio è impersonale quanto lo schiacciamento di una zanzara. Non ci sono, dunque, paralleli con la vita nei campi di concentramento. L'orrore che ne deriva non può mai essere pienamente percepito dall'immaginazione umana, perché rimane al di fuori della vita e della morte. Esso non può mai essere pienamente descritto, perché il superstite ritorna al mondo dei vivi che gli impedisce di credere completamente nelle sue esperienze passate. Chi uccide materialmente, poi, diventa solo parte dell'ingranaggio.
Le SS che imperavano nei lager, come i soldati del Battaglione 101, perdevano essi stessi la propria personalità per diventare meri meccanismi anonimi e anonimici di un ingranaggio enormemente più grande di loro. Da qui la paura, talvolta denunciata durante i processi, di disobbedire; da qui il "obbedivo agli ordini perché ne ero obbligato"; da qui il "se non l'avessi fatto io, l'avrebbe comunque fatto un altro e io sarei probabilmente morto insieme ai miei cari"; da qui, forse, l'impossibilità di vedere una piccola cosa lapalissiana: nessun meccanismo funziona senza che tutti gli ingranaggi funzionino alla perfezione. E, forse, non si può funzionare alla perfezione come ingranaggi, se non si vuole essere tali. Altra questione è poi il rapporto tra coscienza, responsabilità e colpa di fronte all'immagine dell'inferno nazista.
Un altro tema fondamentale è quello inerente la distruzione del soggetto di diritto che è nell'uomo. Questo è considerato il primo passo verso il dominio totale. Importanza fondamentale ha l'uccisione della personalità morale. Ciò era ottenuto impedendo, per la prima volta nella storia, il martirio. Betthelein lo dimostra chiedendosi "quante persone nel lager credono ancora che una protesta abbia importanza storica? Questo scetticismo è il vero capolavoro delle SS. La loro grande realizzazione. Esse hanno corrotto ogni solidarietà umana. Qui la notte è scesa sul futuro. Quando non rimangono testimoni, non ci può più essere testimonianza. Dimostrare quando la morte non può più essere rimandata è un tentativo di dare alla morte un senso, di agire oltre la propria morte. Per avere successo un gesto deve avere un significato sociale. Ci sono qui centinaia di migliaia di noi, tutti viventi in assoluta solitudine. Ecco perché siamo sottomessi, qualunque cosa accada".
Il mondo occidentale, anche nei suoi periodi più tenebrosi, aveva fino ad allora concesso al nemico ucciso il diritto al ricordo come evidente riconoscimento del fatto che tutti siamo uomini (e soltanto uomini). Rendendo anonima persino la morte (con l'impossibilità di accertare se un prigioniero era vivo o deceduto), i lager la spogliavano del suo significato di fine di una vita compiuta. In un certo senso, essi sottraevano all'individuo la sua morte, dimostrando che a partire da quel momento niente più gli apparteneva ed egli non apparteneva più a nessuno. La sua morte non faceva altro che suggellare il fatto che egli non era realmente mai esistito. A quest'attacco contro la personalità morale avrebbe ancora potuto opporsi la coscienza dell'uomo, che gli ricordava che era meglio morire da vittima piuttosto che vivere da burocrate dell'assassinio. Il terrore totalitario ottenne il suo più terribile trionfo, quando riuscì a precludere alla personalità morale la via d'uscita individualistica e a rendere le decisioni della coscienza assolutamente problematiche e ambigue.
Una volta uccisa la personalità morale, l'unica cosa che ancora impedisca agli uomini di diventare dei cadaveri umani è la differenziazione dell'individuo, la sua peculiare identità. I metodi usati per venire a capo dell'unicità della persona umana erano numerosi. Essi cominciavano con le mostruose condizioni del trasporto nei lager, durante il quale centinaia di esseri umani erano stipati in un carro bestiame, assetati e affamati, senza sapere dove venivano portati e quale sarebbe stata la loro fine; continuavano, dopo l'arrivo al campo, col ben organizzato shock delle prime ore, con la depilazione completa di ogni parte del corpo, con la grottesca divisa e finivano nelle inimmaginabili torture, calcolate in maniera tale da non uccidere il corpo, perlomeno non rapidamente.
Dopo l'uccisione della persona morale e l'annientamento della persona giuridica, la distruzione dell'individualità riesce quasi sempre. Presumibilmente si troverà qualche legge della psicologia di massa capace di spiegare perché milioni di uomini si lasciarono portare incolonnati senza resistere nelle camere a gas, anche se tale legge non spiegherà altro che l'annullamento dell'individualità.
“Il trionfo delle SS, scrive Rousset, esige che la vittima torturata si lasci condurre al capestro senza protestare... E non è per nulla. Non è gratuitamente, per puro sadismo, che le SS vogliono questa disfatta. Esse sanno che il sistema il quale riesce a distruggere la vittima prima che salga al patibolo... è incomparabilmente migliore per tenere tutto un popolo in schiavitù... Nulla è più terribile di queste processioni di persone che vanno alla morte come manichini. Chi le vede si dice: per essere ridotti così, quale potenza deve nascondersi nelle mani dei padroni. E volta la testa, pieno d'amarezza, ma sconfitto".
Un altro episodio cruciale riguardo la privazione di libertà nella storia la possiamo ritrovare nella vicenda di piazza Tiananmen.
Quando un gruppo di persone si riunisce per commemorare la morte di una persona da queste stimata e queste persone vengono punite per mezzo della violenza, gli viene impedito con la forza di manifestare quelli che sono i propri istinti e le proprie volontà; gli viene impedito di agire in modo libero, gli viene negata la possibilità di esprimere quella che è la loro persona e la loro identità, e nel momento stesso in cui ad una persona viene impedito di comunicare la propria identità e la propria individualità, quella che i cristiani sono soliti chiamare anima, questa persona diverrà automaticamente un corpo mobile e non un’entità pensante e quindi un groviglio cellulare privo di vita. Libertà è vita, se la libertà di commemorare un defunto viene eclissata, che sia con la violenza o con altri strumenti, sarà matematicamente negata a questi manifestanti la vita, o per meglio dire, la libertà di vivere (o sopravvivere), tralasciando poi il fatto che ad essi venne tolta oggettivamente la vita proprio perché cercavano di esprimere se stessi, avendo così la prova oggettiva della negazione di libertà corrispondente alla negazione della vita. Con protesta di piazza Tiananmen si intendono una serie di dimostrazioni guidate da studenti, intellettuali, operai nella Repubblica Popolare Cinese tra il 15 aprile ed il 4 giugno 1989. Simbolo della rivolta è considerato il rivoltoso sconosciuto che in totale solitudine e completamente disarmato affronta una colonna di carri armati: le fotografie che lo ritraggono sono popolari nel mondo intero e sono per molti un simbolo di lotta contro la tirannide.
L'evoluzione della protesta si può ripartire attraverso cinque episodi: il lutto, la sfida, la tregua, il confronto, il massacro. Il lutto avviene il 15 aprile 1989, Hu Yaobang morì per un arresto cardiaco. La protesta ebbe inizio in modo relativamente pacato, nascendo dal cordoglio nei confronti di Hu Yaobang, popolare tra i riformisti, e dalla richiesta al Partito di prendere una posizione ufficiale nei suoi confronti. La protesta divenne via via più intensa dopo le notizie dei primi scontri tra manifestanti e polizia. Gli studenti si convinsero allora che i mass media cinesi stessero distorcendo la natura delle loro azioni, che erano solamente volte a supportare la figura di Hu. Il 22 aprile, giorno dei funerali, gli studenti scesero in Piazza Tiananmen, nella città di Pechino, chiedendo di incontrare il Primo ministro Li Peng; la leadership comunista ed i media ufficiali ignorarono la protesta e per questo gli studenti proclamarono uno sciopero generale all'università di Pechino. All'interno del PCC Zhao Ziyang, Segretario generale del Partito, era favorevole ad un'opposizione moderata e non violenta nei confronti della manifestazione, riportando il dibattito suscitato dagli studenti in ambiti istituzionali. Favorevole alla linea dura era invece Li Peng, Primo ministro, che era convinto che i manifestanti fossero manipolati da potenze straniere. Egli, in particolare, approfittò dell'assenza di Zhao, che doveva recarsi in visita ufficiale in Corea del Nord, per diffondere le sue convinzioni. Si incontrò con Deng Xiaoping, che, nonostante si fosse ritirato da tutte le cariche più importanti (ma rimaneva Presidente della potente Commissione militare), restava un personaggio estremamente influente nella politica cinese; con lui, si accertò di avere una comunanza di vedute.
Il 26 aprile fu pubblicato sul “Quotidiano del Popolo” un editoriale a firma di Deng Xiaoping che accusava gli studenti di complottare contro lo stato e fomentare agitazioni di piazza. Questa dichiarazione fece infuriare gli studenti e il 27 aprile circa 50.000 studenti scesero nelle strade di Pechino, ignorando il pericolo di repressioni da parte delle autorità e richiedendo che si ritrattassero queste pesanti dichiarazioni; inoltre, i manifestanti avevano paura di essere puniti nel caso in cui la situazione fosse tornata alla normalità. Zhao, tornato dalla Corea del Nord tentò ancora di raffreddare gli animi. Il 4 maggio (data simbolica in quanto richiamava il Movimento del 4 maggio 1919) circa 100.000 persone marciarono nelle strade di Pechino, chiedendo più libertà nei media e un dialogo formale tra le autorità del partito e una rappresentanza eletta dagli studenti. A questo punto si instaurò una tregua, ma senza che gli studenti riuscissero a convincere la leadership del Partito ad instaurare un dialogo realmente costruttivo. In un primo momento la protesta sembrò sul punto di rifluire. In questo contesto si inserì la visita del Segretario del PCUS Mihail Gorbacev in Cina, prevista per la metà di maggio. Si trattava di un evento storico in quanto rappresentava la riconciliazione tra le due potenze dopo 19 anni di ostilità diplomatica. Il 13 maggio, duemila studenti decisero di insediarsi in Piazza Tiananmen e le loro richieste si radicalizzarono ulteriormente: non solo chiedevano una legittimazione, ma criticavano la corruzione del Partito ed il ritorno al conservatorismo da parte di Deng Xiaoping e chiedevano riforme politiche democratiche, innalzando Gorbacev a simbolo della riforma. Inoltre, alcuni di essi iniziarono uno sciopero della fame. In migliaia si unirono a questa protesta, supportata dagli stessi residenti di Pechino. I manifestanti innalzarono al centro della piazza un'enorme statua, alta 10 metri, chiamata Dea della Democrazia, in polistirolo e cartapesta. Da notare che tra i manifestanti erano presenti anche comunisti dissidenti che cantavano L'Internazionale (inno).Questo metteva i dirigenti cinesi di fronte ad un forte problema: veniva di fatto data una scadenza per risolvere la questione e si rischiava di creare dei martiri che avrebbero potuto destabilizzare ulteriormente il regime, senza contare la crescente simpatia di cui gli studenti erano oggetto tra la popolazione. I dirigenti del PCC però non riuscirono ancora a trovare una linea condivisa per rispondere alla protesta.
Durante la visita di Gorbacev, il 16 ed il 17 maggio, la mobilitazione continuò, portando in Piazza centinaia di migliaia di persone. La protesta si era ampliata anche fuori dalla città di Pechino, arrivando a coinvolgere oltre 300 città. Di fronte all'immobilismo dei massimi dirigenti, fu ancora Deng Xiaoping a prendere l'iniziativa, decidendo, assieme ad altri anziani del Partito, di dichiarare la legge marziale per dare un segnale ancora più forte agli studenti. Questo fatto è molto importante se si considera che la legge marziale, nella storia della Repubblica popolare cinese era stata proclamata una sola volta a Lhasa, capitale del Tibet, ed ora si trattava di dichiararla a Pechino, capitale dello stato. La notte del 19 maggio venne quindi convocato il Comitato permanente dell'Ufficio politico, organo comprendente i massimi dirigenti del PCC, al quale spettava l'imposizione della legge marziale: alcune fonti riferiscono che Zhao Ziyang fu il solo su cinque a votare contro, altre dicono che, non essendo stata trovata una maggioranza (2 a favore, 2 contro ed 1 astenuto), Deng la impose unilateralmente. Resta comunque il fatto che l'esercito, il giorno dopo, fu chiamato ad occupare la capitale. Zhao Ziyang tentò quindi una mossa disperata: all'alba del 20 maggio si presentò in Piazza Tiananmen e tentò di convincere gli studenti ad interrompere lo sciopero della fame e l'occupazione della piazza, promettendo che le loro ragioni sarebbero state ascoltate. Non fu ascoltato e l'episodio decretò anche la fine della sua carriera politica (pochi giorni dopo fu arrestato). Nemmeno la proclamazione pubblica della legge marziale convinse i manifestanti ad arrendersi. All'inizio l'esercito incontrò una forte resistenza da parte della popolazione e si astenne dal reagire con la forza. La situazione restò quindi paralizzata per 12 giorni. Anche in questo caso fu Deng a prendere la decisione finale: in quanto Presidente della Commissione militare, fece pervenire alle truppe l'ordine di usare la forza. La notte del 3 giugno l'esercito iniziò quindi a muoversi dalla periferia verso Piazza Tiananmen. Di fronte alla resistenza che incontrarono, aprirono il fuoco ed arrivarono in piazza. Nonostante non sia possibile una ricostruzione accurata dei fatti, fu un massacro. Ancora oggi le stime dei morti variano. Il governo cinese parlò inizialmente di 200 civili e 100 soldati morti, ma poi abbassò il numero di militari uccisi ad "alcune dozzine". La CIA stimò invece 400-800 vittime. La Croce Rossa riferì 2600 morti e 30.000 feriti. Le testimonianze di stranieri affermarono invece che 3000 persone vennero uccise. La stessa cifra fu data da un sito inglese di Pechino. Le stime più alte parlarono di 7.000-12.000 morti. Organizzazioni non governative come Amnesty International hanno denunciato che, ai morti per l'intervento, vanno aggiunti i giustiziati per "ribellione", "incendio di veicoli militari", ferimento o uccisione di soldati e reati simili. Amnesty International ha stimato che il loro numero è superiore a 400. Nei giorni seguenti si mise in atto una feroce caccia ai restanti contestatori, che furono imprigionati o esiliati. Il governo, inoltre, limitò l'accesso da parte dei media internazionali, dando la possibilità di coprire l'evento alla sola stampa cinese. Il 9 giugno Deng si assunse la responsabilità dell'intervento e condannò il movimento studentesco come un tentativo controrivoluzionario di rovesciare la Repubblica popolare cinese. Per legittimare la repressione, la propaganda ufficiale sostenne che i manifestanti avevano attaccato l'esercito, il quale, a costo di pesanti sacrifici, era comunque riuscito a salvare il socialismo. A livello internazionale, la repressione di Piazza Tiananmen provocò la ferma condanna da parte di numerosi Paesi occidentali, che portò anche all'imposizione di un embargo sulla vendita di armi alla Cina. Oggi il clima si è rappacificato e la Cina è stata riaccolta dagli altri paesi nella politica globale, ma gli eventi di Piazza Tiananmen sono ancora un argomento sensibile per il governo comunista cinese, che non fornisce versioni ufficiali dell'accaduto ed esercita forme di censura riguardo gli avvenimenti in questione.

L’azione attuata nei lager e del PCC e di Deng Xiaoping corrisponde esattamente a ciò che fin dall’antichità venne abbondantemente condannato da vari autori primi fra i quali Seneca, Tacito e Plinio il Giovane: la tirannide e la privazione di libertas che da questa automaticamente deriva, esattamente come avvenuto nel 1989.
Per quanto concerne Seneca questo discorso viene trattato in una delle sue maggiori opere: il “De Clementia”. Questo scritto è un trattato filosofico- politico in cui Seneca esalta la monarchia illuminata, tale argomentazione fu una delle principali ragioni che permise allo scritto di riscuotere un notevole successo.
Nel trattato l’autore si rivolge a Nerone, e lo invita a compiacersi di se stesso poiché, nonostante egli disponesse di un potere illimitato, egli seppe gestirlo ed esercitarlo in modo parco, mite, e saggio, dimostrando così di avere le qualità del reggitore perfetto, prime fra le quali la clemenza e la libertas, ovvero la moderazione e l’indulgenza nell’infliggere le pene, e la libertà di azione.
La clemenza e la libertà contraddistinguono il sovrano e il re giusto rispetto al tiranno, e procurano a chi governa un affetto riconoscente, che garantirà la stabilità dello stato molto di più di quanto non possa fare l’ordine mantenuto con la forza, essendo questo un ordine non spontaneo ma che anzi ribolle all’interno di ribellione dallo stato di sottomissione, mentre l’ordine garantito dall’amore dei sudditi risulta essere spontaneo e quindi molto più caro a tutti e stabile.
Utilizzando questo come punto di partenza il filosofo cerca di motivare la realtà positiva del principato, trovando un buon punto d’attracco nella dottrina stoica che segnava la monarchia come la migliore forma di governo a condizione che il sovrano fosse sapiente, poiché manteneva l’ordine nello stato con la clausola che egli dovesse saper gestire questo enorme potere, mantenendo sì l’ordine, ma facendo in modo che fossero i cittadini a volerlo mantenere per amore nei suoi confronti.
L’opera si risolve così in un elogio all’imperatore Nerone proiettando sulla sua figura un modello ideale, attribuendogli comportamenti esemplari che devono essere osservati da colui che aspira ad essere un optimus princeps.
Il tema dell’ abolizione della tirannide a favore di un principato gestito con le dovute cautele viene abbondantemente trattato anche da Tacito, tanto che il discorso fra i due autori risulta essere parallelamente aderente. Tale argomento viene trattato ne “L’Agricola”, e quindi in un’ opera nata non certo come un trattato di politica ma che mostra senza dubbio importanti caratteristiche dell’ideologia politica tacitiana in accordo con quella di Seneca.
“L’Agricola” è il primo scritto di Tacito intitolato in lingua originale De vita Iuli Agricolae, ed è principalmente una biografia encomiastica del suocero di Tacito, sebbene, come vedremo fra poco, i temi divaghino e spazino nell’ ambito politico.
Dopo aver dedicato un’ampia prefazione al suocero, stesa per giustificare lo scritto ed elogiare il suo amato parente, Tacito si dedica ad una notevole e ampia digressione politica: condanna il governo di Domiziano (che non è mai tuttavia nominato esplicitamente) poiché soppresse la libertas mettendo al bando i filosofi, eseguì un controllo poliziesco sulle persone e sulle loro parole, e ogni attività culturale veniva completamente occultata, avvenimenti che ricordano da vicino l’accaduto tanto lontano di piazza Tiananmen, dove come già detto vennero messe a tacere degli individui che semplicemente commemoravano un defunto e che, come nel periodo di Domiziano, non erano rei di alcun crimine. Con la morte del tiranno Domiziano e l’avvento del nuovo governo di Nerva si tornò finalmente a respirare, poiché Nerva seppe unire in modo ottimale principato e libertà divenendo così l’optimus princeps. L’omaggio reso a Nerva si estende anche al suo successore Traiano che come il suo predecessore seppe avere le stesse qualità. Per esaminare meglio la figura di Traiano come optimus princeps dobbiamo però ricorrere alla figura di Plinio il Giovane che di questa figura ne fece il fulcro fondante di tutta la sua produzione.
L’optimus princeps viene descritto da Plinio il Giovane nel “Panegirico”: è uno scritto di letteratura encomiastica che negli anni a seguire fu preso come modello di questo genere di opere. Il fine di Plinio è quello di rendere onore ai grandissimi meriti di Traiano, sia per indicare ai successori di questa figura quale fosse la linea di condotta da seguire, seguendo l’esempio di colui che potè guadagnarsi l’accezione di optimus princeps , sia per delineare semplicemente la figura del sovrano perfetto che ritiene si sia incarnato nel principe del quale ora tesse le lodi. Sono esaltate di Traiano le sue qualità di comandante militare, la sua generosità, affabilità e modestia. Una lode molto ampia del principe viene tessuta quando abolisce la pena di lesa maestà, dando forte prova di concessione di libertas dal momento in cui dava la possibilità a chiunque di presentare le proprie remore e i propri disagi sia direttamente al sovrano, che riguardo al sovrano stesso. Il principe viene lodato anche per il rispetto dimostrato nei confronti delle magistrature per il consolato ed il senato, sottolineando così la perfetta armonia che egli riuscì a creare fra principe e senatori, creando uno clima di serena convivenza collaborativa fra la figura dello stato democratico e la figura del sovrano monarchico che si distingue ormai in larga scala dal tiranno. In accordo così con Tacito sviluppa il confronto con Domiziano che odiava coloro che erano stimati e amati dal senato, odiando anche il senato stesso. Incoraggia così la politica fiolosenatoria di Traiano poiché la collaborazione è il miglior modo di ottenere un bene che interessa entrambe le parti collaboranti al fine ultimo: il benessere del popolo.
Plinio riconosce così all’imperatore, tutta la sua figura e tutto il diritto di esercitare in toto tutte le facoltà che ad un imperatore spettano, compresa quella del potere assoluto, poiché egli concedendo la libertas si guadagna il diritto di godere dei benefici che la sua carica gli dona, la libertas viene infatti vista come un dono gratuito della grande generosità, arrivando perfino a dire che se non vi è la libertà il sovrano ha tutto il diritto, con i poteri che egli detiene, di imporre addirittura ai sudditi di essere liberi, una libertà che, se necessario deve essere sottoposta alla guida ed alla tutela del principe e di costringere, quasi paradossalmente il popolo alla libertà. Impossibile qua non notare il confronto con il “De clementia” poiché Plinio non propone come fa Seneca un programma politico, ma si limita ad approvare semplicemente l’azione di Traiano, i tre autori toccati in questo discorso comunque, concordano tutti quanti sul fatto che, per un ottimo governo, sia ampiamente necessaria la libertà.

Il fatto quindi che la libertà coincida con la vita, venne già individuato fin dall’antichità se si ricorre perfino all’imposizione della libertas, in un controsenso paradossale, ma che ha una base solida e sensata. La motivazione del perché i sudditi non abbiano la libertà, che sia perché questa gli viene tolta o che sia perché essi non sono in grado di esercitarla senza una concessione poco importa, se un sovrano è un buon sovrano avrà interesse a non negare la vita ai suoi sudditi, e quindi concederà loro tutta la libertà che ad essi spetta. I cittadini dell’antica Roma come i cittadini del mondo moderno devono essere liberi di agire perché, secondo il concetto che ha permesso la costruzione di questa tesina: un individuo può essere definito tale, solo ed esclusivamente quando il suo essere persona può essere manifestato e apprezzato da terzi e da se stesso, essendo libero di agire nel modo che ad esso è più congeniale e quindi essendo libero di vivere, o meglio di sopravvivere, come esso ritiene più giusto per se stesso. In caso contrario una persona non potrà disporre di tale definizione, e non potrà tantomeno ricoprire tale funzione. Per questa ragione ad esempio le carceri, che privano della libertà una persona, vengono utilizzate come un’efficace strumento di punizione: chi entra in carcere durante la detenzione per il mondo smette di esistere come entità agente, e quindi di vivere.



Matteo Capra
Libertà e vita, libertà è vita.

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