v. 11. Come nei vv.5-7, anche qui la cattiveria di questi malvagi si dimostra ancora con paragoni desunti dall’Antico Testamento. Sono sempre gli esempi di punizioni dell’Antico Testamento che devono avvisare i malvagi e mettere in guardia da loro la Chiesa. Perché saranno guai per quelli che commettono tali errori. Ma i punti di paragone tra i malvagi di allora e quelli di adesso non riusciamo a stabilirli facilmente e sicuramente. Gli eretici hanno imboccato la via di Caino e ora la percorrono. In Gen 4,12-16 si parla ripetutamente della via di Caino, dicendo che egli era senza pace e inquieto. Secondo Filone (Post.C. 38-39.42; Migr.Abr. 75) Caino è guida e maestro degli uomini che si ribellano a Dio, si abbandonano ai sensi e ai piaceri e sono destinati alla rovina eterna. Per Flavio Giuseppe (Ant. 1,52 ss.) Caino è completamente empio, rapace e violento ed è istigatore agli stravizi, alla rapina e ad ogni malizia. In Eb 11,4 Caino è il rappresentante dell’incredulità. I libertini della Chiesa primitiva (Ireneo, Haer. 1,31; Epifanio Haer. 38,1,1-3) si denominavano cainiti proprio perché riassumevano in sé tutta la degradazione di Caino. Quindi per la lettera di Giuda gli eretici che hanno percorso la via di Caino sono empi e avidi come lui. Nell’Antico Testamento la storia di Balaam è tramandata in varie forme. Secondo Nm 22-24; Gs 24,9-10, Mi 6,5 egli benedice Israele, seguendo l’ordine di Dio. Ma secondo Nm 31,16, per suggerimento di Balaam le donne madianite indussero gli Israeliti alla fornicazione e a passare da Jahvè a Baal Fegor. Perciò in una spedizione di vendetta contro Madian, Balaam venne ucciso (Nm 31,8). La lettera di Giuda si aggancia a questa seconda tradizione secondo cui Balaam diventa il prototipo dell’avido, del bestemmiatore e del seduttore. Il Nuovo Testamento riprende questa tradizione in Ap 2,14 ove si dice che come Balaam era colpevole del culto idolatrico e della libidine di Israele, così i Nicolaiti corrompono la Chiesa di Pergamo. Gli eretici della lettera di Giuda sono caduti vittime della seduzione di Balaam. Gli eretici vengono proprio accusati di libidine e di bestemmia, quindi dei peccati di Balaam. E fanno tutto questo "per guadagno", per avidità, come viene loro rimproverato anche nel v.16. Il Nuovo Testamento è costretto a mettere ripetutamente in guardia dal predicare per cupidigia (1Pt 5,2; 1 Tm 3,3) e ai falsi maestri rimprovera spesso l’avidità di guadagno (2Cor 12,14-18; 2Tm 3,6; Tt 1,11).
La colpa di Core fu, secondo Nm 16, di contraddire e di ribellarsi a Mosè e al sacerdozio di Aronne. Egli e i suoi seguaci furono annientati dalla punizione di Dio. Della medesima colpa si macchiano gli eretici, perché si oppongono ai capi della comunità, turbano e disturbano l’ordine e la pace. La loro sorte è già decisa. Essi sono caduti nella rovina. Già ora, per la Chiesa, sono dei perduti, e ciò verrà confermato nel giudizio. In definitiva essi vanno alla morte sulla via di Caino, incorrono nell’errore di Balaam e si rovinano nella disobbedienza di Core.
v. 12. In questo verso gli eretici vengono qualificati con affermazioni ricavate dalla natura o formate da espressioni proverbiali. Gli eretici partecipano alle riunioni della Chiesa, alle agàpi. Qui agàpe significa il pasto preso in comunione, che nel primo secolo era insieme ripetizione della Cena del Signore e pasto normale. Nel secondo secolo la ripetizione della Cena del Signore venne separata dal pasto normale. In questi pasti gli eretici libertini sono chiamati spilàdes, termine che viene tradotto ora con "scogli" ora con "macchie di sporco".
Come Paolo in 1Cor 11,17-24 deve biasimare abusi nella celebrazione della Cena del Signore, così Giuda rimprovera la profanazione del pasto comunitario da parte degli eretici. Essi, nonostante la loro eresia, sono ancora collegati alla comunità cristiana, e si riempiono la pancia senza vergognarsi neanche un po’.
Gli eretici assomigliano a nubi senz’acqua sospinte dal vento. L’immagine illustra la vuotezza degli avversari, privi di contenuto e di vita cristiana. Essi sono alberi senza frutto nella stagione dei frutti che è l’autunno; sono senza frutti e senza foglie: due volte morti. Perché sono detti "due volte morti"? Forse perché prima di diventare cristiani erano morti e con la fede e il battesimo avevano avuto la vita e poi di nuovo sono ricaduti nella morte. Oppure l’espressione si deve spiegare con l’immagine della duplice morte, che talvolta è usata nell’Apocalisse (2,11; 20,6.14; 21,8). La morte fisica diventa morte definitiva in seguito al giudizio di Dio. Come tutti gli uomini, i malvagi sono destinati alla morte naturale, ma anche alla seconda morte che è già la dannazione eterna, della quale essi sono già preda, perché per loro il giudizio divino di condanna è certo (v. 11; apòlonto, sono già caduti in rovina). Gli eretici non portano alcun frutto e non ne possono portare perché sono come alberi "sradicati", ossia divelti dal terreno fertile della Chiesa. Essi si sono distaccati dalla comunità e perciò sono diventati infecondi. Il Nuovo Testamento usa ripetutamente le immagini dell’albero fruttuoso e infruttuoso (Mt 3,10; 7,19; 15,13; ecc.)
v. 13. Le onde del mare agitato gettano ogni immondizia sulla spiaggia. Così gli eretici vomitano spudoratamente le loro azioni vergognose. Per quanto riguarda il paragone degli "astri vaganti ai quali è riservato il buio delle tenebre in eterno" troviamo un rimando agli ambiti mitologici. Henoch (Haen. aeth. 18-21; 90,21-24) vede nel suo viaggio celeste quegli angeli, che, secondo Gen 6,1-4 si unirono con le figlie degli uomini, vagare come sette stelle che hanno abbandonato la loro orbita e perciò vennero rinchiusi in un tenebroso abisso, legati fino al giorno dell’ultimo giudizio. L’immagine, applicata agli eretici, significa che essi sono luci illusorie, che hanno abbandonato l’ordine e che per loro è già destinata una orribile punizione. Simile è il paragone in Teofilo di Antiochia (Ad Autolico 2,15,47,49): "Gli astri che vagano e fuggono da un luogo all’altro, i cosiddetti pianeti, sono un’immagine degli uomini che rinnegano Dio e hanno abbandonato la sua legge e i suoi precetti".
vv. 14-15. La minaccia di punizione viene documentata con una frase di Henoch. Questa citazione coincide strettamente con Haen. Aeth. 1,9, benché la citazione non corrisponda del tutto letteralmente né al testo etiopico né a quello greco. Nell’elenco delle generazioni di Gen 5,3-18 e di Cr 1,1-3 Henoch è menzionato come il settimo dopo Adamo, e così lo computano anche il libro di Henoch (60,8; 93,3) e i testi rabbinici. Il sette è anche numero sacro e segno della grazia di Dio. Henoch è il giusto perfetto e il prediletto di Dio, perciò la sua parola è ancora più valida. Giuda introduce la citazione dal libro di Henoch con la formula: "Ecco viene il Signore". Nel termine "Signore" il cristiano poteva scorgere il Cristo, la cui venuta, accompagnata dagli angeli, era attesa con speranza (Mt 25,31).
I commentatori antichi e moderni si sono scandalizzati del fatto che la lettera di Giuda citi un libro giudaico apocrifo. Come tutta la sua epoca, anche la lettera di Giuda tiene in alta stima quel libro e crede che esso derivi veramente dal patriarca Henoch, anche se da esso traspaiono tali concezioni del mondo angelico e del giudizio e riflessioni etiche così progredite, che per contenuto e forma non si può far risalire all’epoca di Henoch.
v. 16. Gli eretici sono presentati come giudicatori di Dio, mormoratori verso di lui e increduli. Inoltre si lamentano della propria sorte, facendone responsabile Dio stesso. Giuda richiama nuovamente la vita "secondo le loro voglie" degli gnostici eretici e a ciò aggiunge anche i loro sacrileghi peccati di parola: "La loro bocca dice cose esagerate". Teodozione dice la stessa cosa dei discorsi blasfemi di Antioco Epifane in Dn 11,36 (lalèsei upèronka, pronunciava parole orgogliose). Dopo le precedenti imputazioni di bestemmia contro Dio (vv.4.8.10) e accanto alla designazione degli eretici come giudicatori di Dio e mormoratori contro di lui, anche questi discorsi smodati s’intenderanno non come autoesaltazione presuntuosa, ma come discorsi contro Dio. Il v.16 chiude con una accusa grave nei confronti di questi eretici: "Lusingano le persone per amore di lucro". A conclusione del brano possiamo dire: questi eretici sono scontenti della loro sorte, si lamentano e vivono secondo le loro voglie. 3
I doveri dei credenti
(vv. 17-23)
17Ma voi, o carissimi, ricordatevi delle cose che furono predette dagli apostoli del Signore nostro Gesù Cristo. 18Essi vi dicevano: «Alla fine dei tempi vi saranno impostori, che si comporteranno secondo le loro empie passioni». 19Tali sono quelli che provocano divisioni, gente materiale, privi dello Spirito.
Ora la lettera si rivolge ai lettori cristiani: "Ma voi, carissimi..." e li esorta ai doveri che ad essi si impongono nel pericolo che la Chiesa sta correndo. E intanto si ricordano ancora gli eretici, che vengono nuovamente descritti.
v. 17. I lettori non devono meravigliarsi che nella Chiesa ci siano eresie ed eretici. E si ricorda che gli apostoli parlarono in anticipo di tali fenomeni nella Chiesa. Non sono quindi sviluppi inaspettati che possono far dubitare della Chiesa.
v. 18. Qui l’autore riproduce il Kerigma apostolico in genere senza citare una scrittura particolare. Questa dottrina apostolica si può trovare riprodotta nel Nuovo Testamento (At 20,29-30; 1Tm 4, -3; 2Tm 3,1-5; 4,3). Questa predicazione degli apostoli risale fino alle parole del Signore (Mc 13,22; Mt 24,24).
Gli schernitori sono il contrario dei devoti, sono gli empi in genere. Nel sostantivo empàiktai confluisce il contenuto del verbo empàizein (schernire) che si trova nella predizione della passione (Mc 10,34) e nella sua descrizione (Lc 23,36; Mc 15,20-31). Esso indica il comportamento violento dei peccatori nei confronti del Cristo. Qui accusa i malvagi di assecondare beffardamente le loro voglie.
v. 19. Gli eretici sono coloro che ritenendo di avere l’esclusiva dello Spirito, affermano che gli altri sono psichici e in questo modo creano divisioni nella comunità.
Il Nuovo Testamento deve mettere in guardia spesso dalle scissioni nella Chiesa (1Cor 1,11; Gal 5,20; 1Tm 4,1) Qualcuno vorrebbe che l’interpretazione di apodiorìzontes (= persone che fanno distinzioni, che danno definizioni) partisse dal significato filosofico della parola secondo Aristotele (Pol. 4,4,13): essi sono dei dialettici che con le loro discussioni annullano la fede. La lettera afferma che sono loro, gli eretici, che sono psichici e non hanno lo Spirito.
La distinzione tra psichici e pneumatici è familiare al Nuovo Testamento a partire da Paolo. Lo psichico è colui che conosce e vive soltanto la vita naturale ed è incapace di capire la realtà di Dio (1Cor 2,13-15; 15,44-46). La mancanza dello Spirito non è una carenza di doti naturali, ma soprannaturali. Gli eretici non possiedono lo Spirito perché esso è stato concesso alla Chiesa (v. 20).
v. 20. All’eresia che distrugge l’unità si oppone la Chiesa unita nella fede. Con un’immagine assai diffusa nel Nuovo Testamento la Chiesa è descritta come casa di Dio (1Pt 2,5). Il Nuovo Testamento dice che Dio sovracostruisce la Chiesa (Ef 2,20; Col 2,7) oppure che sono gli apostoli e i ministri a costruirla (1Cor 3,10). Giuda dice che i fedeli stessi si costruiscono come Chiesa.
Te pìstei (con la fede o sulla fede) può indicare il mezzo con cui si fa la costruzione o la base su cui essa si fonda. Questa fede è detta santissima perché proviene da Dio come sua rivelazione e si mantiene sempre separata ed estranea al mondo. La fede, essendo il compendio della dottrina e della vita, è il bene supremo della Chiesa. Essa si esprime nella preghiera. Lo Spirito è l’interiorità della fede, la quale si esprime nella preghiera. La preghiera nello Spirito Santo è un profondo insegnamento della teologia paolina (Rm 8,15-26; 1Cor 12,3; Gal 4,6; Ef 6,18) che qui viene ripresa dalla lettera di Giuda.
v. 21. L’amore di Dio è inteso nel senso di Dio che ama l’uomo. Ciò tuttavia non esclude ma addirittura sollecita la risposta dell’amore dell’uomo. L’esortazione all’attesa è in prospettiva escatologica. Il ritorno di Cristo è designato come misericordia perché anche il giusto ha la consapevolezza che non potrebbe sopportare un giudizio di giustizia, ma aspetta con fiducia un giudizio di perdono e di misericordia. Solo la misericordia di Dio introduce nella vita eterna.
Mentre nell’Antico Testamento il giudizio è riservato a Dio, nel Nuovo Testamento è designato come giudice Gesù Cristo (Mt 25,31-46; 26,64). Anche nella lettera di Giuda v.21 Cristo è presentato come giudice, il che è ovvio per il Kerigma apostolico (2Cor 5,10). Questa è una delle molte prove che la dignità divina di Cristo viene espressa sempre più chiara e sicura nella fede e nell’insegnamento della Chiesa.
Il credente deve rimanere nell’amore che Dio ha dimostrato all’uomo. Da questo derivano come singoli atti la fedeltà nella fede, la preghiera nello Spirito e la speranza escatologica. Solo per l’azione di Dio è resa possibile l’azione dell’uomo.
vv. 22-23. All’esortazione rivolta ai fedeli si collegano le istruzioni sul comportamento da tenere di fronte agli sviati. La precisa comprensione di questi versetti è resa più difficile dall’incertezza della tradizione testuale. Essa presenta due forme: una più breve, a due membri, e una più lunga, a tre membri. Il testo più breve è stilisticamente difettoso, il testo più lungo è più facile e scorrevole.
Secondo il principio che il testo più difficile è il più originario, seguiamo il più breve e il più difficile.
Questo distingue due categorie di persone, una pericolante di cui ci si deve ancora occupare, e una già perduta con cui non si possono più avere legami. Quelli che appartengono al primo gruppo sono coloro che dubitano, quindi quelli che non si sono ancora allontanati del tutto dalla Chiesa e non hanno ancora scelto la separazione definitiva. Essi devono essere trattati con misericordia e strappati dal fuoco al quale sono votati. L’altro gruppo, quello degli eretici, è rovinato in misura assai peggiore, ma la misericordia della Chiesa deve estendersi anche a loro. Però una comunione con loro non è più possibile, perché la misericordia deve andare congiunta al timore di essere contaminati e contagiati. I credenti non devono assolutamente avere alcun rapporto con i rinnegati, neppure col contatto esterno dell’abito. Infatti la cattiveria intima ha insozzato anche gli indumenti (la stessa immagine si ha in Ap 3,4). Nella separazione degli erranti dalla comunità si applica al caso dell’eresia la regola fondamentale valida per i peccatori impenitenti (Mt 18,15-17). La stessa cosa avviene in 2Ts 3,14-15; 1Cor 5,5; 1Tm 1,20; Tt 3,10-11). Ma come si può usare misericordia a coloro coi quali i credenti non possono aver alcun contatto? Non rimane che la preghiera di intercessione.
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Conclusione: Dossologia
(vv. 24-25)
24A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e nella letizia, 25all’unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e sempre. Amen!
La lettera si conclude con un’ampia dossologia. La solennità dello stile liturgico si distingue dalla polemica violenta dei vv. precedenti.
v. 24. L’inizio della dossologia si richiama alla potenza di Dio. Viene magnificata la potenza di Dio, perché è tanto grande da poter esaudire il desiderio della preghiera che segue. Ma poiché soltanto Dio può procurare la salvezza escatologica richiesta nella preghiera, al presente Dio proteggerà i credenti da ogni inciampo e poi, dopo questo tempo, farà loro contemplare la sua gloria. Qui nel senso genuinamente biblico, doxa significa la gloria di Dio come equivalente della sua essenza, che Dio manifesterà ai beati in cielo (1Ts 3,13; 1Pt 1,8-9). Àmomos, senza difetti, indica la irreprensibilità religioso-morale dei credenti. Agallìasis significa la gioia cultuale ed escatologica, la gioia del cielo che è presentata come celebrazione cultuale (Sal 50,8.12; 125,2.5-6; Is 12,6; 25,9; 1Pt 4,13; Ap 19,7).
v. 25. L’unicità di Dio è lodata anche in Rm 16,27 e 1Tm 1,17. Dio è lodato come salvatore. Nel Nuovo Testamento Dio è salvatore perché salva tutti gli uomini e li conduce dall’eterna perdizione alla salvezza eterna. A quest’unico Dio nella dossologia sono attribuiti quattro predicati, dòxa, megalosùne, kràtos, exousìa. La dòxa è la gloria di Dio, la sua essenza. La megalosùne è la sublimità e la maestà che si predicano solo di Dio. Kràtos indica la forza superiore di Dio, a cui apparterrà anche la vittoria finale. Exousìa indica il potere di agire. Dio possiede i predicati della potenza in ogni tempo passato, presente e futuro.
"Per mezzo di Gesù Cristo Signore nostro". Dio realizza la redenzione per mezzo di Gesù Cristo. Infatti il Nuovo Testamento ripete spesso che Cristo fa da mediatore nelle opere di Dio: nella creazione del mondo (Gv 1,3; 1Cor 8,6; Col 1,16), nella rivelazione salvifica e nella riconciliazione (Gv 1,17; 3,17; At 10,36; 2Cor 5, 18; Col 1,20), nel giudizio (Rm 2,16) e nel compimento della salvezza (Rm 5,9; 1Cor 15,57). La dossologia viene conclusa con amèn che nell’Antico e nel Nuovo Testamento compare spesso come acclamazione alla dossologia.