La stagione della fioritura -di Dueanime-

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Caleidos
00sabato 11 novembre 2006 13:55
***


“Stamatina un vecchio mi a desiderata cogli occhi, lo visto. Ma io mi sono inamorata del suo amico, e del suo soriso dolce senza denti.”
Rilesse quello che aveva scritto, respirando forte per la fatica di quelle poche righe. Non era facile calmare il tremore della mano, che si muoveva a scatti e stringeva convulsa la penna.
Chiuse il suo quadernino, si alzò lentamente dalla sedia e raggiunse il letto. Avevano cambiato le lenzuola, le sentì tese sotto i polpastrelli e fu contenta.
Si aggiustò i cuscini dietro la schiena, diede un’occhiata alla sua stanza tutta bianca e poi accomodò gli occhi sul vetro.
Era il suo modo per uscire all’aperto, nel parco rugginoso di foglie, nei vialetti di ghiaia quasi deserti, nella panchina di fronte alla fontana. Le erano sempre piaciuti gli alberi, il verde, l’erba che nascondeva i passi.
Laura che passava come una scossa elettrica per le vie del centro.

Laura era bella, cosi bella da far innamorare mezzo paese. Quando rideva era uno sgranarsi di labbra e denti, e guizzi d’occhi che sapevano come guardare. La figura esile e bionda, così bionda nella luce del mattino, faceva voltare gli uomini e gli scioglieva la lingua.
A teatro invece non facevano commenti, ma gli sguardi li riconosceva bene, e li accoglieva con gioia. Sua madre faceva la sarta per quelli del teatro, spesso le regalavano i biglietti per gli spettacoli, e Laura non mancava mai. Finiva le serate nei camerini, perché era la figlia della sarta e perché nessuno osava dirle di no. Fu così che conobbe attori, registi, cantanti d’opera, e molti se la portarono a letto. Laura credeva che l’amassero, credeva che l’amore fosse quello, quel bisbigliarle addosso e quell’urgenza che le premeva sul ventre. Anche se poi, dopo che quelle lenzuola estranee si placavano, si sentiva di colpo sola, e aveva freddo. Ce ne fu uno che le regalò un anello da vera regina, e che l’avrebbe anche sposata, glielo disse mentre le strizzava i seni tra le mani, con la voce che arrancava per l’eccitazione.
Ma Laura aveva un amore speciale che le sfiniva i lombi, e non poteva sposare altri che lui. Lo incontrava prima che venisse notte al cimitero degli ebrei, su nella città vecchia. C’erano alcune case disabitate e sbrecciate dalla guerra, non si poteva entrare perché straripavano di detriti e topi, ma offrivano un appoggio, e talvolta un riparo.
Guardò molti tramonti con la schiena incollata ai muri di mattoni, Matteo abbarbicato alle sue cosce, negli occhi il fogliame incolto cresciuto rigoglioso intorno alle lapidi, e i fiori dei capperi selvatici. Nei giorni in cui l’aria era più calda e il fiato si faceva corto, Matteo piantava fiori nelle asole della sua camicia, finché lei non lo prendeva per mano, e allora scivolavano lungo i muri, dietro le case.
Laura si riempiva le tasche di quei fiori, ci tuffava dentro le mani, si lasciava accarezzare le dita dai petali, mentre il cuore era gonfio di domande e si affrettava per le scale del cortile.
Suo padre la guardava di traverso spiandone ogni gesto, qualche volta anche lui l’aveva toccata, ma adesso Laura non glielo permetteva più.
Da qualche settimana voleva essere bianca e rosa come i suoi fiori, ed aprirsi tutta solo per Matteo. Lui non la spogliava come facevano gli altri uomini, senza mai rivestirla di niente. Lui la portava negli occhi anche dopo, quando la salutava con un ultimo bacio. Laura se lo immaginava così, tornare nella sua bottega di carbonaio, ché era lì che viveva, portandola negli occhi, il petto affannato come il suo.
Una sera che pioveva forte e i suoi fiori si stavano sciupando tutti sotto la pioggia, entrarono in una delle case scavalcando cumuli di macerie, e Matteo la cercò febbrile sotto i vestiti.
Sentendolo tremare Laura pensò che meritavano un posto migliore, per amarsi, e glielo disse. Gli disse anche che voleva un giardino, e che ci avrebbe piantato i capperi selvatici, e che avrebbe voluto vederli dalla finestra della loro camera da letto.
Matteo l’ascoltava e si schiacciava tutto contro la parete, guardandola senza dire niente. Quando lei smise di parlare, le fece una carezza e abbassò gli occhi, per poi perdersi di nuovo nei suoi fianchi. Ma Laura sentì freddo, ed ebbe paura.
Quella notte suo padre la toccò di nuovo, mentre Laura pensava a Matteo, la bocca di Matteo, le mani di Matteo, Matteo che l’avrebbe salvata da quella famiglia nata così storta.
La nonna di Laura era morta nel suo letto soffocata, nessuno seppe mai come, dopo aver consumato gli anni dentro la sua pazzia, ed uno dei suoi figli si era tolto la vita sparandosi con un fucile all’altezza dei polmoni. Anche il fratello di Laura, molto più grande di lei, aveva fatto una brutta fine gettandosi sotto un treno, e la sorella più piccola giocava ad infilarsi nei loculi vuoti del cimitero, e parlava coi morti. A questo pensava Laura mentre suo padre la teneva per i capelli e la spingeva giù, e pensava che anche lei aveva nella sua bellezza come un germe di spavento e di malaria, che le fiorì negli occhi senza scampo il giorno che Matteo la lasciò.
Lei piangeva e piangeva aggrappata alle sue ginocchia, lo implorava di salvarla, e che sarebbe andata da suo padre e l’avrebbe ucciso.
Matteo cercava di divincolarsi, ripetendole che era pazza, finché le strappò le mani con forza dal suo corpo e scappò nei campi.
Laura rimase a lungo accasciata sul suo dolore a strappare erba, e decine e decine di fiori.
Mentre tornava a casa la sua bella schiena lunga s’incurvò sotto la luce incerta della luna, e non si raddrizzò mai più. Suo padre l’aspettava sulla soglia carico d’ira, perché era già buio da tempo, ma quando la vide non osò dire niente, le parole gli foderarono la gola e rimasero lì.
Laura aveva gli occhi cerchiati e gonfi, e dentro agli occhi non c’era nessuno.
Pochi giorni dopo suo padre morì cadendo dalle scale che conducevano in cantina. Qualcuno del paese disse che l’avevano spinto.
In quell’occasione Laura uscì con il suo vecchio sorriso, e con la testa piena di nuove idee. Andavano così veloci, le sue idee, che lei se le guardava sfilare dentro divertita, tentando debolmente di arrestarne qualcuna. Parlavano di Matteo, comunque, tutte. Dicevano che ora sarebbe andato tutto a posto, che suo padre non c’era più, e che Matteo era libero. Che non doveva più fuggire, che non doveva nemmeno preoccuparsi della casa. Sarebbero andati a stare con sua madre, che non faceva più la sarta per via della vista, ma che gli avrebbe voluto bene, a Matteo.
Arrivò di corsa alla sua bottega che le sembrava quasi di morire, e rimase a guardare la porta per ore, dall’altra parte della strada. Aveva ancora la testa piena di parole, ma le perse tutte quando vide entrare una donna che non usciva mai.
Laura si avvicinò fino a schiacciare la faccia contro la vetrata, la polvere le pizzicava la gola. Vide, nella penombra in fondo alla stanza, la donna appoggiata al muro (era un muro di mattoni, profumato dai fiori selvatici) e Matteo la guardava e le teneva le spalle, e poi le sfiorava il collo ed il seno (le piantava i fiori nelle asole, dai petali le usciva un veleno), ed era vicino, tanto vicino a quella donna da metterle le parole in bocca (te lo ricordi com’era dolce il suo fiato, dopo l’amore, dietro le case?)
Laura si staccò dal vetro e aveva mille anni, tornò dall’altra parte della strada, rimase lì finché non fece buio, finché non li vide uscire insieme, allontanarsi in un abbraccio che le allargò una crepa dritta dritta dalla bocca all’ombelico.
Laura passò la notte a disegnare fiori.
Li disegnò sui muri della sua stanza, sulle tende, sulle lenzuola, sulle ante dell’armadio, sulle guance delle sue bambole, e per tutto il pavimento.
Disegnò fiori sui suoi seni, i capezzoli come boccioli, fiori lungo le braccia, fiori a riempirle il ventre e sotto le piante dei piedi. Erano fiori rosa e bianchi, ma anche fiori scuri, con una bocca spalancata e nera in mezzo ai petali. Disegnò fiori insanguinati di rosso che le gocciolavano giù dalle gambe.
Poi si perse definitivamente e non fece più ritorno.
A volte le passano negli occhi rari lampi di memoria, mentre lascia penzolare dal letto le gambe gonfie e il labbro, si dondola con il suo quadernino in braccio e comincia ad impastare parole.
I medici non sanno se Laura dica la verità, quando farfuglia di tutta quella gente famosa del teatro o della sua bellezza fuori dal normale, e Laura lo sente, che non le credono. Allora si alza dal letto con il suo sedere enorme, pesta i piedi, tira pugni alle pareti. E mentre grida le cola la saliva dal mento, sente i medici che l’afferrano per le braccia, e gridano pure loro, ché la loro gentilezza dura sempre troppo poco.
La portano di peso davanti allo specchio, hanno scoperto che lo specchio le piace.
Dentro lo specchio c’è una donna che la guarda, il seno grosso appoggiato sulla pancia, i capelli grigi stanchi sulle spalle e una trama di rughe fitte fitte.
La donna ha le mani sporche d’inchiostro colorato, dipinte tutte di strani disegni.
Sembrerebbero fiori.
Allora Laura le guarda le mani, tira dentro la saliva e le sorride.



Barbara
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