La scure e la croce

Bertavianus
00venerdì 14 maggio 2010 00:51
Il sogno di Re Valdemaro era la rapida unificazione dei paesi scandinavi, ma i suoi primi atti di governo parevano andare in tutt’altra direzione: congedò la maggior parte dei guerrieri a suo servizio e, salvo l’immediato allestimento di un laboratorio per la produzione di baliste nella zona delle future operazioni, dedicò tutto il tesoro del regno a migliorie agrarie e cittadine.
Patrocinò l’avvio di un commercio di imbarcazioni, e grazie ai buoni uffici di un paio di emissari, si fece alleati l’Impero, l’Aragona ed il Papato, oltre ad avviare scambi commerciali con vari altri regni.
Al principe Canuto V, vero scapolo d’oro del reame, impose il celibato - ma non l’astinenza - sino a che non si fosse presentata l’occasione per un buon matrimonio dinastico: pria che tale evento giungesse a maturazione il suo erede designato fu però coinvolto in ben altre avventure.

Nell’anno del Signore 1163 il Santo Padre indisse una crociata contro Urfa, ed il principe fu tra i primi ad aderirvi. L’anno successivo la sua armata investì i pagani di Oslo, che vennero decimati a distanza da tre compagnie di balestrieri mercenari prima di giungere al corpo a corpo . La mischia fu comunque durissima, e gli costò perdite prossime al 50% degli effettivi, anche perché in quelle terre ancor largamente dedite ad antichi culti l’appello pontificio era rimasto quasi inascoltato.
Conquistata Oslo i crociati di Danimarca si avviarono verso il castello di Skara ma, a quel punto, la crociata ebbe termine con la vittoria portoghese.
Valdemaro e Canuto furon concordi nel ritenere che questa seconda spedizione doveva essere portata a compimento, benché le forze ora disponibili non fossero in grado di espugnare le mura del castello; questo nemico lo si sarebbe preso per fame, a costo di affamare il regno intero nel tentativo.
L’assedio di Skara durò quattro anni, e terminò con una breve scaramuccia contro i patetici rimasugli di una guarnigione denutrita che tentava in extremis la sortita.
Questa impresa aveva creato uno spaventoso deficit ne tesoro del regno, ma il problema venne superato prima del previsto anche grazie ad inaspettati donativi della nobiltà e del pontefice.
Altri risparmi vennero realizzati congedando gran parte dei veterani dell’assedio, ma di tal decisione ci si dovette pentire pochi mesi dopo, quando il pontefice chiamò i cristiani alle armi contro Il Cairo.

L’occasione era propizia per una fulminea marcia contro Uppsala, obiettivo che avea a un dipresso le medesime caratteristiche e difese di Oslo; purtroppo ora mancavano quei balestrieri che lì si eran rivelati sì preziosi.
Per ovviare a tale carenza Canuto raddoppiò le baliste e mobilitò un buon contingente di cavalleria leggera, con cui sperava di far strage dei tiratori nemici in ripiegamento verso il centro cittadino.
La soluzione funzionò, ma solo per intercessione di Santa Cunegonda; i combattimenti furono talmente aspri che al termine della giornata dovette conquistare la piazza sostenendo personalmente la carica degli artiglieri senza munizioni impiegati come fanti; le unità di lancieri e cavalleggeri si erano dissolte, e anche gli ultimi arcieri ormai sostenevano una lotta a coltello.

Dopo cotanta sanguinosa vittoria, il principe si ritirò per qualche tempo a Skara, ove fu raggiunto dalla promessa sposa Alice Capetingio; la diplomazia danese ottenne ulteriori successi alleandosi con i crociati, ed estorcendo informazioni geografiche da Siriani e Fatimidi in cambio di una tregua.
Nell’anno 1180, mentre la crociata in Egitto ancora si trascinava senza esito, Canuto si imbarcò con una nuova armata e fece vela per Visby; forte delle esperienze precedenti, sottomise l’isola senza altra difficoltà che la diserzione di pochi facinorosi scontenti della rotta prescelta.
Da qui fece ritorno a Roskilde, senza più interessarsi alla crociata, che fu vinta dai magiari nell‘anno del Signore .1185; il medesimo anno in cui Roskilde divenne una possente cittadella, che poi sarebbe stata dotata di torri con baliste e di una gilda degli spadai.
Pochi anni dopo, in quella stessa cittadella Canuto sarebbe stato incoronato re.

Avendo realizzato il sogno di Valdemaro, Canuto V volle ora realizzare quello suo e de’ suoi avi: ignorando la richiesta di una spedizione contro Abo, iniziò a pianificarne una nelle isole britanniche.
La prima mossa fu lo sbarco di una spia che, posizionatasi nelle higlands, iniziò ad inviare dispacci sulla dislocazione delle truppe scozzasi; stando a questi messaggi, pareva possibile una assalto simultaneo alle località ora note come Invertesi ed Edimbuirgo.
Canuto, ormai tale di nome e di fatto, non prevedeva di prender parte alla spedizione, che venne meticolosamente preparata ed in effetti prese il mare poco dopo le sue esequie.

Il piano prevedeva un corpo di invasione imbarcato su una flottiglia di navi lunghe che si sarebbero separate in vista della costa nemica, onde investire all’unisono le due località, ma non resse alla prova dei fatti; gli scozzesi dovevano aver avuto qualche sentore di quanto si stava preparando, e si dispiegarono in modo tale da rendere altamente sconsigliabile una dispersione delle forze. Una rapida ricognizione sulla costa acclarò anche l’indisponibilità di mercenari, su cui si era fatto conto.
Si scelse di concentrare l’assalto sul castello, ove il re risiedeva in beata solitudine, malgrado appena fuori le mura stazionasse un’armata numericamente superiore.
Questo esercito lo si poteva battere in velocità, e cosi si fece; il tiro ravvicinato dell’artiglieria a fune mandò in frantumi il cancello quasi nello stesso momento in cui i fanti lo raggiungevano, poi lancieri e cavalleggeri si avventarono sulla guardia di Malcom mentre gli arcieri si affrettavano sugli spalti.
L’esecuzione tattica fu sin troppo perfetta, perché i rinforzi scozzesi si immobilizzarono sulla cresta di una collina evitando di farsi massacrare per una causa già persa.
Alla presa di Inverness seguì una breve tregua imposta dal Santo Padre - il primo papa danese - durante la quale il castello fu trasformato in fortezza; gli higlanders si disposero in agguato per intercettare eventuali spedizioni contro la capitale, ma poi si fecero sorprendere da un secondo attacco via mare.
Il nuovo secolo vide i danesi saldamente attestati nel territorio storico del regno di scozia, ed i suoi vecchi padroni ammassati a York e nei boschi circostanti; il concilio avrebbe voluto la presa anche di questa città, ma la situazione militare ed un ulteriore veto pontificio consigliavano altrimenti.



Keirosophos
00venerdì 14 maggio 2010 14:19
Bel racconto!
Jean de Avallon
00venerdì 14 maggio 2010 18:25
"Chi si ferma è perduto..........."

Prendi questo detto sul serio !!!

A parte le battute complimenti, io aspetto BC 6 [SM=x1140523]
Thor86
00venerdì 14 maggio 2010 18:46


VIULENZAAAAAAA! [SM=x1140490]
Bertavianus
00venerdì 14 maggio 2010 23:24
Vi ringrazio per l’incoraggiamento, anche sotto forma di velata minaccia, e proseguo nel racconto.

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La vittoriosa campagna di Scozia fu gravida di conseguenze.
L’Impero e la Francia stracciarono i trattati di alleanza e passarono in blocco al fronte nemico; gli Inglesi, al contrario, furono ben lieti di allearsi alla Danimarca.
Lo sforzo militare profuso in quelle lande impedì qualsiasi partecipazione, pur simbolica, ad una crociata per la liberazione di Gerusalemme, che fu vinta rapidamente dagli ex alleati imperiali.
Nel 1203, mentre veniva incoronato Thorgils, tanto gli scozzesi quanto gli imperiali si fecero scomunicare per sciocche azioni navali in violazione della tregua di Dio; Lars Soerensen, conte di Inverness, sorrise soddisfatto ed iniziò i preparativi per l’assalto a York.
L’occasione gli si presentò circa un anno dopo, quando il nemico allontanò le sue armate principali per impegnarle in scaramucce con gli inglesi e nell’assedio al castello indipendente di Bangor. Forse gli scozzesi contavano addirittura di prenderlo in trappola perché, se il suo esercito avesse raggiunto la città marciando di conserva con le artiglierie, si sarebbe fermato esausto in vista delle mura dando loro modo di stritolarlo fra forze soverchianti.
Evidentemente gli higlanders non conoscevano la manovra della marcia scaglionata, mediante la quale una piccola avanguardia che inizi le opere d’assedio consente l’assalto immediato al grosso che la raggiunge subito dopo.
La battaglia che ne seguì non fu, comunque, la facile raccolta delle rape che Lars si attendeva. Iniziò tutto per il meglio, con gli scozzesi incapaci di contenere gli assalitori che, dopo averli decimati con pioggia di dardi e frecce, iniziarono a sciamare attraverso due brecce; poi tutto sembrò andar storto, quando gli spadieri e razziatori cui era stata affidata una manovra di aggiramento per vie traverse furono spazzati via dalla cavalleria del principe sbucata da un vicolo; finì come ad Uppsala, con una vittoria strappata in punta di pugnale da tiratori di ogni tipo.

Con la scomparsa degli scozzesi la Danimarca perse momentaneamente interesse al teatro britannico, ove gli alleati inglesi dovevano vedersela con grosse bande di guerrieri sbandati datisi al brigantaggio, e frotte di inquisitori che tentavano di stroncar sul nascere la loro chiesa riformata.
Per qualche tempo Re Thorgils potè dedicarsi esclusivamente all’amministrazione civile del regno, e compiacersi della brillante carriera di un suo buon amico cardinale, che assunse al soglio pontificio assumendo il nome di Papa Guido; era il secondo danese consecutivo ad ottenere tale onore, grazie al voto determinante dei confratelli del lontano regno amico di Gerusalemme.
A minare questa tranquillità fu la scoperta di un grosso assembramento di truppe imperiali, abilmente nascosto appena oltre i confini storici del regno; nessuno si sarebbe accorto di loro, se una spia in viaggio verso il meridione non fosse casualmente capitata fra i suoi bivacchi ben mimetizzati.
Lo Jutland sarebbe stato indifendibile, quando quella moltitudine si fosse messa in marcia; solo la relativa distanza del nascondiglio, e la stessa scelta di rimaner celati, davano motivo di speranza.
Essendo parimenti impossibile resistere o attaccare, venne escogitata l’operazione che passò alla storia come

La beffa di Bremen
Mentre gli imperiali nascosti venivano mantenuti sotto osservazione, una ulteriore spia acclarò che la grande città alle loro spalle era rimasta sguarnita.
Nel porto di York vennero frettolosamente allestite un paio di navi lunghe che, dopo aver imbarcato tutta l’artiglieria e le truppe non necessarie in Britannia, fecero vela in quella direzione allo scopo di attaccare le vulnerabili retrovie del nemico.
La spedizione rischiò seriamente di fallire perchè avvistata in alto mare da naviglio ostile, ed allora si pensò di eludere la sorveglianza della marina germanica con un’esca irresistibile; una singola imbarcazione, con a bordo il nobile Helsten Magnussen, si staccò dal porto di Roskilde per porre sotto il blocco il vicino porto nemico. Quella nave fu immediatamente circondata dall’intera flotta tedesca del baltico, attratta dalla prospettiva di prender due piccioni con una fava. Il convoglio partito da York riuscì a sbarcare indisturbato il suo contingente, di cui lo stesso Magnussen prese il comando dopo aver lasciato la sua imbarcazione prima del disastro. La cattura di Bremen fu tranquilla passeggiata. La nave di Magnussen scampò miracolosamente al disastro, e riuscì a riparare a Visby con un equipaggio a stento sufficiente per governarla.
La forza d’attacco dell’impero tentò di divenire forza di riconquista ma, avvedendosi che Magnussen stava per ricevere rinforzi via terra e via mare, rinunciò all’assedio e si dileguò nell’entroterra.


Bertavianus
00sabato 15 maggio 2010 11:39
Utrecht non era meglio difesa di Bremen, e venne espugnata improvvisando all’istante una ulteriore operazione anfibia ispirata alle antiche tradizioni vichinghe; la spedizione ebbe pieno successo, anche se il pessimo rancio di bordo compromise la salute del nobile Yngwir Moesgard.
A questo punto ricomparve una delle armate imperiali avvistate in precedenza, e si comprese che il confronto diretto non poteva essere ulteriormente rinviato.

I Danesi erano divenuti maestri nell’assalto a posizioni fortificate, ma non avevano alcuna esperienza in fatto di scontri campali; il concetto stesso di dar battaglia per il possesso di un campo di stoppie era estraneo alla loro mentalità di conquistatori e saccheggiatori.
In ogni caso, nella primavera del 1211, un’ampia radura situata al centro del triangolo compreso fra le città di Utrecht, Bremen e Koln fu teatro del loro esordio in questo nuovo genere di combattimento.
L’armata messa in campo da Anund il bastardo era piuttosto raccogliticcia, soprattutto quanto a fanteria; questa schierava una accozzaglia di razziatori e lancieri leggeri nazionali, pochi cavalieri appiedati e lancieri mercenari, e persino una masnada di pellegrini.
Fra i tiratori prevalevano i balestrieri mercenari, e solo il nutrito contingente di cavalleggeri equipaggiati dagli spadai di Roskilde dava sicuro affidamento; l’artiglieria era stata volutamente esclusa dalla formazione, onde conservarla integra per impieghi più appropriati.
L’esercito imperiale appariva più numeroso ed omogeneo; era men dotato quanto a cavalli, e portava seco alcune catapulte.
Il luogo non offriva vantaggi posizionali, salvo il riparo di qualche rada macchia d’alberi, e fu subito scontro frontale; le ali di cavalleria danese prevalsero presto sulle loro controparti, per poi eliminare il generale nemico, gli artiglieri e tutti i tiratori; al centro però la fanteria, cui null’altro si era chiesto se non resistere a piè fermo, fu letteralmente fatta a pezzi dalla carica teutonica.
Si rasentò il disastro ma non fu così; privi di ogni guida e sostegno, tormentati dal tiro intermittente di quei balestrieri ed arcieri che eludevano le loro lame, gli irriducibili guerrieri germanici iniziarono lentamente a disertare il campo; pochi vi riuscirono, perché la guardia di Anund e gli altri uomini a cavallo diedero impietosa caccia ai gruppetti in ritirata.
Questa vittoria, oltre ad eliminare una minaccia durata sin troppo a lungo, sgombrò la strada che menava a Koln; la città fu presa d’impeto circa un anno dopo, senza lasciarsi intimidire dalla concentrazione di truppe al suo interno; si era scoperto che una buona metà di quelle compagnie erano di artiglieri e, come previsto, il loro contributo alla difesa fu praticamente nullo.

Più o meno negli stessi giorni che videro la presa di Colonia, il buon Papa Guido convenne con Re Thorgils che l’occupazione di Gerusalemme da parte di scomunicati era ancor più intollerabile di quella mussulmana. Fu così che i cattolici furono chiamati alle armi per liberare la città santa da quelli che la avevano liberata pochi anni prima.
E’ probabile che il Santo Padre avesse intuito che, more solito, i suoi compatrioti avrebbero interpretato la crociata a modo loro, ma se anche fu così non lo diede a vedere.
Il primo a prendere la croce fu Anund, ora duca di Westfalia, che mosse sulla fortezza di Staufen ove travolse la debole guarigione imperiale e l’Imperatore stesso.
I frutti del saccheggio consentirono di completare i ranghi di una seconda armata, guidata da Snorri Trymson, che espugnò la fortezza di Magdeburg.
Lasciato un buon presidio in ciascuna di queste rocche, nel giro di poche settimane il grosso delle truppe crociate e l’intero parco di artiglieria delle due armate si radunava presso Wurzburg sotto le insegne di Snorri. L’assalto a detta fortezza era stato lasciato per ultimo in quanto, essendo meglio guarnita, si paventavano perdite consistenti; in realtà tutto si risolse con una breve mischia al primo cancello, e la resa della guarnigione appena cadde il signore della rocca.
I successi di questa prima stagione erano andati oltre le più rosee aspettative, ma la crociata antiteutonica non terminò qui; entro il 1215 l’armata di Snorri - che nel frattempo era andato a reclamare il titolo di Duca di Westfalia - riuscì ad espugnare anche Regensburg e Salzburg.
L’anno successivo i Portoghesi liberarono Gerusalemme.

Il popolo danese non seppe apprezzare questi sfolgoranti successi militari: il prestigio della corona crollò miseramente a picco, e per placare il malcontento si dovette erigere prima una sede pel consiglio poi una per l’assemblea. Venne persino reclamata l’istituzione di un parlamento ma, fortunatamente, siffatta demagogica istanza fu presto ritirata.

Giunse notizia che un popolo nomade si era insediato da qualche parte, ma la cosa interessò poco.
In barba a qualsiasi problema collaterale, ora la sovranità danese si estendeva su diciotto regioni. L’impero era stato smembrato in due miseri tronconi, il castello di Thun ad occidente, Vienna e Praga ad oriente; una quisquilia che si poteva liquidare con tutto comodo.
Stante la tradizionale neutralità polacca, l’alleanza con gli inglesi, e la presenza di solide fortificazioni quasi dappertutto, si poteva guardare al futuro con giustificato ottimismo.
Undercasted
00domenica 16 maggio 2010 23:49
Asso piglia tutto. Il raich in ginocchio! Feci quasi lo stesso combattendo contro Ferrara in Spicciolati. In un solo turno la piegai completamente grazie ai punti di movimento deti dalla crociata.
Bertavianus
00martedì 18 maggio 2010 00:21
@ Undercasted

I crociati dotati di artiglieria sono praticamente inarrestabili, se scelgono bene i loro obiettivi. Però ci sono serie controindicazioni quanto a calo di prestigio, se si insiste troppo a lungo. Non so bene se la cosa dipenda dalla rapida espansione territoriale, o da una certa disapprovazione per questi metodi. Di seguito un altro esempio.
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Poco dopo questi fatti il Signore chiamò a sé sia Thorgils che Guido, e la corona danese fu posta sul capo di Dan.
Ebbe inizio il decennio più pacifico che si possa ricordare, e la cronaca dettagliata di tal periodo potrebbe interessare solo gli studiosi di urbanistica o di scienze economiche. In quei giorni la prosperità del regno principiò a rivaleggiare con quella di Bisanzio.
Ci fu qualche segnale di riarmo nei territori germanici orientali, cui fu infine annesso il castello indipendente di Olomoc; ma niuno che avesse senno si preoccupava di simili inezie, né delle apparenti mire espansionistiche di russi e tedeschi in danno della Polonia.
Nel corso del 1225 un papa Aragonese indisse una nuova crociata contro Gerusalemme, che adesso andava liberata dai portoghesi scomunicati che occupavano i luoghi santi.
Il regno di Danimarca, ancora una volta, vi partecipò a modo suo.
Dalla capitale scese sul continente un esercito inizialmente modesto che, una volta giunto nella regione di Salisburgo per aggregare un corpo di artiglieria, dovette essere scisso in due armate.
Nella stagione successiva la spedizione travolse Vienna prima e Praga poi, ingaggiò due battaglie campali con eserciti imperiali numerosi ma scadenti, e infine occupò Olomoc; a quel punto, visto che i suoi sudditi iniziavano a mostrare segni di insofferenza, Re Dan preferì che i capi della crociata rinunciassero all’impresa per assumere la signoria sulle città appena conquistate.
Questa decisione non andava interpretata nel senso di una rinuncia a chiudere definitivamente i conti con un Impero ora limitato alla sola Helvetia, ma come precisa scelta di risolvere la questione senza utilizzare metodi che parevano scandalizzare i vassalli più zelanti.
Il problema non era della massima urgenza, per cui passò poco meno di un altro decennio prima che gli eredi delle tradizioni vichinghe si impegnassero seriamente per giungere alla sua soluzione finale.

Sul finire del 1234 Inge l’Iracondo, Margravio di Brandeburgo, era in procinto di iniziare le operazioni quando l’armata di Andrea di Svevia gli contese il passaggio sul ponte di confine presso Staufen.
Lo svevo era un generale esperto, ed disponeva di ottime fanterie e numerosi arcieri con le frecce incendiarie già incoccate, ma Inge aveva due assi nella manica; buoni balestrieri e tre catapulte.
Mandò avanti i balestrieri, e l’avversario tentò di ricacciarli indietro con una carica di cavalleria; gli riuscì solo parzialmente perché la cavalleria danese, nascosta in un boschetto, effettuò subito una efficace controcarica, per poi ritirarsi nuovamente fra gli alberi. I germanici, forse paventando il suo ritorno, si ammassarono troppo vicino alla riva, e le loro fila furono devastate sia dai dardi che dai proiettili incendiari dell’artiglieria; questo diluvio trascinò con sé il generale e tutta la sua guardia, oltre ad alcune baliste che tentavano di mettersi in posizione; quando, esauriti i proietti, s’avanzò la fanteria danese, il destino dei pochi ancora in piedi fu segnato.
Inge tenne per oltre un anno e mezzo la posizione conquistata, onde ricostituire il suo corpo di balestrieri e ricevere ulteriori rinforzi; Thun poteva anche essere un modesto castello, ma era zeppo di truppe fino a scoppiarne.
Quando attaccò lo fece con una armata di trenta compagnie, utilizzando le catapulte per aprire due brecce vicine quanto più possibile alla piazza d’armi; per la prima passò il contingente di rinforzo, che ebbe l’onore di travolgere l’erede al trono; dalla seconda passò il grosso, seminando il panico fra quanti ancora tentavano di turare la falla. Man mano che i difensori indietreggiavano anche i balestrieri entravano all’interno, per poi salire sui bastioni e bersagliarli dall’alto. L’ultimo tappo fu sturato dalla cavalleria che, una volta entrata, aggirò la mischia e caricò dalla strada che parte dal cancello.

La battaglia di Thun era stata indispensabile per annientare un odiato rivale, ma il castello in sé non interessava punto; allargava i confini senza rafforzarli, e non più tardi di tre anni dopo fu ceduto ai Capetingi per favorire le nozze fra il principe Jesper e la bella Perronette.
Bertavianus
00venerdì 21 maggio 2010 22:00
Nell’anno del Signore 1238 i veneziani attaccarono la cittadella di Salisburgo; furono respinti senza difficoltà, ma solo perché la piazza fino allora sguarnita era riuscita a mobilitarsi in extremis. A sventare la sorpresa del nemico fu l’allarme lanciato dal parroco di un paese di montagna; dopo tale episodio si provvide ad erigere una torre di sorveglianza sul passo del Brennero.
Poco tempo prima era salito al pontificato il danese Adso, e per fedeltà al trattato di alleanza con il Patrimonio di San Pietro ne erano stati stracciati altri, fra cui quello con gli inglesi.
Si comprese che era giunto il momento per completare onorevolmente la conquista delle isole britanniche, ed iniziò l’allestimento di una spedizione che avrebbe annoverato tre compagnie di artiglieri, altrettante di bipennieri e di balestrieri del Brandeburgo, oltre a due di picchieri fiamminghi e due di zwei hander; a questi si sarebbero aggregate truppe reclutate in Scozia e nello Yorkshire, dove la spedizione approdò sul finire del 1242.
Le gesta di quegli uomini si sovrapposero a quelle in assai più remoto teatro, che converrà narrare partitamente.

La crociata per Gerusalemme.
Giunta notizia che la Città Santa era caduta in mano ai fatimidi, Papa Adso esortò motu proprio ogni buon cristiano alla sua liberazione. Assorbiti nei preparativi della campagna britannica, i danesi furono dapprima tentati di disertare l’appello poi, considerando che l’impresa non avrebbe interferito coi loro piani, concessero al signore senza terra di Thun di parteciparvi.
L’esercito che varcò i Dardanelli disponeva di buone artiglierie e balestre ma, disdegnando l’apporto di fanatici e pellegrini, non era nemmeno riuscito a completare i ranghi.
Giunto nei paraggi di Adana, venne coinvolto in un confronto fra Turchi e Gerosolimitani.
Le forze alleate avevano il vantaggio del numero, ma il luogo non poteva esser peggio scelto. I mussulmani occupavano la sommità di una collina, e l’attacco dei cristiani imponeva di risalirne gli opposti versanti. I danesi stavano ancora entrando in campo che già una gruppo di cavalleggeri nemici si avventava sulle schiere indifese dei tiratori; solo il tempestivo intervento dei cavalieri crociati ed alani impedì che la situazione volgesse subito al disastro. Dopo questo attacco isolato riuscirono ad assumere una formazione coerente ed iniziarono a risalire la collina, ma l’esercito alleato già dava segni di cedimento; incapace di contenere la carica dall’alto, si sarebbe disgregato rapidamente. L’occupazione incontrastata della vetta offrì alle balestre ed ai pezzi danesi una eccellente posizione di tiro, e fu questo a salvare la giornata; i selgiuchidi prevalsero sulla loro fanteria, ma finirono per scoraggiarsi sotto una pioggia di proietti che non potevano restituire.
Decimati dalla vittoria, i crociati danesi dovettero compiere una lunga deviazione in quanto il ponte di Adana risultava intransitabile.
Strada facendo si unirono a loro alcuni crociati a piedi ed a cavallo, e l’armata giunse sotto le mura di Gerusalemme nel maggio del 1245: Una sortita dei fatimidi contro i Gerosolimitani li coinvolse nuovamente in una battaglia che avrebbero preferito, se non evitare, differire di qualche mese. Anche questa volta gli alleati andarono in rotta, e furono loro a salvare la giornata. Lo fecero così bene che la città capitolò immediatamente, ma l’ambito premio fu reclamato da quegli inetti che avevano combattuto al loro fianco.
In cerca di miglior fortuna, si incamminarono verso Damietta, ma la fortuna non camminò con loro; caddero in una imboscata, e furono trucidati quasi tutti.
Il signore di Thun finì per rifugiarsi in un fortino abbandonato nei paraggi di Kerak.


Il completo controllo sulle isole britanniche era un antico sogno che, malgrado il distacco degli inglesi dalla vera Chiesa, mai si volle ammantare con impropri significati religiosi; questa scelta, per altri versi felicissima, avrebbe dilatato i tempi della campagna.
Nottingham e Londra vennero presto prese in punta di picca, e due scontri campali liquidarono gli eserciti inviati alla loro riconquista; questo sforzo logorò alquanto l’esercito di invasione, sicché le operazioni furono necessariamente sospese per qualche tempo.
Nel corso del 1247 vennero espugnate prima Winchester e poi Exeter, previa infiltrazione di abili spie in grado di assicurare che le porte restassero aperte. Lo stesso metodo sarebbe stato utilizzato cinque anni dopo per la cattura del castello di Bangor, operazione lungamente rinviata perché fu prima necessario ingaggiare e distruggere un paio di eserciti - forti per numero, ma scarsi per qualità - che gli inglesi avevano sbarcato in Galles dal mare d’Irlanda.
Il porto gallese sarebbe stato il punto di partenza della spedizione che, con metodi più tradizionali, avrebbe poi assoggettato l’Irlanda tutta nel giro di un anno; le mura di Bangor avrebbero pietosamente accolto le spoglie della principessa Julia di Eversham, morta di crepacuore nell’apprendere la notizia della caduta di Corcaigh.

L’epilogo della questione Britannica si sovrappose all’inizio delle ostilità con i Francesi.
Questi alleati malfidati, dopo aver sguinzagliato un gran numero di assassini cui si era dovuto dare la caccia, avevano stracciato il trattato in seguito alla morte di un paio dei loro nobili minori, ed al fallito attentato nei confronti del signore di Rheims.
Nell’anno del Signore 1255 il conte d’Olanda mosse contro Gand, con un esercito mobilitato alla vigilia della conclusione di una crociata su Urfa e subito sciolto dall’impegno; l’avversario, che aveva poco da opporgli, perse Gand, Rheims e Parigi prima che fosse terminato l’anno seguente.
Catturando la capitale nemica si fu ad un passo dall’incamerarne tutto il regno, perché il suocero di Re Jesper cadde a sua difesa, ma la residua nobiltà di Francia preferì eleggersi un reggente; ad ogni modo, ora la corona Danese governava su trentuno regioni, primeggiando sul mondo intero.

Non volendo rinunciare alle proprie aspirazioni dinastiche, Re Jesper ordinò subito ai propri sicari di eliminare il reggente usurpatore, ma quello era un tipo sospettoso e sfuggì ad ogni attentato; più tardi sarebbe sfuggito persino alla peste, che colpì Letmoges dopo l’arrivo di un untore.
L’unica cosa che non fu tentata fu l’opzione militare perché, pria che partisse la spedizione già in programma, i francesi accettarono di farsi vassalli; aderirono ad una richiesta formulata giusto per provocarli, ed a quel punto non si potè far altro che accettare un atto di sottomissione che - almeno nominalmente - poneva sotto signoria danese altre dieci regioni.
Questi vassalli turbolenti avrebbero presto compromesso le buone relazioni con molti regni, ma la pacificazione delle frontiere occidentali consentì di intraprendere nuovi progetti.

Nel corso del 1261 l’armata inizialmente allestita per l’incursione su Letmoges investì la fortezza di Thun, caduta in mano ai Milanesi. Due anni dopo fu preso anche il castello di Lugano, e lì terminarono le operazioni perché si scoprì una situazione inattesa: Lombardia e Piemonte erano state occupate dai vassalli, mentre i Milanesi erano emigrati a Lione ed a Clairmont.
Cessò il lavoro delle armi, e riprese vigore quello di zappe e cazzuole.


Keirosophos
00sabato 22 maggio 2010 15:50
Bellissima cronaca!
Bertavianus
00mercoledì 26 maggio 2010 14:09
Grazie. La proseguo, anche perchè il download della 6.0 risulta proibitivo per la mia connessione.

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Nei prosperi anni ‘70 del 200 il regno fu coinvolto in un solo fatto d’arme degno di nota: quella che, secondo la cronologia danese, viene ricordata come la seconda crociata contro Gerusalemme.
Vi partecipò con due armate formidabili, che ripercorsero lo stesso itinerario seguito dalla sfortunata spedizione del signore di Thun, ormai morto di vecchiaia nel suo desolato fortino in Palestina.
Questa volta si scelse deliberatamente di iniziare le ostilità ad Adana, onde conquistare un avamposto utile per il seguito delle operazioni; la fortezza turca era relativamente ben difesa, ma poco potè contro i crociati che si riversarono oltre le brecce aperte nelle due cinte murarie.
Fatto questo si dovette noleggiare una nave, perché la strada di terra risultava bloccata dai sopravvissuti di forze cristiane in ritirata. Prima di accostarsi alle mura di Gerusalemme si volle conquistare una seconda piazzaforte; la scelta preferenziale sarebbe stata Homs, ma in ultimo si optò per un assalto alla cittadella egizia di Kerak, al momento quasi indifesa.
Prima che si potesse marciare su Gerusalemme, la città insorse e tornò ai vecchi padroni.
I due nobili a capo della spedizione furono presto assassinati da sicari mussulmani.
Nell’anno del signore 1280 iniziò, a partire da Kerak e dalle frontiere orientali europee, l’installazione dei primi cannoni difensivi. La situazione europea si manteneva sostanzialmente tranquilla, salvo la periodica necessità di massacrare qualche esercito milanese che tentava di riguadagnare la patria perduta passando per l’Elvezia; migliaia di miliziani male equipaggiati, ed almeno un Duca, persero la vita nel corso di queste incursioni senza speranza.
Motivo più serio di preoccupazione era l’inesorabile deterioramento dei rapporti col pontefice, che finì per non concedere più udienza ai messi del regno: pomo della discordia erano i turbolenti vassalli francesi, da tempo distaccatisi dalla chiesa. Il problema venne risolto solo nel corso del 1284 quando, morto un papa, se ne fece un altro.
Il nuovo reggitore di S. Pietro. un magiaro che doveva la sua elezione ai cardinali danesi, accettò subito di indire una crociata per la liberazione di Antiochia. I pii guerrieri di Danimarca mobilitati oltre Giordano risolsero la questione nel giro di un anno, impossessandosi pure di Homs e del Krak.
I Siriani tentarono subito di riprendere gli insediamenti perduti, ma fecero l’errore di disperdere le loro forze per condurre attacchi simultanei, e non ottennero alcun successo; un esempio di incompetenza superato solo dai crociati di Gerusalemme, cui restavano ancora Acri e Tripoli, che si dissanguavano incessantemente in inconcludenti scaramucce coi fatimidi.
Nel periodo compreso fra il 1292 ed il 1294 i Siriani fecero un ulteriore errore, parteciparono con zelo ad una guerra santa in Anatolia lasciando Aleppo e Damasco senza adeguata protezione; entrambe le città capitolarono rapidamente quando vennero investite dai guerrieri e trabucchi di Homs.
Ora i possedimenti danesi oltremare stendevano un amorevole arco protettivo intorno ai residui insediamenti crociati, lasciando scoperta solo la frontiera con Damietta su cui proseguiva quello sciocco stillicidio di cui si è detto. Ma si notò con stupore che i domini del regno non si espandevano affatto, ed il motivo fu chiaro quando i vessilli aragonesi sventolarono su Rouen; il regno vassallo di Francia stava soccombendo all’invasione ispanica.
La situazione era preoccupante perché Parigi aveva poca protezione e scarse probabilità di soccorso in caso di bisogno; le cittadelle di Staufen e Nottingham erano in grado di mobilitare buone fanterie pesanti, ma balestrieri e cavalleria sarebbero dovuti affluire da luoghi ancor più distanti.
Per scongiurare la crisi difensiva, la Danimarca passò all’attacco.
Per grazia di Dio, gli Aragonesi avevano abiurato il cattolicesimo, sicchè il Santo Padre accettò di buon grado la proposta di una crociata contro Tortosa, che partì nell’autunno del 1296.
Tornando ad antiche abitudini, i crociati danesi si disinteressarono totalmente dell’obiettivo ufficiale di questa guerra santa. In una prima fase occuparono rapidamente Rouen e Rennes, e spazzarono via un esercito nemico in campo aperto; poi si attestarono per qualche tempo a difesa, attendendo rinforzi dalle isole britanniche e le bombarde fuse dagli armaioli delle città appena conquistate; a quel spunto scattò l’attacco alla cittadella di Angers, che fu espugnata a fatica nella primavera del 1301.
Negli stessi anni ebbe luogo anche la cosiddetta “crociata dei baroni”, cui presero parte otto nobili minori ed una compagnia di balestrieri a cavallo. Non fu una crociata combattuta, i suoi protagonisti presero la croce solo per portarsi velocemente nei territori d’oltremare, ove le fortezze avevano fornito discreti generali ma difettava la presenza di autentica nobiltà danese. Sei di loro erano giovani senza terra, incluso un Gran Maestro teutonico ansioso di visitare la casa minore dell’ordine ad Adana, gli altri due erano maturi feudatari di cui non si sarebbe sentita la mancanza. Uno di questi avrebbe trovato la morte in difesa di Kerak, mettendo a tacere pezzi di artiglieria a lunga gittata che rispondevano con micidiale precisione al tiro dei cannoni delle torri; lì si distinsero anche i balestrieri a cavallo, che dimostrarono la loro efficacia prima di disertare. Era più di quanto ci si fosse atteso da loro.
La crociata vera e propria fu affare strettamente siciliano. Con la caduta di Tortosa, e la liberazione di Bordeau ad opera dei Francesi, i confini europei tornarono sicuri.
gran conte Ruggero
00mercoledì 26 maggio 2010 17:05
grandissima campagna
sissi i danesi a me piacciono giocati proprio così, opportunisti e sanguinari
seguono la fede cattolica perchè conviene, ma in ultima analisi sono dei vichinghi civilizzati, e nemmeno troppo
Romolo Augustolo
00mercoledì 26 maggio 2010 19:38
gran bella cronaca e campagna, davvero! nke io sto giocando coi danesi(bc6) e devo ammettere ke è veramente bello, dopo aver sottomesso gli scandinavi devi solo decidere dove espanderti! io ho fatto sposare una mia principessa col barbarossa, quindi pensavo di puntare sulla Scozia. complimenti vivissimi per il proseguimenti della cronaca!!!!
Bertavianus
00mercoledì 26 maggio 2010 22:39
Una buona dose di opportunismo aiuta, ma spesso mi capita di eccedere e le conseguenze si fanno sentire. Ho perso il conto dei re mandati al suicidio perchè offendono la nobiltà o ispirano guerra civile.

La Scozia è uno degli obiettivi migliori, direi che i rischi maggiori sono quelli che si corrono durante la traversata in mare.

La cronaca era leggermente in ritardo sugli eventi, ma questo aggiornamento arriva sino alla sua situazione odierna.
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Consapevoli dell’importanza strategica della cittadella di Kerak, negli anni a cavallo del 1300 gli eserciti egiziani e siriani tentarono più volte di impossessarsene. Ottennero il risultato opposto, perché il Signore d’Oltregiordano ebbe modo di sperimentare e raffinare tattiche che, pochi anni dopo, avrebbero reso inviolabili le mura di Damasco agli attacchi della Jihad.

L’arte della sortita contro forze soverchianti.

Disponendo di un buon armamento nelle torri, i Danesi impararono presto che era assai meglio impiegarlo in attacco che in difesa. Si schieravano in maniera da attivare tutte le artiglierie necessarie, e poi facevano in modo che devastassero i nemici il più a lungo possibile. In alcuni casi si limitarono a questo, ma l’esito non fu mai del tutto soddisfacente; in questa maniera si poteva decimare l’avversario senza perdere un solo uomo, ma non si riusciva a spezzare l’assedio. Per arrivare a risultati veramente decisivi, occorreva un’esca: un’unità sacrificabile che lo attirasse più vicino, possibilmente a tiro di balestra. Tartassate da proiettili di ogni tipo, le schiere nemiche ne uscivano sì malconce che poi bastava far uscire due o tre compagnie meglio equipaggiate per spazzarle via o volgerle in rotta. L’abbinamento dei due metodi consentiva di aver ragione anche su tre eserciti contemporaneamente; una falsa sortita, destinata a finire in parità, faceva da preludio all’azione risolutiva, necessariamente rinviata alla stagione seguente.
Quando possibile e necessario, i difensori venivano supportati da rinforzi esterni; i turcopoli si rivelarono le migliori truppe locali per questo rischioso impiego ma, alla bisogna, qualunque contributo poteva risultar prezioso.
Caso limite fu il quarto assedio di Damasco che, in virtù di una precaria alleanza egizio/siriana, poteva innescare un pericoloso assalto da ogni lato da parte di quattro eserciti a pieni ranghi e dotati di artiglieria. Correva l’anno 1311, e le forze coalizzate dell’islam parevano perfettamente in grado di cogliere un risultato a lungo negatogli.
Homs inviò in soccorso ogni uomo disponibile, formando un esercito che venne completato arruolando mercenari d’ogni sorta, inclusi vari pellegrini buoni solo a far numero.
L’intera guarnigione, schierata ad intervalli sulle mura, rese possibile l’azione simultanea di tutte le torri del perimetro; il governatore ed un altro nobile si occuparono personalmente delle due che sarebbero rimaste sguarnite per insufficienza di uomini. Restava a disposizione un piccola riserva di cavalleria che, purtroppo, venne neutralizzata da un potente sortilegio (la battaglia era troppo pesante da gestire per il mio pc, il tempo scorreva al rallentatore e qualsiasi tentativo di spostare le truppe provocava un blocco totale). Tolte le incessanti salve di cannone, e lo sporadico supporto di balestrieri cui capitava qualcuno a tiro, lo scontro impegnò solo gli uomini schierati fuori le mura, che agirono in modo totalmente indipendente e subirono perdite devastanti; il generale sopravvisse miracolosamente, ma del suo esercito restava poco o niente. Alla coalizione islamica andò anche peggio; tre eserciti rimasero senza guida, tutti persero il loro parco di artiglieria, uno solo pareva ancora atto al combattimento. L‘assedio non era stato rotto, ma bastò poi il solo annuncio di una sortita perché gli assedianti levassero le tende.

Mentre nel medio oriente infuriava la guerra di posizione, nelle province francofone tornava in auge quella di movimento.
Occorrendo preservare una utile alleanza dinastica coi potenti vicini di Russia, si rifiutò adesione all’ennesima sciocchezza dei vassalli, che gli avevano dichiarato guerra senza averne i mezzi. Con più spocchia che senno i francesi rivendicarono la propria indipendenza, divenendo problema da liquidare; era ovvio che non si potevano tollerare presenze ostili a pochi giorni di marcia da Parigi e Rheims.
In verità, anche se avevano meditato un colpo di mano, i loro eserciti si allontanarono dai confini senza nulla osare: ma questo ripensamento fu tardivo, ora erano i guerrieri danesi a volere lo scontro.
Per qualche tempo le due schiere si limitarono a guardarsi in cagnesco, controllando a vicenda i reciproci movimenti. Questa sorta di gioco a rimpiattino cessò nell’anno del signore 1309, quando i Francesi si attestarono su una posizione relativamente arretrata; i Danesi ne approfittarono per avventarsi sulla fortezza di Digione ove, con scontro rapido ma cruento, ebbero ragione dell’erede al trono e di alcune compagnie di cavalieri appiedati.
Le operazioni ripresero dopo una pausa necessaria ad ambo le parti, e caso volle che negli stessi giorni dell’epica battaglia di Damasco si giunse ad uno scontro con caratteri radicalmente diversi.
Una avanguardia di otto compagnie, per la metà balestrieri a cavallo, era andata a cingere d’assedio Letmoges, in attesa di rinforzi e artiglierie che la avrebbero raggiunta la primavera seguente.
La ricognizione nei paraggi non aveva rivelato insidie nascoste, la guarnigione della cittadella era troppo esigua per tentare alcunché, si temeva solo il gelo e la monotonia dei mesi a venire.
Quando venne avvistato un robusto esercito in avvicinamento, il capitano trattenne a stento l’impulso di ordinare l’immediata evacuazione del campo; poi si disse che una situazione di evidente inferiorità numerica non era necessariamente una situazione disperata, che doveva almeno tentare di guadagnarsi la paga prima di volgere le terga.
Una piccola macchia d’alberi fu il luogo ove fece schierare gli uomini a piedi; era un nascondiglio ovvio, ma almeno avrebbe offerto loro un minimo di riparo. Per sé e gli altri balestrieri a cavallo scelse una posizione bene in vista, prossima al punto di probabile ingresso in campo di una guarnigione che volesse sorprenderli alle spalle. Ci azzeccò in pieno, ed i quadrelli di centosessanta balestre abbatterono in pochi minuti il nobile e tutti gli uomini giunti da quella parte. L’esercito nemico principale, però, era osso più duro; aveva pochi uomini a cavallo e pochi tiratori, che furono eliminati altrettanto in fretta, ma era forte in fatto di cavalieri nobili e feudali appiedati, che poco si curavano dei dardi in arrivo; questi ci misero ben poco ad individuare e sopraffare fanti e balestrieri appiedati, lasciandosi sfuggire solo un manipolo di mercenari che pensò opportuno impegnarsi più nella corsa che nel tiro. Non era la scelta più onorevole, ma anche il capitano riconobbe che era quella più saggia. Tutti gli uomini ancora in campo passarono il restante tempo della giornata ad evitare un corpo a corpo che li avrebbe visti sicuramente perdenti; quei cavalieri a piedi, implacabili ma lenti, furon vinti dal loro stesso sudore.
La sera stessa i danesi presero possesso della cittadella, rimasta completamente indifesa.
Circa un anno dopo, le bombarde che non erano servite a Letmoges assicurarono la facile presa di Clairmont. Questa città era recentemente tornata ai suoi antichi signori, dopo breve periodo di indipendenza goduto in seguito all’estinzione del casato milanese. I dettagli di quella vicenda non erano noti e poco interessavano i guerrieri del nord, che meditavano però di replicarla in danno degli ultimi francesi asserragliati a Bordeau.

Keirosophos
00mercoledì 26 maggio 2010 22:53
Bellissima AAR!!!
Bertavianus
00sabato 29 maggio 2010 00:22
Si venne a sapere che Bordeau non era, come supposto, l’ultimo rifugio dei Francesi, perché in qualche modo erano riusciti a sottrarre agli Aragonesi la fortezza di Ais. Questa notizia raffreddò alquanto gli entusiasmi iniziali, sicché le operazioni contro la città atlantica presero avvio con lentezza.
Il Duca di Borgogna sferrò il primo attacco solo nel corso del 1320, ed in quell’occasione preferì accumular bottino piuttosto che assicurarsi il controllo definitivo dei luoghi. Fu costretto a lasciarla, perché ingovernabile, ed attendere che si ribellasse.
La sommossa filofrancese armò una massa di cittadini ben superiore alle sue aspettative, e questo lo costrinse ad attendere un paio d’anni prima di poter sferrare l’assalto decisivo con forze adeguate.
Non aveva alcun vantaggio numerico, ma fanterie incomparabilmente migliori, e l’avversario non era neppure riuscito a riparare la breccia lasciata dall’incursione precedente; la strage di miliziani e civili costò ai danesi perdite assai modeste.

In Terrasanta accaddero cose singolari.
La prima fu che il Gran Maestro dei Teutonici divenne prima principe e poi re. Aveva lasciato l’Europa da cadetto senza prospettive dinastiche, e tale sarebbe rimasto se la natura avesse fatto il suo corso, ma una breve serie di funerali vichinghi aveva mutato la piega degli eventi. Per ragioni politiche che mi par superfluo precisare, le navi funerarie avevano trasportato salme reali ancor non trapassate al momento dell’imbarco.
La Jihad contro Damasco si esaurì, ma anche questa in modo anomalo. Scomparsi tutti gli altri guerrieri di Allah, restava ancora un esercito moresco. Si era accampato a sud della città, onorando a modo suo una tregua concordata fra i sovrani. Ci sarebbe rimasto per anni, e la ragione ufficiale era che nemmeno i Danesi volevano passar per fedifraghi. Le ragioni vere erano altre: sarebbe stato più facile sconfiggerlo quando avesse attaccato la città, e la sua passività avrebbe impedito per lunga pezza un nuovo appello alla guerra santa da parte degli Imam.
Una principessa crociata accettò di sposare l’erede al trono, a prezzo della cessione di Lugano. Non era un cattivo affare per il regno, cui faceva comodo sia interporre un diaframma fra i suoi possedimenti e quelli dei normanni, ora padroni della maggior parte dell’Italia, sia arretrare la difesa a Thun. Purtroppo il novello sposo era alquanto attempato, e non resse a lungo le fatiche coniugali.

I luoghi vissero in una atmosfera di soporosa attesa fino all’anno del Signore 1324, quando un fatto del tutto secondario fece da catalizzatore al precipitare degli eventi.
Sul passo di confine a nord di Adana si ergeva un fortino mongolo abbandonato. Il governatore della cittadella lo fece occupare da una compagnia di arcieri, allo scopo di ritardare eventuali invasori per il tempo occorrente a terminare il montaggio delle baliste fisse. Raggiunse il suo scopo ma i Crociati, che si erano alleati coi mongoli, stracciarono il trattato di alleanza, ed il famoso esercito moresco decise che era giunto il momento di completare la Jihad.
Entrambi avevano appena commesso un errore fatale. Un corpo di spedizione partito da Kerak raggiunse subito Gerusalemme, ed il giovane generale a capo della spedizione divenne il primo re danese della città santa; nemmeno faticò molto, perché dovette vedersela unicamente con il monarca traditore che lo aveva preceduto.
Quanto ai mori, fecero la stessa fine dei correligionari che li avevano preceduti nel tentativo; per i Danesi, però, la sortita risultò un po’ più dura del consueto in quanto avevano finito per smobilitare parte della guarnigione cittadina.
Il Pontefice pretese una tregua biennale, che i Danesi osservarono scrupolosamente. I crociati, more solito, si concentrarono su un obiettivo assolutamente irrilevante, la riconquista del Krak; impiegarono un esercito spropositato per aver ragione dei due anziani zwei hander che vi fungevano da custodi.
Allo scadere della tregua, i vichinghi di Palestina dimostrarono di aver saputo impiegare assai meglio il loro tempo; avevano ammassato una seconda compagnia di bombarde, oltre a fanteria pesante e tiratori, a Gerusalemme, e si scagliarono senza esitazione sulla cittadella di Acri. L’unica fattore che avrebbe potuto mandare a monte l’assalto erano le possibili perdite di artiglieri o pezzi dopo il superamento del primo cancello; risolsero il problema facendoli fermare lì per sbrecciare la seconda cerchia di mura, evitando il rischioso tragitto fino al secondo cancello. Poi non ci fu più storia.
La cattura di Acri provocò un secondo veto papale che, in aggiunta, proclamò una crociata per la liberazione di Costantinopoli dal giogo turco, con obbligo di partecipazione per il sovrano.
La corona era ormai passata all’anziano signore di Visby, che prese le cose con molta calma.
Quelli del cosiddetto regno crociato, ormai ridotto unicamente a Tripoli e Lugano, si comportarono come se provassero vergogna ad apparir sensati. Le truppe stanziate sulle alpi presero in massa la croce e si diressero verso il Bosforo; quelle ancora presenti fra Tripoli ed il Krak accennarono minacce contemporanee contro Homs, Antiochia e Damasco. A pensarci bene, avevano una tenue speranza di vittoria: le guarnigioni danesi stavano morendo dal ridere.
Bastò coordinare gli attacchi partiti da Acri e da Thun perché queste caricature di guerrieri divenissero briganti senza terra.
Correva l’anno 1331, e la Danimarca era giunta a dominare 50 regioni. Adesso la crociata aveva un senso.




gran conte Ruggero
00lunedì 31 maggio 2010 10:04
Re:
bello..bello...bello
Bertavianus, 29/05/2010 0.22:

A pensarci bene, avevano una tenue speranza di vittoria: le guarnigioni danesi stavano morendo dal ridere.


siete un genio messere [SM=x1140522]

Bertavianus
00lunedì 31 maggio 2010 17:52
Troppo buono, Ser Ruggero.
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Re Thorgild non era particolarmente benvoluto dai nobili del regno, molti di loro lo vedevano solo come un parvenu che si era guadagnato un feudo, e poi la corona, grazie ad un buon matrimonio.
Uno dei suoi principali oppositori era il principe Erik l’Iracondo, l’invitto difensore di Damasco, che egli aveva dovuto confinare nel Krak per evitare una possibile secessione.
Stanti questi presupposti, la minaccia di scomunica lo impensieriva assai meno dell’imminente invito ad imbarcarsi su una nave lunga.
Si accinse alla grande impresa imprecando contro l’imbecillità dei membri del consiglio, che gli avean fatto omaggio di tre schiltron delle higlands quasi fossero le migliori unità reclutabili nel regno, e del suo secondo in comando, Ulrik Telling, che aveva perso metà del parco di artiglieria impiegato a Lugano presumendo di poter vincere ad occhi chiusi uno scontro coi ribelli che infestavano le alpi.
La marcia di avvicinamento dei crociati si svolse senza inconvenienti sino ai dintorni di Adrianopoli ove, nell’inverno del 1334, la presenza di un esercito selgiuchide impose un arresto forzato.
Col senno di poi, si può dire che fu un bene.
In quei giorni Damasco stava subendo una seconda Jihad; i primi assalitori erano già andati ad ingrassare i corvi, ma la seconda ondata aveva avvolto la città in maniera tale da impedire a chiunque di dar manforte ai difensori, e si profilava un pericoloso attacco simultaneo da parte di una alleanza siro/egiziana. Non potendo riporre eccessiva fiducia nelle tattiche usuali, Erk l’Iracondo lasciò il Krak ed ingaggiò battaglia in campo aperto alla guida di un esercito crociato. Riuscì a schierarsi sul ciglio di una ripida altura, costringendo il nemico ad un difficile attacco in salita sotto un diluvio di frecce e di quadrelli; con l’aiuto della guarnigione cittadina, che li sorprese alle spalle, annientò due eserciti.
Vi era il rischio di una successiva diserzione in massa, ma a scongiurarlo pensò il Re.
Anche la presa di Costantinopoli fu, sostanzialmente, una battaglia campale. La guarnigione turca lasciò in massa la città per soccorrere alcuni commilitoni sorpresi fuori le mura. Solo una cinquantina di combattenti scampò al massacro, ma il loro destino fu segnato dal colpo di bombarda che poco dopo schiantò il portone.

La Danimarca era indiscutibilmente vittoriosa, ma il destino dei protagonisti di questa epopea non fu certo felice.
Re Thorgild passò il Bosforo con un piccolo distaccamento di fanti ed arcieri mercenari, che venne ingaggiato da una forza turca più che doppia. Vinse lo scontro a prezzo della vita.
La battaglia del Bosforo fruttò gli speroni a Jon di Valdinga, un giovane capitano che di lì a poco sarebbe divenuto il primo eparca danese di Costantinopoli.
Malgrado la mistica protezione della Sacra Sindone, le vite di Jon di Valdinga ed Ulrik Telling sarebbero state stroncate da lame assassine.
Quanto ad Erik l’Iracondo, cinse la corona per meno di un anno: lui fu vinto solo dall’età.




The Housekeeper
00lunedì 31 maggio 2010 20:49
Gran bella cronaca, e bellissima campagna!
...in attesa delle immagini!
Keirosophos
00lunedì 31 maggio 2010 21:23
Cronaca semplicemente stupenda! Mi associo alla richiesta di immagini da parte di house!
davie
00martedì 1 giugno 2010 11:22
si un pò d'immagini non possono mancare su questa stupenda cronaca
Bertavianus
00martedì 1 giugno 2010 19:54
Grazie per l'apprezzamento. Con l'acquisizione e inserimento delle immagini non me la cavo molto bene; so a malapena cosa dovrei fare.

davie
00giovedì 3 giugno 2010 20:49
Re:
Bertavianus, 6/1/2010 7:54 PM:

Grazie per l'apprezzamento. Con l'acquisizione e inserimento delle immagini non me la cavo molto bene; so a malapena cosa dovrei fare.





questa è una discussione esauriente per come postare le immagini.

freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8226932

Potresti anche inserire immagini in un altro modo,ma potrebbero crearsi problemi col formato.
[SM=x1140429]
Bertavianus
00mercoledì 9 giugno 2010 17:32
Magari ci proverò in altra occasione, questa cronaca volge al termine ed ho pure problemi di connessione.
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Costantinopoli, la cinquantunesima gemma della corona, ormai somigliava ben poco alla metropoli descritta dagli anziani che, in gioventù, vi avevano prestato servizio come Variaghi. La dominazione islamica aveva radicalmente mutato il suo volto, e la stessa cosa era avvenuta in tutte le province circostanti, salvo quella di Tessalonica. Le speranze di tenerla erano praticamente nulle, la miglior cosa da farsi era arraffare ogni ricchezza e lasciare che i turchi riprendessero possesso di un guscio vuoto: i danesi scelsero di fare esattamente l‘inverso.
La riottosa popolazione locale venne drogata con corse ippiche quotidiane, mentre si avviava la fabbrica degli edifici religiosi ed amministrativi con cui controllarla in futuro. Una spia, un assassino ed un cardinale giunsero da Antiochia, per contribuire alla sicurtà dei luoghi con le arti loro. La protezione militare era assicurata, almeno per il momento, dal vecchio esercito crociato che, come le baliste delle torri, era rimasto sostanzialmente integro. Occorreva, però, porre anche rimedio alla crisi di comando derivante alla prematura scomparsa dei condottieri che avevano fatto l’impresa, e per questo si programmò il viaggio di tre valenti nobiluomini educati a corte.
Un paio di holk armati andarono a prelevarli sui lidi di Romagna, che costoro raggiunsero scendendo dal Brennero, provocando qualche malumore fra gli italici. Tutto sembrava procedere per il meglio, quando il piccolo convoglio venne intercettato dalla marina turca a sud di Durazzo. I passeggeri riuscirono a sbarcare sulla costa greca appena prima del disastro, ma in seguito non ebbero troppo a rallegrarsi per lo scampato pericolo: affrontarono una anabasi che sarebbe durata un lustro.
E’ possibile che le loro peripezie abbiano ispirato ad un poeta normanno di Firenze i versi in cui canta di una selva oscura ove la diritta via era smarrita. Il cammino attraverso i boschi ellenici non sarebbe stato di per sé lunghissimo, ma qualsiasi strada o sentiero provassero a percorrere risultava sbarrato da truppe in marcia o fortini presidiati. Vennero infine a capo del labirinto sbucandone fuori a nordovest di Tessalonica, e da lì si diressero al galoppo verso la meta. Appena varcato il confine, un consistente esercito dei turchi di Adrianopoli fu su di loro. Accettarono battaglia sapendo che una sessantina di uomini a cavallo può vincere, o almeno non perdere, contro un assalitore che schieri in prevalenza uomini appiedati. Purtroppo ebbero a che fare anche con varie compagnie di arcieri montati; Bjorn Thorrodson, il capo della spedizione, fece subito suonare il segnale della ritirata, ma le frecce lo abbatterono prima che potesse lasciare il campo. Sturdi Fenrison e Rangnar di Hadsund raggiunsero Costantinopoli nell’autunno del 1348, su cavalli schiumanti per la fuga a perdifiato.

All’insano sogno bizantino vennero sacrificate risorse che sarebbero state preziose altrove.
Damasco non ne risentì, riuscendo a respingere tutti gli assalti della seconda Jihad con i suoi consueti attacchi di torre. In uno di questi episodi perse la vita il giovane Re Jesper, non facendo mistero di preferire una gloriosa morte in battaglia al funerale vichingo che già troppi gli auspicavano.
L’anno del Signore 1341 vide due accadimenti di segno opposto; il fallimento definitivo della maledetta crociata islamica, e la cattura di Gerusalemme da parte di un esercito egiziano.
La Città Santa non aveva cannoni, la sua guarnigione era modesta, le baliste non davano affidamento per tattiche di difesa aggressiva; non servirono a nulla neanche come armi meramente difensive, ed il nemico sciamò all’interno grazie ad una torre mobile ed un ariete rimasti praticamente intatti.
Gli uomini delle guarnigioni circostanti disponevano di una bombarda, vestirono panni crociati sotto la guida del Conte di Tripoli, e ripresero possesso dei luoghi entro pochi mesi.
Ma se una umiliazione era stata subito riscattata, un’altra era in arrivo: i Portoghesi si avventarono su Bordeau che, nonostante l’eroismo di Canuto il Degno, dovette soccombere più o meno per le stesse ragioni che avevano determinato la caduta di Gerusalemme. Fu giocoforza rassegnarsi, perché il tesoro era esausto e non si poteva organizzare una spedizione vendicatrice; del resto, pareva improbabile che il nuovo nemico osasse sfidare le possenti difese di Letmoges o Angers.
A sedare le velleità belliche, almeno in Europa, giunse pure il flagello della peste che, a tacer degli altri infiniti lutti, inviò sotto terra anche le già precarie finanze del regno.
In Terrasanta si continuava a combattere sporadicamente, per lo più intorno a Damasco e Kerak; qui le ampie riserve di polvere nera consentivano sempre di tenere la situazione sotto controllo.
Gli eventi presero una piega davvero preoccupante solo a partire dal 1350, quando due armate fatimidi iniziarono a manovrare fra Gerusalemme e Kerak. Quella che minacciava più da vicino la città disponeva di un organico degno di qualsiasi manuale militare, supportato da alcuni cannoni a lunga gittata; l’altra poteva definirsi un mostruoso parco di artiglieria, in grado di spianare ogni ostacolo con una sola salva, affiancato da una scorta non adeguata. Non si poteva lasciar loro l’iniziativa, la cittadella aveva qualche vaga speranza di sopravvivenza, la città santa nessuna.
Cogliendo un momento in cui quelle schiere risultarono distanziate si decise di aggredire la seconda, con forze limitate e separate. Tre compagnie di tlaqah e due di balestrieri ingaggiarono frontalmente il nemico, attirando verso di sé l‘intero schieramento; due di cavalleggeri e due di turcomanni aggredirono da tergo gli artiglieri rimasti senza protezione. Fu lotta durissima per tutti, ma soprattutto per gli uomini a piedi, su cui prima si abbatté un uragano di proiettili e poi la forza d’urto dell’avversario, non soverchiante ma sufficiente a sopraffarli. Ad un certo punto anche i turcomanni dovettero mettere mano alle spade, e l’esito delle cariche fu messo in forse dai lancieri che tornavano in soccorso delle artiglierie più avanzate. A decidere l’esito della giornata fu la morte del capitano nemico che, cosa non strana per quella formazione, aveva anche il comando di una gran bombarda; i suoi iniziarono ad esitare, e finirono come pecore fra i lupi.
Il completo successo di questa azione ne incoraggiò una seconda, che ebbe luogo l‘anno seguente..
Una malconcia nave lunga che aveva bloccato i traffici marittimi di Damietta tornò a Gerusalemme per riferire che la fortezza appariva difesa solo da una compagnia di lancieri e dal seguito del Sultano. Ignorando volutamente la persistente minaccia dell’altro esercito fatimide, si imbarcò in tutta fretta un contingente atto a rinverdire una antica tradizione vichinga: uccidere, far razzia, lasciare un cumulo di macerie e svignarsela al più presto. Si scoprì che, cessato il blocco, il nemico aveva varato alcune navi: ciò avrebbe reso suicida il reimbarco delle truppe, ma non pregiudicava la finalità principale del raid. I colpi di bombarda schiantarono due cancelli e le difese del secondo posto di guardia, mentre i tiratori già decimavano i fanti egizi; visto che non li si poteva riportare in Palestina, i pezzi vennero addirittura impiegati nella piazza d’arme, ove spararono un paio di colpi incendiari contro la guardia del Sultano prima di subirne la carica. I sergenti lancieri ed i tlaqah erano pochi passi più indietro, sicché i protagonisti di quella breve galoppata ebbero vita ancor più breve.
Il destino degli uomini rimasti bloccati a Damietta era probabilmente segnato, ma il bottino fu grande e da lì non sarebbero più usciti né guerrieri né armi.
Romolo Augustolo
00mercoledì 9 giugno 2010 17:49
Re:
Bertavianus, 09/06/2010 17.32:


Le speranze di tenerla erano praticamente nulle, la miglior cosa da farsi era arraffare ogni ricchezza e lasciare che i turchi riprendessero possesso di un guscio vuoto: i danesi scelsero di fare esattamente l‘inverso.


questo pezzo è fenomenale! [SM=g2194595] ottima cronaca!

Joanni dalle Bande Nere
00giovedì 10 giugno 2010 19:03
bella mi è piaciuta ma perchè dici che volge al termine?non la vuoi continuare?
Bertavianus
00martedì 15 giugno 2010 19:59
Ancora non ho deciso se continuarla o meno perchè, a camapgna lunga vinta, la motivazione cala.

Conquistare il mondo intero non mi attrae, forse potrei tentare di costruire un corridoio per collegare provincie europee e mediorientali passando per Costantinopoli. Ci penserò.
Jean de Avallon
00mercoledì 16 giugno 2010 10:47
Complimenti, in effetti concordo sulla mancanza di stimoli dopo aver raggiunto gli obbiettivi prefissati....

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