La scrittura femminile, per esempio

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Antigone
00martedì 7 giugno 2005 06:50

SE...

Oggi sarebbe perfetto
se il peso della tua morte
non gravasse
come un macigno sul mio cuore.
Oggi sarebbe perfetto
se io non ti avessi conosciuta
solo dopo la tua morte,
se avessi conosciuto te
oltre la tua vita dentro di me.
Oggi sarebbe perfetto se tu ci fossi,
se tu potessi vivere
libera dal peso dell'oscurità,
in una luce lontana da questa.

VALENTINA ROMANELLI



Propongo di cominciare da qui, da questo esempio purissimo di scrittura femminile. Non la testimonianza sulle donne, non l'amore per una donna - e non importa quanto contrastato! -, né la voce dei secoli maschile. Ancora.
Il tempo finisce qui, a questo gocciolare straziato del desiderio femminile.
Dare voce al tempo. Esprimere il dolore. Dare voce.
Scrivete qui.

|Antigone|
00martedì 7 giugno 2005 08:37
LA LUNGA ATTESA DELL'ANGELO


[...] Avvengono miracoli,
se siamo disposti a chiamare miracoli
quegli spasmodici trucchi di radianza.
L'attesa è ricominciata,
la lunga attesa dell'angelo,
di quella sua rara, rarefatta discesa.

SYLVIA PLATH, La cornacchia nel tempo piovoso



Con questi stupendi versi della poetessa americana morta suicida, la psicoanalista junghiana LELLA RAVASI BELLOCCHIO apre La lunga attesa dell’angelo. Le donne e il dolore (Raffaello Cortina Editore 1992).

Leggiamo insieme la quarta di copertina:

Attraverso alcune vicende di donne in analisi, questo libro racconta il percorso del dolore nella vita delle donne. Le storie analitiche, i "romanzi familiari" si snodano attraverso sogni e frammenti di vita e sono incastonati dentro i versi del Libro di Giobbe, voce-guida che impronta tutto il testo. A partire dalla sofferenza nasce una nuova possibilità di stare al mondo, forti di una dignità che si riconosce nel grido di Giobbe, nel "perché?" lanciato verso il senso dell'esistenza. Le donne sfidano il dolore apprendendo la forza della non risposta: non c'è consolazione, come non c'è schema interpretativo psicoanalitico di fronte al male. Bisogna imparare a "stare", a fare della forza della domanda, del "perché?", una provocazione vitale. Il percorso del dolore ci fa eredi di Giobbe e, in particolare per le donne, è occasione di riflessione sulla Sapienza, l'indispensabile apprendimento del limite come salvezza. Alla fine, ci si ritrova dentro il mondo, dentro la vita, avendo imparato a rispettare i confini sconfinati del dolore. "La lunga attesa dell'angelo" è un modo nuovo di esistere, nel dolore, di giocare la vita con amore e con Sapienza.

Il libro - è scritto nella dedica - è dedicato a tutti coloro che si riconoscono nella frase di John Irving, "Sii grata per i piccoli favori".


[Modificato da |Antigone| 11/06/2005 8.47]

|Antigone|
00mercoledì 8 giugno 2005 05:30
Demetra ritrovata
forse l'amore è cominciato nei tempi
della crescita morale quando ancora
non sapevo di essere donna e
tu non eri ancora sbocciato nel mondo
della paura virile e assolata.
Tutto è cominciato in quei giorni
di lucore infantile fra peschi in fiore
e piccoli dolci verdi alla menta.
E' cominciato con la storia di una figlia
campesina e di un padre sportivo
che cantava l'internazionale
dentro struggenti stanze di una casa
borghese fra pareti dipinte e
un odore di medicine delicate,
l'acqua bolliva su una spiritiera smaltata
e la febbre mi incantava la gola fredda

è lì che un giorno ho perso mia madre
Demetra per correre incontro a
uno sposo dai denti di ghiaccio
e l'alito di fichi secchi,
è lì che ho abbandonato le mie sorelle
per nascere dalla testa di mio padre
il bello e savio navigante del cielo,
nuova Atena priva di mistero
conservatrice delle leggi democratiche,
è lì che ho amato giocosamente
senza gloria con umiltà feroce e ingenua
il dio uomo che mi carezzava le guance
con dita di latte e mi parlava
con voce adultà di verità e di onore,
che mi guardava con occhi di vecchio
lustri occhi neri di bambino padre
dal cuore lento e asfittico e incolore

ho lasciato che mia madre mi
fasciasse la testa malata d'amore
stringendomi mummia sepolta sotto i teli
della sua tenerezza carnale di genitrice,
ho lasciato che mi baciasse i piedi
come un carbonaio dalle dita nere,
le ho dato un calcio vaporoso
nel petto gonfio di minestra calda
e l'ho lasciata una volta per tutte
nel suo letto di sangue e spezie
sconfitta e istupidita, senza terrore,
eppure muta da sempre della mutezza
cristallina di tutte le donne

Demetra mi ha cercata urlando
per i monti dell'infanzia straniera,
mi ha cercata lungo la costa
dell'adolescenza infiammata
senza trovarmi, Demetra madre innamorata
resa savia e immortale dalle richieste
dei padri che da lei voglio campi
dalle spighe ripiene vogliono
fiumi carichi di pesci luccicanti
piante pesanti di frutti stregati,
Demetra correva lupa marina con occhi irosi
cercando la mia coda lustra dietro ogni
roccia o cespuglio della penuria invernale.
Demetra le tue gambe sanno di vino
di palma e le tue unghie sono di vetro,
non troverai tua figlia la sposa
che gocciola sangue
perché i suoi passi sono diventati cauti
e quieti seguono i passi pesanti del
fausto sposo notturno nei fossi
brucianti fra lamelle di zolfo
in canali di ferro lambiti da ginestre assassine

immaginate un fiero e splendente
ragazzo ventenne dai capelli di aceto
e gli occhi lisci di toro ammalato
immaginate una bambina dal corpo bianco
di pane, le braccia come fiori velenosi
le palpebre pesanti di sonno impaurito,
immaginate un giardino di cavoli opalescenti
su cui corrono frullando farfalle bluastre
e mosconi dalle ali morbide che si incollano
alla pelle sudata sotto stelle invisibili e calde;
immaginate un fiume di lava e un quaderno
di matematica dai numeri inquadrati
in piccoli spazi verdi e rossi;
immaginate una mano morbida
che dorme inquieta sul foglio;
immaginate una treccia bionda
che ciondola nel vuoto nel mondo

l'odore del suo braccio che diventa
l'odore della vita e della scienza;
immaginate un padre e una figlia
indolenziti dal troppo amore
la bellezza di lui candida e sfiatata
gli occhi pesti di lei in silenzio
i piedi nelle scarpe camminano da soli
verso una strada senza rose dove
Pitagora canta la sua canzone della logica
sibillina, la voce di lui anguilla si arrotolava
nell'orecchio di marmo di lei e lì faceva il nido
nel calore della fatalità femminile;
immaginate un padre che non ha voglia
di essere padre e una figlia arrampicata
sulle sue dita languide come un'ape golosa
a succhiare il miele di quel cuore di maschio
insensato che voleva solo scappare

(continua)

da DACIA MARAINI, Mangiami pure

[Modificato da |Antigone| 11/06/2005 10.37]

|Antigone|
00giovedì 9 giugno 2005 08:49
Dietro la porta
Ciò che importa è la Circonferenza



C'è un taglio obliquo di luce
nei pomeriggi d'inverno
che affligge, come il peso
d'armonie di cattedrale -

Celeste è la ferita che ci reca -
non possiamo trovare cicatrici -
ma interiore è il dissidio, là dove
hanno dimore i suoi significati -

Nessuno può spiegarlo -
Disperazione è il suggello -
un'angoscia imperiale
che l'aria ci manda -

Quando viene, il paesaggio sta in ascolto
e le ombre trattengono il respiro -
quando dilegua, è come la Distanza
sul volto della Morte

__________________________________________


Delle 1775 poesie di EMILY DICKINSON ognuno proporrà una personale lettura, una scelta che valga a dire le cose trovate. Lo psichiatra umanista EUGENIO BORGNA ha utilizzato alcuni testi per accompagnare la lettura della sua opera Noi siamo un colloquio.

A volte lo lascio cadere un attimo -
il pensiero di essere viva -
conoscere una gioia anonima -
e concepirne una più pazza -
consola un dolore così enorme
che se tutto il giorno dilaniasse
senza un istante di sollievo -
parrebbe ancora troppo lontana la morte -

Il delirio - inganna il disgraziato
per cui il patibolo stride -
il dondolio dell'amaca culla le teste -
vicinissime al Paradiso -

Una scogliera - che esce comoda dal mare
consuma l'orizzonte fragile -
il marinaio non s'accorge del colpo -
finché è già oltre il dolore -

__________________________________


Segue una parte dell'opera di borgna, intitolata: Alla ricerca dell'anima


Come chi percorra nella mente
la malattia che l'ha appena lasciato
non riesce a valutarne esatti i rischi
poiché il nuovo benessere lo offusca -

e chi torna sul ciglio di un abisso
col pensiero assottiglia il ramoscello
sbocciato di traverso sulla roccia,
che lo trattenne dal precipitare

così l'anima ha per abitudine,
trascorso molto tempo dal dolore,
di porre in dubbio la sua identità
in cerca di una prova.

[...]

[Modificato da |Antigone| 11/06/2005 9.00]

|Antigone|
00sabato 11 giugno 2005 11:13
Separazioni
L'Editore presenta così l'opera sulla quarta di copertina:
Le stagioni dell'amore, i tempi della solitudine e quelli della crudeltà in quattordici racconti che attraversano come meridiani le nostre inquietudini.
Sul risvolto di copertina si legge:
Incontri che accendono inconfessati rimorsi, abbandoni orchestrati come sotterranei giochi di crudeltà. In questi racconti di FRANCESCA SANVITALE le storie di coppia sono sempre rappresentate in un contrappunto di vittime e carnefici, anche se un sottile velo di ambiguità confonde le parti e le ribalta continuamente. La separazione, prima ancora che fra le due "parti in causa", avviene all'interno di ogni singolo personaggio. Anzi, è già avvenuta: i racconti descrivono l'assestamento dopo un terremoto; le ultime scosse possono essere spettacolari, ma le faglie profonde si sono già verificate da tempo. I personaggi, a un certo punto della loro vita, si ritrovano separati da se stessi: scoprono quello che sono stati, a volte con qualche orrore, rievocano quello che avrebbero potuto essere, e intanto si ritrovano con un compagno, una compagna, un se stesso che non riconoscono, da cui vogliono allontanarsi al più presto, con foga, quasi con rabbia.
[FRANCESCA SANVITALE, Separazioni, EINAUDI 1997]


...

[Modificato da |Antigone| 11/06/2005 11.14]

|Antigone|
00sabato 11 giugno 2005 11:27
Il Dio delle donne


"C'era una volta una creatura mendicante che cercava Dio": comincia così la breve autobiografia di Margherita Porete nello Specchio delle anime semplici, e continua: lo cercò nelle cose create, senza trovarlo, finché non ebbe l'idea di cercarlo nell'intimità della mente, e "fu così che scrisse questo libro: voleva che il suo prossimo trovasse Dio in lei, attraverso le sue parole".
Siamo verso la fine del Medioevo, in un tempo di passaggio, all'alba dell'Europa moderna. Fu allora che prese avvio un pensiero che arriva fino ai nostri giorni per vie solo in parte conosciute, pensiero di donne che avevano (e hanno) con Dio un rapporto di straordinaria confidenza e di suprema libertà. Si chiama mistica femminile ma meglio sarebbe chiamarla teologia in lingua materna. Questo nome ci restituisce la novità di una scrittura in cui l'esperienza si fa pensiero e scienza mediante la lingua che impariamo a parlare per prima, nell'ascolto della voce materna, e Dio si dice nella prossimità con il nostro essere corpo, nella fragilità degli inizi.
L'impresa di quelle audaci pensatrici venne presto isolata nell'eccezionalità. Eppure, come fa vedere Il dio delle donne di LUISA MURARO (MONDADORI 2003), nel loro linguaggio potevano essere formulate le risposte alle domande più comuni e gravi della condizione umana. Lo fa vedere portando la teologia in lingua materna tra le macerie della modernità e i rumori della postmodernità. L'effetto è sorprendente, ma sensato, paragonabile al silenzio che accompagna i cambiamenti profondi.

[Modificato da |Antigone| 11/06/2005 11.40]

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