La presenza di Dio

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Bestion.
00domenica 2 gennaio 2011 11:08
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!




























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Bestion.
00domenica 2 gennaio 2011 15:20
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!



























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Bestion.
00domenica 2 gennaio 2011 22:18
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00martedì 4 gennaio 2011 13:04
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00martedì 4 gennaio 2011 16:15
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00martedì 4 gennaio 2011 22:55
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


«Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore da tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome, annunziate di giorno in giorno la sua salvezza»

(Sal *96, 1-2)





«il Dio dei cantautori non è immenso, non è irraggiungibile,
al contrario è un Dio con cui si parla, si litiga, si blatera,
si chiede perdono a tu per tu»

(Roberto Vecchioni)



Cantautori
A tu per tu con Dio

di Roberto Vecchioni

In musica, nella grande musica (dalla polifonia medioevale all’Ottocento), Dio è stato celebrato con afflati e trasporti spirituali che sfiorano il sublime (si pensi a Monteverdi, a Palestrina, ad alcune insuperate romanze) ma ne è venuto fuori sempre un Dio astratto, lontano, temuto e adorato, incapace di interagire col mondo, alto e inaccessibile.

Anche nella poesia, nella grande poesia, Dio è vissuto nell’icona che lo vuole e lo trasmette universale, Dio di popoli, di nazioni o di umanità tutta, mai o raramente dall’uomo, del singolo, mai o raramente con una voce, un viso, delle mani, delle parole. E anche quando tutto ciò è in parte avvenuto (penso all’originalità di Prévert, ma ai surrealisti in generale) sempre stragrande, immenso, imbattibile, amato o odiato che fosse, su un altro piano, mai a tu per tu. Poi ci sono le eccezioni. Padre Turoldo, Madre Teresa. E forse proprio da queste eccezioni sono partiti i cantautori, per parlarne. Perché il Dio dei cantautori non è immenso, non è irraggiungibile, al contrario è un Dio con cui si parla, si litiga, si blatera, si chiede perdono a tu per tu.

Un Dio che arriva nella canzone d’autore coi grandi autori di fine anni ’60, primi ’70: De André, Guccini, Gaber. Nel ’65 Guccini scrive Dio è morto. Nello stesso anno, con tutt’altro piglio, Celentano interpreta Pregherò, che si può dire il perfetto opposto del buio gucciniano.

Pregherò è una canzone immediata, facile e anche furba di fede. «Non puoi odiare Dio perché non puoi vederlo, ma c’è». Verso che presuppone una cecità spirituale ma anche probabilmente fisica con conseguente rancore nei riguardi del destino: l’escamotage religioso di Celentano è elementare: io con il mio amore ti farò vedere Dio. Differente anni luce è l’impatto di Guccini con Dio è morto: intanto in lui Dio è metafora del dolore immenso che sconquassa il mondo, della perdita dei valori, delle guerre, della fame, della miseria e quant’altro. Non è quindi Dio in sé ad essere morto, bensì la società tutta che confonde il male con il bene, non conosce più limiti, non ha più nessuna pietà.

A dare voce allo scontento e all’incertezza umana arriva nel ’67 De André (con Spiritual e Si chiamava Gesù) col suo Dio-uomo da una parte e il suo uomo incolpevole dall’altra, temi che tre anni dopo esprimerà in senso più ampio ne La buona novella. Altra storia è in De André: lui sì che prende e subito una posizione. L’afflato di Fabrizio è fortemente, tortuosamente terreno, è l’uomo il centro morale, il valore primo dell’universo; ogni cosa parte dall’uomo e nell’uomo ha il suo epilogo. Ma De André crede in Dio? Parrebbe di no. Dio è invenzione del potere per avere la scusa di comandare in suo nome e giustificare a suo nome ogni bassezza.

La splendida Preghiera in gennaio (dedicata al suicidio di Tenco) è una specie di sommario delle certezze di De André, che non sono così «laiche». Per lui non esiste l’inferno, Dio accoglie chi ha sofferto (anche i peccatori) e, fondamentale, Dio ascolta gli uomini per aiutare gli uomini. Non solo Preghiera in gennaio è un capolavoro, ma mi pare nella sua non laicità, nel suo sfondo eretico un atto di fede ancor più forte di mille lodi al creatore. È evidente che De André fosse affascinato dal sospetto dell’esistenza di Dio, ma lo immaginò uguale identico al suo sentire, senza stare a seguire bibbie e vangeli.

E infatti nemmeno i Vangeli canonici seguì. Nella Buona novella a De André non interessa celebrare la venuta di Dio sulla terra. A lui preme dimostrare come un uomo straordinario abbia insegnato al mondo la pietà e, attenzione non il perdono, la pietà. Si perdona infatti solo chi ha colpa e se ne pente, ma nell’universo di Fabrizio, l’uomo non è responsabile del male, o ci nasce in mezzo o se ne difende, come nel sublime Testamento di Tito.

Contestuale anche se fortemente politico, caustico, graffiante è il Gaber dell’80 (Io se fossi Dio), che stila in effetti un panorama definitivo delle bassezze di questo mondo, augurandosi l’avvento di un Dio vendicativo e punitore. Gaber rivolgendosi direttamente al creatore aveva già scritto nel ’70 una bellissima "preghiera", il cui tema (guardar giù anche tra gli scontenti, i disgraziati, gli operai) riprenderà De André in Smisurata preghiera» e si era divertito (e qui l’ironia è tutto) in una bizzarra Madonnina dei dolori del ’72 fuori dalla norma perché ai grandi problemi metafisici oppone le sue minuscole fastidiosissime disgrazie di uomo comune.

Io se fossi Dio è una valanga di citazioni, sottintesi e no, un torrente di invettive, di gridi liberatori, di offese, un mix alla Savonarola, insomma. Ovviamente anche qui Dio è un ruolo una scusante una maschera, ma a differenza di De André, Gaber a Dio ci crede eccome, e sotto sotto spera che prima o poi intervenga per punire questo letamaio. Tra le righe si evince che nella sua disamina Gaber lascia intendere che forse è così che deve andare: l’altro Dio quello vero, permette tutto quello che lui non permetterebbe ma avrà bene le sue ragioni anche se inarrivabili e oscure.

Negli anni ’70 non possiamo fare a meno di citare l’altra storia del mondo, così minuziosamente complessa, fascinosamente darwiniana che ci presenta Lucio Dalla in Com’è profondo il mare. Il tema di fondo è la storia del pensiero libero umano soffocato dall’ignoranza e dalla prevaricazione evidenti nelle ultime due strofe dove chi comanda, non potendo eliminare il male (metafora del progresso popolare) lo brucia lo uccide lo umilia. Non erano tempi quelli di salamelecchi e sviolinate, oggi a distanza di trent’anni Dalla, come molti d’altronde, si è chiamato fuori, ha sepolto nel passato la sua vena contestatrice e provocatoria e si è trovato a consacrare e legittimare la presenza e le ragioni di Dio nel mondo (come nel brano Inri).

D’altronde questo rendez-vous con la fede pare che oggi sia una tappa quasi obbligatoria per molti cantautori, da Baglioni a Jannacci a me stesso, quasi che «tirare i remi in barca» abbia bisogno di una giustificazione, di un alibi che faccia da solido contrappeso. Bisogna considerare che una gran parte di cantautori crede in Dio ma non sopporta l’istituzione terrena che lo rappresenta.

E se Bennato se la prende con il papa cattolico (Affacciati affacciati, contro Paolo VI), Franco Battiato (’79) punta in ben altra direzione. A un suo immaginifico e totale spiritualismo che va oltre la riduttività e il particolarismo culturale appunto di qualsiasi rivelazione. E così fin dagli esordi gli piace giocare con un universo non contenibile nel ristretto cerchio della carità cristiana, ma individuabile e decifrabile (in un mare di simboli) in un contesto ben più ampio dove egli si muove e si esplica tra misticismi orientali e nozioni sufi, con vaghe parentele nel mondo musulmano e arabo in genere.

Agli inizi degli anni ’80 si torna per così dire alla tradizione con Renato Zero e Vasco Rossi, appena prima del grande silenzio che durerà fino agli anni ’90. Vasco in Portatemi Dio (dell’83) è già uguale a se stesso coerente con il suo personaggio provocatorio e blasfemo, crudo, granitico, cialtrone e coraggioso.

E siccome è Vasco Rossi fa quel che nessuno aveva mai tentato, se la prende direttamente con Dio quasi che costui fosse un divertito torturatore delle sue creature, intimandogli senza pudori di presentarsi in giudizio e attribuendosi il potere di giudicarlo. Vasco non se la prende con Dio per le ingiustizie e i dolori dell’umanità, bensì solo per le colpe che il Signore avrebbe nei suoi confronti («Gli devo raccontare la vita che ho vissuto e che non ho capito a cosa sia servito») che è poi una tacita scusante, un giustificativo ai suoi eccessi, ai suoi anticonformismi. Zero (che canta Potrebbe essere Dio, si badi bene al condizionale) ritaglia un brano intenso e profondo senza andare a cercare metafore alate e volando basso e convincente con esempi di tutti i giorni.

L’assunto in fondo è lo stesso in cui ci siamo più volte imbattuti, ovvero l’erronea propensione degli esseri umani a mitizzare piaceri fuggevoli, a mercificarsi, a ritenere indispensabili e imperdibili oggetti di tutti i tipi, false immagini di illusoria felicità. Gli anni ’80 sono muti con Dio, a meno che non adombri qualcosa quel Ci vuole un’altra vita di Battiato del 1986. I motivi di questo silenzio sono ovviamente culturali. Sono anni in cui parecchi cantautori, anche storici, cambiano faccia o si rivolgono ad altro; molti di nuovi si affacciano sulla scena, ma non hanno ancora né la voglia né il carisma per misurarsi in tal senso.

Negli anni Novanta, invece, parlar di Dio sarà sempre più frequente. Meglio se in dialogo a due con il Creatore. A parte alcune eccezioni, negli anni ’90 e ancor più nei 2000 si invertirà la percentuale tra invettive e preghiere a favore di queste ultime. Una delle più belle pagine di ricerca lessicale e letteraria resta sicuramente Qui Dio non c’è di Baglioni da Oltre del ’90. Vi si affronta mancanza (e il bisogno) della fede. Nasce un filone nuovo, al quale appartengono anche brani "minori" come Dio c’è del ’92 di Mia Martini e il suo esatto contrario Dio non c’è di Marco Masini del ’93. Il 1993 è anche l’anno di un’intensa Ave Maria, portata al Festival di Sanremo da Renato Zero. Da rilevare che quando la Madonna appare in canzone fa sempre figure superlative: la sua immagine è accompagnata da un senso di rispetto generale quasi fosse un’icona intoccabile, da non mettere in discussione, al contrario di Dio. Tutto ciò fa parte di un transfert spiegabilissimo. La Madonna non comanda e non impone, è l’eterna madre e quindi la dolcezza del mondo e nel mondo.

Su questa lunghezza d’onda troviamo la Madre dolcissima di Zucchero che è una sintesi dedotta e modernizzata dalla versione canonica degli Aquero. Nel 1994 resta da segnalare una inusuale incursione di Gino Paoli nell’ambito religioso. Già dal titolo Il Dio distratto si desume l’argomento: le cose non vanno bene perché Dio non è molto attento. Notare la sottile differenza con altre canzoni.

Qui Dio non è cattivo o sadico, e non è neppure uno che non deve spiegarci niente perché lui sa e noi no. Dio è solo distratto, il che ci riconduce ad un Paoli illuminista e voltairiano, Dio è il grande orologiaio. Al dialogo diretto col Supremo appartengono Un giorno un sogno di Antonacci e Hai un momento Dio di Ligabue. Il dialogo con Dio diretto a botta e risposta è cosa impervia e rischiosa.

L’escamotage per renderla credibile sta nell’abbassare Dio a livello umano, farlo parlare e agire come un uomo, altrimenti tutto diventa grottesco. Il brano di Antonacci parte bene e poi si sfilaccia, finisce cioè nello stereotipo della donna che non torna e si deprezza ancor più con due versi finali a tarallucci e vino.

Ligabue, nella sua semplicità, mi sembra invece più consistente. L’approccio all’Eterno è più immediato e consequenziale, molto discreto, riverente e la domanda non è poi di quelle che ci vogliono anni e pagine per rispondere: «Io sono un bravo ragazzo, vuoi incontrarmi almeno per un attimo?». Gli ultimi quindici anni sono un andare e venire di argomentazioni, soliloqui, variazioni su tema che non possono essere assemblati o incasellati in categorie.

C’è di tutto: dalla farneticazione geniale di Battiato ne L’esistenza di Dio, dove la scienza seziona e ricuce per cercare anima e tracce di sopravvivenza nell’uomo, all’ironia nemmeno troppo nascosta di Paola Turci in Ringrazio Dio (testo invero criptico dove la solitudine si mischia e si confonde come i soggetti) che quasi implora nuove prove e nuovi dolori per movimentare questa valle di lacrime; all’ennesimo dialogo (stavolta indiretto) di Finardi con Dio, dove l’umanizzazione è chiaramente proposta come un ipotesi (Se Dio fosse uno di noi).

Non c’è solo l’umanizzazione di Dio, ma anche lo scambio di ruoli: è Dio a soffrire e l’uomo a commiserarlo. E arriviamo all’Agnello di Dio di De Gregori, brano complesso, sfuggente, qua e là ostico, faticoso da intendere. Di certo c’è che la figura dell’agnello desunta dal Vangelo assume un significato molto più ampio di quello comune.

L’agnello è sacrificale e De Gregori ci illustra una galleria di esistenze illuse, comprate, deteriorate dalla civiltà del benessere «che tutto consuma, compreso l’amore». Lacerante pessimismo che nega un qualsiasi piano provvidenziale finale, Dio non abita da queste parti. Del ’96 è pure Oggi un Dio non ho di Raf, altra temperie ovviamente di minore profondità.

Anche qui Dio è metafora di una strada ,di un indirizzo di vita di, un percorso chiaro da scegliere per arrivare a un fine. Il cantautore però sembra aver perso almeno momentaneamente la bussola. Oggi un Dio non ho è un esempio di crisi, di accecamento, di buio momentaneo, accidente piuttosto comune nei credenti e quindi fonte di identificazione per chi ascolta. Chi invece crede e fa la lista dei suoi buoni propositi e delle sue buone azioni per accattivarsi Dio è Ruggeri nel Padre nostro 1989 Ma il brano è convenzionale, scontato e gli accenti musicali impongono una metrica obbligata che lo raffredda tantissimo. Ben altro spessore, e ben altra altezza di ispirazione ne Un Dio che cade di Gianna Nannini.

La canzone è di una consequenzialità perfetta, dall’attesa alla speranza di felicità, che poi dovrebbe essere il fine ultimo di tutti gli uomini. L’attesa, sacra e umana assieme, è quella non di un Dio che scende e si fa vedere ma di un Dio che cade e quindi riconosce le possibilità di errore delle sue creature: cade appunto come loro. Nel testo anticonformista brillano le locuzioni usate dalla Santacroce (l’autrice) per un finale che annuncia dolcezza e rifugge dall’orrore del tuono: eccola dunque la speranza, quella di un mondo senza colpe. Tre versi dicono molto di più di un saggio intero e Fossati (in Baci e saluti del 2006) li segna ad epigrafe su di un testo straordinario vissuto all’ombra e in parallelo con i grandi poeti sudamericani di cui conosce anima e sintassi.

«Posso nascondermi aspettando che ritorni / tutto quel vuoto stellato/ dove a Dio piace improvvisarsi pescatore». Ma la voce più certamente più originale, più singolare che si eleva a cantare il rapporto con una sacralità presente e intangibile, ma comunque chiamata a significare la speranza è quella nel 2006 di Vinicio Capossela in Ovunque proteggi. Non esiste nessuna preghiera, nessun «a tu per tu» in questi anni che arrivi così decisamente e direttamente al Signore, come questa voce laica e sprovveduta, peccatrice, deviata dagli eventi, ma pregna di una fede tra disperazione e sogno. Capossela porta il dialogo a due all’estrema essenzialità – valore del lirismo – ed è cantore graffiante della sua anima in questo estremo rivedersi e risolversi nel bisogno spasmodico non di doni o facilitazioni, non di conquiste o miracoli, ma di tenerezza divina, di aiuto ora e sempre, in una parola di protezione.

L’ambiguità è evidente: Dio è quasi assimilabile a una persona umana (a un padre, a una donna) che comunque ci sia, sia pronta a prendere le sue difese sempre (ovunque proteggi la grazia del tuo cuore); ma è straordinariamente pulsante ed emozionante il desiderio dolcissimo che Dio o chi Capossela voglia investire di tale potere sia la conditio sine qua non per continuare a vivere e credere. Questo sghimbescio, questo sfogo fuori norma, questo mascherare una fede per creare amore resta una delle invenzioni più riuscite a significare un rapporto possibile con il Signore.

Volutamente ho saltato dall’indagine temporale (che non è probante) un brano di De André da Anime salve, e cioè Smisurata preghiera. L’ho fatto perché penso si tratti di un compendio generale di quasi tutto quello che abbiamo analizzato e perché oltre ad essere un capolavoro assoluto la possiamo usare per tirare le fila, per abbozzare una conclusione ovviamente momentanea, dato che una definitiva non credo sarà mai possibile.

Per Smisurata preghiera De André ha preso spunto da Il gabbiere di Álvaro Mutis, poeta sudamericano, ricostruendo in versi una summa che vale da suo testamento spirituale. Il De André di sempre, alto, altissimo a difendere la debolezza coerente e minoritaria continuamente offesa contro la maggioranza che non lascia spazio a chi esce dal cerchio e dai limiti; è il De Andrè di Villon, dei due ladroni, del Fiume Sand Creek, del suo lontanissimo Piero, il De André percorso da un fuoco di sdegno e da un vento di dolcezza che si confondono e ci ammaliano sino alla commozione. Il solito Faber sì, ma sul finale ecco la sorpresa, ecco quel rivolgersi umile e disperato a Dio (credere per sopravvivere), implorandolo di salvarli tutti questi «servi disobbedienti» troppo sfortunati in vita per patire anche dopo la morte.

Gli ultimi nove versi, poi, sono un capolavoro nel capolavoro: è come se tutto il dolore, tutta la miseria del mondo si fossero concentrati in quell’attimo nella sua penna: «Non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti», è così sino ai quattro colpi finali, parattatici rispetto a quelli centrali, anche se di segno e significato opposto: Fabrizio si fa suggeritore a Dio, giustificandolo (anche Lui) come ha fatto con tutti e sempre, ma lo mette di fronte alla pietà che proprio Lui non può tradire, lo incatena al patto con la sua divinità fatta di misericordia.



Fonte -



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paul_65
00mercoledì 5 gennaio 2011 00:04
perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e sole?????
[SM=x44599] vecchioni c'e' una bella canzone "shalom" ci sono dei pezzettoni non indiferenti [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]
Bestion.
00mercoledì 5 gennaio 2011 16:42
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Epifania 2010: concerto all'Auditorium di Milano dalla "laVerdi Barocca"



Uno dei capolavori di Bach, l'Oratorio di Natale,
per festeggiare l'Epifania all'Auditorium di Milano.
Con brunch nel foyer tra la prima e la seconda parte del concerto.



Epifania con l'Oratorio di Bach
Pino Pignatta

Epifania del Signore davvero commovente, dal punto di vista musicale e spirituale (e sappiamo che questi due aspetti in Bach erano intimamente connessi) quella che va in scena domani all'Auditorium di Milano. L’Orchestra laVerdi Barocca, diretta dal maestro Ruben Jais - con l’Ensemble vocale de laVerdi Barocca diretta da Gianluca Capuano - dopo il grande successo dello scorso anno, eseguirà nuovamente, in forma integrale, l’Oratorio di Natale di Johann Sebastian Bach, composizione tanto vasta e grandiosa quanto concettualmente omogenea: si presenta come un ciclo di sei cantate, una per ciscuna delle sei festività comprese tra il giorno di Natale e l’Epifania, e precisamente: il dies Natalis, la festa di santo Stefano, quella dell’apostolo Giovanni, la Circoncisione (o Nuovo Anno), la domenica dopo il Capodanno e l’Epifania.

L’Oratorio di Natale composto da Johann Sebastian Bach, in tedesco Weihnachts-Oratorium, è uno dei capolavori della musica liturgica, scritto a Lipsia, dove Bach era Kantor da più di dieci anni, per le festività natalizie del 1734-1735. Nella produzione sacra bachiana il termine “Oratorium” ricorre tre volte, nei momenti culminanti dell’anno: Natale, Pasqua e Ascensione. Può avere un carattere narrativo, come nel caso dell’Oratorio di Pasqua, oppure privilegiare il racconto del Vangelo e affidarne l’intonazione a un tenore, nelle vesti dell’Evangelista, e questo è il caso del Weihnachts-Oratorium. È una composizione articolata in 64 brani, fra i quali si alternano arie solistiche, arie a più voci, recitativi accompagnati dal basso continuo e che ripropongono direttamente i Vangeli di Luca e Matteo. Entrano in scena personaggi come l’Angelo, i Magi, Erode, e non manca l’intervento dei cosiddetti “cori della turba”, cioè del popolo dei pastori che prende parte all’azione.

Il concerto proposto domani all'Auditorium di Milano dalla "laVerdi Barocca" (ensemble specializzato nell’esecuzione della musica barocca, secondo un approccio filologico) è davvero curioso anche perché prevede l'esecuzione integrale divisa in due parti: le prime tre Cantate che compongono l'Oratorio di Natale di Bach a partire dalle 11.30; le seconde tre Cantate, che si chiudono appunto con l'Adorazione dei Re Magi, a partire dalle 15. Nel mezzo, tra le due sezioni del concerto, brunch nel foyer dell'Auditorium.


Fonte -


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Bestion.
00mercoledì 5 gennaio 2011 19:49
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00mercoledì 5 gennaio 2011 19:52
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00mercoledì 5 gennaio 2011 19:54
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


«Riscattare questo tempo natalizio
da un rivestimento troppo moralistico e sentimentale»



“Adorazione dei magi"
Sandro Botticelli (1482) - National Gallery of Art di Washington


«La notte di Natale è profondamente legata
alla grande veglia notturna della Pasqua, quando la redenzione
si compie nel sacrificio glorioso del Signore morto e risorto»



La luce del tempo di Natale
Benedetto XVI

Ancora circondati dalla luce del Santo Natale, che ci invita alla gioia per la venuta del Salvatore, siamo oggi alla vigilia dell'Epifania, in cui celebriamo la manifestazione del Signore a tutte le genti. La festa del Natale affascina oggi come una volta, più di altre grandi feste della Chiesa; affascina perché tutti in qualche modo intuiscono che la nascita di Gesù ha a che fare con le aspirazioni e le speranze più profonde dell'uomo. Il consumismo può distogliere da questa interiore nostalgia, ma se nel cuore c'è il desiderio di accogliere quel Bambino che porta la novità di Dio, che è venuto per donarci la vita in pienezza, le luci degli addobbi natalizi possono diventare piuttosto un riflesso della Luce che si è accesa con l'incarnazione di Dio.

Nelle celebrazioni liturgiche di questi giorni santi abbiamo vissuto in modo misterioso ma reale l'ingresso del Figlio di Dio nel mondo e siamo stati illuminati ancora una volta dalla luce del suo fulgore. Ogni celebrazione è presenza attuale del mistero di Cristo e in essa si prolunga la storia della salvezza. A proposito del Natale, il Papa san Leone Magno afferma: "Anche se la successione delle azioni corporee ora è passata, come è stato ordinato in anticipo nel disegno eterno..., tuttavia noi adoriamo continuamente lo stesso parto della Vergine che produce la nostra salvezza" (Sermone sul Natale del Signore 29, 2), e precisa: "perché quel giorno non è passato in modo tale che sia anche passata la potenza dell'opera che allora fu rivelata" (Sermone sull'Epifania 36, 1). Celebrare gli eventi dell'incarnazione del Figlio di Dio non è semplice ricordo di fatti del passato, ma è rendere presenti quei misteri portatori di salvezza. Nella Liturgia, nella celebrazione dei Sacramenti, quei misteri si rendono attuali e diventano efficaci per noi, oggi. Ancora san Leone Magno afferma: "Tutto ciò che il Figlio di Dio fece e insegnò per riconciliare il mondo, non lo conosciamo soltanto nel racconto di azioni compiute nel passato, ma siamo sotto l'effetto del dinamismo di tali azioni presenti" (Sermone 52, 1).

Nella Costituzione sulla sacra liturgia, il Concilio Vaticano ii sottolinea come l'opera della salvezza realizzata da Cristo continua nella Chiesa mediante la celebrazione dei santi misteri, grazie all'azione dello Spirito Santo. Già nell'Antico Testamento, nel cammino verso la pienezza della fede, abbiamo testimonianze di come la presenza e l'azione di Dio sia mediata attraverso i segni, ad esempio, quello del fuoco (cfr. Es 3, 2ss; 19, 18). Ma a partire dall'Incarnazione avviene qualcosa di sconvolgente: il regime di contatto salvifico con Dio si trasforma radicalmente e la carne diventa lo strumento della salvezza: "Verbum caro factum est", "il Verbo si fece carne", scrive l'evangelista Giovanni e un autore cristiano del iii secolo, Tertulliano, afferma: "Caro salutis est cardo", "la carne è il cardine della salvezza" (De carnis resurrectione, 8, 3: PL 2, 806).

Il Natale è già la primizia del "sacramentum-mysterium paschale", è cioè l'inizio del mistero centrale della salvezza che culmina nella passione, morte e risurrezione, perché Gesù comincia l'offerta di se stesso per amore fin dal primo istante della sua esistenza umana nel grembo della Vergine Maria. La notte di Natale è quindi profondamente legata alla grande veglia notturna della Pasqua, quando la redenzione si compie nel sacrificio glorioso del Signore morto e risorto. Lo stesso presepio, quale immagine dell'incarnazione del Verbo, alla luce del racconto evangelico, allude già alla Pasqua ed è interessante vedere come in alcune icone della Natività nella tradizione orientale, Gesù Bambino venga rappresentato avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro; un'allusione al momento in cui Egli verrà deposto dalla croce, avvolto in un lenzuolo e messo in un sepolcro scavato nella roccia (cfr Lc 2, 7; 23, 53). Incarnazione e Pasqua non stanno una accanto all'altra, ma sono i due punti chiave inseparabili dell'unica fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio Incarnato e Redentore. Croce e Risurrezione presuppongono l'Incarnazione. Solo perché veramente il Figlio, e in Lui Dio stesso, "è disceso" e "si è fatto carne", morte e risurrezione di Gesù sono eventi che risultano a noi contemporanei e ci riguardano, ci strappano dalla morte e ci aprono ad un futuro in cui questa "carne", l'esistenza terrena e transitoria, entrerà nell'eternità di Dio. In questa prospettiva unitaria del Mistero di Cristo, la visita al presepio orienta alla visita all'Eucaristia, dove incontriamo presente in modo reale il Cristo crocifisso e risorto, il Cristo vivente.

La celebrazione liturgica del Natale, allora, non è solo ricordo, ma è soprattutto mistero; non è solo memoria, ma anche presenza. Per cogliere il senso di questi due aspetti inscindibili, occorre vivere intensamente tutto il Tempo natalizio come la Chiesa lo presenta. Se lo consideriamo in senso lato, esso si estende per quaranta giorni, dal 25 dicembre al 2 febbraio, dalla celebrazione della Notte di Natale, alla Maternità di Maria, all'Epifania, al Battesimo di Gesù, alle nozze di Cana, alla Presentazione al Tempio, proprio in analogia con il Tempo pasquale, che forma un'unità di cinquanta giorni, fino alla Pentecoste. La manifestazione di Dio nella carne è l'avvenimento che ha rivelato la Verità nella storia. Infatti, la data del 25 dicembre, collegata all'idea della manifestazione solare - Dio che appare come luce senza tramonto sull'orizzonte della storia -, ci ricorda che non si tratta solo di un'idea, quella che Dio è la pienezza della luce, ma di una realtà per noi uomini già realizzata e sempre attuale: oggi, come allora, Dio si rivela nella carne, cioè nel "corpo vivo" della Chiesa peregrinante nel tempo, e nei Sacramenti ci dona oggi la salvezza.

I simboli delle celebrazioni natalizie, richiamati dalle Letture e dalle preghiere, danno alla liturgia di questo Tempo un senso profondo di "epifania" di Dio nel suo Cristo-Verbo incarnato, cioè di "manifestazione" che possiede anche un significato escatologico, orienta cioè agli ultimi tempi. Già nell'Avvento le due venute, quella storica e quella alla fine della storia, erano direttamente collegate; ma è in particolare nell'Epifania e nel Battesimo di Gesù che la manifestazione messianica si celebra nella prospettiva delle attese escatologiche: la consacrazione messianica di Gesù, Verbo incarnato, mediante l'effusione dello Spirito Santo in forma visibile, porta a compimento il tempo delle promesse e inaugura i tempi ultimi.

Occorre riscattare questo Tempo natalizio da un rivestimento troppo moralistico e sentimentale. La celebrazione del Natale non ci propone solo degli esempi da imitare, quali l'umiltà e la povertà del Signore, la sua benevolenza e amore verso gli uomini; ma è piuttosto l'invito a lasciarci trasformare totalmente da Colui che è entrato nella nostra carne. San Leone Magno esclama: "il Figlio di Dio... si è congiunto a noi e ha congiunto noi a sé in modo tale che l'abbassamento di Dio fino alla condizione umana divenisse un innalzamento dell'uomo fino alle altezze di Dio" (Sermone sul Natale del Signore 27, 2). La manifestazione di Dio è finalizzata alla nostra partecipazione alla vita divina, alla realizzazione in noi del mistero della sua incarnazione. Tale mistero è il compimento della vocazione dell'uomo. Ancora san Leone Magno spiega l'importanza concreta e sempre attuale per la vita cristiana del mistero del Natale: "le parole del Vangelo e dei Profeti... infiammano il nostro spirito e ci insegnano a comprendere la Natività del Signore, questo mistero del Verbo fatto carne, non tanto come un ricordo di un avvenimento passato, quanto come un fatto che si svolge sotto i nostri occhi... è come se ci venisse ancora proclamato nella solennità odierna: "Vi do l'annunzio di una grande gioia, che sarà per tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore che è il Cristo Signore"" (Sermone sul Natale del Signore 29, 1). Ed aggiunge: "Riconosci, cristiano, la tua dignità, e, fatto partecipe della natura divina, bada di non ricadere, con una condotta indegna, da tale grandezza, nella primitiva bassezza" (Sermone 1 sul Natale del Signore, 3).

Cari amici, viviamo questo Tempo natalizio con intensità: dopo aver adorato il Figlio di Dio fatto uomo e deposto nella mangiatoia, siamo chiamati a passare all'altare del Sacrificio, dove Cristo, il Pane vivo disceso dal cielo, si offre a noi quale vero nutrimento per la vita eterna. E ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi, alla mensa della Parola e del Pane di Vita, ciò che abbiamo contemplato, ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo fatto carne, annunciamolo con gioia al mondo e testimoniamolo generosamente con tutta la nostra vita. Rinnovo di cuore a tutti voi e ai vostri cari sentiti auguri per il Nuovo Anno e vi auguro una buona festività dell'Epifania.


Fonte -



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paul_65
00giovedì 6 gennaio 2011 00:20
perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole?????
Bestion., 26/12/2010 23.23:







La carità è la forza che cambia il mondo:




[SM=x44599] dopo un lunga meditazione tutto sommato [SM=x44597] ne basta uno per cambiare il mondo [SM=x44600] perche' le patate nascono sotto terra [SM=x44603] (o crescono gia' su gli alberi [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] ) e bestion tu sai come sono importanti le buccie di patate nei campi [SM=x44603] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]
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Bestion.
00giovedì 6 gennaio 2011 13:15
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


«L'universo non è il risultato del caso,
come alcuni vogliono farci credere»




«Nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e
nella sua razionalità non possiamo non leggere la razionalità eterna,
e non possiamo fare a meno di farci guidare da essa fino
all'unico Dio, creatore del cielo e della terra»



«La bellezza dell'universo
ci guida all'unico Dio»

Redazione

Lo ha ribadito Benedetto XVI nell'omelia della messa dell'Epifania celebrata questa mattina in San Pietro. "Non dovremmo lasciarci limitare la mente - ha suggerito ai fedeli - da teorie che arrivano sempre solo fino a un certo punto e che, se guardiamo bene, non sono affatto in concorrenza con la fede, ma non riescono a spiegare il senso ultimo della realtà".

Secondo il Pontefice, "nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e nella sua razionalità non possiamo non leggere la razionalità eterna, e non possiamo fare a meno di farci guidare da essa fino all'unico Dio, creatore del cielo e della terra".

Nell'omelia, il Papa teologo ha indicato come esempio da seguire per un corretto atteggiamento verso la scienza quello dei Re Magi che, ha ricordato, "erano probabilmente dei sapienti che scrutavano il cielo, ma non per cercare di 'leggere' negli astri il futuro, eventualmente per ricavarne un guadagno; erano piuttosto uomini 'in ricercà di qualcosa di più, in ricerca della vera luce, che sia in grado di indicare la strada da percorrere nella vita. Erano persone certe che nella creazione esiste quella che potremmo definire la 'firma' di Dio, una firma che l'uomo può e deve tentare di scoprire e decifrare".

Contemplando l'Universo, ha osservato, "siamo invitati a leggervi qualcosa di profondo: la sapienza del Creatore, l'inesauribile fantasia di Dio, il suo infinito amore per noi". Infatti, "nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e nella sua razionalità non possiamo non leggere la razionalità eterna, e non possiamo fare a meno di farci guidare da essa fino all'unico Dio, creatore del cielo e
della terra".

"Se avremo questo sguardo, vedremo che Colui che ha creato il mondo e Colui che è nato in una grotta a Betlemme e continua ad abitare in mezzo a noi nell'Eucaristia, sono - ha scandito Ratzinger - lo stesso Dio vivente, che ci interpella, ci ama, vuole condurci alla vita eterna".


Fonte -


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Bestion.
00giovedì 6 gennaio 2011 17:38
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00giovedì 6 gennaio 2011 19:07
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00giovedì 6 gennaio 2011 19:36
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!







Dies irae
attribuito a Tommaso da Celano
(1260 circa)


Dies iræ dies illa,
Solvet sæclum in favilla,
Teste David cum Sybilla.

Quantus tremor est futurus
Quando iudex est venturus,
Cuncta stricte discussurus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepulchra regionum
Coget omnes ante thronum.

Mors stupebit, et natura,
Cum resurget creatura
Iudicanti responsura.

Liber scriptus proferetur
In quo totum continetur
Unde mundus iudicetur.

Iudex ergo cum sedebit,
Quidquid latet apparebit:
Nil inultum remanebit.

Quid sum miser tunc dicturus,
Quem patronum rogaturus,
Cum vix iustus sit securus?

Rex tremendæ maiestatis
Qui salvandos salvas gratis,
Salva me, fons pietatis.

Recordare, Iesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me sedisti lassus,
Redemisti crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Iuste iudex ultionis,
Donum fac remissionis
Ante diem rationis.

Ingemisco tamquam reus,
Culpa rubet vultus meus:
Supplicanti parce Deus.

Qui Mariam absolvisti,
Et latronem exaudisti,
Mihi quoque spem dedisti.

Preces meæ non sunt dignæ,
Sed tu bonus fac benigne
Ne perenni cremer igne.

Inter oves locum præsta
Et ab hædis me sequestra,
Statuens in parte dextra.

Confutatis maledictis,
Flammis acribus addictis,
Voca me cum benedictis.

Oro supplex et acclinis,
Cor contritum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimosa dies illa,
Qua resurget ex favilla
Iudicandus homo reus.

Huic ergo parce Deus:
Pie Iesu domine,
Dona eis requiem.

Amen



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Bestion.
00giovedì 6 gennaio 2011 23:49
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


L’inno di lode all’Epifania:


“Adorato dai pastori"
Vannucci Pietro detto Perugino (1515) - Accademia Carrara, Bergamo


«Questa ricorrenza affascina più di altre grandi feste
perché fa intuire un po’ a tutti che la nascita di Gesù
ha a che fare con le nostre speranze»



Dio si rivela
nel corpo vivo della Chiesa

Redazione

L'Epifania, che coincide con l'ultimo giorno di vacanza per scolari e studenti, "affascina oggi come una volta, piu' di altre grandi feste della Chiesa; affascina perche' tutti in qualche modo intuiscono che la nascita di Gesu' ha a che fare con le aspirazioni e le speranze piu' profonde dell'uomo".Tuttavia, "il consumismo puo' distogliere da questa interiore nostalgia". Lo ha affermato il Papa nella catechesi tenuta durante la prima Udienza Generale dell’anno.

"Le luci degli addobbi natalizi possono diventare piuttosto un riflesso della Luce che si e' accesa con l'incarnazione di Dio", ha spiegato il Pontefice, esortando i fedeli a "vivere intensamente tutto il tempo natalizio come la Chiesa lo presenta e che si estende per quaranta giorni, dal 25 dicembre al 2 febbraio, dalla celebrazione della Notte di Natale, alla Maternita' di Maria, all'Epifania, al Battesimo di Gesu', alle nozze di Cana, alla Presentazione al Tempio, proprio in analogia con il tempo pasquale, che forma un'unita' di cinquanta giorni, fino alla Pentecoste". Dobbiamo riscattare, ha spiegato,"questo tempo natalizio da un rivestimento troppo moralistico e sentimentale".

"Alla vigilia dell'Epifania, in cui celebriamo la manifestazione del Signore a tutte le genti", il Papa teologo ha dunque sottolineato che "la celebrazione del Natale non ci propone solo degli esempi da imitare, quali l'umilta' e la poverta' del Signore, la sua benevolenza e amore verso gli uomini; ma e' piuttosto l'invito a lasciarci trasformare totalmente da Colui che e' entrato nella nostra carne". Ed anche che "la celebrazione liturgica del Natale non e' solo ricordo, ma e' soprattutto mistero; non e' solo memoria, ma anche presenza", ha ammonito il Papa, rammentando che il tempo liturgico natalizio e’ "la manifestazione di Dio nella carne e l'avvenimento che ha rivelato la verita' nella storia".

La stessa data del 25 dicembre, infatti, collegata all'idea della manifestazione solare per cui "Dio appare come luce senza tramonto sull'orizzonte della storia", ci ricorda che "non si tratta solo di un'idea, quella che Dio e' la pienezza della luce, ma di una realta' per noi uomini gia' realizzata e sempre attuale: oggi, come allora, Dio si rivela nella carne, cioe' nel corpo vivo della Chiesa peregrinante nel tempo". Gli stessi simboli delle celebrazioni natalizie, richiamati dalle letture e dalle preghiere - ha concluso Benedetto XVI - danno alla liturgia di questo tempo un senso profondo di epifania di Dio nel suo Cristo-Verbo incarnato, cioe' di manifestazione che possiede anche un significato escatologico, orienta cioe' agli ultimi tempi".


Fonte -


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Bestion.
00venerdì 7 gennaio 2011 13:44
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Epifania: Caspare (o Gaspare), Melchiorre, Baldassarre


“Adorazione dei Magi"
Antonio Balestra (1704-1708) - Chiesa San Zaccaria, Venezia



Baldassarre
il 'mago' d’Africa

Franco Cardini

Una vecchia tradizione, ancora viva in molti paesi tra Mitteleuropa e Balcani ma non ignota nemmeno nel Settentrione italiano, vuole che le tre lettere CMB, dipinte o scolpite sulle porte o sulle pareti domestiche, proteggano gli abitanti della casa e portino loro fortuna. Si tratta delle iniziali dei nomi dei "tre re magi": Caspare (o Gaspare), Melchiorre, Baldassarre. Oggi tutti sanno che i misteriosi saggi venuti dall’Oriente secondo il vangelo di Matteo erano tre, ch’erano re, che i loro doni al Bambino erano oro, incenso e mirra, che erano di età diversa. Queste cose le sanno anche i bambini: anzi, cerchiamo di fare in modo che non le scordino. Il fatto è tuttavia che l’evangelista Matteo, tutte queste notizie, mica ce le dà.

Egli si limita ad affermare, nel suo testo greco (quello aramaico non ci è pervenuto), che di trattava di màgoi (sacerdoti persiani? O semplicemente indovini, ciarlatani?) venuti ef’anatolè (da oriente) e che portarono i tre tipi di doni che sappiamo. Ma non che fossero re, né quanti fossero, né come si chiamassero, né che età avessero. Tutte queste notizie ci pervengono dai vangeli apocrifi, di dubbia tradizione, taluni anche relativamente recenti.

Ma il tempo e la tradizione hanno consolidato e complicato i dati in nostro possesso, giungendo alla situazione che ormai conosciamo e che viene espressa in migliaia di rappresentazioni pittoriche e scultoree nonché nei nostri presepi. È anche piuttosto difficile attribuire ai magi i loro rispettivi nomi. Secondo il celebre mosaico di Sant’Apollinare Nuovo in Ravenna, Baldassarre era il magio di mezza età, Melchiorre il giovane, Caspare il vecchio.

Un dipinto catalano dell’XI secolo chiama invece Caspare quello di mezz’età, Baldassarre il giovane, Melchiorre il vecchio. Nella lunetta del battistero di Parma, Melchiorre è il giovane, Baldassarre quello di mezza età, Caspare il Vecchio (come a Ravenna). Insomma, si tratta di tradizioni incerte. Ma nel paese dove oggi, in senso assoluto, i "tre re" sono più celebri e cari alle consuetudini dell’Epifania, la Spagna – nelle grandi città nelle quali si organizzano ancora splendide feste e cavalcate tra il 5 e il 6 gennaio –, il più popolare è il giovane Baldassarre, ch’è quello che porta i doni ai bambini.

E ha un’altra particolarità: è nero. Lo si definisce, difatti, moro (un aggettivo d’origine etnica, indicante in origine gli abitanti della Mauritania, e passato in castigliano a indicare, in genere, prima gli arabo-saraceni, los moros, appunto, quindi il colore bruno della loro pelle): e dalla fine del Medioevo lo si raffigura dotato dei caratteri etnici degli africani, cioè non solo con la pelle nera, ma anche con i capelli crespi, il naso camuso, le labbra turgide. Quel che insomma da noi, prima dell’avvento del politically correct, si sarebbe detto "un negro".

Da dove proviene quest’usanza? In realtà, essa è venerabilissima, però complessa. Già un testo esegetico altomedievale sostiene che uno dei magi era fuscus, di pelle scura quindi; quando a partire da circa il XII-XIII secolo si volle vedere nei tre magi i sovrani dei tre continenti e delle tre razze umane, al più giovane si affidò il ruolo di re dell’Africa e si attribuì alla sua epidermide il colore nero.

Ma non fu così facile. Fino dalle Passiones dei martiri del II-III secolo, i "neri" (egizi, nubiani, etiopi) erano per il loro aspetto e il loro colore associati al diavolo. Neri erano raffigurati sovente gli infedeli al tempo delle crociate, come si vede in un mosaico di Vercelli e in molte miniature che narrano degli scontri epici tra guerrieri cristiani e saraceni. Anche lì, l’equivalenza nero-infedele-mostruoso-demoniaco era evidente.

La Chanson de Roland proclama che i nemici della fede sono «neri e cornuti come diavoli». Solo nel Basso Medioevo ebbe speciale impulso il culto di un gruppo di martiri-soldati dell’età di Diocleziano, la Legione Tebana, che provenivano dalla città di Tebe nell’Egitto meridionale, oggi Nubia. Si trattava quindi di nubiani, dalla pelle nera. Il nome del loro capo, ignoto, fu quindi Mauritius, cioè "il Mauritano", "il Nero". Inoltre, cominciavano allora a circolare notizie riguardanti il misterioso imperatore degli etiopi, il Negus, con il quale s’identificava la favolosa figura del "Prete Gianni", di cui parla anche Marco Polo, ma che fino ad allora era stato situato in Asia centrale.

Queste nuove tradizioni, che portavano gli uomini dalla pelle nera all’attenzione della cristianità europea, determinarono l’inserimento di uno di loro nel corteo dei re magi: come re d’Africa e della "razza camita", e in genere il più giovane dei tre. Il giovane "mago nero" è figura costante nelle scene d’adorazione medievali e rinascimentali più celebri. Tra esse, due del Mantegna e una nel "Trittico dell’Adorazione" di Hieronymus Bosch oggi conservato al Prado.

Con lo sviluppo del colonialismo e l’avvio della "tratta degli schiavi", anche i "santi-negri" si moltiplicarono, assumendo una funzione di patronato degli sventurati venduti come merce umana. Ma già il mosaico della chiesa dei Trinitari di Roma mostrava il Cristo in trono tra due schiavi, uno cristiano dalla pelle bianca e uno musulmano di color nero. Del resto, le avventure del mago Baldassarre non finiscono qui. La nobilissima famiglia provenzale dei Del Balzo, trapiantata in Italia meridionale, lo assunse a suo capostipite e pose la stella dei magi sulla sua arme araldica.

Tra Quattro e Cinquecento, ai magi si conferirono anche – com’era giusto, trattandosi di re – stemmi e bandiere. Nel Cinque-Settecento, i magi si videro abbigliati da ambasciatore turchi persiani, come ancora si riscontra negli splendidi presepi napoletani. Insomma, una tradizione inesauribile a illustrare un "semplice" testo evangelico che nell’arco dei secoli si è trasformato nella più bella leggenda di tutti i tempi.


Fonte -


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Bestion.
00venerdì 7 gennaio 2011 23:30
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


I segni dell'Epifania spiegati da Benedetto XVI


“Natura morta con Bibbia"
Vincent Van Gogh (1885) - Van Gogh Museum, Amsterdam

«Il linguaggio del creato ci permette di percorrere un buon tratto di strada
verso Dio, ma non ci dona la luce definitiva. Per i Magi è stato indispensabile
ascoltare la voce delle Sacre Scritture: solo esse potevano indicare loro la via.
È la Parola di Dio la vera stella, che, nell'incertezza dei discorsi umani,
ci offre l'immenso splendore della verità divina»



Il cammino dei Magi

Benedetto XVI

Nella solennità dell'Epifania la Chiesa continua a contemplare e a celebrare il mistero della nascita di Gesù salvatore. In particolare, la ricorrenza odierna sottolinea la destinazione e il significato universali di questa nascita. Facendosi uomo nel grembo di Maria, il Figlio di Dio è venuto non solo per il popolo d'Israele, rappresentato dai pastori di Betlemme, ma anche per l'intera umanità, rappresentata dai Magi.
Ed è proprio sui Magi e sul loro cammino alla ricerca del Messia (cfr. Mt 2, 1-12) che la Chiesa ci invita oggi a meditare e a pregare. Nel Vangelo abbiamo ascoltato che essi, giunti a Gerusalemme dall'Oriente, domandano: "Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo" (v. 2). Che genere di persone erano, e che specie di stella era quella? Essi erano probabilmente dei sapienti che scrutavano il cielo, ma non per cercare di "leggere" negli astri il futuro, eventualmente per ricavarne un guadagno; erano piuttosto uomini "in ricerca" di qualcosa di più, in ricerca della vera luce, che sia in grado di indicare la strada da percorrere nella vita. Erano persone certe che nella creazione esiste quella che potremmo definire la "firma" di Dio, una firma che l'uomo può e deve tentare di scoprire e decifrare. Forse il modo per conoscere meglio questi Magi e cogliere il loro desiderio di lasciarsi guidare dai segni di Dio è soffermarci a considerare ciò che essi trovano, nel loro cammino, nella grande città di Gerusalemme.

Anzitutto incontrarono il re Erode. Certamente egli era interessato al bambino di cui parlavano i Magi; non però allo scopo di adorarlo, come vuole far intendere mentendo, ma per sopprimerlo. Erode è un uomo di potere, che nell'altro riesce a vedere solo un rivale da combattere. In fondo, se riflettiamo bene, anche Dio gli sembra un rivale, anzi, un rivale particolarmente pericoloso, che vorrebbe privare gli uomini del loro spazio vitale, della loro autonomia, del loro potere; un rivale che indica la strada da percorrere nella vita e impedisce, così, di fare tutto ciò che si vuole. Erode ascolta dai suoi esperti delle Sacre Scritture le parole del profeta Michea (5, 1), ma il suo unico pensiero è il trono.
Allora Dio stesso deve essere offuscato e le persone devono ridursi ad essere semplici pedine da muovere nella grande scacchiera del potere. Erode è un personaggio che non ci è simpatico e che istintivamente giudichiamo in modo negativo per la sua brutalità. Ma dovremmo chiederci: forse c'è qualcosa di Erode anche in noi? Forse anche noi, a volte, vediamo Dio come una sorta di rivale? Forse anche noi siamo ciechi davanti ai suoi segni, sordi alle sue parole, perché pensiamo che ponga limiti alla nostra vita e non ci permetta di disporre dell'esistenza a nostro piacimento?
Cari fratelli e sorelle, quando vediamo Dio in questo modo finiamo per sentirci insoddisfatti e scontenti, perché non ci lasciamo guidare da Colui che sta a fondamento di tutte le cose. Dobbiamo togliere dalla nostra mente e dal nostro cuore l'idea della rivalità, l'idea che dare spazio a Dio sia un limite per noi stessi; dobbiamo aprirci alla certezza che Dio è l'amore onnipotente che non toglie nulla, non minaccia, anzi, è l'Unico capace di offrirci la possibilità di vivere in pienezza, di provare la vera gioia.

I Magi poi incontrano gli studiosi, i teologi, gli esperti che sanno tutto sulle Sacre Scritture, che ne conoscono le possibili interpretazioni, che sono capaci di citarne a memoria ogni passo e che quindi sono un prezioso aiuto per chi vuole percorrere la via di Dio.
Ma, afferma sant'Agostino, essi amano essere guide per gli altri, indicano la strada, ma non camminano, rimangono immobili. Per loro le Scritture diventano una specie di atlante da leggere con curiosità, un insieme di parole e di concetti da esaminare e su cui discutere dottamente. Ma nuovamente possiamo domandarci: non c'è anche in noi la tentazione di ritenere le Sacre Scritture, questo tesoro ricchissimo e vitale per la fede della Chiesa, più come un oggetto per lo studio e la discussione degli specialisti, che come il Libro che ci indica la via per giungere alla vita? Penso che, come ho indicato nell'Esortazione apostolica Verbum Domini, dovrebbe nascere sempre di nuovo in noi la disposizione profonda a vedere la parola della Bibbia, letta nella Tradizione viva della Chiesa (n. 18), come la verità che ci dice che cosa è l'uomo e come può realizzarsi pienamente, la verità che è la via da percorrere quotidianamente, insieme agli altri, se vogliamo costruire la nostra esistenza sulla roccia e non sulla sabbia.

E veniamo così alla stella. Che tipo di stella era quella che i Magi hanno visto e seguito? Lungo i secoli questa domanda è stata oggetto di discussione tra gli astronomi. Keplero, ad esempio, riteneva che si trattasse di una "nova" o una "supernova", cioè di una di quelle stelle che normalmente emanano una luce debole, ma che possono avere improvvisamente una violenta esplosione interna che produce una luce eccezionale. Certo, cose interessanti, ma che non ci guidano a ciò che è essenziale per capire quella stella. Dobbiamo riandare al fatto che quegli uomini cercavano le tracce di Dio; cercavano di leggere la sua "firma" nella creazione; sapevano che "i cieli narrano la gloria di Dio" (Sal 19, 2); erano certi, cioè che Dio può essere intravisto nel creato.
Ma, da uomini saggi, sapevano pure che non è con un telescopio qualsiasi, ma con gli occhi profondi della ragione alla ricerca del senso ultimo della realtà e con il desiderio di Dio mosso dalla fede, che è possibile incontrarlo, anzi si rende possibile che Dio si avvicini a noi. L'universo non è il risultato del caso, come alcuni vogliono farci credere. Contemplandolo, siamo invitati a leggervi qualcosa di profondo: la sapienza del Creatore, l'inesauribile fantasia di Dio, il suo infinito amore per noi. Non dovremmo lasciarci limitare la mente da teorie che arrivano sempre solo fino a un certo punto e che - se guardiamo bene - non sono affatto in concorrenza con la fede, ma non riescono a spiegare il senso ultimo della realtà. Nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e nella sua razionalità non possiamo non leggere la razionalità eterna, e non possiamo fare a meno di farci guidare da essa fino all'unico Dio, creatore del cielo e della terra. Se avremo questo sguardo, vedremo che Colui che ha creato il mondo e Colui che è nato in una grotta a Betlemme e continua ad abitare in mezzo a noi nell'Eucaristia, sono lo stesso Dio vivente, che ci interpella, ci ama, vuole condurci alla vita eterna.

Erode, gli esperti delle Scritture, la stella. Ma seguiamo il cammino dei Magi che giungono a Gerusalemme. Sopra la grande città la stella sparisce, non si vede più. Che cosa significa? Anche in questo caso dobbiamo leggere il segno in profondità. Per quegli uomini era logico cercare il nuovo re nel palazzo reale, dove si trovavano i saggi consiglieri di corte. Ma, probabilmente con loro stupore, dovettero costatare che quel neonato non si trovava nei luoghi del potere e della cultura, anche se in quei luoghi venivano offerte loro preziose informazioni su di lui. Si resero conto, invece, che, a volte, il potere, anche quello della conoscenza, sbarra la strada all'incontro con quel Bambino.
La stella li guidò allora a Betlemme, una piccola città; li guidò tra i poveri, tra gli umili, per trovare il Re del mondo. I criteri di Dio sono differenti da quelli degli uomini; Dio non si manifesta nella potenza di questo mondo, ma nell'umiltà del suo amore, quell'amore che chiede alla nostra libertà di essere accolto per trasformarci e renderci capaci di arrivare a Colui che è l'Amore. Ma anche per noi le cose non sono poi così diverse da come lo erano per i Magi. Se ci venisse chiesto il nostro parere su come Dio avrebbe dovuto salvare il mondo, forse risponderemmo che avrebbe dovuto manifestare tutto il suo potere per dare al mondo un sistema economico più giusto, in cui ognuno potesse avere tutto ciò che vuole. In realtà, questo sarebbe una sorta di violenza sull'uomo, perché lo priverebbe di elementi fondamentali che lo caratterizzano. Infatti, non sarebbero chiamati in causa né la nostra libertà, né il nostro amore. La potenza di Dio si manifesta in modo del tutto differente: a Betlemme, dove incontriamo l'apparente impotenza del suo amore. Ed è là che noi dobbiamo andare, ed è là che ritroviamo la stella di Dio.

Così ci appare ben chiaro anche un ultimo elemento importante della vicenda dei Magi: il linguaggio del creato ci permette di percorrere un buon tratto di strada verso Dio, ma non ci dona la luce definitiva. Alla fine, per i Magi è stato indispensabile ascoltare la voce delle Sacre Scritture: solo esse potevano indicare loro la via. È la Parola di Dio la vera stella, che, nell'incertezza dei discorsi umani, ci offre l'immenso splendore della verità divina.
Cari fratelli e sorelle, lasciamoci guidare dalla stella, che è la Parola di Dio, seguiamola nella nostra vita, camminando con la Chiesa, dove la Parola ha piantato la sua tenda. La nostra strada sarà sempre illuminata da una luce che nessun altro segno può darci. E potremo anche noi diventare stelle per gli altri, riflesso di quella luce che Cristo ha fatto risplendere su di noi.



Fonte -


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Bestion.
00sabato 8 gennaio 2011 22:14
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Epifania: manifestazione della divinità nella persona di Gesù


“Disputa di Gesù fra i dottori del Tempio"
Paolo Veronese (1562) - Museo Nacional del Prado, Madrid

«La venuta e l'adorazione dei Magi è il primo segno della singolare identità
del Figlio di Dio che è anche figlio della Vergine Maria.
Da allora cominciò a propagarsi la domanda che accompagnerà
tutta la vita di Cristo, e che in vari modi attraversa i secoli»


Chi è Gesù?

Benedetto XVI

Abbiamo celebrato nella Basilica la Festa dell'Epifania. Epifania vuol dire manifestazione di Gesù a tutte le genti, rappresentate oggi dai Magi, che giunsero a Betlemme dall'Oriente per rendere omaggio al Re dei Giudei, la cui nascita essi avevano conosciuto dall'apparire di una nuova stella nel cielo (cfr. Mt 2, 1-12).

In effetti, prima dell'arrivo dei Magi, la conoscenza di questo avvenimento era andata poco al di là della cerchia familiare: oltre che a Maria e a Giuseppe, e probabilmente ad altri parenti, esso era noto ai pastori di Betlemme, i quali, udito il gioioso annuncio, erano accorsi a vedere il bambino mentre ancora giaceva nella mangiatoia. La venuta del Messia, l'atteso delle genti predetto dai Profeti, rimaneva così inizialmente nel nascondimento. Finché, appunto, giunsero a Gerusalemme quei misteriosi personaggi, i Magi, a domandare notizie del "Re dei Giudei", nato da poco.
Ovviamente, trattandosi di un re, si recarono al palazzo reale, dove risiedeva Erode. Ma questi non sapeva nulla di tale nascita e, molto preoccupato, convocò subito i sacerdoti e gli scribi, i quali, sulla base della celebre profezia di Michea (cfr. 5, 1), affermarono che il Messia doveva nascere a Betlemme. E infatti, ripartiti in quella direzione, i Magi videro di nuovo la stella, che li guidò fino al luogo dove si trovava Gesù. Entrati, si prostrarono e lo adorarono, offrendo doni simbolici: oro, incenso e mirra. Ecco l'epifania, la manifestazione: la venuta e l'adorazione dei Magi è il primo segno della singolare identità del Figlio di Dio che è anche figlio della Vergine Maria. Da allora cominciò a propagarsi la domanda che accompagnerà tutta la vita di Cristo, e che in vari modi attraversa i secoli: chi è questo Gesù?

Cari amici, questa è la domanda che la Chiesa vuole suscitare nel cuore di tutti gli uomini: chi è Gesù? Questa è l'ansia spirituale che spinge la missione della Chiesa: far conoscere Gesù, il suo Vangelo, perché ogni uomo possa scoprire sul suo volto umano il volto di Dio, e venire illuminato dal suo mistero d'amore. L'Epifania preannuncia l'apertura universale della Chiesa, la sua chiamata ad evangelizzare tutte le genti. Ma l'Epifania ci dice anche in che modo la Chiesa realizza questa missione: riflettendo la luce di Cristo e annunciando la sua Parola. I cristiani sono chiamati ad imitare il servizio che fece la stella per i Magi. Dobbiamo risplendere come figli della luce, per attirare tutti alla bellezza del Regno di Dio. E a quanti cercano la verità, dobbiamo offrire la Parola di Dio, che conduce a riconoscere in Gesù "il vero Dio e la vita eterna" (1 Gv 5, 20).

Ancora una volta, sentiamo in noi una profonda riconoscenza per Maria, la Madre di Gesù. Ella è l'immagine perfetta della Chiesa, che dona al mondo la luce di Cristo: è la Stella dell'evangelizzazione. "Respice Stellam", ci dice san Bernardo: guarda la Stella, tu che vai in cerca della verità e della pace; volgi lo sguardo a Maria, e Lei ti mostrerà Gesù, luce per ogni uomo e per tutti i popoli.



Fonte -


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Bestion.
00domenica 9 gennaio 2011 16:05
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!





Benedictus
Cantico di Zaccaria (Vangelo San Luca 1, 68-79)

Benedictus Dominus, Deus Israel,
quia visitavit et fecit redemptionem plebis suae

et erexit cornu salutis nobis
in domo David pueri sui,

sicut locutus est per os sanctorum,
qui a saeculo sunt, prophetarum eius,

salutem ex inimicis nostris
de manu omnium, qui oderunt nos;

ad faciendam misericordiam cum patribus nostris
memorari testamenti sui sancti,

iusiurandum, quod iuravit ad Abraham patrem nostrum, daturum se nobis,
ut sine timore, de manu inimicorum liberati, serviamus illi

in sanctitate et iustitia coram ipso
omnibus diebus nostris.

Et tu, puer, propheta Altissimi vocaberis:
praeibis enim ante faciem Domini parare vias eius,

ad dandam scientiam salutis plebi eius
in remissionem peccatorum eorum,

per viscera misericordiae Dei nostri,
in quibus visitabit nos oriens ex alto,

illuminare his, qui in tenebris et in umbra mortis sedent,
ad dirigendos pedes nostros in viam pacis.




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Bestion.
00domenica 9 gennaio 2011 16:59
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

L'inno di vespro per il Battesimo del Signore


“Battesimo di Cristo"
Perugino(1482) - Cappella Sistina, Città del Vaticano

«Disceso dall'alto dei cieli, egli immerge nel Giordano
la nostra umanità carica di peccato, prosciogliendola dalla morte,
adombrata dalle onde del fiume spettatore di tante meraviglie divine»


Acque di morte
per tuffarci nella vita

di Inos Biffi
Il battesimo nel Giordano è tra i misteri principali della vita di Cristo. Perciò non sorprende che vi sia dedicata tutta una festività, a chiusura del tempo natalizio, anche se il motivo battesimale non manca di toccare già l'Epifania. Quel mistero tocca il Signore e riguarda noi tutti.

L'inno di vespro - di fattura modesta e di autore ignoto del secolo x, in dimetri giambici acatalettici e ritmici - si apre cantando l'Unigenito di Dio che viene a noi dal Padre "per consacrarci con l'acqua del battesimo e rigenerarci nella fede". Disceso dall'alto dei cieli, egli immerge nel Giordano la nostra umanità carica di peccato, prosciogliendola dalla morte, adombrata dalle onde del fiume spettatore di tante "meraviglie divine". Riceviamo, così, come dono un'esistenza nuova e gioiosa, a sua volta essa stessa prelusa dal risalire di Gesù dal sepolcro delle acque. Proseguiamo nell'inno: "Tu prendi la forma dell'uomo e, riscattando la creatura dalla morte, le infondi le gioie della vita". Già quel lavacro è inizio e figura della passione e della risurrezione del Signore, sul quale, appena battezzato, si aprono i cieli, mentre discende come una colomba lo Spirito, e il Padre lo proclama suo Figlio, "l'amato", in cui ogni sua compiacenza è riposta.

Nel Giordano - scrive sant'Ambrogio - "Cristo istituì la forma del lavacro salutare (In Iordane baptizatus est Christus, quando formam lavacri salutaris instituit)" (De interpellatione Iob et David, 4, 4).
D'altra parte, evocava tanti eventi di salvezza. A cominciare dal passaggio per il nuovo esodo con Giosuè: Gesù discende in quelle acque di morte e di vita come un nuovo Giosuè, che guida il nuovo Popolo di Dio verso la terra definitiva della libertà.
Permaneva poi su quel fiume il ricordo del suo attraversamento a piedi asciutti, da parte dei profeti Elia ed Eliseo; e quello della prodigiosa immersione nelle sue acque di Naaman siro, risanato dalla lebbra.

Sono grazie che supplichiamo a conclusione dell'inno: "Vieni benevolo in noi, o Redentore, e infondi nei nostri cuori la chiara luce divina"; "Resta con noi; allontana la notte oscura, detergici ogni colpa, e donaci la tua pietosa medicina".
La vita di Gesù è iscritta indissolubilmente nella memoria e nel cuore della Chiesa, che, nelle ricorrenti festività dell'anno liturgico, la riprende e la rimedita con rinnovato rendimento di grazie e non mai esaurito stupore. Essa, infatti, non tanto mira ad accrescerne la conoscenza esteriore dell'esistenza di Gesù, quanto a riviverla o, secondo l'esortazione di Bernardo ai suoi monaci di Clairvaux, a nutrirsene e a gustarne la soavità (Sermoni d'Avvento, 3, 2).

Rievocando il battesimo di Cristo, siamo più intimamente, e quasi sperimentalmente, iniziati al mistero della sua figliolanza divina, apparsa e ascoltata nell'epifania trinitaria che accompagna l'umile sottoporsi al ministero dell'allibito Precursore che esita a seppellire nelle acque chi è più grande di lui.
Scoprendo in quel gesto di abbassamento il preavviso della croce e della risurrezione sentiamo la solidarietà di Cristo con la nostra umanità peccatrice, mentre il pensiero si porta al nostro battesimo, quando, resi conformi a Gesù Primogenito di molti fratelli, anche sopra di noi il cielo si apre, riceviamo lo Spirito e siamo, a nostra volta, dal Padre chiamati suoi figli nel Figlio.
E così la vita si rinnova nella Chiesa: è il fine e il frutto delle celebrazioni liturgiche.



Fonte -


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Bestion.
00domenica 9 gennaio 2011 19:40
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00lunedì 10 gennaio 2011 13:56
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00lunedì 10 gennaio 2011 14:01
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00lunedì 10 gennaio 2011 14:04
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00lunedì 10 gennaio 2011 14:07
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00lunedì 10 gennaio 2011 14:12
... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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Bestion.
00lunedì 10 gennaio 2011 14:39
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Bestion.
00lunedì 10 gennaio 2011 23:08
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