La partita più bella del mondo

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Mark Lenders (ML)
00mercoledì 6 maggio 2015 13:00
Credo che Alessandro Baricco stia sul cazzo a così tante persone perché, oltre a essere un po' un fighetto, ha anche un modo di scrivere furbo: sa bene dove colpire e lo fa senza mai darti l'impressione di caricare troppo il colpo. E' un bel paraculo e una buona parte dei suoi romanzi (almeno quelli che ho letto, perché un tempo - lo ammetto - li leggevo) sono francamente troppo svolazzanti, molta forma e poca sostanza. Però che sappia scrivere non mi sono mai sognato di metterlo in dubbio. E dovrebbero riconoscerglielo anche quelli che arricciano il naso appena ne sentono pronunciare il cognome. Oltretutto il suo è un tipo di scrittura che con lo sport ci va insieme benissimo, c'è un libro - che si chiama "City" - in cui se non mi ricordo male si intrecciano cinque storie parallele, che forse (ma non ne sono neanche sicuro) si ricongiungono alla fine. A distanza di tanti anni non saprei neanche dire di che parla, so solo che una di queste storie è il racconto della vita di un pugile immaginata da un ragazzino mentre sta sulla tazza del cesso, e che quello sì, quello me lo ricordo per filo e per segno. Tutto questo per dire che se siete diffidenti vi chiedo di fare un piccolo sforzo, di mettere da parte i pregiudizi e di leggere (se non l'avete già letto) il reportage su Boca-River di domenica scorsa scritto per Repubblica. A me è piaciuto molto, altrimenti non sarei qui ad aprirci un topic  


Quando, dopo pena lunghissima, ce l'hai fatta a sopravvivere all'inverno, solo qualcosa di molto speciale può riportarti indietro in questo autunno argentino, con caduta di foglie annessa, donne che si rivestono e primi impermeabili fuori dagli armadi. Al limite, una milonga definitiva. O, come nel mio caso, una partita di calcio.

Che però  -  mi dico per scusarmi a me stesso  -  non è una partita di calcio, ma LA partita di calcio, a sentire molti, troppi, cioè tutti quelli che al momento di riassumere una vita di corbellerie si sentono serenamente in grado di dire che se ci sono dieci eventi sportivi che bisogna vedere prima di morire, nove son quelli là, ma il primo è questo: Boca Juniors  -  River Plate nello stadio del Boca. Il più famoso derby del mondo. El Superclásico.

Non è che io creda particolarmente a queste liste di "cose da fare prima di morire", è ovvio: il problema è che ogni tanto credo ancora meno alla lista delle cose che faccio per vivere: quindi mi viene da esplorare i bordi della grullaggine umana. Questo, ad esempio è un bel bordo. L'ho inseguito per un po', ci ho messo qualche anno, mi ha ritardato un po' l'illogica discesa del River in serie B, ho aspettato che risalisse, e finalmente ho imbroccato la data giusta che sarebbe domani, oggi per chi legge (splendida espressione di un giornalismo che non esiste più): ho attraversato l'Oceano per essere alla Bombonera, alle diciotto e quindici, e portarmi a casa la partita di calcio più bella del mondo.

Eventualmente, dovesse aggiungersi qualche tango  -  da voyeur, si intende  -  non mi tirerò indietro (da tempo cerco di elaborare questa teoria: se dio esiste, sta nel millimetro di vuoto che c'è tra le scarpe luccicanti dei ballerini di tango, quando si sfiorano). Se dio esiste, credono invece a Buenos Aires, domani alle diciotto e quindici sarà davanti al televisore, come tutti tranne i sessantamila più me che saranno in quella fornace gialla e azzurra della Bombonera. Si ferma il Paese, e anche la nonna di centotré anni si schiera. Non è chiarissimo il perché, o meglio, va spiegato. A Buenos Aires ci sono più squadre di calcio che ospedali (be', tiro a indovinare, ma siamo lì), fai venti minuti in macchina e puoi inanellare sei stadi diversi, con squadre diversi e tifosi diversi. Quindi da queste parti la parola derby dovrebbe avere smarrito da tempo il suo significato. Eppure la rivalità tra il Boca e il River è speciale, irripetibile, antichissima e insanabile. C'entra la Storia.

Era l'inizio del secolo scorso, i migranti del tempo erano italiani e la Boca, il quartiere vicino al porto, era il loro quartiere: case da schifo, le uniche che potevano permettersi. Lavoravano nei cantieri navali e spesso incrociavano gli inglesi, che da quelle parti costruivano le ferrovie e, nella rare pause, prendevano a calci un pallone. Adesso è difficile immaginarlo, ma non avevano mai visto nulla di simile: ne rimasero fulminati. Non parlo delle ferrovie: del pallone. Insomma, per farla breve, si misero a tirare su squadre una dopo l'altra. Alla Boca erano soprattutto genovesi, un po' di lucani, pugliesi, qualche spagnolo, rari austriaci, ma forse erano tedeschi: insomma i cognomi erano soprattutto cose come Moltedo, Cirigliano, Bonino, qualche Tarrico, un Martinez ogni tanto. Va be', tirarono su una squadra, volevano chiamarla Juventud Boquense, ma magari anche La Rosales. Ne discussero per un po'. Poi uno di loro, il Martinez, disse che al porto aveva visto una cassa con una scritta bellissima: "River Plate". Non voleva dire nulla: era "Rio de la Plata" tradotto da un inglese imbecille. Ma suonava alla grande.

Negli stessi anni, probabilmente nel bar vicino, altri Moltedo, Cirigliano, Bonino ecc., fondarono un'altra squadra. Lì, col nome, se la cavarono in fretta: la Boca era il loro mondo, la chiamarono Boca. Poi aggiunsero Juniors perché faceva un po' inglese. Perfetto. Si incartarono invece sui colori sociali: non avevano la più pallida idea. Allora qualcuno disse "Andiamo al porto e la prima nave che arriva guardiamo la bandiera: e quelli saranno i nostri colori". Erano tempi di una certa poesia, nonostante la miseria e la fame, o forse proprio per quelle. Arrivò un veliero svedese, pensa te. Giallo e blu, per sempre.

Quindi erano cugini, in qualche modo, questo va saputo. E sono centosei anni che se le danno, calcisticamente parlando, e no. Ma se la rivalità è lievitata a mito è soprattutto per una circostanza particolare: pochi anni dopo la fondazione, quelli del River abbandonarono la Boca e si fecero lo stadio in un altro barrio della capitale, un po' più elegante: Palermo. Non gli bastò: ancora qualche anno e si trasferirono a Nuñez, un posto da ricchi, zona residenziale, belle macchine, niente merda. È così che sono diventati, per tutti, "Los Millionarios": quando lo pronunciano quelli del Boca, non è un complimento. È lo sprezzante insulto che si riserva a quello che è emigrato, ha fatto i soldi, poi è tornato al paese ma il paese gli faceva un po' schifo e così è andato ad abitare in città. El millionario. Dato che quelli del River contraccambiano chiamando i tifosi del Boca "Bosteros" (la "bosta" è la merda di cavallo), la geografia sentimentale e sociale è molto chiara: da una parte i poveri (fieri, irriducibili e miserandi), dall'altra i ricchi (fighetti, eleganti e vincenti). Quando le cose si mettono con un tale splendido ordine, scatenare la rissa è uno scherzo.

Naturalmente, ne è derivato una sorta di DNA delle due squadre, diametralmente opposto. Le ideologie sono tramontate, come si sa, ma al River amano il bel gioco, al Boca se ne fregano e ululano per il la maglia strappata, il giocatore che esce con la testa fasciata e cose del genere. O almeno, così si raccontano. Il River vince i campionati ma perde le coppe (se la fanno sotto quando il gioco si fa duro, dicono alla Boca), il Boca perde i campionati (che sono lunghi e noiosi) e vince le coppe, dove c'è la vera epica. E si potrebbe andare avanti per un po'. Lo stadio del River è tradizionale, più grande e circondato da un quartiere per bene, quello del Boca è una costruzione assurda (ha praticamente solo tre lati) paracadutata in mezzo a case fatiscenti. Cose così. Bastano a coltivare un duello che non è mai finito.

Dato che è iniziato più di cento anni fa, di pistoleri grandiosi ne sono passati tanti: e anche lì, il DNA delle due squadre è riconoscibile. È vero che dal River è passata gente come Kempes o Passarella (per i quali il termine "fighetti" non è d'aiuto), ma il supremo eroe, da quelle parti, resta Di Stéfano, uno di quei professori che ha inventato il calcio (e poi Sivori, naturalmente, e perfino Cesarini, quello della zona Cesarini, proprio lui: quando dai il tuo nome a un pezzetto di Tempo  -  il quale è solo di dio, dice la Bibbia  -  qualcosa nella vita lo hai fatto). Dall'altra parte, al Boca, sono naturalmente più veraci: a parte l'idolo Riquelme (calciatore malinconico, signore dello Slow Foot), e la meteora Maradona (passò, lasciò il segno, ma poi se ne andò velocemente, un po' troppo velocemente per i ricordi), gli eroi più tramandati sono due giocatori imbarazzanti: Palermo e Gatti. Palermo era una specie di Chinaglia, ma più rozzo, più inelegante, più elementare. Inguardabile, ma la metteva dentro, siempre: nessuno ha segnato più di lui con la maglia del Boca. "Olfato de goal", spiegano qui, con un'espressione per loro normale, per me sublime. Per convincerti della sua grandezza, aggiungono che erano, nella quasi totalità dei casi, goal orrendi. Ritengono l'argomentazione definitiva. (Palermo è anche ricordato, peraltro, per aver battuto, in una sola partita, tre rigori: e averli sbagliati tutti. Un'altra volta, sempre dal dischetto, scivolò prima di battere e finì per colpire il pallone con tutti due i piedi: goal. L'arbitro è ancora lì che si chiede se nel Regolamento si parla di qualcosa del genere). Gatti invece era un portiere, e già un portiere che si chiama Gatti mi fa morire. Quelli del Boca sostengono che sia stato il primo portiere al mondo a giocare anche con i piedi, cioè a controllare, passare, dribblare con i piedi. Può darsi. Di sicuro c'è che il suo sogno era fare il centravanti. Capelli lunghi, fascia intorno alla testa, bermudoni al posto dei consueti pantaloncini: che fosse un po' matto è cosa su cui è inutile discutere. Iniziò al River poi passò al Boca, perché era un tipo da Boca. Un volta, vedendosi arrivare, in contropiede, un avversario con le praterie davanti, trenta metri di nulla, invece che tentare l'uscita, gli andò incontro amichevolmente caracollando la testa e facendo di no col dito, urlando che era fuorigioco. L'arbitro non aveva fischiato niente, ma Gatti era talmente convincente nel suo essere un portiere che caracollava a gioco fermo, che l'attaccante avversario lasciò proseguire il pallone, si voltò e fece per tornare nella sua metà campo, tra gli sguardi esterrefatti dei compagni. Immagino che dal giorno dopo si sia dato al modellismo.

Insomma, c'è effettivamente un modo di stare la mondo da Boca, e uno da River, volendo ancora credere alle belle favole. E si scontreranno domani alle diciotto e quindici (oggi per chi legge) in una fornace gialla e blu, resa incandescente dai tifosi più rumorosi del mondo e illuminata dalla luce lontana della leggenda. Tanto per rendere la cosa più interessante, le due squadre sono in testa alla classifica, a pari punti, come in un racconto di Soriano. Ammesso che io riesca a raggiungere lo stadio e a valicare le muraglie di chorizo con cui cercheranno di distrarmi, sarò là a vedere, per poi raccontare (sul giornale di martedì, se tutto va bene, come gesto di omaggio a un giornalismo arcaico per cui il termine "attualità" indica un fastidioso limite da superare). Per ora piove in modo impietoso, ma domani tutti annunciano un "otoño dorado".

Arbitrerà Patricio Loustau, un uomo a cui, oggi, non invidio niente.


BUENOS AIRES, 3 MAGGIO 2015, BOCA-RIVER, EL SUPERCLÁSICO - Diciamo che, a una partita come questa, magari il bambino non lo porti, ecco. Mentre tutto il mondo calcistico sta virando verso una versione vagamente igienista del rito (il mito degli stadi inglesi, che fra un po' c'hanno i centrini sui sedili), qui alla Boca resiste un'idea di calcio svergognatamente sporca, popolare, pericolosa e brutale. Sarà che è domenica, e i negozi sono chiusi, e i turisti si tengono ben lontani, e ci sono poliziotti dappertutto, ma arrivare allo stadio attraversando il barrio dà la vaga sensazione di visitare una periferia il giorno dopo una sommossa: tutto un po' a pezzi, umanità indecifrabile che staziona a presidiare non si sa cosa, cani disillusi che tornano a casa, porte aperte da cui intuisci monolocali per famiglie numerose, palazzi sprangati che confessano ma non spiegano imperscrutabili catastrofi. È tutto sporco, ambiguo y final. Mi aspettavo amenità, grandi mangiate nelle bodegas dei dintorni, liete famigliole in processione giuliva, ma la verità e che da 'ste parti l'unica cosa che conta è lo stadio, che come un muscolo poetico risucchia e poi espelle fiumane di sangue umano, sangue giallo e blu. Tutto il resto deve sembrare inutile decorazione.

E in effetti, capisci la logica quando entri nella Bombonera, un'ora e mezza prima del fischio di inizio, e son già lì almeno in quarantamila, e stanno già cantando. Come devo avere già detto, è uno stadio tutto particolare, condizionato da un'anemia: quello dello spazio. Hanno dovuto incastrarlo in mezzo alle viuzze della Boca, che è un po' come costruire un ippodromo a Trastevere. Qualsiasi dirigenza dotata di un minimo di buon senso l'avrebbe già spostato in qualche bella area spaziosa, con tanto di parcheggi, stradoni di accesso e centro commerciale. Invece niente, lo stadio è ancora qui, e per starci, lì in mezzo, si stringe parecchio, assume una forma non ben chiara, e soprattutto sale verticale, dal campo verso l'ultima fila, lassù: un'immane tromba delle scale. Al pianterreno, il campo resiste appena allo stadio che gli cola addosso, riuscendo miracolosamente a fermarlo a un pelo dalle linee bianche: sono così vicine, le reti di protezione, che i corner li battono senza rincorsa (non c'è spazio), i panchinari vanno a riscaldarsi in un corridoio di prato che sembra un cucinino, e dietro alle porte i tifosi sono così vicini che, se interrogati, potrebbero parlarti del deodorante del portiere (il portiere del River: quello del Boca escludo che si deodori).

Insomma, uno stadio unico, illogico e surreale. Riuscite a immaginare? Bene, adesso versateci dentro sessantamila invasati a cui non è stata ancora passata l'informazione che il calcio è un bellissimo spettacolo per famiglie invece che un rito tribale. Depositate sul fondo del bicchiere ventidue giocatori e un pallone. Per la versione strong, sceglierne undici del Boca e undici del River. Mescolare e bere. Suerte.

Che poi io ne ho visti di stadi e di partite, non è che proprio mi fregano facilmente, sono uno che è stato all'Old Trafford e al Camp Nou: però, lo dico con disarmata franchezza, io una cosa così non l'ho mai vista. Sporti nell'immane tromba delle scale, quei sessantamila cantano, urlano, fischiano, saltano e sbracano in un modo che, fuori da lì, non esiste. Così uno si ritrova a sentire, addosso, un'intensità tanto smisurata da far paura: hai la chiarissima impressione che la stessa intensità, scaricata altrove, porterebbe a un macello. Tanto che, mentre lo stadio mi batteva attorno con una sorta di oscura disperazione, mi è venuto da pensare che ci concentriamo molto, e forse giustamente, sulla violenza che il calcio produce, aprendo dibattiti sapienti sui quattro idioti che tirano bombe carta e pietre contro ai pullman, ma non ci fermiamo mai abbastanza a riflettere sulla quantità di violenza che il calcio assorbe, metabolizza, scarica, e in qualche modo disinnesca.

Non penso tanto a quelli che già hanno una fedina penale sporca, penso alla violenza che cova, inevitabile, nelle vite di quelli "normali". Dove vado io, allo stadio del Toro, c'è un signore, un abbonato, che siede a pochi posti dal mio. Una persona educata, ti saluta quando arrivi, applaude quando tirano fuori lo striscione contro il razzismo. Non l'avrei praticamente notato, perché è un tipo anche abbastanza silenzioso, composto. Ma invece l'ho notato perché un giorno, che si giocava contro il Napoli, è uscito improvvisamente dal suo riserbo, si è alzato in piedi, e esasperato da non so più quale futile sciocchezza sul campo, è partito in una sparata in cui annoverava una serie di cose che sarebbero dovute toccare in sorte ai meridionali, senza più alcun senso della misura, e senza più alcuna possibilità apparente di controllare il tono di voce, lo sporgere della giugulare, la tendenza degli occhi a abbandonare le orbite. Parola per parola, quello che diceva (gridava) era di una tale volgarità, e indecenza, e vergogna che si faceva fatica a stagli dietro. Andò avanti così per un minuto buono. Poi si è seduto, si è risistemato il risvolto della giacca, e da quel giorno non l'abbiamo più risentito. Buongiorno, buonasera, applausi allo striscione contro il razzismo. Era a lui che pensavo, mentre la Bombonera mi pulsava nelle ossa: pensavo a come siamo fatti, e all'animale pericoloso che siamo, e all'astuzia del padrone che, al guinzaglio, ci porta a spasso.

Ah, dimenticavo che in effetti, a un certo punto, è iniziata la partita. Parte il cronometro e il River si prende il campo, allargando elegantemente sulle fasce, ma con l'innocuo languore di uno che, appena alzato, si stira un po'. Stranamente contratto, il Boca soffre, insegue, morde. Tutto come da copione. Non è un gran calcio, lo si capisce subito: una specie di serie B con qualche sprazzo individuale da Champions. Il River continua a stirarsi, il Boca non sembra avere altri schemi d'attacco che quello di inseguire le palle vaganti. Dato che però la difesa del River, di palle vaganti, ne produce parecchie, al decimo minuto Osvaldo (che da noi non sapevamo più dove mettere e qui è il migliore) ne arpiona una, e senza stare a pensarci troppo la spedisce di collo pieno sul palo, mancando di qualche centimetro la gloria. Al quindicesimo sorge la luna piena da dietro gli spalti, al diciottesimo uno egli elefanti che il River schiera al centro della difesa sfiora l'autogoal con una ciabattata, mancando di una spanna la vergogna. Tanto per ristabilire un certo equilibrio, anche il River centra un legno, al trentesimo, con un bel tiro da fuori di Sanchez. Ancora un po' di calcio traballante e si va al riposo. Non si riposano, però, sugli spalti, dove intervallo è una parola che non conoscono.

Il secondo tempo se ne sarebbe andato in una malinconica tiritera di errori, con le squadre deglutite dalla loro mediocrità, se non fosse che al ventesimo la Bombonera ha iniziato a intonare una specie di mantra a loop ( Dale Boca, oh oh) con l'aria di non smetterla mai più. Da 'ste parti dev'essere una specie di segnale, e i giocatori del Boca devono sapere esattamente cosa significa, perché sono scesi a recuperare in anfratti dimenticati del loro calcio dei rimasugli di intensità e fame che tenevano da parte per questi momenti. C'era uno zero a zero da schiodare e solo sette minuti rimasti per farlo, quando si sono inventati un'azione sgraziata, intagliata nella marmorea difesa del River, e hanno portato un panchinaro a sciabolare un pallone inesatto tra il portiere e il palo.

L'esplosione della Bombonera è stata tale che, per qualche minuto, quelli del River non ci hanno capito più niente: sette minuti possono anche bastare a recuperare un goal, ma lì, in quella fornace, la cosa gli deve essere sembrata irreale come a un infartuato salire le scale con la borsa della spesa. Così li ha colti uno svagolamento poetico di cui il Boca non ha avuto comprensione, mettendo in fila quattro tocchi e portando un altro panchinaro a ingrassare la leggenda. Due a zero, e sessantamila fuori di testa.

Da qualche parte, qualcuno, allora, dopo averci tirato un po' la palletta ai giardini, ci ha riportato a casa, al guinzaglio. Disciplinatamente, l'ho seguito, camminando nel buio questa città strana, bella di una solennità stanca che non capirò mai.

ℬaruch
00mercoledì 6 maggio 2015 13:30
Sai che io l'articolo l'ho trovato discontinuo? Concordo con te su Baricco, sulla sua scrittura e sulla sua scrittura in funzione dello sport, però nel pezzo ho trovato tracce di beltà ma anche tracce di inevitabile debolezza, ma forse dovuta al lettorato generalista (e non sportivo) del giornale per cui è stato scritto. C'è anche chi, come Jack O'Malley nella sua celebre rubrica "That win the best" sul Foglio, lo ha stroncato senza mezzi termini per eccesso di luogocomunismo. Incollo il passaggio relativo:

Bar Ricco. Incuriosito dai tweet entusiasti di tanti professionisti e amanti del calcio, domenica sono andato a leggermi l’articolo-più-bello-della-storia-del-mondo-sul-calcio, ovvero, per i profani che ancora non si sono accostati a tale delizia, quello di Alessandro Baricco che su Repubblica raccontava El Superclásico, cioè il derby della carta igienica tra Boca Juniors e River Plate a Buenos Aires. Ho capito che la crisi dei giornali è evidentemente una finzione: per mandare un collaboratore fino in Argentina e fargli riempire tre pagine di luoghi comuni rintracciabili su Google devi averne veramente tanti, di soldi. C’è tutto il meglio delle frasi fatte sull’Argentina, in quel mirabile articolo: l’Oceano (con la O maiuscola), la milonga, i migranti italiani poveri, lo stadio che è una “fornace”, i ballerini di tango, Dio (la macchietta di Dio, è pur sempre Baricco), i tifosi rumorosi, i ricchi contro i disperati, le case fatiscenti, l’autunno che in Argentina è autunno mentre da noi è primavera (ma pensa), Maradona, un paio di aneddoti su Gatti e Palermo (rintracciabili su internet) e naturalmente Osvaldo Soriano.
Mark Lenders (ML)
00mercoledì 6 maggio 2015 14:00
Non è, ovviamente, l’articolo-più-bello-della-storia-del-mondo-sul-calcio: quello l'ha scritto Condò sul gol di Maradona all'Inghilterra e tra poco te lo incollo. Purtroppo anche lì si parla di tango, speriamo che Jack O'Malley non lo venga a sapere...

Cioè, a voler essere fiscali ha ovviamente ragione sulla vacanza pagata da Repubblica, e ha ragione che quasi tutto si poteva mettere insieme anche con Google (ma che cos'è, ormai, che non puoi mettere insieme con Google, che con Street View ti permette anche di farti una passeggiata per le città dell'Africa o dell'Australia stando seduto al pc di casa tua?). Però il suo mi pare un piglio invidioso, colpisce la (supposta) pretenziosità dell'articolo più che l'articolo stesso: dovrebbe essere speciale, e secondo lui speciale non è. Va bene. Ma secondo me resta comunque molto sopra la media di un sacco di merda che leggiamo ogni giorno, ché la velocità dell'informazione sempre più sta togliendo alla scrittura. A me piace com'è scritto, molto prima e molto di più di quello che racconta. Che poi - come dicevo all'inizio - è il pregio ma anche il limite di tutta l'opera di Baricco, o almeno di quella che mi è capitata per le mani.
Lo stesso tipo di commento tranciante da "Storie Mondiali" in poi viene riservato a Federico Buffa, che fino a un anno fa era noto solo agli appassionati di basket. Poi è diventato famoso col calcio, ha avuto successo perché indubbiamente funziona (in un modo un po' furbo non tanto diverso da quello di Baricco), ed ecco spuntare come i funghi quelli che fanno le pulci all'eccessiva enfasi, o al tale aneddoto troppo romanzato, o a quanto se la tira nei piani sequenza in cui cammina con le mani in tasca e gli occhiali da sole, o a quanto spende Sky per mandarlo in giro per il mondo. Che per carità, saranno pure obiezioni legittime, tutto e tutti sono criticabili. Però conta pure il pulpito da cui arriva la predica, che è facile dire sempre che fa tutto schifo, tipo Sacchi che stronca tutte le partite tranne i 6-1 di Guardiola. E comunque almeno Sacchi nella vita ha prodotto il grande Milan, voglio dire. Jack 'O Malley è per caso lo pseudonimo di Jorge Luis Borges?
Io, lo sai, sono un drogato di radio romaniste. Devi sapere tutte le mattine su Rete Sport interviene tale Alessandro Angeloni, anonimo mestierante del Messaggero. E tipo una volta su tre il suo intervento (di mezzora!) è basato sull'insofferenza che ha provato per quella telecronaca o per quella puntata del programma di Buffa. Il concetto è che gli stanno sul cazzo i fenomeni, insomma. Ma il problema è che lui è Alessandro Angeloni, e io non posso fare a meno di pensare che gli stanno sul cazzo i fenomeni essenzialmente perché lui è una pippa.

Ciò detto, ecco il Condò di cui sopra. Può darsi che l'abbiate già letto quando lo pubblicai su LazioNet o su BC.org, ora non mi ricordo. L'avevo già incollato, insomma. Ma lo rincollo volentieri.


IL PESO DEL DONO
 
Un paso atràs, un passo indietro. Poi un fulmineo otto disegnato in mezzo metro quadrato d'erba e lo scatto di partenza. Ci siete? Bene, adesso fermate quest'attimo, l'avvio del gol più bello nella storia del calcio, e pensate alla puntina di un vecchio grammofono HMV che una mano posa sul disco. Cercate di ricordare il rumore, il fruscìo disturbato di un solco irregolare; non si sente più quel rumore, negli hi-fi spaziali di oggi, ed è un peccato perché certe musiche le accompagnava bene. La puntina gira fino ad incontrare le prime incisioni del suono: l'attimo può sbloccarsi.
Diego Maradona ha appena ricevuto il pallone, nella sua metà campo, e con due figure del tango, paso atràs e otto, s'è liberato dei primi due inglesi. Uno si chiama Reid, ha già i capelli bianchi e quel giorno si sente improvvisamente vecchio, più vecchio di quando, un mattino allo specchio, notò che la sua testa non era più nera. L'altro si chiama Butcher, macellaio in inglese, e per qualche metro insegue Maradona. L'arte del calcio non è classista, un macellaio può capire un genio. Fermarlo è un'altra faccenda. Dal tango "Pensalo bien" di Juàn Josè Visiglio, Nola Lòpez e Julio Alberto: "Pensaci bene prima di fare questo passo / perché quando l'avrai fatto non potrai più tornare indietro". Su un campo di calcio, specie mondiale, il pensiero è sovente un lusso; manca il tempo. Pochi minuti prima, senza pensare, Maradona ha segnato l'1-0 colpendo il pallone con un pugno. Istinto. Truffaldino. Saltando davanti a Shilton, ha portato la mano all'altezza della fronte, in ritardo con l'impatto, e ha toccato la sfera con un gesto rapace. Non tutti se ne sono accorti; fra gli ignari, l'arbitro. Già caricati dal fresco sfregio delle isole Malvinas, riconquistate a prezzo di una guerra, gli inglesi in quel momento hanno odiato l'Argentina come si odia una volta sola nella vita, un odio assoluto e paralizzante. Hanno odiato in Maradona il trucco, opposto alle loro regole; la scorciatoia, contraria alla loro strada maestra; la slealtà, opposta al loro fair play. Hanno odiato quel vento dal Sud che soffiava contro la loro fortezza, incrinandone le torri merlate. Avesse avuto il tempo di pensare, forse in Diego avrebbe prevalso la metà chiara, e lo sberleffo sarebbe stato risparmiato. Ma mentre il pallone rotola in porta oltre il braccio alzato di Shilton, e un fugace sguardo di Maradona all'arbitro rivela la sua svista, la metà oscura trionfa. "La mano de Dios", avrebbe detto poi. Quasi un manifesto politico, dal meridione del mondo.
Maradona, dunque, non può più tornare indietro. Può solo avanzare verso un secondo gol che in qualche modo indennizzi del primo. Paso atràs e otto hanno lasciato di stucco Reid, Butcher azzarda l'illusione di un inseguimento, la figura successiva di quel tango è la corrida, una corsa precipitata tenendo la partner incollata a sé. La partner è la palla. Nel corso della sua vita Maradona ha tradito tutti e da tutti è stato tradito: uomini, donne, progetti, ricordi. Lei, soltanto lei, pur beffeggiata dal suo artista, che troppe volte le preferiva altre droghe, non ha mai avuto cuore di abbandonarlo. Da qualsiasi abisso Diego riemergesse, la ritrovava lì, docile, in attesa delle sue carezze. Poteva avere la pancia, poteva essere fatto, era sufficiente un tocco per ricreare l'eterna magia. Quando nel '94 Maradona corre verso la telecamera per urlare al mondo "sono tornato", la palla è sullo sfondo, dentro alla porta della Grecia. Pare sorridere.
Corrida. Svelta, lieve, decisa. Una finta ed è saltato anche Sansom, che è come se prendesse il testimone da Butcher perché quello si ferma esausto, e lui ne rileva la missione: inseguirlo. Hanno inseguito in molti Maradona, e non tutti erano avversari. L'hanno inseguito a lungo i pochi amici sinceri, per salvarlo da se stesso implorando la metà chiara, ma vedendo più spesso affacciarsi la metà oscura. A metà degli Anni 70 la sua famiglia, inurbata a Buenos Aires dalla provincia settentrionale di Corrientes, confine col Paraguay, sopravvive in un barrio periferico, Fiorito, dove le strade non sono asfaltate. Alla festa del suo matrimonio, 1989, le molte signore presenti trovano in ogni bomboniera un anello prezioso. L'incalcolabile promozione sociale ed economica non giustifica niente. Però spiega tanto. Maradona da grande conserva certe lealtà del bambino e la sua indole generosa resta visibile: per gli amici può fare molto, nessun compagno di squadra, nemmeno a posteriori, ne ha mai parlato male, e quando l'Unicef gli chiede di fare l'ambasciatore dell'infanzia povera gli occhi gli brillano. Maradona da grande, però, si lascia scegliere anche dalla camorra, come testimonial; gli occhi continuano a brillargli, ma per un altro motivo.
Due inglesi, Stevens e Fenwick, aspettano sulla linea dell'area di rigore. Deve parer loro la bianca scogliera di Dover, e quell'argentino in avvicinamento rapido un missile diretto su Londra. L'attesa dura un lungo momento, poi Stevens alza i tacchi e arretra, pensando di conservarsi così un'estrema chance, e lasciando il solo Fenwick a preparare l'impatto. Gancho: nel tango è la deviazione laterale ruotando su se stesso, in velocità, oltre il piede avversario proteso nel sogno di uno sgambetto. Maradona ha imparato la lezione dell'82, quella impartitagli da Claudio Gentile: se rimane fermo, un grande terzino ha i mezzi, leciti e non, per impedirgli di accendersi. Ma se riesce a lanciarsi, è troppo tardi per chiunque. Lezione di vita, anche. Bloccato nel suo letto da ogni tipo di eccesso, sente vagamente, al di là della porta chiusa, il mormorio dei compagni più amici, saliti a Posillipo per strapparlo al suo non-essere: per un allenamento, una trasferta, una partita. Vorrebbe alzarsi, andarsene con loro, ma non ce la fa; non riesce ad accendersi. Dopo, soltanto dopo, s'inventa le maniere più rocambolesche per raggiungerli, come quel volo privato a Mosca per non mancare in Coppa Campioni: ma il gancho, nella vita, gli riesce ogni volta più a stento.
Penetrando l'area di rigore in diagonale, Maradona, sempre braccato da Sansom, vede franargli davanti Shilton in uscita, mentre Stevens s'è allargato oltre il portiere per sostituirglisi come ultimo uomo. Se questa fosse una storia romana, ricorderebbe gli Orazi e i Curiazi, il superstite che ne uccide tre affrontandoli uno per volta. Invece è una storia argentina, ritmata dal tango, e il fruscio della puntina diventa un sussurro regolare nell'accompagnare gli ultimi metri della grande corsa. Figlio delle influenze più diverse, dalla habanera cubana alle danze tambureggianti degli schiavi africani, alle canzonette di immigrati italiani e francesi, il tango è l'immagine di un Paese scaturito da mille culture emigrate lì da luoghi lontani. Lo scrittore Ernesto Sabato descrive così le radici del suo popolo: "Gli italiani discendono dai latini, i francesi dai galli, gli argentini dalle navi". Nel DNA di Maradona c'è l'orgoglio di una patria costruita: "Hijos de puta", sibila tra i denti la sera della finale mondiale '90, quando lo stadio Olimpico, in odio a lui, fischia vergognosamente l'inno argentino. C'è l'amarezza di chi non crede a un destino salvifico: "Dimenticatemi", grida alle telecamere dopo l'arresto a Buenos Aires per una storia di cocaina. C'è la rabbia di chi si sente Sud del mondo, e dal Mondiale con la sua nazionale agli scudetti di Napoli dedica il suo immenso talento al riscatto di tutti i meridioni. E poi nel DNA di Maradona c'è l'istinto del fuggitivo. Dai galeotti che colonizzarono la Terra del Fuoco a Butch Cassidy che sparì in Patagonia per scappare alla giustizia americana, dagli Eichmann e Priebke a tanta gente nei guai ancora adesso, l'Argentina è un posto pieno di fuggiaschi, romantici alcuni, criminali altri. E' l'istinto del fuggitivo a guidare Diego negli ultimi metri che lo dividono dal gol più bello nella storia del calcio: un altro passo di tango, la media luna, gli viene in soccorso per dribblare Shilton senza farsi raggiungere da Sansom. Pone il piede di taglio davanti al pallone, leggermente arcuato come una mezzaluna, per toglierlo dalla portata del portiere. Poi, calcolando in un baleno la velocità del recupero di Stevens, colpisce la sfera con la precisione di un biliardo, e quella passa tra l'estrema scarpetta inglese che si allunga in scivolata e la base del palo. Gol. Il Gol. Non ce n'era mai stato uno così; chissà se e quando ne rivedremo uno paragonabile.
Il passo che chiude questa storia, e accompagna un Maradona trionfante verso la bandierina del corner e, qualche giorno dopo, verso il titolo mondiale 1986, è quello della salida. L'uscita. L'ha provato tante volte, Diego, nei suoi periodi neri, e gli è sempre riuscito male, condannato a non poter replicare, fuori, l'abilità che dentro il campo gli veniva naturale. Ci sono due modi di guardare a Diego Maradona. Il primo, che non riesce ad appartenerci, è il giudizio di condanna per un uomo che ha avuto in sorte un dono inestimabile, il talento per entusiasmare la gente, e l'ha sperperato con una vita sciocca e amorale. Il secondo, che sentiamo nostro, non sottovaluta i suoi infiniti errori, ma li filtra alla luce di una gratitudine per le emozioni che ha suscitato e di una solidarietà umana per chi ha avuto troppo per le sue spalle, non è riuscito a reggerlo, e ne è stato schiantato. In omaggio a questo secondo modo di guardare Maradona, prima che la puntina raschi il fondo del disco, lo immaginiamo vecchio e in pace con se stesso, seduto a un tavolo del Caffè Tortoni, mentre ascolta "Mi Buenos Aires querido" dalla voce di Carlos Gardel. E quando l'usignolo d'Argentina canta "no habrà mas penas ni olvido", mai più pene nè oblio, sorride come De Niro nell'ultima scena di "C'era una volta in America". Finalmente sereno.
 
(da "La Gazzetta dello Sport - Magazine", 1998)
Drenai71
00mercoledì 6 maggio 2015 14:33
ho visto il primo tempo (confusionario ma godibile) e una ventina di minuti del secondo, poi me ne sono andato a dormire convinto che lo 0-0 fosse scolpito nella pietra. sono rimasto molto sorpreso lunedì mattina quando invece ho visto che il boca aveva vinto.

quanto all'articolo, è sicuramente una lettura interessante per noi perchè essenzialmente amiamo il calcio, e non vediamo l'ora di appassionarci alle sue storie. ma non credo che abbia grandi meriti specifici. oltretutto glorifica il superclasico oltremisura, mentre invece è l'approccio ormai diverso verso il calcio e lo stadio in particolare che abbiamo noi rispetto agli argentini a fare la differenza. una qualsiasi partita molto sentita in argentina, con lo stadio traboccante, le curve di posti in piedi che cantano e saltano per tutta la partita, gli avrebbe garantito lo stesso shock emozionale. il resto, ricchi contro poveri, caseggiati sgarrupati, distefano e maradona, anche a me ha dato l'impressione di retorica a buon mercato disponibile su google.
Mark Lenders (ML)
00mercoledì 6 maggio 2015 14:46
Io mica vi voglio convincere a tutti i costi eh, a me è piaciuto e tanto mi basta. Leggo che tanti sono d'accordo con me, che tanti altri di più sono d'accordo con voi, e va bene, mica è un problema.
Vi va di far diventare questo topic un deposito di racconti sul calcio (articoli, ma anche servizi video) che riteniamo meritevoli di essere condivisi? Così magari ogni tanto avrò il piacere di leggere qualcosa che non sia retorico e a buon mercato [SM=g27988]
Comunque, tornando a Baricco, non è certo il ricchi contro poveri che mi ha entusiasmato. Quelle sono le origini della rivalità e non potevano non essere raccontate. Non essendo mai stato a Buenos Aires mi ha molto incuriosito la descrizione dello stadio: "un'immane tromba delle scale. Al pianterreno, il campo resiste appena allo stadio che gli cola addosso, riuscendo miracolosamente a fermarlo a un pelo dalle linee bianche: sono così vicine, le reti di protezione, che i corner li battono senza rincorsa (non c'è spazio), i panchinari vanno a riscaldarsi in un corridoio di prato che sembra un cucinino, e dietro alle porte i tifosi sono così vicini che, se interrogati, potrebbero parlarti del deodorante del portiere".
Ecco, è vero che pure questo si trova con Google





e però se non avessi letto la descrizione mai mi sarebbe venuto in mente di cercare questa foto, che secondo me dice davvero molto.
Drenai71
00mercoledì 6 maggio 2015 14:57
guarda che a me non è dispiaciuto leggerlo. ma ripeto, credo che il merito sia soprattutto la sete di leggende del football che abbiamo noi.

quanto alla bombonera, mi stupisco che non l'avessi mai vista. se ti capita seguilo il campionato argentino, a me piace molto. se passi sopra il livello un pò approssimativo, è combattutto e pieno di storie interessanti. e poi praticamente in ogni squadra trovi qualche nome che in passato hai gia sentito per un verso o per l'altro.

se ti incuriosisce, le foto cercale anche di altri stadi argentini... sono davvero "strani".
alcuni magari brutti ma in molti casi davvero diversi da come siamo abituati noi. somigliano un pò come filosofia agli stadi inglesi, nel senso che sono stati costruiti moltissimi anni fa, e poi rimodernati mille volte ma sempre sull'impianto precedente, col risultato finale di essere spesso disomogenei.

Mark Lenders (ML)
00mercoledì 6 maggio 2015 15:16
Re:
Drenai71, 06/05/2015 14:57:

quanto alla bombonera, mi stupisco che non l'avessi mai vista. se ti capita seguilo il campionato argentino, a me piace molto. se passi sopra il livello un pò approssimativo, è combattutto e pieno di storie interessanti. e poi praticamente in ogni squadra trovi qualche nome che in passato hai gia sentito per un verso o per l'altro.



Non c'è mai stato un campionato argentino che io abbia seguito dall'inizio alla fine, ci ho sempre buttato un occhio quando si parlava di questo o di quel nuovo giocatore, o di qualche squadra che stava scrivendo la storia tipo l'ultimo San Lorenzo.
La Bombonera l'avevo sempre vista inquadrata dall'interno, mai dall'alto. Non mi immaginavo che la "Monte Mario" (quella coi palchi, insomma) fosse nient'altro che una sottile palazzina. Ma poi effettivamente è proprio assurdo il modo in cui è rimasto incastrato nel quartiere...
Cioè insomma, se io che sono un buon consumatore di calcio non sapevo una cosa del genere non ci trovo niente di strano che su un quotidiano generalista, in sede di presentazione dell'evento, si sia indugiato sulla ricostruzione delle origini del mito. Quello che voi bollate come retorica, per il solo fatto che magari è la milionesima volta che l'avete risentita, magari è una storia che al lettore medio di Repubblica non era nota. Se a uno che non sa niente del derby di Roma gli racconti della Lazio aristocratica e delle merde popolari probabilmente gli interessa, anche se oggi questa bipartizione non ha quasi più senso. Se la racconti a un romanista o laziale che se la ciba da trent'anni facilmente ti dirà che è retorica...
E poi, cinicamente, da un punto di vista editoriale per me conta una cosa sola: che io ieri sono andato appositamente a cercarmi il pezzo e che oggi - non solo qui - se ne sta ancora parlando. A fronte di migliaia di articoli che ogni giorno vengono letti e dimenticati. O peggio ancora ignorati. Basterebbe questo a ripagare il viaggio di Baricco a Buenos Aires, pure se il pezzo l'avesse scritto per tre quarti prima di partire. Che per me la vera retorica è questa: "per mandare un collaboratore fino in Argentina e fargli riempire tre pagine di luoghi comuni rintracciabili su Google devi averne veramente tanti, di soldi". Mamma mia che immane stronzata... I cinquemila euro che sarà costato st'articolo probabilmente in qualche modo sono rientrati, e hanno molto più senso così che se fossero stati spesi per pagare cinque mesi di stage a un altro passacarte.
Drenai71
00mercoledì 6 maggio 2015 15:21
che poi è un ragionamento valido per il 90% del lavoro di un qualsiasi inviato. quanti sono gli articoli o servizi che parlano di qualcosa che da lontano non avresti potuto sapere/illustrare?
probabile che ci siano inviati in giro per il mondo che in tutta la loro carriera non hanno mai scritto un articolo per il quale fosse necessaria la loro presenza in loco, ma allora che si fa? nell'era di internet si abolisce la figura dell'inviato?
ReflexBlue74
00mercoledì 6 maggio 2015 16:33
Baricco è un gran affabulatore. Storyteller, come dicono quelli bravi, e paraculo, come correttamente sottolinea ML. Il pezzo mi è piaciuto. E' quello che si aspetta un lettore che mastica un pochino di calcio. Nonostante il largo impiego di aneddotica trasversale, dubito che abbia coinvolto chi di calcio ne sa quanto un astemio di vino. Insomma, gli hanno chiesto un articolo, non un reportage. E lui ha portato a casa la giornata con mestiere.

Nemmeno io conoscevo l'archietettura dello stadio. [SM=g27994]

Ah, ma ha giocato il mitico Balanta?
Mark Lenders (ML)
00mercoledì 6 maggio 2015 16:37
Re:
ReflexBlue74, 06/05/2015 16:33:

Insomma, gli hanno chiesto un articolo, non un reportage.[SM=g27994]



In effetti ho usato il termine sbagliato, per definire una lunghezza che non è quella degli articoli tradizionali. Però è vero che con un reportage non ha nulla a che fare.
Drenai71
00mercoledì 6 maggio 2015 16:43
Re:
ReflexBlue74, 5/6/2015 4:33 PM:


Ah, ma ha giocato il mitico Balanta?



no. nemmeno il fratello di funes mori, che avevo visto bene un'altra volta. però giocava kranevitter che ci hanno accostato l'anno scorso.
sinceramente nessuno di quelli in campo mi è sembrato in grado di fare granchè qua (ma va detto che palacio ad esempio al boca non mi piaceva granchè e invece si è rivelato un ottimo acquisto).

ReflexBlue74
00mercoledì 6 maggio 2015 17:03
E il figlio di Simeone? Mi dirai, guardati i tabellini. E c'hai ragione pure te. [SM=g27987]

A proposito, oggi il Cholo ha ribadito di voler allenare la Lazio!

Ritornando in topic, il caso Balanta, "uno dei migliori difensori del mondo" fino a pochi mesi fa, mi suggerisce il tema di un reportage che mi piacerebbe affrontare se fossi un giornalista di talento, Anzi, se fossi proprio un giornalista, visto che mi occupo di altro.
E cioè raccogliere articoli, commenti, giudizi, retroscena sui fenomeni di mercato che, dopo aver occupato pagine e pagine di giornali, si eclissano fino a scomparire dai radar.

I bidoni tipo Luis Silvio o le meteore come Enniynaya sono argomenti ampiamente dibattuti, ma invece Marcos Angeleri che fine ha fatto? E quell'altro mediano, sempre argentino, Gutierrez, Gonzalez, Ramirez, boh come si chiamava.. aveva un cognome comunissimo. Mi pare giocasse anche lui nel River.

ℬaruch
00mercoledì 6 maggio 2015 18:40
Re:
Mark Lenders (ML), 06/05/2015 14:46:


Vi va di far diventare questo topic un deposito di racconti sul calcio (articoli, ma anche servizi video) che riteniamo meritevoli di essere condivisi?



Molto volentieri. Devo dire che la tua idea per ora mi trova pronto più come fruitore che come attivista. Faccio fatica a capire dove e come leggere bene di calcio, un tempo trovavo qualcosina su Sportweek, un po' vago tra qualche rivista se capita (come la nuova 11). La verità è che ancora non mi sono ripreso dall'addio di Greg sulla Gazzetta, anche se lui il meglio lo dava col ciclismo, che è sempre stato lo sport meglio raccontato per antonomasia
Mark Lenders (ML)
00giovedì 7 maggio 2015 09:42
Re: Re:
ℬaruch, 06/05/2015 18:40:


Faccio fatica a capire dove e come leggere bene di calcio, un tempo trovavo qualcosina su Sportweek, un po' vago tra qualche rivista se capita (come la nuova 11)



A proposito di Rivista Undici, questo l'ha scritto fresco fresco uno dei miei migliori amici:

http://www.rivistaundici.com/2015/05/06/amburgo-impossibile-salvezza/
ReflexBlue74
00giovedì 7 maggio 2015 15:38
Due magazine che forse conoscete già.

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