La genuflessione

el_greco
sabato 21 luglio 2007 18:28



Dicono che genuflettersi sia un gesto poco ortodosso, ma è inevitabile quando ci sono cocci da raccogliere.
E’probabile che a spargere la voce siano stati gli intellettuali, i saggi, o coloro che hanno la cervicale sempre all’erta e dunque impossibilitati nel chinare il capo anche solo per riconoscere gli aspetti della loro incomunicabilità.
Quelli, gli intellettuali, hanno i tratti degli zigomi a strapiombo sull’egoismo e macinano parole come fossero chewing-gum da sputare dopo averne estratto l’essenza.
Io mastico per giorni, fino a farmi scoppiare l’ulcera, è una questione di impegno –mi dicono - e, forse, di abitudine e poi, comunque, non ho mai avuto carie in vita mia… o forse una sola.

Trovo terribilmente difficile esporre anche solo il venticinque per cento dei miei silenzi più ostinati perché temo sempre di poter ferire, poi è sufficiente cambiare angolo di visuale per scoprire il novantacinque percento restante che occhieggia da dietro il monitor del mio portatile inducendo profonde riflessioni quando mi notifica che rappresento solo una piccola percentuale di anidride carbonica nel vasto fluire ritmico, ed universalmente più importante, del respiro dell’oceano. Alla fine scopro di aver superato la soglia dei cento e mi riservo quel venti per future masturbazioni mentali.

Credo di essere fondamentalmente un asociale, un pessimo esempio per le future generazioni: non frequento nessuno, non ho vita mondana e passo il mio tempo tra il computer portatile, il desktop della mia stanza ed il frigo in cui tengo sempre un bicchiere di vino bianco coperto da una pellicola di domopak. Così sfilaccio giorni e silenzi densi di malinconia in rabbia che non interessa nessuno; ma anche qui tutto dipende dall’angolazione con cui viene affrontato il discorso, perché se sposto l’ottica mi ritrovo - irreprensibile esempio di incoscienza e masochismo - ad inerpicarmi con le mani sanguinanti per pareti di vetro su cui sopravvive solo il biancospino.
Ho pena per quella gente che fa il sunto della propria vita ogni mattina davanti allo specchio; io mi limito sempre a quello della sera precedente o al massimo del giorno prima, a che servirebbe il resto, visto che è solo in essa che le mie mani sanguinano.

Ho persino le scarpe bucate, me lo ha fatto notare una gentile signora che, senza malizia, ma con insistenza guardava le mie suole in tram senza profferire parola; pensavo di aver pestato una merda di cane, ma non sentivo alcun odore, poi la sua espressione soddisfatta quando ebbe la certezza che io, imbarazzato, avessi compreso il perché del suo sguardo insistente.
Odio il ciabattino quando assume quell’aria afflitta scuotendo la testa, quella sua superficialità nell’affermare l’inutilità di ogni possibile soluzione per salvare le mie lumberjack.
Odio il mio lavoro di ciabattino.

Ma tu non muoverti da lì, anche se ora vanno solo i CD, io ho ancora il nastro di Bobby McFerrin, quello su cui incidesti il tuo brano preferito, dove ripete fino alla nausea “don’t worry, be happy”.
Certo, se non piovesse, con i piedi asciutti, un pennello tra le labbra e cento parole sulla punta delle dita forse potrei esserlo, ma, nel frattempo, resto al chiuso e provo ancora ad interrogare il mio pc come i passanti, davanti alla “cumana”, la cartomante di turno e chissà che nell’attesa non riesca ad identificare quel rimanente settantacinquepercento.






Libera ispirazione al film di W. Beatty “ Il paradiso può attendere ”
ormedelcaos
sabato 21 luglio 2007 18:53


Anche il paradosso può attendere, oltre al Paradiso.

Mi piace come scrivi. Ciao: Ti do il benvenuto!


pierrot--
sabato 4 agosto 2007 13:55
Ma che bello! Scorrevole con sentimento. Tra le percentuali e la difficoltà del ciabattino. [SM=g28002] [SM=g28002]
Grazie
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