La crisi iraniana, e il nuovo bilanciamento in Asia.

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cane...sciolto
00lunedì 29 maggio 2006 02:01
La crisi iraniana rivela il mutamento della bilancia in Asia.

La contesa mondiale nei decenni ha sempre mostrato un tratto regolare nel fatto che le spinte contrastanti delle potenze si concentrino su nodi e in aree specifiche, in cui si riassume però il tratto generale della lotta internazionale: sono "crisi regionali" dove vengono a combinarsi i differenti piani della concorrenza imperialistica. E' un processo in cui pesano tanto i tratti specifici delle aree regionali e la loro importanza diretta nella contesa -si pensi all' Irak, all' Iran ed all' "arteria energetica" del Golfo Persico quanto le relazioni strategiche complessive. Queste a volte vedono messi in causa nella loro crisi i loro interessi vitali, come è il caso oggi per la guerra nel Golfo, ma anche impugnano quel frangente nel loro confronto politico, mettendo alla prova i rapporti di forza reciproci. L'analisi materialista della politica internazionale richiede un continuo raccordo fra i tratti specifici di ogni singolo fronte di crisi e la dinamica complessiva della bilancia di potenza.
Già prima della guerra in Irak abbiamo valutato che Washington cercasse nel Golfo non tanto il petrolio quanto il vantaggio strategico di controllare le fonti, costringendo l' Europa e soprattutto l' Asia a trattare. Oggi la questione della "sicurezza energetica" domina il confronto tra vecchie e nuove potenze. Valutando anche che la complessità degli equilibri regionali facilmente avrebbe esposto l'azione unilaterale di Washington alla legge della "risultante non voluta". Senz'altro Teheran, nella crisi sul nucleare iraniano, può far leva oggi sulla condizione di stallo in cui gli Stati Uniti appaiono imprigionati a Baghdad.
Altri attori regionali, a partire dalla Turchia, hanno preso a muoversi in base ai propri autonomi calcoli di potenza. Infine, proprio il mutamento nella bilancia di potenza globale lasciava pensare che un nuovo equilibrio nel Golfo non potesse essere garantito unilateralmente dagli USA, e che l' Asia emergente avrebbe preteso di avere voce in capitolo. E' rilevatorio che il nodo iraniano abbia avviato una complessa partita diplomatica non solo tra gli Stati Uniti, e la "troika" dell' Unone Europea e la Russia, ma che soprattutto Cina e India ne siano divenuti protagonisti regolari e non più aggirabili. La contesa è multipolare, ma è sempre più in Asia il suo baricentro.
Proprio le fonti indiane riferiscono risvolti della crisi iraniana trascurati sui media europei e americani.
M. K. Bhadrakumar, ex ambasciatore indiano in Uzbekistan e Turchia, scrive su "Asia Times" che Iran, India, Pakistan e Mongolia entrerebbero a pieno titolo nella SCO (Shanghai Cooperation Organization), il foro di consultazione politica promosso da Cina e Russia in cui sedevano come osservatori. Nota a ragione l'ex ambasciatore che la decisione russo-cinese di far entrare l' Iran costituisce una "dichiarazione politica", e che l'adesione alla SCO aprirebbe a Teheran "un'arteria politica ed economica" proprio mentre gli Stati Uniti cercano di giocare la carta del suo isolamento.
Anche l'ingresso dell' India sembra accennare un atto di bilancia in risposta alla recente convergenza tra Washington e Nuova Delhi. Bhadrakumar, che è tra gli analisti di "The Hindu" ritiene che i movimenti in questione segnalino la frustazione dell'intera politica americana volta a divaricare l' Asia centrale dalla Russia e dalla Cina, visto che sarebbe invece la SCO ad espandersi in Asia meridionale e nella regione del Golfo, aggirando l' Afghanistan. La valutazione risente della posizione critica di "The Hindu" verso la "entende" indo-americana, e certo sopravvalutata la potenzialità di una convergenza tra Mosca, Pechino e Nuova Delhi, ma nell'iniziativa sino-russa è incontrovertibile la presa di garanzia contro una forzatura unilaterale in Iran. Sempre "The Hindu" richiama l'attenzione sulla posizione di Ankara nella crisi iraniana. Scrive il quotidiano di Madras che Russia e Turchia, "per secoli arcirivali nella vasta regione che va dai Balcani al Caucaso", stanno rispondendo con "agilità" alle manovre anglo-americane nel loro cortile di casa, e il risultato è un riorientamento parallelo della loro politica estera in direzione del "mondo islamico". Secondo Sami Cohen, del quotidiano turco "Milliyet", le "visioni turche sull' Iran tendono ad essere diverse da quelle occidentali, e più prossime a quelle russe".
Ankara si oppone a qualunque cambio di regime in Siria e in Iran, e a titolo dimostrativo ha rafforzato i legami con Teheran e Damasco.
Dal dibattito turco in realtà emergono spunti che non hanno solo il segno del movimento parallelo tra Ankara e Mosca, ma che rimandano anche alla UE, agli Stati Uniti e alle potenze asiatiche. Cengiz Candar, del "New Anatolian" di Ankara, sostiene che la Turchia potrebbe assumere "un ruolo complementare" alla troika UE ed alla Russia, con l'obiettivo anche di accrescere le prospettive del proprio ingresso nell' Unione Europea. Il ministro dell' Energia Hilmi Guler, riferisce il "Washington Post", ha annunciato un piano per la costruzione di cinque centrali nucleari. Sul progetto incombe la questione del nucleare iraniano e del suo possibile sbocco nel-riarmo atomico di Teheran. Secondo Ozdem Sanberk, ex ambasciatore in USA, un Iran che arrivasse alla produzione nucleare diverrebbe "potenza dominante" nell'area, trasformando in "relazione asimmetrica" il rapporto con la Turchia, sinora percepito sia a Teheran che ad Ankara come paritario.
Per il "Washington Post", gli Stati Uniti cercano di incanalare l'allarme turco per il progetto nucleare iraniano nell'azione di pressione su Teheran. Il quotidiano "Zaman", di Istambul, è il terzo giornale turco ed è vicino alla componenti islamiche da cui proviene il premier Tayyip Erdogan. Mustafa Malik, analista legato all' Università di Chicago, vi sostiene che la sicurezza dell' "arteria petrolifera mondiale" del Golfo non può essere garantita da una coalizione di forze che ricalchi la "coalizione dei volontari" impegnata con Washington in Irak, troppo incentrata sugli USA. Una soluzione, sempre per "Zaman", potrebbe essere quella avanzata da Christian Koch del Gulf Research Center di Dubai, un ambito legato al Consiglio di Cooperazione del Golfo e all' Arabia Saudita ma che ha legami anche nella UE e in Germania.
La proposta è una struttura di sicurezza regionale che dovrebbe essere composta dalla NATO e -si badi bene- dall' ASEAN.
E' inevitabile che riferirsi all' ASEAN ormai chiami in causa anche l'ambizione di relazioni "ASEAN + 3", ossia anche Cina, Giappone e Corea.
Notiamo che per questa via il coinvolgimento asiatico non avrebbe il segno polemico cui inclina "The Hindu", quando vede l'allargamento della SCO all' Iran in contrapposizione alla NATO.
Del resto, come si era già visto per le proposte di Henry Kissinger, quella del Gulf Research Center non è l'unica ipotesi di convergenza multilaterale in cui ormai è dichiarata la necessità di una presenza asiatica nel Golfo.
Robert Zoellick, vicesegretario di Stato americano, sembra essersi spinto ancora più avanti in occasione della visita a Washington di Hu Jintao. Commentando il testo del CSIS e dell' IIE di Fred Bergsten "China the balance sheet", Zoellick precisa il senso della sua formula di una Cina come "socio responsabile" dell'ordine globale, dove "socio", nella concezione anglosassone, è più del semplice "azionista". L' idea è "un interazione che vada oltre il puro interesse nazionale, ma che riconosca come tale interesse possa essere sviluppato nel rafforzamento del sistema internazionale". Tra le aree dove Washington e Pechino hanno "interessi comuni" e dove la Cina ha un ruolo da svolgere, Zoellick cita l' Irak, l' Afghanistan, il Sudan, la Birmania, e il Medio Oriente con la questione del riconoscimento di Hamas.
Affiora un accento inedito sul ruolo globale di Pechino, che emerge del resto anche nel confronto appena avviato sulla revisione delle quote nel Fondo Monetario Internazionale. Nella "dottrina Zoellick" la entente tra Washington e Nuova Delhi non è separabile tra Washington e Pechino. La duplice crisi nel Golfo prima o poi diverrà il test per questa bilancia di relazioni.

di Guido La Barbera, "Lotta Comunista" aprile 2006.
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