La Trinità

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Walter.Simoni
00lunedì 29 giugno 2009 13:14
Come proverebbe un ortodosso, l'esistenza di un Dio uno e trino?
Quali prove scritturistiche presenterebbe ai tdG, i quali, com'è risaputo, non credono nella trinità di Dio?
ortodox
00lunedì 29 giugno 2009 22:25
Re:
Walter.Simoni, 29/06/2009 13.14:

Come proverebbe un ortodosso, l'esistenza di un Dio uno e trino?
Quali prove scritturistiche presenterebbe ai tdG, i quali, com'è risaputo, non credono nella trinità di Dio?



Caro Walter, la tua domanda mi spaventa per la vastità della tematica. Ci sono infatti decine di passi biblici e riflessioni dei Padri della Chiesa che testimoniano la Trinità e francamente non saprei da quale partire. Ne citerò alcuni e via via che la discussione procede (spero) proverò a portarne di nuovi.

Prima di tutto però vorrei fare una premessa importante: per un ortodosso la Scrittura è essenziale, anzi fondamentale. Ma altrettanto importanti sono altri elementi che vengono visti come il normale prolungamento della Scrittura e testimoniano la stessa opera dello Spirito Santo lungo la storia. Si tratta del Credo, delle dottrine dei Sette Concili, delle Icone e soprattutto dei Padri della Chiesa. Ci sono anche altre cose importanti ma queste sono le principali, che insieme alla Bibbia formano quella che viene comunemente chiamata la "Tradizione".

Tutti questi elementi costituiscono una guida spirituale completa per qualunque ortodosso, che in ogni momento e in ogni luogo sa di poter contare su questa forte roccia. Certo, i Padri della Chiesa, che hanno elaborato le dottrine presenti nelle Scritture, non hanno mantenuto sempre e comunque un percorso esegetico univoco e concorde. La discussione è alla base di qualunque credo per gli ortodossi, come testimoniano i Concili. Ma presa nel suo insieme, tutta la Tradizione costituisce il centro del mondo ortodosso, imprescindibile e inimitabile.

Come potrete benissimo immaginare, la Trinità sta al centro di tutto, per questo pensavo all'enorme lavoro che mi aspetta. Ma vorrei invece basarmi sulle vostre domande, cominciando da un punto a caso e muovendomi poi dove mi porta il vento.

Il punto da cui vorrei partire è uno dei versetti che maggiormente amo:

"Sappiamo pure che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato intelligenza per conoscere colui che è il Vero; e noi siamo in colui che è il Vero, cioè, nel suo Figlio Gesù Cristo. Egli è il vero Dio e la vita eterna." (1Gio 5,20 - Nuova Riveduta)

Il messaggio credo sia chiaro già da questo. Ce ne sono molti altri, anche in relazione al Santo Spirito, che ci fanno intuire la Trinità. Ma per stasera credo che basti.

Saluti
ortodox
Walter.Simoni
00martedì 30 giugno 2009 00:14
Re: Re:
[95186159=ortodox, 29/06/2009 22.25]


Caro Walter, la tua domanda mi spaventa per la vastità della tematica.



La Scrittura sostiene che: "...sono imperscrutabili i suoi giudizi e impenetrabili le sue vie!". Rom 11:33,34
Per quanto possiamo sbizzarrirci nello studio e nella ricerca, non comprenderemo mai la grandezza dell'Onnipotente! Tentiamo di spiegare Dio attraverso ciò che Egli ci ha raccontato di Sè nella Parola scritta, mai però potremo penetrare profondamente all'interno delle sue vie e dei suoi pensieri.


Ci sono infatti decine di passi biblici e riflessioni dei Padri della Chiesa che testimoniano la Trinità e francamente non saprei da quale partire. Ne citerò alcuni e via via che la discussione procede (spero) proverò a portarne di nuovi.



Sarà interessante confrontarci su questo. Sì, è vero: la Parola di Dio parla spesso della Trinità, se per Trinità intendiamo le tre ipostasi: Padre, Figlio e Spirito santo.
Per i Testimoni, queste sono la base, il fondamento della propria dedicazione di fede, tant'è vero che, come comandò Gesù, ci battezziamo anche noi "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo".
La questione però si accende, quando si cerca di capire la sostanza delle ipostasi in questione. Infatti: davvero la Bibbia sostiene il concetto trinitario niceano relativo alla consustanzialità dei Tre, la loro coeguaglianza e coeternità?
E poi, che dire dello Spirito santo? E una persona divina oppure è la potenza del Divino?
Credo che in questo thread ce n'è di argomenti da trattare. Però mi piacerebbe che questa considerazione si concludesse come un sereno confronto, senza scendere nel bassezza di uno scontro. Qualunque argomentazione può benissimo concludersi con opinioni opposti, differenti, ma ne è valsa la pena parlarne, se il rispetto sta alla base di tutto.


Prima di tutto però vorrei fare una premessa importante: per un ortodosso la Scrittura è essenziale, anzi fondamentale. Ma altrettanto importanti sono altri elementi che vengono visti come il normale prolungamento della Scrittura e testimoniano la stessa opera dello Spirito Santo lungo la storia. Si tratta del Credo, delle dottrine dei Sette Concili, delle Icone e soprattutto dei Padri della Chiesa. Ci sono anche altre cose importanti ma queste sono le principali, che insieme alla Bibbia formano quella che viene comunemente chiamata la "Tradizione".
Tutti questi elementi costituiscono una guida spirituale completa per qualunque ortodosso, che in ogni momento e in ogni luogo sa di poter contare su questa forte roccia. Certo, i Padri della Chiesa, che hanno elaborato le dottrine presenti nelle Scritture, non hanno mantenuto sempre e comunque un percorso esegetico univoco e concorde. La discussione è alla base di qualunque credo per gli ortodossi, come testimoniano i Concili. Ma presa nel suo insieme, tutta la Tradizione costituisce il centro del mondo ortodosso, imprescindibile e inimitabile.





Anche per i Testimoni la Scrittura è essenziale e fondamentale. Essa contiene i pensieri di Dio e la Sua guida. A questa infatti facciamo pieno riferimento per ogni cosa: sia che si tratti di una decisione da prendere, di un problema da risolvere nell'ambito del lavoro, sia nei ns rapporti col prossimo, e nella vita quotidiana. La Scrittura è utile per insegnare a camminare nella giustizia, per correggerci, per disciplinarci se sbagliamo, e ad essa ricorriamo continuamente.
Per i Testimoni, ciò che Dio aveva da dirci, l'ha fatto scrivere nero su bianco, e va considerato nella sua interezza, alla luce del suo contesto globale.


Come potrete benissimo immaginare, la Trinità sta al centro di tutto, per questo pensavo all'enorme lavoro che mi aspetta. Ma vorrei invece basarmi sulle vostre domande, cominciando da un punto a caso e muovendomi poi dove mi porta il vento.
Il punto da cui vorrei partire è uno dei versetti che maggiormente amo: "Sappiamo pure che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato intelligenza per conoscere colui che è il Vero; e noi siamo in colui che è il Vero, cioè, nel suo Figlio Gesù Cristo. Egli è il vero Dio e la vita eterna." (1Gio 5,20 - Nuova Riveduta)



La scrittura che hai riportato è davvero una delle più belle, ma anche una delle più articolate e discusse.
Secondo un'altra versione, il verso direbbe così: “Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna”. In ogni caso, la questione che si presenta è: quando L’apostolo parla del “vero Dio”, fa riferimento a Cristo o a Dio Padre? E’ vero che la forma grammaticale in cui è impostato il versetto, farebbe pensare che “il vero Dio” sia riferito al Figlio, tuttavia il contesto mostrerebbe che, il soggetto principale a cui si riferisce Giovanni era Dio, e non Gesù. Non mi sembra infatti che lo scopo delle parole di questo verso, sia quello di esaltare la divinità di Gesù. Ma su questo mi esprimerò più avanti, quando avremo avviato l'analisi dei passi biblici implicati.


Il messaggio credo sia chiaro già da questo. Ce ne sono molti altri, anche in relazione al Santo Spirito, che ci fanno intuire la Trinità. Ma per stasera credo che basti.



Parliamone!



ortodox
00martedì 30 giugno 2009 10:31
Re: Re: Re:
Walter.Simoni, 30/06/2009 0.14:



La Scrittura sostiene che: "...sono imperscrutabili i suoi giudizi e impenetrabili le sue vie!". Rom 11:33,34
Per quanto possiamo sbizzarrirci nello studio e nella ricerca, non comprenderemo mai la grandezza dell'Onnipotente! Tentiamo di spiegare Dio attraverso ciò che Egli ci ha raccontato di Sè nella Parola scritta, mai però potremo penetrare profondamente all'interno delle sue vie e dei suoi pensieri.



Caro Walter, l'inconoscibilità di Dio è uno dei fondamenti dell'Ortodossia. La mente limitata e temporale dell'uomo non potrebbe mai arrivare a comprendere ciò che è illimitato ed eterno. I Padri Cappadoci insistono molto su questo e lo stesso Basilio il Grande sosteneva che l'unica cosa che possiamo conoscere su Dio è il fatto che Egli rimane inconoscibile per l'uomo.

Del resto l'Incarnazione di Gesù servì anche a questo: essendo egli contemporaneamente vero Dio e vero Uomo realizzò il tramite perfetto fra umano e divino. Infatti

"E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre." (Giov 1,14)

"Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l'ha fatto conoscere." (Giov 1,18)



Infatti: davvero la Bibbia sostiene il concetto trinitario niceano relativo alla consustanzialità dei Tre, la loro coeguaglianza e coeternità?



Secondo noi si. I Sette Concili e i Padri lo confermano, fin dai primi Apologeti, fra i quali Giustino e altri che vissero a ridosso degli ultimi anni di vita degli Apostoli.



Però mi piacerebbe che questa considerazione si concludesse come un sereno confronto, senza scendere nel bassezza di uno scontro. Qualunque argomentazione può benissimo concludersi con opinioni opposti, differenti, ma ne è valsa la pena parlarne, se il rispetto sta alla base di tutto.



Per quanto mi riguarda nessun problema. Chi mi segue in altri forum sa che la mia moderazione ed educazione è proverbiale (salvo nei casi di maleducazione da parte di altri, cosa che non tollero!). Inoltre il dialogo è una delle caratteristiche che contraddistingue l'Ortodossia e sebbene io non mi reputi ancora pienamente ortodosso cerco per quanto possibile di diventarlo nel migliore dei modi.



Anche per i Testimoni la Scrittura è essenziale e fondamentale. Essa contiene i pensieri di Dio e la Sua guida. A questa infatti facciamo pieno riferimento per ogni cosa: sia che si tratti di una decisione da prendere, di un problema da risolvere nell'ambito del lavoro, sia nei ns rapporti col prossimo, e nella vita quotidiana. La Scrittura è utile per insegnare a camminare nella giustizia, per correggerci, per disciplinarci se sbagliamo, e ad essa ricorriamo continuamente.
Per i Testimoni, ciò che Dio aveva da dirci, l'ha fatto scrivere nero su bianco, e va considerato nella sua interezza, alla luce del suo contesto globale.



Concordo pienamente.



Secondo un'altra versione, il verso direbbe così: “Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna”. In ogni caso, la questione che si presenta è: quando L’apostolo parla del “vero Dio”, fa riferimento a Cristo o a Dio Padre? E’ vero che la forma grammaticale in cui è impostato il versetto, farebbe pensare che “il vero Dio” sia riferito al Figlio, tuttavia il contesto mostrerebbe che, il soggetto principale a cui si riferisce Giovanni era Dio, e non Gesù. Non mi sembra infatti che lo scopo delle parole di questo verso, sia quello di esaltare la divinità di Gesù. Ma su questo mi esprimerò più avanti, quando avremo avviato l'analisi dei passi biblici implicati.



Può essere, parliamone. Del resto siamo qui per questo.

Saluti
ortodox

Walter.Simoni
00martedì 30 giugno 2009 11:38
Carissimo ortodox, abbiamo così stabilito una cosa fondamentale: il nostro è e resterà solo un ragionamento sulla base degli elementi a nostra disposizione, per tracciare l'identità dell'Iddio della Bibbia, quanto più verosimile alle indicazioni da Lui stesso trasmesseci. Resta cmq il fatto che alla fine, Dio è Dio per la sua trascendenza, e ne io ne te ne chiunque altri potrà mai svelarLo interamente.

Ma, cominciamo con l'analisi di alcuni dei passi biblici ai quali abbiamo già fatto riferimento.

Nel tuo ultimo post, menzioni due bellissime scritture legate al prologo giovanneo:

"E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre." (Giov 1,14)
"Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l'ha fatto conoscere." (Giov 1,18)



Con riferimento a queste scritture, sostieni poi quanto segue:


Del resto l'Incarnazione di Gesù servì anche a questo: essendo egli contemporaneamente vero Dio e vero Uomo realizzò il tramite perfetto fra umano e divino.



Sulla base delle scritture da te citate, da dove evinci che il Cristo incarnato era contemporaneamente vero Dio e vero Uomo?

ortodox
00martedì 30 giugno 2009 12:03
Re:
Walter.Simoni, 30/06/2009 11.38:


Nel tuo ultimo post, menzioni due bellissime scritture legate al prologo giovanneo:

"E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre." (Giov 1,14)
"Nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l'ha fatto conoscere." (Giov 1,18)



Con riferimento a queste scritture, sostieni poi quanto segue:


Del resto l'Incarnazione di Gesù servì anche a questo: essendo egli contemporaneamente vero Dio e vero Uomo realizzò il tramite perfetto fra umano e divino.



Sulla base delle scritture da te citate, da dove evinci che il Cristo incarnato era contemporaneamente vero Dio e vero Uomo?



I verbi greci, che sono magnifici per la loro estrema precisione, ce lo mostrano chiaramente. Infatti in Giov 1,14 si dice che la parola divenne (ἐγένετο) carne e nel divenire si intende che in precedenza, carne non era. Ma Giov. 1,18 dice che l'unigenito Dio è (ὁ ὢν, essente ) nel seno del Padre, non che era nel seno del Padre.

In altre parole, il Verbo continua ad essere sempre nel seno del Padre pur facendosi carne e vivendo in mezzo agli uomini. E del resto il Verbo non avrebbe mai potuto perdere la sua condizione ontologica di uguaglianza con Dio.

Spero di non essere stato troppo tecnico
Saluti
ortodox
barnabino
00martedì 30 giugno 2009 13:17
Gesù è sempre stato nel "seno del padre". E allora? Ci vuole una bella fantasia per dedurne che abbiamo tre persone in un Dio!

Shalom
Walter.Simoni
00martedì 30 giugno 2009 13:47
Re: Re:

I verbi greci, che sono magnifici per la loro estrema precisione, ce lo mostrano chiaramente. Infatti in Giov 1,14 si dice che la parola divenne (ἐγένετο) carne e nel divenire si intende che in precedenza, carne non era.



In questo mi trovi perfettamente d'accordo, infatti Gesù, nella sua posizione divina, prima di divenire uomo, era solo divino, spirito.
Quando poi lasciò i cieli per divenire uomo, "divenne carne" ... proprio come dici te.
Ciò che però non leggo nei passi in questione, è dov'è che si sostenga la sua umanità e divinità insieme. In cielo era divino, poi si spogliò della sua divinità e divenne carne, umano, (Fil.2:6,7) perfettamente equivalente alla natura del primo uomo perfetto, Adamo, tant'è vero che, di Gesù uomo, è detto che egli è il "l'ultimo Adamo". (1 Cor.15:45)


ortodox
00martedì 30 giugno 2009 14:26
Re: Re: Re:
Walter.Simoni, 30/06/2009 13.47:


Ciò che però non leggo nei passi in questione, è dov'è che si sostenga la sua umanità e divinità insieme. In cielo era divino, poi si spogliò della sua divinità e divenne carne, umano, (Fil.2:6,7) perfettamente equivalente alla natura del primo uomo perfetto, Adamo, tant'è vero che, di Gesù uomo, è detto che egli è il "l'ultimo Adamo". (1 Cor.15:45)



Il Varbo si fece carne senza lasciare il seno del Padre perchè la forma greca del verbo essere usata in Giov. 1,16 (essente) indica una condizione permanente. La Parola E' nel seno del padre, non ERA come quando dici "in cielo era divino".
Gesù stesso disse ai suoi Apostoli: "Io sono nel Padre e il Padre è in me" (Giov. 14,11).
Gesù non si spoglio mai della sua divinità, non è questo che dice l'Inno di Filippesi 2. Continuò ad essere Dio pur essendo uomo. Solo che decise di non manifestarlo (tranne che nella Trasfigurazione) e di offrirsi spontaneamente come sacrificio per i peccati.

Saluti
ortodox
Walter.Simoni
00martedì 30 giugno 2009 15:47
Re: Re: Re: Re:

Il Varbo si fece carne senza lasciare il seno del Padre perchè la forma greca del verbo essere usata in Giov. 1,16 (essente) indica una condizione permanente. La Parola E' nel seno del padre, non ERA come quando dici "in cielo era divino".
Gesù stesso disse ai suoi Apostoli: "Io sono nel Padre e il Padre è in me" (Giov. 14,11)



Che la Parola sia “nel seno” del Padre, non indica affatto una “condizione permanente” in senso ontologico, altrimenti sarebbe come dire che, il mendicante della narrazione di Luca 16: 22 -23, sarebbe un tutt'uno con Abramo, visto che usa la stessa espressione.
Nella versione TILC, il passo in questione è reso così: “Nessuno ha mai visto Dio: il Figlio unico di Dio, quello che è sempre vicino al Padre, ce l’ha fatto conoscere”. Cosa vuol dire questo? Che la vicinanza spirituale, il rapporto di filiazione, l’unità descritta dall’espressione: "Io sono nel Padre e il Padre è in me", (Giov. 14:11), è ciò che permetteva a Cristo di sentire in sé la presenza del Padre attraverso la potenza dello Spirito santo e ‘mostrare’ il Padre a coloro che aprivano l’intendimento al messaggio del Vangelo, affinché il Padre vivesse anche in loro. Così il Padre diviene come ‘visibile’, grazie alle opere compiute da Cristo, e alla conoscenza del Padre che ha trasmesso al mondo.
Si tratta di un'unione di vivere l’uno dell’altro, come Cristo e il cristiano: “Io vivo unito al Padre, e voi uniti a me e io a voi”, (Gv 14:20) una sorta di legame spirituale, un’unione non fisica, ontologica, (altrimenti i discepoli diverrebbero parte di una Trinità), ma un’unione di volontà, così che, la volontà dell’uno è la volontà dell’altro, l’amore dell’uno è l’amore dell’altro, le parole dell’uno sono le parole dell’altro, e insieme divengono “uno”, “uno solo”. Questa ‘unione’ o ‘unità’, è suggellata dall’amore, così che nell’amore Dio è in Cristo e noi, uniti a Cristo, siamo in Dio: “Dio è amore, e chi vive nell’amore è unito a Dio, e Dio è presente in lui”.(1Gv 4:16)





ortodox
00martedì 30 giugno 2009 20:59
Re: Re: Re: Re: Re:
Walter.Simoni, 30/06/2009 15.47:


Che la Parola sia “nel seno” del Padre, non indica affatto una “condizione permanente” in senso ontologico, altrimenti sarebbe come dire che, il mendicante della narrazione di Luca 16: 22 -23, sarebbe un tutt'uno con Abramo, visto che usa la stessa espressione.



La grammatica la indica invece chiaramente e il passo di Giovanni è costruito in modo diverso da quello di Luca. Il participio del verbo essere in Giovanni indica proprio una condizione permanente di esistenza. Niente di tutto ciò in Luca.



Nella versione TILC, il passo in questione è reso così: “Nessuno ha mai visto Dio: il Figlio unico di Dio, quello che è sempre vicino al Padre, ce l’ha fatto conoscere”. Cosa vuol dire questo? Che la vicinanza spirituale, il rapporto di filiazione, l’unità descritta dall’espressione: "Io sono nel Padre e il Padre è in me", (Giov. 14:11), è ciò che permetteva a Cristo di sentire in sé la presenza del Padre attraverso la potenza dello Spirito santo e ‘mostrare’ il Padre a coloro che aprivano l’intendimento al messaggio del Vangelo, affinché il Padre vivesse anche in loro. Così il Padre diviene come ‘visibile’, grazie alle opere compiute da Cristo, e alla conoscenza del Padre che ha trasmesso al mondo.



L'espressione greca κόλπον τοῦ πατρὸς indica letteralmente l'interno del Padre e non una generica vicinanza. La conoscenza e la visibilità del Padre attraverso Gesù non è affatto simbolica ma reale, essendo Gesù "Immagine della Gloria" (vedi Ebrei). Gesù risponde alla domanda degli Apostoli di mostrare loro il Padre:
"Chi ha visto me, ha visto il Padre; come mai tu dici: "Mostraci il Padre"? (Giov. 14,9) Insomma, le prove sono tante.



Si tratta di un'unione di vivere l’uno dell’altro, come Cristo e il cristiano: “Io vivo unito al Padre, e voi uniti a me e io a voi”, (Gv 14:20) una sorta di legame spirituale, un’unione non fisica, ontologica, (altrimenti i discepoli diverrebbero parte di una Trinità), ma un’unione di volontà, così che, la volontà dell’uno è la volontà dell’altro, l’amore dell’uno è l’amore dell’altro, le parole dell’uno sono le parole dell’altro, e insieme divengono “uno”, “uno solo”. Questa ‘unione’ o ‘unità’, è suggellata dall’amore, così che nell’amore Dio è in Cristo e noi, uniti a Cristo, siamo in Dio: “Dio è amore, e chi vive nell’amore è unito a Dio, e Dio è presente in lui”.(1Gv 4:16)



Si tratta secondo me di una unione di vivere uno nell'altro, e non solo di un legame spirituale. E questa unione avviene nell'amore. I verbi sono molto precisi, come ho già detto.

Saluti
ortodox
Walter.Simoni
00martedì 30 giugno 2009 22:00
Re: Re: Re: Re: Re: Re:

Si tratta secondo me di una unione di vivere uno nell'altro, e non solo di un legame spirituale. E questa unione avviene nell'amore. I verbi sono molto precisi, come ho già detto.



Per descrivere il legame che unisce il Figlio al Padre, e viceversa, Gesù aggiunge: “Il Padre, che abita in me (en emoi menōn), compie le sue opere”. (Gv 14:10)

Appropriatamente, viene descritto il rapporto di comunione che Gesù ha col Padre, tanto che la parola di Gesù diviene parola di Dio e, allo stesso modo, l’opera sua, opera di Dio. Nel linguaggio del NT, questa espressione descrive l’intima comunione esistente fra Cristo e il Padre, come anche tra Cristo e i credenti. Gesù invita a rimanere in questa comunione, assicurando ai credenti che anch’egli rimarrà in comunione con loro: “Rimanete uniti a me, ed io unito a voi. Come il tralcio non può da se stesso portar frutto se non resta nella vite, così nemmeno voi lo potete, se non restate uniti a me” (Gv 15:4)


ortodox
00martedì 30 giugno 2009 22:28
Re: Re: Re: Re: Re: Re: Re:
Walter.Simoni, 30/06/2009 22.00:


Si tratta secondo me di una unione di vivere uno nell'altro, e non solo di un legame spirituale. E questa unione avviene nell'amore. I verbi sono molto precisi, come ho già detto.



Per descrivere il legame che unisce il Figlio al Padre, e viceversa, Gesù aggiunge: “Il Padre, che abita in me (en emoi menōn), compie le sue opere”. (Gv 14:10)

Appropriatamente, viene descritto il rapporto di comunione che Gesù ha col Padre, tanto che la parola di Gesù diviene parola di Dio e, allo stesso modo, l’opera sua, opera di Dio. Nel linguaggio del NT, questa espressione descrive l’intima comunione esistente fra Cristo e il Padre, come anche tra Cristo e i credenti. Gesù invita a rimanere in questa comunione, assicurando ai credenti che anch’egli rimarrà in comunione con loro: “Rimanete uniti a me, ed io unito a voi. Come il tralcio non può da se stesso portar frutto se non resta nella vite, così nemmeno voi lo potete, se non restate uniti a me” (Gv 15:4)





Si, solo che la traduzione che tu proponi non è propriamente quella letterale del greco. La particella "en" infatti, significa "in" come in Giov. 14,10 che tu citi correttamente. (Il Padre che abita in me.) e come la il tralcio rimane nella vite in 15,1.

Allo stesso modo noi dobbiamo rimanere in Cristo che è ben diverso dal dire uniti a Cristo. Non è solo un fatto di comunione, riguarda l'adozione a figli tramite l'Unigenito.

Saluti
ortodox
(SimonLeBon)
00martedì 30 giugno 2009 23:27
Re: Re:
Ciao Ortodox,
se mi permetti, ti indico un'altra spiegazione:


I verbi greci, che sono magnifici per la loro estrema precisione, ce lo mostrano chiaramente. Infatti in Giov 1,14 si dice che la parola divenne (ἐγένετο) carne e nel divenire si intende che in precedenza, carne non era. Ma Giov. 1,18 dice che l'unigenito Dio è (ὁ ὢν, essente ) nel seno del Padre, non che era nel seno del Padre.

In altre parole, il Verbo continua ad essere sempre nel seno del Padre pur facendosi carne e vivendo in mezzo agli uomini. E del resto il Verbo non avrebbe mai potuto perdere la sua condizione ontologica di uguaglianza con Dio.

Spero di non essere stato troppo tecnico
Saluti
ortodox



Il punto di vista temporale del racconto di Giovanni è posteriore ai fatti narrati, o almeno alla maggioranza di essi.
E' vero che Gv. usa "egeneto" al passato e "ho on" al presente, ma questo combacia alla perfezione col suo punto di vista di narratore a posteriori. Ai tempo della stesura del Vangelo il Cristo si era incarnato in passato ma era nel "seno del Padre" al presente, in quel momento.
"ho on" non giustifica in alcun modo, a mio avviso, la continuità temporale che tu invece supponi.
In aggiunta ti segnalo un'apparente contraddizione nel tuo ragionamento, nel Gv. 1,18 che tu hai citato "nessun uomo ha mai visto Dio". Raccontato a posteriori e parlando di un "essere" che tutti invece avevano visto e magari toccato con mano, questo μονογενὴς υἱὸς che è nel "seno del Padre", lascia quantomeno perplessi.

Simon


ortodox
00mercoledì 1 luglio 2009 10:29
Re: Re: Re:
(SimonLeBon), 30/06/2009 23.27:


Il punto di vista temporale del racconto di Giovanni è posteriore ai fatti narrati, o almeno alla maggioranza di essi.
E' vero che Gv. usa "egeneto" al passato e "ho on" al presente, ma questo combacia alla perfezione col suo punto di vista di narratore a posteriori. Ai tempo della stesura del Vangelo il Cristo si era incarnato in passato ma era nel "seno del Padre" al presente, in quel momento.
"ho on" non giustifica in alcun modo, a mio avviso, la continuità temporale che tu invece supponi.



Caro Simon la tua obiezione sarebbe valida se come tu dici Giovanni usasse il presente. Ma Giovanni usa invece il participio del verbo essere, che è molto difficile da rendere in italiano ma che in greco indica chiaramente uno stato permanente, una condizione continuativa (la traduzione esatta sarebbe "essente" che sta in stretta relazione con "essenza", qualcosa che è ontologicamente). La grammatica non solo giustifica ma rende certa la mia interpretazione (che poi non è la mia ma è quella dell Tradizione).



In aggiunta ti segnalo un'apparente contraddizione nel tuo ragionamento, nel Gv. 1,18 che tu hai citato "nessun uomo ha mai visto Dio". Raccontato a posteriori e parlando di un "essere" che tutti invece avevano visto e magari toccato con mano, questo μονογενὴς υἱὸς che è nel "seno del Padre", lascia quantomeno perplessi.



Infatti la contraddizione è solo apparente. Ho già detto come per ogni ortodosso la vera essenza di Dio rimanga inconoscibile alla mente limitata dell'uomo e invisibile per la sensibilità del suo occhio. Quando Giovanni dice che "nessuno mai ha visto Dio" indica ancora una volta una condizione permanente: nessuno mai ha visto Dio perchè non si più vedere Dio! Ieri come oggi. Ma Dio si è reso manifesto in Cristo, non solo si è fatto conoscere ma si è anche fatto simile a noi per mettersi al nostro pari. Ecco perchè l'unico modo che abbiamo per conoscere Dio è tramite il suo Figlio, che si è fatto Uomo pur rimanendo Dio (cfr. Filippesi 2).

Spero di aver chiarito
Saluti
ortodox






bruciolis
00mercoledì 1 luglio 2009 12:21
Re: Re: Re: Re:
ortodox, 30/06/2009 14.26:

Gesù stesso disse ai suoi Apostoli: "Io sono nel Padre e il Padre è in me" (Giov. 14,11).



quindi, se interpretiamo la scrittura sopracitata stando al tuo ragionamento, come il Figlio è nel seno del Padre,
così il Padre è nel seno del Figlio; quindi, l'uno genera l'altro indifferentemente.

ortodox
00mercoledì 1 luglio 2009 12:29
Re: Re: Re: Re: Re:
bruciolis, 01/07/2009 12.21:



quindi, se interpretiamo la scrittura sopracitata stando al tuo ragionamento, come il Figlio è nel seno del Padre,
così il Padre è nel seno del Figlio; quindi, l'uno genera l'altro indifferentemente.




Perchè a te "essere" e "generare" sembrano la stessa cosa? E' il Figlio che Giovanni chiama "l'Unigenito Dio", mica il Padre. La sostanza divina è tutta in tutti, l'Unigenito dal Padre è solo il Verbo (Unigenito = unico generato).

Mi piacerebbe comunque che la discussione non fosse a senso unico ma che anche voi riportaste la vostra interpretazione dato che mi pare differisca dalla nostra.

Saluti
ortodox
(SimonLeBon)
00mercoledì 1 luglio 2009 14:00
Re:
Bondi' a te,

(SimonLeBon), 30/06/2009 23.27:


Il punto di vista temporale del racconto di Giovanni è posteriore ai fatti narrati, o almeno alla maggioranza di essi.
E' vero che Gv. usa "egeneto" al passato e "ho on" al presente, ma questo combacia alla perfezione col suo punto di vista di narratore a posteriori. Ai tempo della stesura del Vangelo il Cristo si era incarnato in passato ma era nel "seno del Padre" al presente, in quel momento.
"ho on" non giustifica in alcun modo, a mio avviso, la continuità temporale che tu invece supponi.




Caro Simon la tua obiezione sarebbe valida se come tu dici Giovanni usasse il presente. Ma Giovanni usa invece il participio del verbo essere, che è molto difficile da rendere in italiano ma che in greco indica chiaramente uno stato permanente, una condizione continuativa (la traduzione esatta sarebbe "essente" che sta in stretta relazione con "essenza", qualcosa che è ontologicamente). La grammatica non solo giustifica ma rende certa la mia interpretazione (che poi non è la mia ma è quella dell Tradizione).



Grazie del "caro" e beato te che ti accontenti di queste "certezze".
Effettivamente non è un presente in senso stretto, è un participio presente, che normalmente indica contemporaneità, secondo la mia grammatica, non continuità.
Se guardi a Girolamo trovi "Filius qui est in sinu Patris" esattamente come si potrebbe tradurre anche in italiano, senza ricorrere a scomodi, oltre che poco eleganti, participi presenti.
"che è essente" non implica in italiano e, per quanto ne so io, nemmeno in greco, alcun tipo di continuità ma solo la contemporaneità.
Puoi citarmi un secondo esempio di continuità certa nel NT?

(SimonLeBon):


In aggiunta ti segnalo un'apparente contraddizione nel tuo ragionamento, nel Gv. 1,18 che tu hai citato "nessun uomo ha mai visto Dio". Raccontato a posteriori e parlando di un "essere" che tutti invece avevano visto e magari toccato con mano, questo μονογενὴς υἱὸς che è nel "seno del Padre", lascia quantomeno perplessi.




Infatti la contraddizione è solo apparente. Ho già detto come per ogni ortodosso la vera essenza di Dio rimanga inconoscibile alla mente limitata dell'uomo e invisibile per la sensibilità del suo occhio. Quando Giovanni dice che "nessuno mai ha visto Dio" indica ancora una volta una condizione permanente: nessuno mai ha visto Dio perchè non si più vedere Dio! Ieri come oggi. Ma Dio si è reso manifesto in Cristo, non solo si è fatto conoscere ma si è anche fatto simile a noi per mettersi al nostro pari. Ecco perchè l'unico modo che abbiamo per conoscere Dio è tramite il suo Figlio, che si è fatto Uomo pur rimanendo Dio (cfr. Filippesi 2).

Spero di aver chiarito
Saluti
ortodox



Non mi risultata proprio chiaro. Per intanto lo scrittore Giovanni era di fede e mentalità ebraica, quindi non ortodosso, e come tale non amava filosofare.
Il riferimento a Mosé é, a mio parere e anche per questo motivo, molto evidente. Mosé chiese il privilegio di vedere Dio e gli fu negato, ma nonostante questo fece da tramite tra Dio e gli uomini. Giovanni ne conferma l'impossibilità, in alcun modo scalfitta da Gesu', che nonostante questo fece anche lui da tramite tra Dio e gli uomini.
Dio si rese manifesto in entrambi i profeti. Discorsi ontologici, avviati a posteriori, mi sembrano decisamente estranei sia alla mentalità dello scrittore che alle intenzioni del testo.
Almeno in questo caso.

Simon
ortodox
00mercoledì 1 luglio 2009 15:00
Re: Re:
(SimonLeBon), 01/07/2009 14.00:


Grazie del "caro" e beato te che ti accontenti di queste "certezze".
Effettivamente non è un presente in senso stretto, è un participio presente, che normalmente indica contemporaneità, secondo la mia grammatica, non continuità.
Se guardi a Girolamo trovi "Filius qui est in sinu Patris" esattamente come si potrebbe tradurre anche in italiano, senza ricorrere a scomodi, oltre che poco eleganti, participi presenti.
"che è essente" non implica in italiano e, per quanto ne so io, nemmeno in greco, alcun tipo di continuità ma solo la contemporaneità.
Puoi citarmi un secondo esempio di continuità certa nel NT?



Caro Simon, dipende da che grammatica usi. Hai provato con una del greco del Nuovo Testamento? Il latino di Girolamo, infatti, è simile all'italiano (che da esso, guarda caso, deriva) per "povertà" di espressività nei verbi. Difatti neanche il latino riesce a cogliere la sottigliezza del greco. Ma a chiunque abbia studiato un minimo di grammatica greca non può sfuggire il collegamento di questo verso con Esodo 3,14 - LXX. Dio è! Punto! Non nel nostro "presente" (presente indicativo) ma nel suo "presente" (participio) che è il "sempre" dell'eternità. Probabilmente Giovanni aveva in mente questo versetto quando ha deciso di usare quel verbo.



Non mi risultata proprio chiaro. Per intanto lo scrittore Giovanni era di fede e mentalità ebraica, quindi non ortodosso, e come tale non amava filosofare.



Che gli ebrei non amassero filosofare è cosa che mi giunge nuova. Può darsi che Giovanni non amasse filosofare, eppure ha utilizzato una marea di termini e di tratti stilistici ripresi dalla filosofia greca nel suo Prologo. E comunque, come già ti ho detto, il riferimento rimanda all'AT.



Il riferimento a Mosé é, a mio parere e anche per questo motivo, molto evidente. Mosé chiese il privilegio di vedere Dio e gli fu negato, ma nonostante questo fece da tramite tra Dio e gli uomini. Giovanni ne conferma l'impossibilità, in alcun modo scalfitta da Gesu', che nonostante questo fece anche lui da tramite tra Dio e gli uomini.
Dio si rese manifesto in entrambi i profeti. Discorsi ontologici, avviati a posteriori, mi sembrano decisamente estranei sia alla mentalità dello scrittore che alle intenzioni del testo.
Almeno in questo caso.



Non a caso esce fuori Mosè! Ma Mosè era solo la prefigurazione di Cristo, il tramite simbolico di quello che Gesù sarebbe stato realmente. Anche questo è un tema carissimo agli ortodossi. I discorsi ontologici non sono avviati a posteriori ma sono già nel Prologo. I verbi greci utilizzati da Giovanni rimandano alle tipiche definizioni dell'ontologia greca. Come del resto lo stesso concetto di Logos. Contenuti nuovi, termini nuovi (rispetto all'ebraismo) e del resto il vino nuovo ha bisogno di otri nuovi.

Saluti
ortodox
(SimonLeBon)
00mercoledì 1 luglio 2009 21:15
Re: Re: Re:
Buonasera a te,

(SimonLeBon), 01/07/2009 14.00:


Grazie del "caro" e beato te che ti accontenti di queste "certezze".
Effettivamente non è un presente in senso stretto, è un participio presente, che normalmente indica contemporaneità, secondo la mia grammatica, non continuità.
Se guardi a Girolamo trovi "Filius qui est in sinu Patris" esattamente come si potrebbe tradurre anche in italiano, senza ricorrere a scomodi, oltre che poco eleganti, participi presenti.
"che è essente" non implica in italiano e, per quanto ne so io, nemmeno in greco, alcun tipo di continuità ma solo la contemporaneità.
Puoi citarmi un secondo esempio di continuità certa nel NT?



ortodox:

Caro Simon, dipende da che grammatica usi. Hai provato con una del greco del Nuovo Testamento? Il latino di Girolamo, infatti, è simile all'italiano (che da esso, guarda caso, deriva) per "povertà" di espressività nei verbi. Difatti neanche il latino riesce a cogliere la sottigliezza del greco. Ma a chiunque abbia studiato un minimo di grammatica greca non può sfuggire il collegamento di questo verso con Esodo 3,14 - LXX. Dio è! Punto! Non nel nostro "presente" (presente indicativo) ma nel suo "presente" (participio) che è il "sempre" dell'eternità. Probabilmente Giovanni aveva in mente questo versetto quando ha deciso di usare quel verbo.



Effettivamente mi riferivo a grammatiche di greco del NT. Le due che ho consultato dicono entrambe, in sintesi, che "the present participle usually indicates that the action signified by the participle is contemporary with the time of the main verb of the sentence, whether that time is past, present or future".
Non vedo nè intravvedo l'idea di continuità che gli vorresti dare tu.
Ad ogni modo se mi indichi alcune ricorrenze piu' evidenti dell'uso che tu stai ipotizzando, potro' andare a verificare.

SimonLeBon:


Non mi risultata proprio chiaro. Per intanto lo scrittore Giovanni era di fede e mentalità ebraica, quindi non ortodosso, e come tale non amava filosofare.



ortodox:

Che gli ebrei non amassero filosofare è cosa che mi giunge nuova. Può darsi che Giovanni non amasse filosofare, eppure ha utilizzato una marea di termini e di tratti stilistici ripresi dalla filosofia greca nel suo Prologo. E comunque, come già ti ho detto, il riferimento rimanda all'AT.



Non vedo come conciliare le due cose. Dunque quali termini filosofici utilizzo' Giovanni, a parte il "logos" del prologo.


SimonLeBon:


Il riferimento a Mosé é, a mio parere e anche per questo motivo, molto evidente. Mosé chiese il privilegio di vedere Dio e gli fu negato, ma nonostante questo fece da tramite tra Dio e gli uomini. Giovanni ne conferma l'impossibilità, in alcun modo scalfitta da Gesu', che nonostante questo fece anche lui da tramite tra Dio e gli uomini.
Dio si rese manifesto in entrambi i profeti. Discorsi ontologici, avviati a posteriori, mi sembrano decisamente estranei sia alla mentalità dello scrittore che alle intenzioni del testo.
Almeno in questo caso.



Ortodox:

Non a caso esce fuori Mosè! Ma Mosè era solo la prefigurazione di Cristo, il tramite simbolico di quello che Gesù sarebbe stato realmente. Anche questo è un tema carissimo agli ortodossi. I discorsi ontologici non sono avviati a posteriori ma sono già nel Prologo. I verbi greci utilizzati da Giovanni rimandano alle tipiche definizioni dell'ontologia greca. Come del resto lo stesso concetto di Logos. Contenuti nuovi, termini nuovi (rispetto all'ebraismo) e del resto il vino nuovo ha bisogno di otri nuovi.

Saluti
ortodox



Beh, come detto, o si rifaceva all'AT oppure alla filosofia greca classica. Mi parrebbe davvero paradossale sostenere che anche l'AT si rifacesse anch'esso alla filosofia greca.
Ma per non divagare, mi sembra un po' esagerato imperniare la propria lettura attorno alle forme del "semplice" verbo essere.
Il "vino nuovo", nel caso ci fosse, richiederebbe una spiegazione nuova e dettagliata. Quel che tu ipotizzi è una rivoluzione copernicana rispetto alla mentalità ebraica tradizionale e anche rispetto all'AT stesso.
Questa spiegazione manca in toto nella Scrittura.

Simon
ortodox
00giovedì 2 luglio 2009 00:22
Re: Re: Re: Re:
(SimonLeBon), 01/07/2009 21.15:


Effettivamente mi riferivo a grammatiche di greco del NT. Le due che ho consultato dicono entrambe, in sintesi, che "the present participle usually indicates that the action signified by the participle is contemporary with the time of the main verb of the sentence, whether that time is past, present or future".
Non vedo nè intravvedo l'idea di continuità che gli vorresti dare tu.



La grammatica infatti era giusta. Eri tu che l'avevi intesa male, senza offesa. Come capisci da te stesso l'azione indicata dal participio è contemporanea non a quando Giovanni scrive ma al tempo del verbo principale. Il tempo di cui si parla, infatti, è quello in cui Gesù "ha fatto conoscere Dio". L'azione riferita dal participio (cioè "l'essere nel seno del Padre") è dunque contemporanea al tempo di ἐξηγήσατο (aoristo, "rivelò"). Come vedi risulta ancora più chiaro che Gesù, pur essendo nel seno del Padre, lo ha rivelato mentre si era manifestato nella carne. A dire il vero è un po' più complesso di così, la sfumatura del greco è molto più marcata. Ma se non conosci il greco non so come fartela apprezzare, mi dispiace.



Non vedo come conciliare le due cose. Dunque quali termini filosofici utilizzo' Giovanni, a parte il "logos" del prologo.



I verbo "essere" e "divenire" sono comunissimi in Platone (ad esempio nel Timeo) e Aristotele e giù a scendere in tutta la filosofia greca fino al neoplatonismo. Basta leggere qualche testo e la cosa salta subito agli occhi. Inoltre la struttura metrica dell'Inno si richiama ai celebri Inni Omerici in onore del DIo. Qui si parla invece del Logos. Anche gli Inni Omerici sono facilmente reperibili.



Beh, come detto, o si rifaceva all'AT oppure alla filosofia greca classica. Mi parrebbe davvero paradossale sostenere che anche l'AT si rifacesse anch'esso alla filosofia greca.
Ma per non divagare, mi sembra un po' esagerato imperniare la propria lettura attorno alle forme del "semplice" verbo essere.
Il "vino nuovo", nel caso ci fosse, richiederebbe una spiegazione nuova e dettagliata. Quel che tu ipotizzi è una rivoluzione copernicana rispetto alla mentalità ebraica tradizionale e anche rispetto all'AT stesso.
Questa spiegazione manca in toto nella Scrittura.



Perchè? Non poteva rifarsi a tutte e due le cose? Quello che ho detto è che stava riferendo cose nuove (l'incarnazione del Logos) partendo dal VT e usando un linguaggio nuovo (il greco). Non ci vedo alcuna contraddizione. Del resto l'incarnazione del Logos non è cosa che si trovi agevolmente nel VT. La rivoluzione copernicana mi sembra l'abbia fatta proprio Giovanni (e Gesù).

Saluti
ortodox


Simon




barnabino
00giovedì 2 luglio 2009 11:28
Forse dobbiamo intendere cosa intendeva dire Giovanni, un ebreo che parlava a proseliti ebrei, quando parlava di essere nel "seno del padre" invece di disquisire troppo in dettaglio sui tempi dei verbi, cosa di per sé sempre un pò controversa.

Essere nel seno di qualcuno di per sé non indica un'unità ontologica, ma solo un'intimità molto stretta, non necessariamente di tipo "spaziale". Voglio dire, un ebreo che per secoli identificava il Padre con Geova, a nessuno comparabile, difficilmente poteva percepire quell'espressione come identità ontologica tra Dio (ho theos) e un'altro essere. Poteva già essere difficile accettare l'idea di un essere che è divenuto uomo, e che è stato vicino all'impurità, potesse avere un certo grad di "intimità" con Dio. E d'altronde il seguito è chiaro: Giovanni non pretende che Dio fosse venuto sulla terra, dice piuttosto che il Logos lo ha "spiegato" ce lo ha "raccontato".

In pratica Giovanni ci dice che Gesù anche sulla terra, anche nella sua condizione più umiliante, non perse quella sua intima relazione cha aveva con il Padre.

Shalom
ortodox
00giovedì 2 luglio 2009 23:05
Re:
barnabino, 02/07/2009 11.28:

Forse dobbiamo intendere cosa intendeva dire Giovanni, un ebreo che parlava a proseliti ebrei, quando parlava di essere nel "seno del padre" invece di disquisire troppo in dettaglio sui tempi dei verbi, cosa di per sé sempre un pò controversa.



Caro barnabino, Giovanni era sì un ebreo ma scriveva in greco per cristiani di lingua e cultura greca. E non greci qualunque, oltretutto. Come ben sai Giovanni scrisse il suo Vangelo a Efeso, probabilmente per i cristiani di quella comunità. Se provassi a riflettere su questo, ti renderesti conto di molte cose, soprattutto in relazione al suo modo peculiare di usare il greco.



Essere nel seno di qualcuno di per sé non indica un'unità ontologica, ma solo un'intimità molto stretta, non necessariamente di tipo "spaziale".



Infatti non è di tipo spaziale, Dio non è "spaziale" come non è "temporale". La comunione col Padre avviene nella dimensione dell'eternità in cui il Verbo permane eternamente nel seno del Padre qualunque cosa esso sia ( e che comunque per noi rimane inconoscibile).



Voglio dire, un ebreo che per secoli identificava il Padre con Geova, a nessuno comparabile, difficilmente poteva percepire quell'espressione come identità ontologica tra Dio (ho theos) e un'altro essere. Poteva già essere difficile accettare l'idea di un essere che è divenuto uomo, e che è stato vicino all'impurità, potesse avere un certo grad di "intimità" con Dio. E d'altronde il seguito è chiaro: Giovanni non pretende che Dio fosse venuto sulla terra, dice piuttosto che il Logos lo ha "spiegato" ce lo ha "raccontato".



Ma per un greco era invece semplicissimo capire questi concetti, soprattutto nel modo e con il linguaggio usati da Giovanni. E come ti dicevo, è proprio ai greci che il Vangelo si rivolge.



In pratica Giovanni ci dice che Gesù anche sulla terra, anche nella sua condizione più umiliante, non perse quella sua intima relazione cha aveva con il Padre.



Concordo pienamente.
Saluti
ortodox

(SimonLeBon)
00giovedì 2 luglio 2009 23:44
Re:
Buonasera,

Ortodox:

La grammatica infatti era giusta. Eri tu che l'avevi intesa male, senza offesa. Come capisci da te stesso l'azione indicata dal participio è contemporanea non a quando Giovanni scrive ma al tempo del verbo principale. Il tempo di cui si parla, infatti, è quello in cui Gesù "ha fatto conoscere Dio". L'azione riferita dal participio (cioè "l'essere nel seno del Padre") è dunque contemporanea al tempo di ἐξηγήσατο (aoristo, "rivelò"). Come vedi risulta ancora più chiaro che Gesù, pur essendo nel seno del Padre, lo ha rivelato mentre si era manifestato nella carne. A dire il vero è un po' più complesso di così, la sfumatura del greco è molto più marcata. Ma se non conosci il greco non so come fartela apprezzare, mi dispiace.



A dire il vero ti avevo chiesto di portarmi esempi di questo tipo di costruzione che sosterrebbero la tua tesi della continuità temporale.
Di per sè infatti andrebbe tradotto "che era", ma di fatto praticamente ogni traduzione che ho consultato ha scelto il presente.
Evidentemente Girolamo è in buona compagnia.
Ad ogni modo sto' cercando io stesso alcuni costrutti simili, per verificare la tua affermazione.


Ortodox:

I verbo "essere" e "divenire" sono comunissimi in Platone (ad esempio nel Timeo) e Aristotele e giù a scendere in tutta la filosofia greca fino al neoplatonismo. Basta leggere qualche testo e la cosa salta subito agli occhi. Inoltre la struttura metrica dell'Inno si richiama ai celebri Inni Omerici in onore del DIo. Qui si parla invece del Logos. Anche gli Inni Omerici sono facilmente reperibili.



Beh i "verbi" essere e divenire non sono "termini" in senso stretto.
Trattandosi del verbo essere, non occorre scomodare la filosofia greca nè Platone: è probabilmente il verbo piu' comune a questo mondo, in qualunque lingue ed in qualunque scritto di ogni tipo!
Sul "divenire" si puo' forse discutere, anche se non è un termine, ma il tuo argomento mi sembra quantomeno discutibile e soggettivo.

Ortodox:

Perchè? Non poteva rifarsi a tutte e due le cose? Quello che ho detto è che stava riferendo cose nuove (l'incarnazione del Logos) partendo dal VT e usando un linguaggio nuovo (il greco).


Il riferimento a Mosé è praticamente diretto, oltre che logico, altri riferimenti che tu supponi andrebbero evidenziati e non dati per scontati. Il linguaggio invece non era per niente nuovo, visto che la LXX esisteva già a suo tempo da almeno 200 anni.

Ortodox:

Non ci vedo alcuna contraddizione. Del resto l'incarnazione del Logos non è cosa che si trovi agevolmente nel VT. La rivoluzione copernicana mi sembra l'abbia fatta proprio Giovanni (e Gesù).



Noto una differenza fondamentale: l'incarnazione del Logos è esplicita nel discorso di Giovanni, non occorre trarre alcuna deduzione propria o andare per esclusione. E' un'affermazione scritturale molto chiara, ed è il tipo di chiarezza che ci si aspetterebbe per un concetto davvero nuovo.
L'esistenza parallela e contemporanea di una persona in due forme è invece una deduzione tua, non basata in alcun modo da affermazioni esplicite, bensi' su una tua lettura delle forme verbali del verbo essere.
Spero che tu le abbia approfondite dovutamente, prima di trarre le tue conclusioni.

Simon
ortodox
00venerdì 3 luglio 2009 09:45
Re: Re:
(SimonLeBon), 02/07/2009 23.44:


A dire il vero ti avevo chiesto di portarmi esempi di questo tipo di costruzione che sosterrebbero la tua tesi della continuità temporale.
Di per sè infatti andrebbe tradotto "che era", ma di fatto praticamente ogni traduzione che ho consultato ha scelto il presente.
Evidentemente Girolamo è in buona compagnia.
Ad ogni modo sto' cercando io stesso alcuni costrutti simili, per verificare la tua affermazione.



E a dire il vero te ne avevo portato uno molto significativo, Esodo 3,14 della versione LXX. Il participio del verbo essere compare pari pari come in Giovanni ed ha lo stesso significato di "colui che è", "colui che esiste", senza bisogno di aggiungere altro.



Beh i "verbi" essere e divenire non sono "termini" in senso stretto.
Trattandosi del verbo essere, non occorre scomodare la filosofia greca nè Platone: è probabilmente il verbo piu' comune a questo mondo, in qualunque lingue ed in qualunque scritto di ogni tipo!
Sul "divenire" si puo' forse discutere, anche se non è un termine, ma il tuo argomento mi sembra quantomeno discutibile e soggettivo.



Che ovvietà! Ma io parlavo dell'uso di questi verbi che viene fatto in Giovanni. Ad esempio l'uso in senso assoluto come in 1,1 ("In principio il Verbo era", senza bisogno di dire "cosa" era!).



L'esistenza parallela e contemporanea di una persona in due forme è invece una deduzione tua, non basata in alcun modo da affermazioni esplicite, bensi' su una tua lettura delle forme verbali del verbo essere.
Spero che tu le abbia approfondite dovutamente, prima di trarre le tue conclusioni.



Se leggessi i miei post avresti già notato che ho sottolineato come questa interpretazione non sia mia ma appartenga alla Tradizione, dai Padri Apologeti in giù, passando per i Cappadoci, gente che conosceva il greco sicuramente meglio di me e di te e che leggeva i testi praticamente come erano scritti senza bisogno di traduzione. Mi pare di tutto rispetto come bibliografia.

Non mi è chiara invece la tua idea rispetto a questo passo. Mi interesserebbe capire anche il tuo punto di vista.

Saluti
ortodox


Spener
00venerdì 3 luglio 2009 11:12

questa interpretazione non sia mia ma appartenga alla Tradizione, dai Padri Apologeti in giù



Caro Ortodox,
seguo sempre con interesse quanto scrivi. Permettimi però di non concordare con quanto affermi qui sopra. Infatti, come riportato in qualsiasi buon manuale di Patrologia, praticamente tuta la patristica prenicena è affetta da un subordinazionismo che, alla luce del dogma niceno, non può non considerarsi eretico.

Saluti
Spener
(SimonLeBon)
00venerdì 3 luglio 2009 12:42
Re: Re: Re:
Buondi'

SimonLeBon:

A dire il vero ti avevo chiesto di portarmi esempi di questo tipo di costruzione che sosterrebbero la tua tesi della continuità temporale.
Di per sè infatti andrebbe tradotto "che era", ma di fatto praticamente ogni traduzione che ho consultato ha scelto il presente.
Evidentemente Girolamo è in buona compagnia.
Ad ogni modo sto' cercando io stesso alcuni costrutti simili, per verificare la tua affermazione.



Ortodox:

E a dire il vero te ne avevo portato uno molto significativo, Esodo 3,14 della versione LXX. Il participio del verbo essere compare pari pari come in Giovanni ed ha lo stesso significato di "colui che è", "colui che esiste", senza bisogno di aggiungere altro.



Beh, forse non mi ero spiegato bene o forse non mi hai capito. Prima di balzare all'indietro fino all'esodo, se fossi in te mi assicurerei prima di aver capito l'uso che Giovanni stesso fa del participio presente del verbo essere.
Esodo 3:14 oltretutto, vado a memoria, non riporta nemmeno la stessa costruzione temporale. "Ego eimi ho on" è infatti del tutto al presente e non conterrebbe in alcun modo l'idea di passato.
Questo è invece l'argomento del nostro discutere.

SimonLeBon:


Beh i "verbi" essere e divenire non sono "termini" in senso stretto.
Trattandosi del verbo essere, non occorre scomodare la filosofia greca nè Platone: è probabilmente il verbo piu' comune a questo mondo, in qualunque lingue ed in qualunque scritto di ogni tipo!
Sul "divenire" si puo' forse discutere, anche se non è un termine, ma il tuo argomento mi sembra quantomeno discutibile e soggettivo.



Ortodox:

Che ovvietà! Ma io parlavo dell'uso di questi verbi che viene fatto in Giovanni. Ad esempio l'uso in senso assoluto come in 1,1 ("In principio il Verbo era", senza bisogno di dire "cosa" era!).



Non comprendo il tuo problema. Se dico che nel 1987 c'era ancora il mio cane Leo, qualcuno dovrebbe intendere che mi sto' dando alla filosofia platonica?

SimonLeBon:

L'esistenza parallela e contemporanea di una persona in due forme è invece una deduzione tua, non basata in alcun modo da affermazioni esplicite, bensi' su una tua lettura delle forme verbali del verbo essere.
Spero che tu le abbia approfondite dovutamente, prima di trarre le tue conclusioni.



Ortodox:

Se leggessi i miei post avresti già notato che ho sottolineato come questa interpretazione non sia mia ma appartenga alla Tradizione, dai Padri Apologeti in giù, passando per i Cappadoci, gente che conosceva il greco sicuramente meglio di me e di te e che leggeva i testi praticamente come erano scritti senza bisogno di traduzione. Mi pare di tutto rispetto come bibliografia.



Quello che intendevo dire è molto semplici, cioè che il testo (nemmeno quello greco) non lo esplicita in alcun modo.
Posso prendere nota che la "tradizione" avvio' a posteriori il discorso delle due nature parallele, ma queste idee richiesero centinaio di anni per formarsi e sono essenzialmente etranee all'immediato contesto ebraico.

Ortodox:

Non mi è chiara invece la tua idea rispetto a questo passo. Mi interesserebbe capire anche il tuo punto di vista.

Saluti
ortodox



Pensavo di avere già esposto il mio punto di vista.
Da un lato vedo uno sdoppiamento dei tempi, passato e presente, che corrispondono a due situazioni fisiche diverse.
Una seconda possibilità è che il discorso sia figurato e che il "seno di Abraamo" rappresenti una posizione di favore presso Dio. In questo caso la consecutio temporum sarebbe praticamente irrilevante.
Ritengo entrambe queste spiegazioni piu' semplici della tua e come tali, in assenza di altri elementi, anche decisamente preferibili.

Simon
ortodox
00venerdì 3 luglio 2009 14:50
Re:
Spener, 03/07/2009 11.12:


questa interpretazione non sia mia ma appartenga alla Tradizione, dai Padri Apologeti in giù



Caro Ortodox,
seguo sempre con interesse quanto scrivi. Permettimi però di non concordare con quanto affermi qui sopra. Infatti, come riportato in qualsiasi buon manuale di Patrologia, praticamente tuta la patristica prenicena è affetta da un subordinazionismo che, alla luce del dogma niceno, non può non considerarsi eretico.

Saluti
Spener



Caro Spener, anche per me è un piacere immenso discutere conte perchè hai sempre dimostrato enorme sensibilità, oltre che grande educazione e serietà in ogni discussione che abbiamo avuto.

Quello che tu ritieni eretico o "non armonico", come scrivi nell'altro forum, credo derivi da un fenomeno che tendi molte volte a non considerare. La Patristica e poi i Concili testimoniano un lungo percorso evolutivo di idee e interpretazioni che ad un certo punto furono sistematizzate e alle quali fu dato un assetto definitivo (questo più o meno è sempre stato il fine ultimo di ogni Concilio). L'esigenza dei Concili nasceva infatti soprattutto dal fatto che le idee centrali della fede cristiana venissero di volta in volta messe in dubbio da eretici vari, quali Ario. Da qui l'esigenza di sistematizzare in modo condiviso da tutti i partecipanti al Concilio, cioè in molti casi dell'intera Chiesa (Concilio Ecumenico).

Da quanto detto consegue che ci possono essere, e sicuramente ci sono, posizioni diverse fra i Padri lungo i 300 anni preniceni, riguardo a specifiche problematiche quali la preghiera e il modo di pregare. Ma questo disaccordo non c'è mai riguardo alle idee centrali, quali la Trinità, che pur essendo state espresse in modo compiuto a Nicea e Costantinopoli, trovano sempre e comunque il conforto dei Padri che da Giustino in giù si dedicarono all'argomento.

Detto questo non capisco cosa tu voglia intendere quando parli di subordinazionismo. Ti riferisci alla subordinazione del Figio al Padre? Un esempio forse sarebbe opportuno.

Saluti
ortodox

ortodox
00venerdì 3 luglio 2009 15:11
Re: Re: Re: Re:
(SimonLeBon), 03/07/2009 12.42:


Beh, forse non mi ero spiegato bene o forse non mi hai capito. Prima di balzare all'indietro fino all'esodo, se fossi in te mi assicurerei prima di aver capito l'uso che Giovanni stesso fa del participio presente del verbo essere.
Esodo 3:14 oltretutto, vado a memoria, non riporta nemmeno la stessa costruzione temporale. "Ego eimi ho on" è infatti del tutto al presente e non conterrebbe in alcun modo l'idea di passato.
Questo è invece l'argomento del nostro discutere.



Quello che volevo sottolineare io, invece, è l'uso di Esodo: la traduzione del versetto, infatti, è "io sono l'essente, colui che è" senza aggiungere altro. Non è che Dio sia qualcosa, semplicemente esiste, è, ha vita in sè.

Ora, il linguaggio di Giovanni (o di chi scrisse l'Inno al Logos) riprende questa falsa riga, utilizzando i verbi dell'essere e del divenire in modo assoluto. "In principio il Logos era". Dice inoltre che "In lui era la Vita". Vedi cosa intendo quando parlo di linguaggio filosofico? Ma forse non hai letto il Timeo o il Protagora. Se lo facessi probabilmente capiresti cosa intendo.

Ora la forma ὁ ὢν che si trova pari pari in Esodo e in GIovanni deve farci riflettere. A ben guardare, da come Giovanni si esprime, essa potrebbe anche essere tradotta come segue:

"L'unigenito Dio, colui che è, nel seno del Padre" ( con la virgola prima di "seno")

individuando in tal modo come l'unigenito "esiste in sè" oltre a stare anche nel seno del Padre. Questa è l'altra sfumatura di cui ti parlavo.

Se comunque sei interessato ad altri versetti simili specificamente in Giovanni, ne trovi in abbondanza nell'Apocalisse, dove Dio è detto essere.

ὁ ὢν καὶ ὁ ἦν καὶ ὁ ἐρχόμενος (colui che è, che era e che viene) (Ap. 1,8)

Nota soprattutto in questo versetto che l'ordine dei tempi non è rispettato (era, è, viene). Prima si dice che Dio è "colui che è" riferendosi alla dimensione dell'eternità. Dio rimane sempre "essente" per sua stessa natura, al di là del tempo. Dopo si specifica "che era e che viene" in relazione alla dimensione temporale umana. Nota inoltre come gli stessi attributi riferiti a Dio in questo versetto, vengono ugualmente riferiti al Logos in altri.

Spero di averti chiarito a sufficienza.

Saluti
ortodox
Walter.Simoni
00venerdì 3 luglio 2009 15:45
Re: Re: Re: Re: Re:

Quello che volevo sottolineare io, invece, è l'uso di Esodo: la traduzione del versetto, infatti, è "io sono l'essente, colui che è" senza aggiungere altro. Non è che Dio sia qualcosa, semplicemente esiste, è, ha vita in sè.



Non credo proprio che Geova avesse bisogno di confermare la sua esistenza! Nessuno, neanche i demòni, ha mai messo in dubbio l'esistenza dell'Onnipotente! Egli è e sarà... per sempre e da sempre!

La ragione per cui Dio spiegò a Mosè il significato del suo Nome, è perchè tanto lui quanto il popolo d'Israele che doveva abbandonare il certo per l'incerto, avevano bisogno di sicurezza. Dove e in chi avrebbero trovato la forza e il coraggio di lasciare i cocomeri, l'aglio e le cipolle d'Egitto, per dirigersi lungo il deserto, senza alcuna meta precisa? Chi avrebbe assicurato loro cibo e acqua durante il loro pallegrinare sulle dune infinite del deserto?
Ecco la ragione per la quale Dio ritenne necessario spiegare loro il significato del suo eccelso nome: GEOVA, ovvero: Eiè aser eiè = Ego eimì = IO SARO' (e non "Io Sono!). Grammaticalmente è: "sarò ciò (o colui) che sarò".
Mentre la forma verbale corrispondente al greco “ego eimi”, nella nostra grammatica indica il tempo presente, ciò che “io sono” adesso/ora, nella grammatica greca, pur scrivendosi nella forma presente, può voler esprimere anche il tempo passato.
la traduzione “ego eimi” nella forma passata “ io ero” o “ io sono stato”, è tanto letterale quanto lo è la forma verbale al presente “io sono”. Naturalmente, ciò che determinerà la traduzione nel tempo più appropriato, è il contesto in cui viene usato “ego eimi”.
Il contesto di Esodo verte per la spiegazione di cui sopra.

Shalom


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