Vi riporto qui questo interessante articolo tratto da "il manifesto"
A DIECI DALLA FINE DEL COMUNISMO
La Russia alle prese col passato sovietico
Dieci anni fa, il 25 dicembre del 1991, Mikhail Gorbaciov si dimetteva. Sul Cremlino la bandiera rossa con la falce e il martello veniva ammainata e sostituita con quella rossa, bianca e blu della Russia. Finiva così il sistema sovietico messo in piedi nel 1917. Ma quale era la vera natura di questo regime? In quale misura poteva essere definito socialista? Che rapporti esistevano tra lo stalinismo e lo zarismo? E come mai il conservatorismo burocratico era riuscito a soffocare la spinta rivoluzionaria? Tutti problemi in cui sembra dibattersi una Russia divisa tra nostalgia e rifiuto del passato.
di Moshe Lewin
Due sono gli errori che vanno innanzitutto dissipati, poiché hanno sempre impedito una riflessione chiara sull'Unione sovietica: la tendenza a scambiare l'anticomunismo per un'analisi dell'Urss, e la propensione a «stalinizzare» l'intero fenomeno, descrivendo tutta la storia di quel periodo, dall'inizio alla fine, come un unico «gulag».
L'anticomunismo non nasce dalla ricerca. È un'ideologia che pur tentando di apparire scientifica, elude numerosi aspetti della realtà; e mentre inalbera in permanenza la bandiera della democrazia, di fatto strumentalizza il carattere dittatoriale di quel regime per perorare le cause più conservatrici. Negli Stati uniti, lo spauracchio comunista era l'arma del maccartismo; e in Germania lo stesso metodo è stato usato da alcuni intellettuali che hanno insistito sulle atrocità commesse da Stalin nel tentativo di rendere più accettabili i crimini di Hitler.
L'Occidente ha usato spesso due pesi e due misure nella sua difesa dei diritti umani, esercitando grande rigore verso gli uni e mostrandosi indulgente con altri; e in questo modo non ha certo favorito una giusta comprensione del mondo sovietico. Ma come inquadrare l'esperienza sovietica nel grande album della storia? La questione è tanto più complessa in quanto, al di là del periodo totalmente militarizzato della guerra civile, questo sistema si presenta in due o tre diverse versioni.
La storia della Russia è un laboratorio eccezionale, che consente di studiare tutta una varietà di sistemi autoritari, con le rispettive crisi, fino ai nostri giorni. Come definire il sistema sovietico dopo la morte di Stalin, nel 1953? Era quello socialismo reale? Assolutamente no! Una società socialista presuppone che i beni economici siano di proprietà del socium, non di una burocrazia. E per di più, il socialismo è stato concepito da sempre come un approfondimento della democrazia politica, e non certo come il suo contrario. Socialismo vuol dire socializzazione dell'economia e democratizzazione del regime politico, mentre l'Urss ha statalizzato l'economia e burocratizzato la politica. Il fatto che da tanto tempo il dibattito sul fenomeno sovietico si svolga in questi termini fa venire in mente una domanda: se un professore vede un ippopotamo e dichiara che si tratta di una giraffa, sarà il caso di assegnargli una cattedra di zoologia? Perché alle scienze sociali non si applica lo stesso rigore che si esige per quelle naturali?
Tutta la confusione nasce dal fatto che l'Urss non era uno stato capitalista, in quanto la proprietà dei beni economici della nazione era assegnata allo stato e ai maggiori esponenti della burocrazia.
Il sistema sovietico andava quindi classificato tra i regimi tradizionali in cui il potere statuale era legato al possesso di vaste proprietà fondiarie. Su queste basi si era costituita la Moscovia autocratica, che pure aveva una burocrazia influente, mentre il potere assoluto era nelle mani del sovrano. Nel caso sovietico, la burocrazia si era arrogata un potere incontrastato ed esclusivo. Questo «assolutismo burocratico» era apparentato all'antico «dispotismo agrario» e, benché fosse assai più moderno del potere degli zar o di quello di Stalin, apparteneva ancora alla stessa categoria.
Sebbene reclutasse il suo personale tra le classi più modeste, lo stato burocratico sovietico era l'erede diretto di molte istituzioni dello zarismo; in altri termini, la sua concezione della costruzione dello stato rientrava nella continuità della tradizione zarista.
Lo stesso Lenin rilevava con sconforto che interi settori dell'amministrazione zarista erano rimasti ai loro posti sotto il nuovo regime. Un regime che di fatto aveva tutto da imparare nei diversi campi della gestione dello stato, ed era quindi costretto ad avvalersi dell'esperienza dell'apparato esistente, il quale continuava a gestire il paese con i metodi di sempre. Un nuovo stato era sorto, ma la sua gestione rimaneva nelle mani dei funzionari del vecchio regime, e lo stesso Lenin si chiedeva come fare per indurli a lavorare meglio.
Come se non bastasse, ogni volta che doveva essere istituito un nuovo ente si nominava una commissione speciale incaricata di presiedere alla sua organizzazione. Abitualmente si affidava a uno storico dell'amministrazione, o a un funzionario di provata esperienza, il compito di studiare il funzionamento di un ente analogo sotto il regime zarista; e quando mancavano i precedenti in Russia si ricorreva ai modelli occidentali.
Stalin ha addirittura ricalcato in via quasi ufficiale il modello dello stato monarchico. Questa continuità con la tradizione definisce l'essenza stessa del sistema: l'assolutismo di una gerarchia burocratica.
Anche la carica del segretario generale era nuova solo in apparenza, dato che conservava non pochi elementi propri di quella dello zar.
Allo stesso modo, le imponenti cerimonie care al regime sovietico come a quello zarista si rifacevano a una cultura comune, legata al culto delle icone, che si presentava con un'immagine di forza e di invincibilità per esorcizzare la propria fragilità interna.
Il termine preferito per designare lo stato forte costruito a partire dagli anni '20 diventerà, in particolare durante gli ultimi decenni del sistema, quello di «grande potenza» (dzerjava), preso di peso dal vocabolario zarista e caro soprattutto agli ambienti conservatori.
Il termine dzerjavnik, che ai tempi di Lenin era usato in senso spregiativo per indicare i fautori del più brutale nazionalismo, a un certo punto tornò a esercitare la sua seduzione, correlato com'era all'essenza stessa del potere autocratico dello zar: samodzerjets, l'autocrate.
Certo, la sfera d'oro sormontata da una croce era stata soppiantata dalla falce e dal martello, che però a loro volta erano ormai solo reliquie di un passato rivoluzionario.
La proprietà statale di tutte le terre, affidata a un sovrano assoluto, aveva caratterizzato in passato vari regimi dell'Europa centrale e orientale. Ma in Urss, in nome del socialismo, questo principio era stato esteso a tutti i comparti produttivi, oltre che a molti altri settori della vita del paese. Veniva così riproposto e persino rafforzato, al di là di una modernità apparente, il vecchio modello latifondista dei tempi in cui la terra costituiva la principale risorsa economica. Eppure, benché rientrasse nella vecchia categoria dei regimi autocratici della proprietà fondiaria, il sistema si era fatto carico del compito storico tipico del XX secolo: quello di uno stato «motore e guida dello sviluppo», che è esistito e permane tuttora nelle ex monarchie rurali, in particolare in Oriente (Cina, India) e in Medioriente (Iran). Nella costruzione dello stato staliniano, questa razionalità storica trova un parziale riscontro, al di là della svolta stalinista che ha costituito una pericolosa distorsione. Ma il passaggio a un modello dispotico non era dovuto a una patologia incurabile, come ha dimostrato l'eliminazione dello stalinismo in Russia e del maoismo in Cina. E nonostante le insidie, la presenza di uno stato in grado di guidare lo sviluppo economico rimane una necessità storica.
Negli anni '80 l'Urss aveva raggiunto un alto livello di sviluppo economico e sociale, ma il suo sistema si era impantanato. Riforme come quelle prospettate da Yuri Andropov avrebbero potuto rispondere all'urgente necessità di superare un autoritarismo che la trasformazione del paesaggio sociale rendeva sempre più obsoleto, e conferire più dinamismo allo Stato, pur senza privarlo delle prerogative necessarie a portare avanti lo sviluppo del paese.
Ma il ricorso al vecchio simbolismo della dzerjava, espressione di una forte componente del ceto dirigente, rifletteva un sostanziale indebolimento dell'apparato, che utilizzava ormai il potere politico al servizio di interessi personali e contestava il ruolo dello stato come guida e motore dello sviluppo. In netto contrasto con le aspirazioni dei cittadini, consapevoli di vivere nel XX secolo e non nel XVIII, i dirigenti si erano rifugiati nel conservatorismo, senza comprendere la necessità di aggiungere un computer alla falce e al martello.
Così lo stato si è venuto a trovare in un ritardo incolmabile rispetto alla popolazione.
La formula dell'«assolutismo burocratico», che si attaglia perfettamente al sistema sovietico, è tratta da un'analisi della monarchia prussiana del XVIII secolo, il cui sovrano dipendeva di fatto dalla burocrazia, anche se formalmente ne era il capo supremo. Allo stesso modo, nell'Unione sovietica gli alti dirigenti del partito, che in teoria detenevano il potere dello stato, di fatto non avevano più alcuna autorità sui loro burocrati. Gli ex ministri sovietici, le cui memorie riflettono la nostalgia per il super-stato sovietico, non avevano compreso che l'infatuazione per il concetto di dzerjava coincideva precisamente con il periodo in cui lo stato aveva cessato di compiere la funzione svolta in passato. Era oramai ridotto a un fantasma, a un'ultima parvenza del potere, prima di finire nella tomba di famiglia accanto ai passati regimi con i quali aveva conservato troppi legami di parentela.
Paradossalmente, il fenomeno sovietico appare come un capitolo tipico della storia russa proprio in ragione dell'influenza che il contesto internazionale ha sempre esercitato sull'Urss. Questa Russia dalla storia accidentata, in continua alternanza tra relazioni amichevoli e ostili con i suoi vicini, è stata costretta a sviluppare quelle relazioni attraverso tutti i canali possibili, anche di tipo ideologico.
Sia che si rifacessero a idee provenienti dall'estero o le controbattessero con concezioni di stampo locale, i sovrani russi hanno dovuto fare costantemente riferimento al mondo esterno, oltre che al proprio paese. Allo stesso modo, i rapporti internazionali hanno pesato in maniera decisiva sulla storia dell'Urss: il fenomeno leninista e la Russia sovietica degli anni 20 hanno molto a che vedere con la prima guerra mondiale, così come la crisi degli anni 30 e la seconda guerra mondiale hanno esercitato un impatto diretto sull'Urss di Stalin.
L'immagine che i dirigenti e la popolazione russa si erano fatti del campo avverso era il prodotto di «specchi deformanti». Il fatto che negli anni '30, nel periodo del suo maggiore slancio, lo stalinismo godesse di grande prestigio in Occidente, nonostante le persecuzioni perpetrate ai danni di cittadini sovietici, era dovuto in larga misura al confronto con le immagini negative della crisi in atto in America e in Europa. La Russia dava allora l'impressione di un potente slancio industriale, e si era spesso tentati a passare sotto silenzio le privazioni imposte alla popolazione, nella convinzione che l'impressionante dinamismo dell'Unione sovietica avrebbe assicurato un rapido miglioramento del tenore di vita. Anche nel 1945, dopo la sconfitta della Germania, Stalin fu aiutato da un analogo effetto di contrasto, benché il paese fosse ripiombato in uno stato di profonda indigenza, che le devastazioni della guerra non bastavano a spiegare.
Venne poi la guerra fredda. Se vogliamo credere alle memorie di Valentin Berezkov, interprete personale di Stalin, i contrasti ebbero inizio con l'irritazione di Stalin nei confronti degli americani per il ritardo con cui fu attuato lo sbarco in Normandia, con la conseguente apertura di un secondo fronte. Per il dittatore sovietico, il rinvio dell'operazione era dovuto ad un calcolo politico di Franklin D.
Roosevelt, che secondo i suoi sospetti avrebbe rinviato il più possibile l'effettiva entrata in guerra degli Stati uniti per intervenire solo nel momento in cui i due maggiori belligeranti sarebbero stati allo stremo. Successivamente, Mosca vide nella decisione di lanciare le due bombe atomiche sul Giappone la conferma dell'intenzione dell'America di annunciare al mondo, e in particolare all'Urss, l'inizio di una nuova era nei rapporti internazionali. Peraltro, non è affatto da escludere che all'epoca fosse proprio questo il ragionamento americano.
In ogni caso, furono questi avvenimenti a determinare lo status di superpotenza dell'Unione sovietica, dando il via a una corsa agli armamenti che avrebbe perpetuato gli aspetti più abominevolmente conservatori del suo statalismo e compromesso gravemente le sue capacità di autoriformarsi.
Misurando i ritardi Parallelamente, nella concezione dei dirigenti sovietici, l'America si sostituì all'«Occidente d'una volta» (Inghilterra, Francia, Germania) che fino a quel momento era servito da modello. Pur senza ammetterlo, i sovietici incominciarono a valutare i risultati ottenuti nei campi più diversi assumendo come termine di paragone il modello statunitense.
Alcuni dei loro leader misurarono così il crescente ritardo del loro paese, mentre altri rifiutarono di prenderne atto. Dopo la sconfitta sovietica nella (inutile) corsa alla luna, l'incapacità del paese di compiere la propria rivoluzione informatica ha probabilmente generato un senso di disperazione in una parte della classe dirigente, mentre gli ambienti più conservatori si aggrappavano al loro immobilismo.
E quando vari esponenti della vecchia nomenklatura presero il controllo del Cremlino al seguito di Boris Eltsin, fu ancora una volta quest'ossessione degli Stati uniti a indurli a mendicare i loro favori.
Com'è naturale, i ricercatori che studiano le condizioni della Russia degli anni '90 partono dai dati relativi all'ultimo periodo del sistema sovietico. E paradossalmente, alcuni dei sociologi che già avevano criticato duramente il sistema tendono oggi a descrivere la defunta Unione sovietica come un Eldorado. Di fatto, dall'inizio degli anni '90 la copertura sociale si è sempre più ridotta, e il livello di vita della popolazione russa ha subito un degrado inarrestabile.
Altri dati indicano una netta flessione dell'affluenza ai teatri, alle sale da concerto, ai circhi, alle biblioteche; è in calo anche la domanda di opere letterarie e di abbonamenti a giornali e periodici.
I cittadini russi, un tempo molto interessati alla cultura, soprattutto negli ultimi anni dell'era sovietica, quando era aumentata la disponibilità di tempo libero, oggi sono più passivi nei loro svaghi. In parte ciò è dovuto ai ritmi di lavoro sempre più pesanti e stressanti.
Inoltre, per cercare di integrare in qualche modo il proprio reddito, o anche solo per sopravvivere, chiunque possieda un appezzamento di terreno anche piccolissimo si dedica alla coltivazione di ortaggi, privandosi spesso del tempo libero e persino di ore di sonno.
Soltanto la fascia di popolazione più benestante, più qualificata e dotata di spirito imprenditoriale ha potuto beneficiare dell'estensione delle libertà e dei diritti, così come dell'offerta di beni e servizi costosi. Fuori dalla capitale e per la grande maggioranza della popolazione, le possibilità di accesso alla cultura si sono considerevolmente ridotte. L'infima qualità dei programmi televisivi preoccupa i sociologi, anche perché il piccolo schermo occupa ormai il primo posto tra gli svaghi della popolazione. Per non parlare del declino nel campo della ricerca scientifica, dell'istruzione, dei servizi sanitari e sociali, così come dell'andamento fortemente negativo dei dati relativi alla vitalità demografica. Tutti questi segnali stanno ad indicare che è oramai in gioco la sopravvivenza stessa della nazione. Per distogliere l'attenzione dallo stato pietoso in cui versa il paese, i nuovi detentori del potere hanno lanciato una vasta campagna propagandistica contro il defunto sistema sovietico, ricorrendo agli stessi trucchi utilizzati in passato dall'Occidente. Il passato viene interpretato come se dal peccato originale del 1917 fino al mancato colpo di stato del 1991 non vi fosse stato nient'altro che un sistema mostruoso, dal cui crollo doveva nascere infine una nuova era di libertà. In altri termini la Russia di oggi, oltre a trovarsi in uno stato di profondo avvilimento, soffre di una tendenza ad autodenigrarsi e a rinnegare la propria identità storica. I suoi «riformatori», non paghi di aver saccheggiato le ricchezze economiche del paese, si accaniscono contro il suo passato, non certo nel segno di un'analisi critica, ma piuttosto in quello dell'ignoranza.
Parallelamente, si è dato il via a una frenetica ricerca di altri elementi suscettibili di rispondere al desiderio della nazione di forgiarsi una nuova identità. Quest'ultima operazione, avvenuta in due tempi, è iniziata con la riappropriazione del passato zarista e pre-rivoluzionario, seguita dalla condanna in blocco di ogni apporto sovietico o post-rivoluzionario e dalla riabilitazione del ruolo dei Bianchi nella guerra civile. Questa passione per tutto ciò che i bolscevichi avevano detestato sconfina a volte nel più sconfortante vuoto intellettuale. Tanto che in Russia sono ormai in molti a percepire le «élite» al potere dal 1991 come i nuovi «invasori tatari», ostili agli interessi della nazione. E per alcuni degli spiriti più illuminati, l'unica prospettiva alla quale il paese va incontro è da incubo: il rischio di precipitare al livello del terzo mondo. Modernità e/o democrazia Ma, nonostante le disastrose conseguenze dell'oscurantismo, si può osservare qualche segnale positivo. In una conferenza tenuta a Mosca il filosofo Meyuev ha sottolineato che «un paese non può esistere senza la propria storia (...). Tutti i nostri riformatori, siano essi comunisti, democratici, slavofili o ammiratori dell'Occidente, commettono l'errore cruciale di non trovare una continuità razionalmente e moralmente giustificata tra il passato e il futuro della Russia (...). C'è chi nega il passato e chi lo considera l'unico modello possibile. Per gli uni l'avvenire deve essere semplicemente un rimpasto di vecchie tematiche, mentre gli altri preconizzano l'accettazione passiva di una formula opposta, che non ha precedenti nella storia russa. Dobbiamo invece renderci conto che il futuro dev'essere pensato innanzitutto nel suo rapporto con il passato, e in particolare con la nostra storia recente.» Mejuev polemizza poi con l'economista liberale Andrei Illarionov, che considera il XX secolo «tempo perso» per la Russia. Secondo la sua tesi, la rivoluzione socialista avrebbe distolto il paese dal proprio percorso liberale, trasformando in un topo il gigante di un tempo; e di conseguenza, la sola cosa da fare sarebbe riprendere la via del liberalismo. Ma è facile atteggiarsi a saggi col senno di poi, eludendo una seria analisi dei fatti. Chi rimprovera alla Russia di non aver imboccato fin dall'inizio del secolo la strada del liberalismo dà prova di una profonda ignoranza sia della storia russa che dello stesso liberalismo, il cui avvento fu il risultato di un lungo processo storico, dal Medio Evo alla Riforma, al Rinascimento e alle varie rivoluzioni contro le monarchie assolute.
Per Mejuev, la chiave della storia russa del XX secolo non va ricercata soltanto nella rivoluzione bolscevica. Di fatto, in dodici anni il paese ha vissuto ben tre rivoluzioni: la prima è stata quella, fallita, del 1905; la seconda, nel febbraio 1917, ha visto vittoriosi i rivoluzionari moderati, mentre la rivoluzione d'ottobre, conclusasi con il trionfo dei gruppi più estremisti, ha costituito l'ultima fase del processo rivoluzionario. Il filosofo Nikolai Berdiaev lo aveva capito chiaramente: i bolscevichi non sono stati gli autori della rivoluzione, bensì gli strumenti del suo svolgimento. L'adozione di criteri di carattere morale, con l'insistente denuncia delle atrocità commesse, è un'operazione sterile, dato che in tutte le guerre civili vi sono stati atti di crudeltà. Una rivoluzione non è mai un evento morale e neppure legale: è l'esplosione sanguinosa di una forza coartata. Non esistono «rivoluzioni buone».
«Condannare le rivoluzioni - prosegue Mejuev - vuol dire condannare quasi tutta l'intellighenzia russa e l'intera storia del paese, che ha costituito il terreno di coltura di quell'esplosione rivoluzionaria.
Le rivoluzioni (...) deludono sempre le aspettative, anche se al tempo stesso aprono una pagina veramente nuova: l'importante è comprendere di quale pagina si tratta, senza fidarsi troppo dei discorsi dei vincitori, e neppure di quelli dei vinti (...) Il nostro socialismo, anticapitalista nella forma, era di fatto un "capitalismo alla russa" nel suo contenuto tecnologico.» Mejuev sottolinea quanto sia difficile, per un paese situato alla periferia del mondo occidentale, realizzare contemporaneamente la modernizzazione e la democrazia. Per un certo periodo, una delle due aspirazioni deve cedere il passo all'altra. E proprio perché i bolscevichi lo avevano ben compreso sono usciti vittoriosi dalla guerra civile e quindi dalla seconda guerra mondiale. Lo stesso concetto è stato peraltro alla base della decisione della Cina di portare avanti una modernizzazione accelerata attraverso l'economia di mercato, pur mantenendo un sistema politico non democratico. Per ogni regime, qualunque esso sia, la saggezza non sta nel ricusare il passato dipingendolo come un deserto in cui non poteva crescere neppure un filo d'erba, bensì nel saperlo interpretare come un trampolino per compiere nuovi progressi, ripartendo da tutto ciò che vi era stato di veramente grande.
La Russia di oggi, con la sua nostalgia dell'epoca pre-rivoluzionaria, è assai più lontana dall'Occidente di quanto lo fossero i bolscevichi.
«I nostri liberali - osserva Mejuev - non hanno certo di che vantarsi.
Sono riusciti solo ad annientare tutto ciò che di positivo era stato prodotto, senza comprendere che il futuro della Russia si deve costruire mantenendo e sviluppando la continuità con le realizzazioni del passato, pur senza rinunciare a definire i nuovi obiettivi da raggiungere.
Al momento attuale, il legame con il passato è stato spezzato, ma un giorno sarà ripristinato. Non si tratta certo di ritornare all'epoca pre-rivoluzionaria, e neppure a quella post-rivoluzionaria. Dobbiamo chiederci quali elementi di questo passato ci sono cari e ci appaiono degni di essere preservati e portati avanti. Questo ci aiuterà ad affrontare il futuro (...). Chiunque voglia cancellare il XX secolo - che certo è stato un secolo di grandi calamità - dovrà rinunciare per sempre a una grande Russia».
Alcune delle idee di Mejuev possono essere criticate, ma il problema che pone è fondato: il passato della Russia è parte integrante del XX secolo europeo e mondiale, il quale può essere compreso solo attraverso un'analisi senza pregiudizi del sistema sovietico.
Moshe Lewin, Professore emerito dell'Università di Pennsylvania (Stati Uniti).
Autore di "'ultima battaglia di Lenin" Laterza, 1969, e di "Storia sociale dello stalinismo", Einaudi, 1988.
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Dicembre-2001/0112lm06.01.html