LA SECONDA CHIAMATA

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 21:57
Riflessione
LA SECONDA CHIAMATA

René Voillaume (4)

Approfitto di qualche giorno di calma all'Isola Saint Gildas per scrivervi un po' a lungo prima di Pasqua, per comunicarvi alcune osservazioni che sono stato portato a fare in questi ultimi mesi. Si tratta della nostra fedeltà al Signore ed alla sua chiamata, nelle grandi e nelle piccole cose, nel mezzo del cammino percorso nella vita religiosa, così come ai suoi inizi.
Il rischio della durata per noi, come per ogni impresa umana, è quello di una certa usura dell'ideale perseguito e dello sforzo fatto per realizzarlo, usura che ci porterebbe ad accontentarci della mediocrità nella santità. Con il passare del tempo e con la maturità dell' età sorge la tentazione di un compromesso tra le esigenze soprannaturali dell'amore del Signore e quelle della nostra personalità di uomini adulti. Ogni anno un maggior numero di noi giunge a questa tappa decisiva della vita spirituale, tappa in cui deve effettuarsi un'ultima volta la scelta tra Gesù o il mondo, tra l'eroicità della carità o la mediocrità, tra la croce o un certo benessere, tra la santità o una onesta fedeltà all'impegno religioso. Anche la comunità stessa della Fraternità arriva a questa medesima maturità. Di fronte alla grandezza dell'opera che Gesù vorrebbe realizzare attraverso i suoi Piccoli Fratelli sono forse io il solo ad aver avvertito questo pericolo di cedimento e quest'angoscia nel constatare ciò che noi facciamo in concreto delle esigenze della sua chiamata a seguirlo attraverso il mondo? Mi rivolgo oggi ai fratelli professi anziani piuttosto che ai novizi od ai professi giovani, anche se questi ultimi hanno molto da guadagnare nel considerare con realismo e con coraggio ciò che, in un prossimo avvenire, saranno per loro le esigenze della vita religiosa. Imparare a superare generosamente le tappe successive della crescita del Cristo in noi è altrettanto importante quanto l'aver cominciato bene lasciando tutto per seguire Gesù al momento della prima chiamata che ci ha condotti al noviziato. Questa perseveranza è essenziale perché non serve a niente cominciare se non si va fino in fondo. Fratel Carlo di Gesù restò fedele tutta la vita a questa divisa familiare che gli era cara. «Quando si parte per fare qualcosa, non si deve tornare senza averla fatta». Il tutto non è di abbandonare la barca
e le reti per seguire Gesù durante un certo tempo, ma piuttosto di andare sino al Calvario, di accoglierne la lezione ed il frutto, e di andare con l'aiuto dello Spirito Santo sino alla fine di una vita che deve terminare nella perfezione della divina Carità.

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 21:58
È più importante di quanto non si pensi l'aver ben capito la risposta del Signore ai suoi apostoli che si meravigliavano della difficoltà della via dei consigli evangelici: «Agli uomini è impossibile, ma a Dio no; infatti, tutto è possibile a Dio». (5) Questa constatazione del Signore e questa promessa piena di speranza non si applicano solo all' abbandono delle ricchezze ed alla castità, ma a tutte le esigenze della vita religiosa, all'obbedienza, alla preghiera, alla carità. Noi abbiamo certo creduto a ciò che il Signore diceva, ma senza capire fin dove questo ci avrebbe condotti nel nostro caso personale, ben concreto, né come si manifesterebbe in noi una tale impossibilità. Da questo punto di vista mi pare che si potrebbero distinguere tre tappe nell'evoluzione normale di una vita religiosa.
Nella prima tappa non abbiamo ancora fatto l'esperienza dell'impossibilità umana e naturale in cui siamo di vivere in accordo con l'ordine soprannaturale dei consigli. Durante la giovinezza, vi è infatti come una corrispondenza tra la generosità propria al temperamento di questa età e la chiamata di Gesù a lasciar tutto per seguirlo. Non ci sembra che la povertà, la castità, l'obbedienza, la preghiera e la carità presentino delle difficoltà insormontabili. D'altra parte, la pedagogia divina del Maestro che chiama contribuirà anch' essa a mantenerci per un po' in un'illusione provvisoria, senza la quale forse nessuno avrebbe il coraggio di lasciare tutto per seguire Gesù e portare la sua croce.
Senza contare che, in questo periodo di gioventù, le esigenze della santità ci appaiono soprattutto sotto il loro aspetto sensibile, stavo per dire sotto il loro aspetto naturale di realizzazione. La povertà, per esempio, ci apparirà come una spogliazione materiale: saremo, anzi, esigenti in questo campo e per molti sarà un bisogno sensibile la cui soddisfazione procurerà loro una vera gioia. Gesù ci dilata il cuore in questo senso, ed è proprio questo ch'Egli vuole da colui che inizia. D'altra parte abbiamo delle idee molto personali al riguardo, perché è difficile non averne quando si è giovani, e perché delle aspirazioni naturali e spontanee ci spingono ad essere poveri in questo o quel modo. La povertà materiale non ci fa paura.
Lo stesso avviene per l'obbedienza, le cui vere esigenze ci sono ancora nascoste: la vita religiosa è ancora nuova, essa è davanti a noi, e finché sentiamo di aver qualcosa da imparare dai fratelli più anziani, siamo spontaneamente docili e facciamo facilmente credito ai nostri Responsabili. Non voglio dire che non vi siano difficoltà, ma non sappiamo ancora tutto ciò che include il mistero dell' obbedienza.
In quanto alla castità, abbiamo forse le difficoltà comuni ai giovani, ma non abbiamo paura dell'avvenire, ed il nostro cuore è facilmente riempito dall'amore che portiamo a Gesù e che, finora, si è sempre manifestato in modo più o meno sensibile. Ad un avvertimento come quello di Gesù a Pietro, non esiteremmo a rispondere subito come l'apostolo: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». (6) Questo non costituisce ancora un problema per noi. Vi sono, certo, dei momenti duri, ma passano ed il Signore è di nuovo accanto a noi. Il Vangelo ci appare ancora ricco di una quantità di cose che scopriamo ogni giorno e lo studio teologico ci fa penetrare con stupore nella grandezza dei misteri di Dio. Siamo felici di essere stati chiamati da Gesù e non dubitiamo di poter restargli fedeli.
Melin
00martedì 3 febbraio 2009 21:58
La carità ci sembra facile anche se, forse, ci si rimproverano dei grossi difetti che pensiamo di poter vincere facilmente con qualche generosa revisione di vita e con l'aiuto dei nostri fratelli. D'altronde, nel noviziato e durante i primi anni della nostra vita di Piccoli Fratelli constatiamo dei sensibili progressi. Ma vi è ancora tutta una dimensione della carità che ci sfugge, e, goffamente, facciamo soffrire mancando di delicatezza. La nostra carità è ancora molto umana, molto naturalmente spontanea, e sentiamo in noi dei moti di simpatia universale. Il divenire i fratelli di quegli uomini così diversi da noi che ci attirano in posti lontani ci sembra semplicissimo: siamo impazienti di essere in mezzo a loro, come uno di loro. Tutto in loro ci sembra buono, simpatico e ci sentiamo capacissimi di dar loro la nostra simpatia. Non ammettiamo che li si critichi, e condanniamo con severità coloro che ci sembrano meno entusiasti. Il che non ci impedisce di essere insopportabili agli altri e di scoraggiarci alla prima difficoltà; ma non pensiamo spesso a questo che è ben poco evidente per noi.
Quanto alla preghiera prolungata e silenziosa essa è certo ciò che, all'inizio, ci è parso, salvo eccezioni, la cosa più difficile. Ma le grazie del noviziato ed il nostro desiderio di manifestare a Gesù il nostro amore, ci mantengono fedeli. D'altronde abbiamo ricevuto delle grazie di luce e ci pare che, con un po' di buona volontà, manterremo facilmente questa prova d'amore che vogliamo dare al Signore. Siamo facilmente commossi per la sofferenza degli uomini e per il male che ci circondano e che vogliamo portare davanti al Signore nella preghiera. Vi troviamo un aiuto e temiamo, talvolta, che una mancanza di contatto con gli uomini tolga una delle ragioni sensibili che ci spingono ad una maggiore generosità nell' orazione.
Sì, ci pare che con un po' di coraggio potremo essere fedeli a tutte queste esigenze della vita di un Piccolo Fratello scoperte durante il noviziato e nei primi anni di vita in Fraternità. In ogni caso, ed anche nei giorni bui, - poiché ve ne sono - tutto questo non ci è ancora apparso radicalmente impossibile, come l'ha predetto il Signore. Difficile sì, impossibile, veramente no, con un po' di coraggio!
Melin
00martedì 3 febbraio 2009 21:59

***

Ora, con il tempo e con la grazia di Dio, a poco a poco, insensibilmente, tutto cambia. L'entusiasmo umano lascia il posto ad una specie di insensibilità per le realtà soprannaturali, il Signore ci sembra via via più lontano ed in certi giorni una certa stanchezza ci prende e siamo più facilmente tentati ad accettare di pregare meno o di farlo in modo meccanico. La castità ci presenta delle difficoltà che non avevamo considerate: alcune tentazioni sono nuove; sentiamo in noi come una pesantezza e cerchiamo più facilmente delle soddisfazioni sensibili. D'altra parte saremmo portati, istintivamente e senza neppur vedervi qualcosa di male, a condurre una vita un po' più indipendente, senza tener conto dei nostri Responsabili. L'apertura ci sembra meno necessaria, la carità più difficile. L'adattamento ad un altro popolo ci lascia talvolta scoraggiati, e vediamo soltanto più dei difetti che ci infastidiscono là dove prima trovavamo tutto buono: cominciamo a criticare, con facilità, non riusciamo a parlare correntemente la lingua e neppure a capire a sufficienza. La povertà ci diventa pesante. Teniamo di più alle nostre idee. In certi giorni rimpiangiamo di non poter mangiar meglio e di non sentirci un po' più liberi. Infine vorremmo fare della nostra vita qualcosa di più interessante! E sempre il Signore tace, silenzioso, e non ci prodiga più le gioie sensibili dell'intimità, quelle gioie che ci rendevano così facile il considerare tutto con ottimismo.
Arrivare a sentire tutto ciò è normale, senza che vi sia stata infedeltà grave da parte nostra né abbandono da parte del Signore. Anche se siamo stati fondamentalmente fedeli alle esigenze della nostra vita religiosa, dobbiamo arrivare, più o meno, a provare queste diverse impressioni o tentazioni.
In una parola, entriamo progressivamente in una fase nuova della nostra vita, scoprendo, a nostre spese, che le esigenze della vita religiosa sono impossibili. Sperimentiamo che la povertà non dev'essere solo materiale, ma deve giungere al distacco da noi stessi e da ogni azione interessante. La castità integrale, l'obbedienza con tutte le sue conseguenze, la carità fino al dono totale di noi stessi agli altri, tutta una vita centrata sul valore contemplativo dell'adorazione: stiamo sperimentando che tutto ciò è impossibile, che supera le nostre forze ed è contrario allo sviluppo naturale dei nostri istinti e della nostra personalità. Sì, è impossibile! Gesù ce l'aveva detto, ma ora tutto ciò appare sotto una luce nuova e proprio nel momento stesso in cui Gesù è lontano e quasi sensibilmente assente dalla nostra vita! Umanamente Egli non c'è più. Né possiamo più contare sull'entusiasmo giovanile che gli anni hanno smorzato in noi. Questa impossibilità non ci è forse apparsa di colpo ed in modo altrettanto brutale per tutti i punti, ma, più o meno consciamente, essa diverrà per noi un'evidenza. Né osiamo forse confessarlo troppo a noi stessi, perché ciò ci obbligherebbe a prendere nettamente posizione. Che fare, allora? Come uscirne? Se non abbordiamo francamente questa tappa, questa presa di coscienza dell'impossibilità radicale per le forze umane di vivere una vita religiosa soprannaturale e di servire il Cristo con la sua croce, rischiamo sia di cadere in un larvato scoraggiamento, sia di illuderci abbassando il nostro ideale ad un livello accettabile, raggiungibile, in una parola, possibile. Ora ciò si verifica assai spesso in questa tappa cruciale della vita religiosa: lo scoraggiamento oppure l'accettazione semicosciente della mediocrità, perché per rendere la vita religiosa attuabile avremo accettato di fatto di introdurvi un surrogato. Ci cerchiamo un centro di interesse umano, una ragione di vita che sia, bene o male, conciliabile con le apparenze della vita religiosa o con un'osservanza onesta ma sommaria dei nostri impegni. Se invece a forza di lucidità e per restare pienamente fedeli al Signore rifiutiamo questo compromesso, lo scoraggiamento ci attende. In verità, Gesù ci fa sperimentare sino in fondo ed in modo inatteso, la impossibilità di seguire il cammino sul quale Lui stesso ci ha avviati!

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 21:59
Ciò che è ancor più sconcertante, è il fatto che più saremo stati generosi e fedeli alla grazia, e più questo cammino ci apparirà impossibile! Infatti le esigenze della povertà, della spogliazione interiore, della castità, dell'obbedienza e della carità ci appaiono sotto una luce nuova, ed esse sono più grandi di quanto avessimo immaginato. Ora, il veder aprirsi davanti a sé un orizzonte sempre più infinito è una grazia inestimabile, poiché è la prova che Gesù è presente con la sua luce. In questo cammino, divenuto ora così austero, come non essere scoraggiati dall'immensità della distanza che ci separa dalla meta? Poiché questa si è allontanata facciamo una gran fatica a vedere di non aver indietreggiato invece di avanzare. Tutto infatti avviene come se avessimo indietreggiato, e ci pare di aver fallito. Inoltre abbiamo scoperto i difetti, le imperfezioni dei religiosi e dei sacerdoti che ci circondano e sentiamo chiaramente che molti di loro sono a quello stesso punto.
Che serve tentare l'impossibile? Poiché per noi l'essere perfetti è impossibile, non ci resta che accontentarci di una vita onesta. Ma una semplice vita onesta al seguito di Gesù crocifisso come è miseria e che delusione! E tuttavia, se sapessimo ciò che Gesù aspetta da noi in questo momento critico della nostra vita religiosa, se sapessimo ciò ch'Egli attende da una tappa che non è un regresso come noi immaginiamo ma una messa in atto delle condizioni per una nuova partenza, per la scoperta di una vita secondo lo Spirito e la fede, con la convinzione, che ancora dobbiamo acquisire, che una tale vita è allora
possibile con Gesù!

***

In questi ultimi giorni, ho bruscamente capito che la mia angoscia deriva dal fatto che un numero sempre più grande di noi arriva a questa tappa decisiva. È il momento in cui, in piedi sulla superficie agitata del mare, cominciamo a sprofondare perché abbiamo paura. Paura di che? Non è forse per ordine di Gesù che abbiamo cominciato a camminare in queste condizioni? Non sapevamo. Tuttavia ogni cosa si è svolta sinora come doveva e l'adolescenza della nostra vita spirituale sta finendo. Vivere secondo lo spirito, nella spogliazione interiore, secondo un' ambizione di grandezza distaccata da noi ma che si allarga nell'ambizione stessa del Cuore di Gesù, vivere nell'umiltà e nella diffidenza verso noi stessi, accettando infine di non essere nulla per noi e tutto per Lui e per gli altri, accettando di credere contro ogni speranza e di perseverare nella preghiera, bussando forse ad una porta che resterà chiusa per degli anni, e poi accettare di ripartire, in una nuova prospettiva, verso un modo nuovo di essere poveri, obbedienti, casti, caritatevoli, oranti: ecco ciò che sarà questa nuova tappa. Tuttavia non troviamo più in noi motivo di conforto, e per evitare di scoraggiarci dovremo smettere di guardarci e saper riscoprire Gesù, che non ha mai cessato di essere presente, ma la cui presenza è ora molto diversa da quella di prima. Tutta la nostra vita ci sembrerà sospesa ad un filo che non riusciamo a vedere abbastanza per poterne constatare la solidità. Come un filo di nylon esso ci sembra talmente sottile e trasparente da farci perdere il senso di sicurezza che avevamo agli inizi della nostra vita religiosa. Come l'alpinista preso da vertigine, non abbiamo più il diritto di guardare verso il basso, di seguire con lo sguardo la parete a cui siamo aggrappati, sotto pena di staccarcene o di non poter più avanzare: siamo condannati a guardare solo in alto oppure a non arrivare alla meta.

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 21:59
Per rendere possibile questa terza tappa ciò che ci resta da scoprire e da vivere è il credere che Gesù ha detto la verità quando ha affermato che «questo è possibile a Dio».
Un gran numero di noi è a questo punto; ne sento il rischio e vorrei che una preghiera intensa di tutti noi ci preservasse dall'altro pericolo: quello di una vita religiosa falsificata sotto delle apparenze intatte. Quanti tra noi si "installeranno" così? È un segreto che Gesù solo conosce, ed io preferisco non pensarci perché non mi riesce di accettare che qualcuno di noi sia tra questi ritardatari...; e tuttavia la legge dei grandi numeri non dovrebbe entrare in gioco? Mi rifiuto di ammetterlo quando penso successivamente a ciascuno di voi, poiché ognuno è stato chiamato e, dopo tutto, resta libero di fronte al Signore, libero di ridirgli il suo "sì" all'inizio di questa nuova tappa. La libertà dell'amore non è forse capace di vincere "la legge dei grandi numeri"? Ma soprattutto vorrei che foste persuasi che questo scoraggiamento della nostra vita spirituale, di cui sentite la tentazione o forse anche la seduzione nel vostro intimo, non è il segno della fine di qualcosa di generoso, ma, invece, il segno di una nuova chiamata del Signore. Una tappa è superata; ne resta un' altra che sarà decisiva. Non dobbiamo mai dirci delusi della vita religiosa, ma essere piuttosto abbastanza umili per confessarci vinti dal Cristo umiliato e crocifisso, e per accettare di iniziare un nuovo cammino, quello dello spirito, della fede e di un amore forte e senza illusioni. Il cambiamento di piano, il trasferimento di regime consiste nell'aver finalmente compreso che una vita religiosa di Piccolo Fratello è umanamente impossibile, che Dio doveva trovare il modo di farcelo capire, e che tuttavia essa è possibile a Dio, nella fede e nella carità divina. In una parola dobbiamo morire con Gesù e rivivere con Lui. Tutta la vita religiosa consiste in questa morte e questa vita, ma noi non immaginavamo che ciò si attuasse così!
Una volta impegnati su questo nuovo piano, una luce nuova ci mostrerà delle nuove esigenze nella pratica dei consigli di Gesù, di cui dobbiamo continuare la realizzazione con una generosità anch'essa rinnovata in quanto non più appoggiata a nessun entusiasmo sensibile.
Ad ogni modo, se vogliamo continuare ad avanzare dobbiamo darci con tutto il nostro spirito alla povertà, alla castità, all'obbedienza ed alla preghiera in vista di un accrescimento continuo dell'amore. È la nostra volontà che dobbiamo donare di nuovo; lo sforzo degli inizi della nostra vita religiosa dev'essere rinnovato, perché l'amore risiede nella nostra libera volontà, e questa ci appartiene integralmente e deve essere pervasa dalla vita che l'umanità di Gesù ci comunica. Ma questo lavoro di disciplina, in questa seconda ripresa, toccherà delle zone più profonde e più essenziali del nostro spirito. È difficile paragonarlo a quello degli inizi, poiché i nostri bisogni, i nostri desideri, i nostri istinti profondi hanno ora un oggetto diverso. La conoscenza di noi stessi ci ha inoltre rivelati degli ostacoli e delle radici più profonde. Quindi lo sforzo generoso di un novizio e quello di un Fratello che ha fatto la professione perpetua non si effettueranno nello stesso modo. Non dobbiamo giudicarci a vicenda, ma cercare di capire. Non sarebbe bene per un novizio voler vivere come un religioso di età matura, né per un professo perpetuo voler vivere di nuovo come un novizio. Ed è bene così, purché ognuno si sia donato senza reticenze, eviti le illusioni proprie alla sua età spirituale, e realizzi l'appello alla rinuncia totale così come il Cristo non cessa di rivolgercelo.
Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:00

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In questi ultimi mesi alcuni Fratelli professi hanno lasciato la Fraternità. È normale che sia così, e questo, invece di essere per noi una ragione di turbamento, dovrebbe apparirci come indizio di vitalità e di verità. È una pesante responsabilità il consigliare una vocazione o cercare di vedere chiaro nel momento dell'ammissione alla prima professione oppure a quella perpetua; ed è difficile che non si verifichino degli errori. Alcuni possono certo essere portati a lasciare la Fraternità proprio perché non hanno saputo superare la tappa della maturità della vita spirituale: la nostra vocazione è difficile e non ammette il pressappoco nell'offerta di sé all'azione dello Spirito Santo. Ma vi è anche la possibilità di errori, e le esigenze della vocazione di Piccolo Fratello per una totale fedeltà al suo ideale possono anche non rivelarsi subito.
Mi pare, inoltre, che stia per finire la lenta scoperta dei diversi generi di vita che Gesù ha chiesto alle Fraternità di condurre nel mondo. Un certo periodo era necessario per lasciar apparire tutte le conseguenze dell'ideale della Fraternità e per permetterci di meglio precisarne le esigenze contemplative. Molti aspetti di questo ideale sono divenuti più chiari, più precisi, man mano che nascevano le altre forme di vita delle Fraternità, gli Istituti Secolari, ed i Piccoli Fratelli di Ministero. Era necessario che le Fraternità raggiungessero una certa età perché apparissero in modo più preciso i bisogni ai quali esse dovevano rispondere e, a seconda degli ambienti, i problemi nuovi che la sola loro presenza suscita.
È così che la Fraternità, in quanto comunità, giunge essa pure ad una tappa importante della sua maturità, e che noi tutti dobbiamo rimetterci di fronte all'ideale contemplativo essenziale per realizzarne generosamente le esigenze.
Non vorrei che, alla vista di questo sviluppo delle Fraternità, alcuni tra voi si lasciassero prendere dalla tentazione di preferire per loro stessi una vita evangelica solitaria ed indipendente, piuttosto che accettare i limiti di una istituzione umana organizzata. Il messaggio d'amore e di rinuncia, della povertà evangelica e della preghiera, non può essere trasmesso ad un gran numero di anime se non attraverso una istituzione della Chiesa. Ora Gesù ha voluto proprio le Fraternità come una istituzione della Chiesa, per diffondere, attraverso ad esse, una vita ed uno spirito secondo il Vangelo, affinché un più grande numero possa accedere alla santità, attraverso questa istituzione. Questa crescita organica non si attua certo senza i rischi che conosciamo: elaborazione di una regola, dispersione costosa, attuazione di un minimo di amministrazione centrale, case di formazione e di studio. Ma come rifiutare tutto ciò senza rifiutare qualcosa pensata, immaginata e voluta dal Cristo? Si fanno rimproveri che si lanciano alla Chiesa per via della sua organizzazione; e, tuttavia, nonostante i suoi difetti umani, la Chiesa è come il Cristo l'ha voluta divinamente.
Prego il Signore affinché, in questa prospettiva, tutti siano trovati fedeli alla grazia di rinascita secondo lo spirito che nella prossima Pasqua sarà dato a ciascuno di noi ed alla Fraternità intera.

[4] René Voillaume (1905-2003), sacerdote cattolico, francese, ha fondato la congregazione dei Piccoli Fratelli di Gesù nel 1933, e poi quella delle Piccole Sorelle del Vangelo nel 1963, ispirandosi alla spiritualità di Charles de Foucauld. Testo tratto da: René Voillaume, Sulle strade del mondo, Editrice Morcelliana, Brescia, 1960, pp. 3-14. Per gentile concessione dell'Editore. La lettera di Voillaume è datata 17 marzo 1957.
[5] Vangelo secondo Marco, 10,27. Cfr. Vangelo secondo Luca, 24; Vangelo secondo Matteo, 19,26.
[6] Vangelo secondo Luca, 22, 33.
 

 

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:01

L'ETÀ ADULTA E LA SECONDA CHIAMATA

Renato Corti (7)

Nella lettera pastorale A immagine di Cristo (8) ho scritto che l'attenzione premurosa a garantire respiro alla nostra vita comprende anche l'impegno a fare i conti con il tempo che passa e con le varie età che - di anno in anno, di decennio in decennio - si attraversano. Il tempo ci mette alla prova e anche noi sacerdoti, come tutti, siamo chiamati ad affrontarlo - dagli anni della giovinezza a quelli dell'età adulta, a quelli della terza età - dando unità alla nostra esistenza in un cammino di fedeltà.
Parto da una domanda: che succede, col passare degli anni, nella vita personale di noi preti? Quale esperienza va compiendosi dentro di noi? È giusto porsi questi interrogativi perché possono verificarsi in noi delle modificazioni non superficiali che occorre considerare, dato che possono indicare dei passi urgenti e importanti da compiere per maturare come uomini e come preti.

***

Sappiamo che la prima risposta alla vocazione può essere difficile; spesso, però, non lo è nemmeno molto. Lo è invece quasi sempre la risposta che va data alla vocazione nel tempo in cui essa viene visibilizzata con l'esercizio del ministero. Voillaume ha parlato di una seconda chiamata, che non è propriamente un'altra rispetto alla prima, ma è il ritrovamento della prima e unica vocazione a un livello di maturità maggiore, passando attraverso il crogiuolo di molte vicende distese sugli anni spesi in missione.
Del fatto che la nostra vita di preti si caratterizzi come travaglio non ci dobbiamo scandalizzare, dato che anche gli uomini di Dio dell'Antico e del Nuovo Testamento lo hanno conosciuto (penso ad Elia, a Geremia, a Pietro, a Paolo) in forme e in misure tutt' altro che trascurabili. Si tratta di un cammino che può vedere meravigliose evoluzioni e tremende involuzioni. Perciò «ogni sacerdote, a cominciare dai preti giovani, deve rimanere molto vigilante per non illudersi vanamente sul proprio futuro e sulla fecondità del proprio ministero. Nel contesto attuale, poi, se la vita di ogni cristiano è insidiata, lo è pure - in certa misura - anche quella del prete: il mondo (e soprattutto il nemico dell'uomo, che è Satana) sa bene che se si neutralizza il prete, il resto diventa più agevole e che, al contrario, la presenza
di un prete santo diventa un sicuro ostacolo al regno delle tenebre. Ringrazio per altro il Signore per il clero che ha dato, fin qui, alla nostra Diocesi. Molti dei nostri sacerdoti mi sono di continua edificazione e vengono riconosciuti dal nostro popolo (che intuisce facilmente dove sta un prete autentico) come uomini secondo il Vangelo ripieni di amore a Gesù Cristo. E però, la mia preghiera di ogni giorno contiene l'intenzione già presente nella preghiera di Gesù nell'ultima cena: "Che nessuno si perda!" (Gv 18, 9)». (9) Ma non è solo questione di non perdersi; si tratta di far nostro il respiro dei santi e di farlo, in particolare, negli anni e decenni della vita adulta disponendoci, con tutti i profeti e gli apostoli, a una graduale purificazione e a una crescita reale.

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:02

***

Vorrei affrontare il tema invitandovi soprattutto a confrontarvi con due maestri dell' educazione umana e di quella propriamente spirituale: Romano Guardini e René Voillaume. Essi ci offrono due approcci tra loro diversi e complementari:
- il primo, di tipo antropologico, ci viene suggerito da Guardini nel suo saggio
Le età della vita; (10)
- il secondo, di tipo più propriamente spirituale, ci viene offerto da Voillaume in un testo di meditazione per i Piccoli Fratelli del Vangelo sul tema della "seconda chiamata".
(11)

L'età adulta. Un approccio antropologico

In Guardini è presente e finemente sviluppato un discorso antropologico sulla vita adulta e le sue crisi e il loro possibile superamento. Egli parla dell'uomo e intende rivolgersi a ogni uomo, anche al non credente. Nel suo testo non si ritrova nessuna citazione biblica, non si fanno espliciti ragionamenti teologici. Si fa della fenomenologia e della pedagogia, cui soggiace un'antropologia aperta al trascendente - all'eterno - e capace quindi di dare fondamento e spessore a un'etica. Non vi è nulla, di quanto Guardini illustra, che non possa dirsi del cristiano; anzi, il cristiano è forse colui che può ricevere maggior frutto dalle sue analisi e dalle sue proposte pedagogiche. Vediamo dunque da vicino come Guardini sviluppa la sua riflessione.

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:02
 

L'adulto: chi è?

Anzitutto egli si domanda chi è l'adulto e risponde con tre osservazioni. La prima verte sul processo che dà origine alla condizione adulta (tra i venti e i quaranta anni circa): «All'origine dell'età adulta sta il processo attraverso il quale l'uomo si è ben radicato nella sua persona e nel suo carattere, e si è pienamente inserito nella realtà che lo circonda; egli prende coscienza di che cosa significa "saper stare in piedi da solo", ed è deciso a metterlo in pratica». (12)
Le parole di Guardini (lo dico per tutte le citazioni che farò) sono molto sobrie e perciò vanno attentamente ripensate a una a una. Mi sembra stimolante il suo modo di parlare del divenire adulti come di un processo, di una lenta trasmutazione che interessa tutto quel che ciascuno di noi è. Trovo importante i due segni che indicano con sicurezza che il divenire adulti si fa realtà concreta: il radicarsi nella propria persona, al punto di saper stare in piedi da soli, e il crescente inserimento nella realtà circostante. Ciò vuol dire avere un baricentro che permette di reggere bene anche nel vento o nella tempesta e s'accompagna a un'interpretazione non solipsistica del proprio crescere e irrobustirsi, bensì aperta alla condizione storica e sociale dell'itinerario personale.
La seconda osservazione riguarda una categoria molto significativa per la vita dell'uomo, e cioè il carattere. Egli dice: «A questo punto si sviluppa ciò che si chiama carattere, cioè la stabilità interiore della persona, che non èrigidità e neppure sclerosi dei punti di vista e degli atteggiamenti; ma consiste piuttosto nella connessione delle facoltà attive del pensiero, del sentimento e della volontà con il proprio centro spirituale».
(13)
Con queste parole siamo aiutati a vigilare per evitare un equivoco sempre incombente: quello di ritenere che quando, dall' adolescenza o dalla giovinezza, si entra nella tappa della vita adulta, si compie in noi qualcosa di simile
a quanto avviene nei processi chimici quando, a causa della temperatura o di altri fattori, si consolida una nuova condizione di un determinato composto. Talvolta, con linguaggio semplificato, si dice che, una volta diventati adulti, ciascuno di noi è quello che è. Questo modo di pensare, per quanto contenga qualche aspetto di verità, è fuorviante perché dispone ad accettare la rigidità come condizione normale, facendo dimenticare che la caratteristica qualificante dell'adulto è da riconoscere in un dinamismo, non in una staticità; anzi, in un equilibrio dinamico che trova nel proprio centro spirituale una stabilità e trova il suo dinamismo nell'interconnessione delle facoltà superiori (con tutta la mobilità e le stimolazioni di ogni giorno) con questo centro. Quando questo dinamismo è riconoscibile, la persona è viva e il carattere si plasma.
La terza osservazione lo conduce a mettere in evidenza alcuni valori che emergono in modo particolare. Nota infatti che «determinati valori assumono allora una particolare importanza: la coscienziosità nell'adempiere agli impegni assunti; l'attenersi alla parola data; la fedeltà nei confronti di chi ci dà fiducia; l'onore come senso infallibile di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto, di quello che è nobile e di quello che è volgare; la capacità di distinguere tra quanto è autentico e quanto è falso nelle parole, nei comportamenti, nel lavoro e nelle cose. È il periodo nel quale si scopre il senso della durata. Essa denota ciò che, nel fluire del tempo, ha affinità con l'eterno: è ciò che costruisce, consolida, sostiene ed è costante. In questo periodo l'uomo scopre che cosa voglia dire istituire, difen
dere, creare una tradizione. Egli scopre quanta sterilità e miseria vi siano nell'abbandonare di continuo la linea d'azione fissata in precedenza, per ricominciare di nuovo da capo». (14)
I lineamenti del volto adulto qui ricordati andrebbero riconsiderati ad uno ad uno. È difficile sfuggire all'impressione, alimentata da ciò che viene detto e mostrato ogni giorno dai mass media, che le indicazioni di Guardini siano molto lontane dal quadro di vita che caratterizza la nostra società. La logica dell'attimo fuggente non si concilia per nulla con la fedeltà e il senso della durata. D'altra parte, come negare l'importanza, per la vita familiare e la convivenza sociale, del senso di responsabilità nei confronti degli altri, della fedeltà alla parola data, della capacità di distinguere ciò che è autentico da ciò che è falso, della volontà di creare una tradizione e non soltanto castelli di sabbia?
Sorge spontanea un'altra domanda: l'atmosfera che i giovani respirano li aiuta a diventare adulti o, tendenzialmente, glielo impedisce?
E una domanda ancora: come non ammettere che, soprattutto nel ministero di un prete, la mancanza di continuità nella linea di azione prelude alla delusione di chi, dopo anni e anni, deve constatare che nel campo non è germinato nulla?

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:03
 

Il tempo della vita adulta: è quello del vigore, ma conosce una sua crisi

Le osservazioni fatte fin qui sono, in certo senso, preliminari al tema specifico di questa nostra riflessione che vorrebbe prendere in considerazione il passaggio critico che tutti dobbiamo attraversare per diventare adulti. Il momento critico è paradossalmente segnato dalla percezione delle proprie possibilità e contemporaneamente dei propri limiti.
L'età adulta si identifica anzitutto con «la fase del pieno vigore, sostenuta dalla consapevolezza che sono autentiche soltanto la connessione dell'idea riconosciuta come vera con la realtà colta nel modo corretto, e la sintesi tra le idee assolutizzate e la consapevolezza della complessità, dell'instabilità e della miseria della condizione umana. Da un punto di vista fisiologico, tale fase rappresenta il periodo nel quale lo slancio della gioventù si attenua e tuttavia si fa, al contempo, più profondo e più risoluto. È pure il tempo nel quale le forze creative di natura intellettuale e vitale fluiscono nel modo più immediato. Questo è anche il periodo nel quale l'uomo è più preparato ad accollarsi oneri, a esigere molto dal proprio lavoro, a dedicare tempo ed energie nella propria opera senza risparmio». (15)
Pieno vigore è dunque avere delle idee, e nello stesso tempo essere consapevoli che la realtà da affrontare ogni giorno è complessa e che la condizione della vita umana non è mai troppo riconducibile a schemi precostituiti.
Pieno vigore è energia, anche in senso psico-fisico, che prende la forma di una calma risolutezza nel portare avanti i propri impegni. Di vigore si può parlare anche a proposito dell' energia intellettuale e del suo esprimersi con una facilità e ricchezza non sperimentata, nella stessa misura, durante l'età della crescita. Pieno vigore è non avere paura di prendersi degli impegni, e anzi desiderarli come luogo concreto che consente di esprimere quel che si è e si vorrebbe essere.
Pure questa indicazione, come le precedenti, solleva degli interrogativi: in una cultura di massa si favorisce il senso della complessità? Non si è invece esposti a indebite semplificazioni? Non vi è dunque da richiamarsi costantemente alla necessità di leggere attentamente avvenimenti e proposte e di usufruire di tempi e strumenti favorevoli a questo risultato? E ancora, vi sarebbe da riflettere sulla condizione di molti giovani che arrivano alla soglia dei trent'anni senza avere ancora un lavoro: come non tener conto che la disoccupazione, oltre a provocare altri guai, rende difficile che un giovane diventi adulto? E come non giudicare una fortuna, da parte di un giovane che diventa prete, il fatto di potersi immergere in vere responsabilità, per di più connesse con il cammino delle persone e non solo la produzione di cose?
La fase della vita adulta non è però solo quella in cui si tocca con mano di avere delle possibilità, ma anche quella nella quale emergono i propri limiti. Questa scoperta sembra incrinare un quadro che appariva solido e annuncia gradualmente che l'età adulta può conoscere momenti di crisi anche molto dura. Guardini illustra le varie cause di questa crisi. Eccone qualche esempio.
Le prime che egli elenca stanno a dire che si può andare in crisi con se stessi, per una nuova e più severa lettura che si fa di sé.

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:03
 

Scoperta dei propri limiti.

«Ma in seguito subentra la crisi che consiste nella sensazione sempre più netta dei limiti delle proprie energie. L'uomo constata per esperienza che ci può essere un eccesso di lavoro, di lotta, di responsabilità. Si accumula il carico di lavoro, s'intensificano sempre più le esigenze, e dietro ciascuna di queste ne affiorano continuamente di nuove, e non se ne vede la fine». (16)

Emergere di qualche stanchezza.

«Mentre prima era viva la coscienza delle proprie risorse, delle proprie energie, della propria iniziativa e della propria creatività, ora si fa strada il senso del limite. Compare l'esperienza della stanchezza: si sente che "sta diventando troppo", che si vorrebbe riposare, che si comincia a intaccare il capitale, e ciò si avverte specialmente nei momenti in cui il lavoro si accumula eccessivamente, le esigenze si ingigantiscono e le difficoltà appaiono insormontabili». (17)

Svanire di molte illusioni.

«Svaniscono le illusioni, e non solo quelle che costituiscono l'essenza stessa della gioventù, ma anche quelle che derivano dal fatto che in tale periodo la vita conserva
ancora il carattere della novità, di ciò che non è stato ancora sperimentato». (18) Le varie sfaccettature del fenomeno conducono Guardini a dare spazio alle cause delle crisi che vengono identificate negli altri, con l'esperienza di aprire gli occhi sulla realtà così come è, e non come noi ce la immaginavamo.

Dalla novità alla routine.

«Fino a questo momento la serietà, la risolutezza, la responsabilità di fondare, costruire, lottare, hanno diretto la coscienza. Ora tutto ciò perde la sua freschezza e la sua novità. A poco a poco si ha coscienza di come gli uomini si comportano, di come nascono i conflitti, di come un'opera ha inizio, si sviluppa e si compie, di come evolve un rapporto umano, di come una gioia nasce e si dilegua. L'esistenza assume le caratteristiche della realtà già nota. L'uomo sente di conoscerla a menadito. Questo, ovviamente, non è del tutto esatto. Tuttavia la routine si avverte dappertutto». (19)

Svelamento della miseria dell'esistenza.

«Si ricevono delusioni da parte di coloro nei quali si riponeva speranza. La generalità delle persone manifesta un'apatia e un'indifferenza, anzi una malevolenza di cui prima non ci si rendeva ancora conto. Si riesce a vedere dietro le quinte e si nota che le cose sono molto più miserabili di quanto si fosse pensato». (20)

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:03
 

La crisi e le alternative di fronte alle quali ci si trova

Le percezioni e le constatazioni fin qui elencate diventano, nella vita dell' adulto, la preparazione di un tempo di crisi che andrà inevitabilmente affrontata. L'avverbio "inevitabilmente" è giusto perché non è possibile ritenere buono un atteggiamento che potremmo dire "neutrale". Ci troviamo dinanzi a una difficile alternativa.
La prima è quella che ci conduce a essere scettici, o falsamente ottimisti o in fuga nell'attivismo: «Questo disincanto e disillusione, questa conoscenza della meschinità dell'esistenza prende il sopravvento, e l'uomo diventa scettico e sprezzante, e si riduce a fare meccanicamente il minimo necessario, proprio perché vi è costretto, dato che deve vivere; e forse si ostinerà in un ottimismo forzato, non sentito nel profondo di se stesso; accumulerà lavoro su lavoro; sarà affaccendato in mille cose...». (21) È evidente che una scelta di questo genere copre di nubi il presente e il futuro. Tutto quello che si farà o si dirà non avrà il colore smagliante dell' azzurro di una giornata di sole; avrà piuttosto quello di una grigia giornata d'autunno.
Ma si può fare un'altra scelta chiaramente positiva e coraggiosamente costruttiva che Guardini illustra sia per lo sguardo che ciascuno di noi può recuperare su se stesso, sia per l'atteggiamento da assumere nei confronti delle figure di umanità con le quali ci dobbiamo confrontare ogni giorno.
Quanto al primo aspetto sembra molto importante a Guardini scoprire l'ancoramento antropologico dell'impegno di ciascuno di noi: si tratta della «riaffermazione della vita che viene dalla serietà e dalla fedeltà e che genera un sentimento nuovo del valore dell'esistenza». (22)
Tutto questo avviene, a differenza di quanto poteva caratterizzare l'adolescenza o la giovinezza, mentre si è ormai acquisita «una lucida consapevolezza della realtà. Tale figura è caratterizzata dal fatto che l'uomo vede e accetta ciò che si chiama limite, cioè le insufficienze e le miserie dell'esistenza umana». (23)
Questo atteggiamento potrebbe essere equivocato e va dunque attentamente spiegato. La figura dell'uomo ora evocata non cambia, per sopravvivere, l'identità delle cose «non viene a definire l'ingiustizia, il male e la volgarità come aspetti del bene; neppure dichiara ricchezza ciò che è povertà, o verità ciò che è apparenza, o compito ciò che è vuoto. Tutto questo è percepito, ma è "accettato" nel senso che le cose stanno così e che bisogna farsene una ragione». (24)
Nel medesimo tempo cerca di intervenire sulla realtà, guidato dal senso di responsabilità e dalla consapevolezza della fragilità della condizione umana. «Egli non smette di lavorare, continuando anzi fedelmente le opere intraprese; ricomincia sempre daccapo i suoi tentativi di dare ordine e di aiutare, perché è conscio che le azioni umane, in apparenza vane, danno origine ad impulsi, che, dispiegandosi autonomamente, conservano l'esistenza umana, peraltro così profondamente minacciata». (25)
Guardini non si nasconde che «questo atteggiamento esige molta disciplina e molta rinuncia: un coraggio che non ha tanto il carattere dell'audacia, quanto quello della risolutezza». (26)
Credo che andrebbero meditati questi due termini: audacia e risolutezza. È più importante la seconda che non la prima, soprattutto perché la prima può far pensare a qualcosa di eccezionale o di irrazionale, mentre la seconda conduce a considerare ciò che è feriale e viene consapevolmente affrontato. Mi chiedo se non andrebbe maggiormente approfondita e coltivata la virtù della risolutezza, che richiama la virtù cardinale della fortezza

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:04
 

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La conclusione di Guardini è un elogio delle persone diventate "adulte". È su di loro infatti «che l'esistenza può fare affidamento. Proprio perché non hanno più l'illusione del grande successo e delle brillanti vittorie, essi sono capaci di compiere opere che hanno valore e durano nel tempo. Questa dovrebbe essere la natura dell'autentico statista, del medico, dell'educatore, in tutte le sue forme». (27)
E aggiunge, come nota finale, che «è lecito giudicare il livello umano, così come le prospettive culturali di un'epoca,
considerando sia il numero degli uomini di tale levatura che vivono in quel periodo, sia l'ampiezza dell'influsso da essi esercitato». (28)
Come non domandarsi che cosa sta avvenendo in quest'epoca e in questa società? E come non interrogarsi anche sulla nostra azione formativa nei confronti dei giovani: li stiamo conducendo verso l'età adulta? E come non interrogarci su noi stessi, dato che possiamo essere compresi nella categoria indicata da Guardini con il termine "educatori"?

La seconda chiamata. Un approccio teologico-spirituale

La riflessione di Voillaume ha come tema la «fedeltà al Signore ed alla sua chiamata, nelle grandi e nelle piccole cose, nel mezzo del cammino percorso nella vita religiosa, così come ai suoi inizi». (29) Il colloquio che viene svolto con i Piccoli Fratelli del Vangelo è direttamente ispirato dalla fede cristiana e da un' esperienza umana nella quale Dio, il Dio cristiano, si è affacciato e ne è diventato il centro reale con la "vocazione" a una vita totalmente dedicata a lui e al suo Regno in quella forma di vita che viene chiamata "vita consacrata". Vita consacrata significa camminare sui sentieri dei consigli evangelici di povertà, ubbidienza, castità; significa vera immersione nel mistero di Dio con l'esperienza della preghiera; significa disponibilità a vivere la carità fino a seguire Gesù sul Calvario. Per omogeneità (non totale) il testo di Voillaume può applicarsi anche alla vita sacerdotale, che presenta una fenomenologia in parte propria.

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Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:04
Mi sono chiesto da quale motivazione Voillaume è stato spinto a rivolgere ai suoi "fratelli" una comunicazione su questo preciso tema. Egli stesso dà la risposta: constata che, in una Fraternità nata circa venticinque anni prima, è avvertibile un rischio. Lo esprime così: «Il rischio della durata per noi, come per ogni impresa umana, è quello di una certa usura dell'ideale perseguito e dello sforzo fatto per realizzarlo, usura che ci porterebbe ad accontentarci della mediocrità nella santità». (30) Aggiunge un'osservazione che non ci deve sfuggire: «Con il passare del tempo e con la maturità dell'età sorge la tentazione di un compromesso tra le esigenze soprannaturali dell'amore del Signore e quelle della nostra personalità di uomini adulti». (31) Bisogna dunque chiarire a se stessi che la risposta piena a Dio non è semplicemente un sogno irrazionale della giovinezza, ma che può essere la determinazione più profonda di chi ormai sta percorrendo la tappa della vita pienamente adulta.Il rischio ora indicato non è dunque di poco conto. Quando emerge siamo chiamati a mettere a fuoco aspetti decisivi della nostra vita di fede e di vita consacrata: si tratta di «effettuare un'ultima volta la scelta tra Gesù e il mondo, tra l'eroicità della carità e la mediocrità, tra la croce e un certo benessere, tra la santità e una onesta fedeltà all'impegno religioso». (32) Queste alternative rilevantissime riguardano evidentemente anzitutto la responsabilità che ciascuno di noi ha nei confronti di se stesso, del dono ricevuto da Dio e della risposta che si intende rinnovare a lui. Ma Voillaume aggiunge un'osservazione che pure mi sembra preziosa: «Anche la comunità stessa della Fraternità arriva alla medesima maturità». (33) Pure per il presbiterio noi potremmo dire - oltre che per il singolo sacerdote, il cammino nel tempo può significare decadenza e può essere risposta coraggiosa e piena, e ciò lo si può cogliere da mille particolari, da uno stile diffuso, da giudizi positivi o negativi che si colgono tra la gente di fede, tra coloro che stanno vivendo grandi sofferenze, da chi è in ricerca di Dio.Mi impressiona il fatto che, a proposito di una Fraternità che noi siamo abituati a pensare come luogo di straordinaria dedizione a Dio, come appunto quella dei Piccoli Fratelli, Voillaume confessa di essere invece angosciato perché teme che non si affronti bene la prova inevitabile del tempo della maturità. Dice: «Di fronte alla grandezza dell'opera che Gesù vorrebbe realizzare attraverso i suoi Piccoli Fratelli sono forse io il solo ad aver avvertito questo pericolo di cedimento e questa angoscia nel constatare ciò che noi facciamo in concreto delle esigenze della sua chiamata a seguirlo attraverso il mondo?». (34)Questo interrogativo mi colpisce perché è dettato non tanto dal pessimismo quanto da uno sguardo penetrante ai doni di Dio e ai sentieri sui quali egli ci ha condotti. Perciò lo faccio mio e lo indico - senza pessimismo e conoscendo per via diretta molte meravigliose testimonianze di santità sacerdotali presenti nelle varie diocesi - alla nostra coscienza sacerdotale perché leggiamo con verità la nostra esperienza di cristiani e di preti e impariamo «a superare generosamente le tappe successive della crescita del Cristo in noi», (35) dato che questo cammino «è altrettanto importante quanto l'aver cominciato bene lasciando tutto per seguire Gesù al momento della prima chiamata. Questa perseveranza è essenziale perché non serve a niente cominciare se non si va fino in fondo. (...) "Quando si parte per fare qualcosa - diceva Charles de Foucauld -, non si deve tornare senza averla fatta". Il tutto non è di abbandonare la barca e le reti per seguire Gesù durante un certo tempo, ma piuttosto di andare sino al Calvario, di accoglierne la lezione ed il frutto, e di andare con l'aiuto dello Spirito Santo sino alla fine di una vita che deve terminare nella perfezione della divina Carità». (36)
Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:04
 

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All'osservazione fatta fin qui vorrei aggiungerne un'altra, prima di lasciare emergere le tappe spirituali che conducono alla maturità. Vorrei affrontare un problema che si pone accostando l'insegnamento di Guardini a quello di Voillaume. Il primo infatti punta sull'uomo e le sue risorse; il secondo, invece, punta su Dio e la sua grazia. Le due tesi sono compatibili o alternative?
Mi sembra che non vi sia opposizione, ma complementarità. Tutto quello che Guardini suggerisce, in termini di fenomenologia e di pedagogia, rimane valido e prezioso. E mentre si rivolge a ogni uomo, offre delle indicazioni che anche il cristiano deve attentamente considerare e praticare. Bisogna anzi dire che, non raramente, le difficoltà che il cristiano avverte come problemi spirituali, rimandano a una preliminare considerazione antropologica: se infatti la maturazione umana non avviene, non può che essere debole quello che noi chiamiamo lavoro spirituale perché il riferimento alla grazia non ci deve mai far ignorare la natura. E infatti, quando si prendono in esplicita considerazione i casi concreti di crisi nel mondo della vita consacrata, non raramente si deve prendere atto che l'itinerario formativo ha trascurato passaggi essenziali perché un giovane divenga adulto e possa quindi assumersi delle responsabilità di fronte a se stesso e agli altri.
Voillaume, per parte sua, affronta la questione della maturità spirituale in senso propriamente teologico; apre, per noi cristiani, una finestra su aspetti che Guardini non ignora, ma non rende espliciti. E lo fa anche per un motivo molto semplice e concreto: sta scrivendo a persone che
si sono consacrate a Dio e che dunque stanno vivendo un'esperienza non puramente naturale, ma soprannaturale, avendo come fondamento la grazia della vocazione e poi quella della consacrazione religiosa (se non addirittura quella del sacramento dell'Ordine). A tutte queste persone Voillaume offre la stimolazione di una riflessione spirituale molto onesta e acuta, dalla quale ognuno di noi può sentirsi profondamente interpretato.

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Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:05
  Consideriamo dunque, con la sua guida, le tappe della nostra sequela di Cristo. Voillaume la illustra scavando in un versetto del Vangelo: «È più importante di quanto non si pensi l'aver ben capito la risposta del Signore ai suoi apostoli che si meravigliavano della difficoltà della via dei consigli evangelici: ''Agli uomini è impossibile, ma a Dio no; infatti, tutto è possibile a Dio" (Mc 10, 27). Questa constatazione del Signore e questa promessa piena di speranza non si applicano solo nell'abbondanza delle ricchezze - a proposito delle quali Gesù diceva che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel Regno di Dio - ma a tutte le esigenze della vita religiosa». (37)
Quali tappe della vita spirituale sono dunque indicate da questa parola di Gesù? (38)

1. La prima tappa è quella nella quale «non abbiamo ancora fatto l'esperienza dell'impossibilità umana e naturale» (39) di vivere in accordo con il dono divino della vocazione che abbiamo ricevuto. Durante la giovinezza «vi è infatti come una corrispondenza tra la generosità propria al temperamento di questa età e la chiamata di Gesù a lasciare tutto per seguirlo». (40)
Pur avvertendo, anche acutamente in certi giorni, la fatica di fare onore al nostro "sì", siamo portati a pensare che, con un po' di coraggio, ce la potremo fare nell'oggi e anche per il futuro. Non ci sembra che presentino difficoltà insormontabili gli impegni della preghiera, del celibato sacerdotale e della castità, della comunione e della disponibilità costante alla gente che ci è stata affidata (ivi comprese le persone difficili o antipatiche o scostanti), della ricerca di strade nuove per l'annuncio del Vangelo, dell'accettazione dei "no" deludenti che giungono magari da parte di coloro per i quali ci si affatica di più, del saper accettare l'inverno e attendere le imprevedibili stagioni della fioritura della grazia, dell'obbedienza al Papa e al Vescovo, della collaborazione fraterna nel presbiterio, di una significativa scelta di povertà, della responsabilità pastorale, della dedicazione diocesana con la prontezza del missionario ad andare là dove c'è bisogno del ministero di un prete, accettando imprevisti e disagi.2. Le cose prendono un altro aspetto dal giorno in cui si avverte, e la cosa ci potrebbe anche spaventare, che il clima

interiore del nostro vivere sta insensibilmente, e a volte anche rapidamente, cambiando.
Si può avvertire, per esempio, che la carica di entusiasmo umano che ci aveva accompagnato per anni, lascia il posto a una specie di insensibilità per la vita spirituale, alla percezione che il Signore sia via via più lontano, alla tentazione di pregare di meno e in modo un po' meccanico. E ancora, può emergere, anche con prepotenza, il bisogno di soddisfazioni sensibili e di gratificazioni affettive; possono anche presentarsi serie difficoltà a proposito del celibato e della castità.
Possono apparire anche tentazioni nuove, come quella di volerci sciogliere un poco dai grossi impegni educativi e pastorali che ci sono stati affidati, per avere un po' di respiro e, più profondamente, per vivere una vita propria, almeno in parte indipendente; o quella di limitare l'apertura della mente e del cuore nel rapporto e nella collaborazione con il proprio Vescovo; quella di ritenere che la fraternità sacerdotale è pura poesia, se non ipocrisia, e che è dunque meglio non parlarne più; quella che ci spinge a una facile irritazione per ogni contrarietà e a trattare male la gente; quella per cui incominciamo a diventare un po' gelosi delle nostre idee, pronti persino a lasciar perdere anche valori importanti o a indebolire rapporti delicati, pur di rimanere arroccati a noi stessi; quella che ci rende sempre più interessati alle comodità e ai soldi, col rischio di offrire anche una cattiva immagine della Chiesa e di dare ai poveri l'impressione che non ci interessano per nulla; o quella per cui ci domandiamo se
la nostra vita non poteva prendere qualche svolta più interessante.

3. È evidente che, quando tentazioni o orientamenti di questo genere prendono piede nella nostra vita, ci troviamo in una situazione delicata. Ma conviene dire che, di per sé, sentire delle tentazioni non significa che, da parte nostra, vi siano già delle infedeltà gravi, né che il Signore ci abbia abbandonato.
Impressioni e tentazioni come quelle ricordate possono accompagnarsi anche a una vita sacerdotale fedele alle esigenze della vocazione ricevuta. Ciò avviene, dice Voillaume,
«con il tempo e con la grazia di Dio». (41) Affermazione sorprendente perché, se capiamo facilmente che il tempo ci possa condurre a questa tappa, ci pare strano che la causa sia anche la grazia di Dio.
Naturalmente non possiamo certo addormentarci perché le tentazioni vanno vinte, anche se tocchiamo con mano, a nostre spese, che la risposta fedele alle esigenze della nostra vocazione e della nostra missione apostolica non è possibile alle nostre sole forze. Gesù ce l'aveva detto, ma solo ora lo comprendiamo.
La domanda vera, a questo punto, diventa dunque: che fare in una simile situazione? Vi è una via d'uscita? E quale?
«Se non abbordiamo francamente questa tappa (...) rischiamo sia di cadere in un larvato scoraggiamento, sia di
illuderci abbassando il nostro ideale ad un livello accettabile, raggiungibile, in una parola, possibile. Ora ciò si verifica assai spesso - nota Voillaume - in questa tappa cruciale della vita religiosa». (42)

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:05
Lo scoraggiamento oppure l'accettazione semicosciente della mediocrità vengono adottati quando siamo noi stessi a decidere fin dove è ragionevole arrivare. Ma in tal modo siamo già, almeno in qualche misura, fuori dalla vocazione e ci stiamo inventando qualche surrogato umano che sembra darci una ragione di vita, cercando di "installarci" e poi di comporre il tutto un po' contraddittoriamente, con il nostro più vero cammino. Talvolta, e sarebbe molto grave, potremmo poi riprendere la nostra vita sacerdotale sotto apparenze intatte; qualche altra volta potremmo coltivare una certa osservanza onesta dei nostri impegni, il che è certamente positivo, e però senza più coinvolgere le profondità del nostro cuore.
«Ciò che è ancora più sconcertante - aggiunge Voillaume, mostrando di essere un grande conoscitore della
vita spirituale - è il fatto che più saremo stati generosi e fedeli alla grazia, e più questo cammino ci apparirà impossibile!». (43) Ricordando le esemplificazioni elencate poco sopra, a proposito delle esigenze intrinseche alla nostra vocazione e al nostro ministero, aggiunge che «il veder aprirsi davanti a sé un orizzonte sempre più infinito è una grazia inestimabile, poiché è la prova che Gesù è presente con la sua luce». (44) Ma «in questo cammino, divenuto ora così austero, come non essere scoraggiati dall'immensità della distanza che ci separa dalla meta? (...) Tutto infatti avviene come se avessimo indietreggiato, e ci pare di aver fallito. Inoltre abbiamo scoperto i difetti, le imperfezioni dei religiosi e dei sacerdoti che ci circondano e sentiamo chiaramente che molti di loro sono a quello stesso punto. Che serve tentare l'impossibile? (...) E tuttavia, se sapessimo ciò che Gesù aspetta da noi in questo momento critico (...), se sapessimo ciò ch'Egli attende da una tappa che non è un regresso come noi immaginiamo ma una messa in atto delle condizioni per una nuova partenza, per la scoperta di una vita secondo lo Spinto e la fede, con la convinzione, che dobbiamo, acquisire, che una tale vita è allora possibile con Gesù!». (45)
Questa è la vera e unica via d'uscita. Come si vede, non
conduce verso il basso, ma verso l'alto. Ed è attesa e grazia del Signore sulla nostra vita. «Dovremo smettere di guardarci e saper riscoprire Gesù, che non ha mai cessato di essere presente, ma la cui presenza è ora molto diversa da quella di prima». (46)
In questa terza tappa potremmo avere, a volte, la percezione che tutta la nostra vita sia «sospesa ad un filo che non riusciamo a vedere abbastanza per poterne constatare la
solidità. Come un filo di nylon esso ci sembra talmente sottile e trasparente da farci perdere il senso di sicurezza (. . .). Come l'alpinista preso da vertigine, non abbiamo più il diritto di guardare verso il basso, di seguire con lo sguardo la parete a cui siamo aggrappati, sotto pena di staccarcene e di non poter più avanzare: siamo condannati a guardare solo in alto, oppure a non arrivare alla meta. Per rendere possibile questa terza tappa ciò che ci resta da scoprire e da vivere è il credere che Gesù ha detto la verità quando ha affermato che "questo è possibile a Dio"». (47)
Certo, nella sua bellezza, questa tappa chiede una spogliazione interiore, domanda che si lascino cadere infondate ambizioni, sospinge a essere umili, suggerisce di implorare da Gesù che i sentimenti del suo cuore diventino i nostri, porta ad accettare di non essere nulla per noi stessi e tutto per il Signore e per gli altri, apre a sperare contro ogni speranza, conduce a riscoprire una preghiera perseverante, a ripartire in una nuova prospettiva, verso un nuovo modo di essere preti, di vivere il celibato, di camminare nella comunione e nell'obbedienza, di praticare la carità.
Quando ciò avviene, «l'adolescenza della nostra vita spi
rituale sta finendo», (48) si sta entrando nell'età adulta e nella piena maturità della nostra vita umana e spirituale.
Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:06
 

Osservazioni conclusive

Due approcci complementari

Come ho già accennato, gli approcci di Guardini e di Voillaume alla vita adulta e alle sue crisi possono essere, per il cristiano, complementari. Leggendo Guardini si è aiutati a prendere coscienza che, nella generalità dei casi, le crisi rimandano alla considerazione del cammino di maturazione umana che il cristiano (anche il cristiano) deve sentire proprio, compresi quei cristiani che diventano religiosi o sacerdoti. Meditando Voillaume si è aiutati a capire che un'esistenza "spiegata" solo dalla fede e da una vocazione dovuta alla grazia non può essere debitamente e positivamente affrontata se non al di dentro del mistero di grazia che la fonda e l'ha fatta sbocciare.

Unicità della "seconda chiamata"

Si può forse aggiungere che, se ogni età della vita ha una sua ricchezza e corre i suoi rischi, altrettanto si può dire del cammino spirituale. E però, la "seconda chiamata" va intesa bene. Se si lega, in buona parte, a un'età e a una concreta esperienza, va in essa riconosciuta una certa sua "unicità" .
Questa consiste nell' avvenimento spirituale per il quale,
nella vita adulta, ci si apre a Dio, alla sua presenza, alla sua grazia come al fatto decisivo per portare avanti l'avvenimento spirituale intrapreso e, fino a un certo giorno, letto (almeno inconsciamente) come possibile alle sole nostre forze umane.
Con questa ultima osservazione non vorrei dare l'impressione di semplificare troppo le cose. In realtà, noi non diciamo mai - a parole - che il cammino vocazionale e ministeriale è possibile alla semplice buona volontà. E, nella nostra condotta, vi sono sempre dei segni di riconoscimento del valore decisivo della grazia di Dio. Ma tutto questo, quando è debole, un bel giorno manifesta tutta la sua insufficienza, e scoppia la crisi. Segni di questa debolezza sono, in particolare, la scarsità o la superficialità della preghiera, o anche una "gestione" dell'affettività e della sessualità che sembra dire: «So bene io come regolarmi; e, se a volte mi lascio andare e arrischio, nel rapporto con qualche persona, di violare la scelta del celibato per il Regno di Dio, so bene quando fermarmi». L'esemplificazione potrebbe continuare.

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:06
 

Rilevanza della risposta alla "prima chiamata"

Vi è ancora da aggiungere che la "seconda chiamata" (quella tipica della vita adulta e di chi ha già vissuto anni di esperienza sacerdotale o di vita consacrata) è tanto più affrontabile quanto più la "prima chiamata", quella degli anni giovanili, è stata vissuta realmente come un avvenimento molto coinvolgente, come invito di Dio che comprende veramente il sacrificio di noi stessi per metterci a disposizione del ministero ecclesiale. In particolare, comprende anche il sacrificio del cuore con la rinuncia all'amore del matrimonio per vivere l'amore al di dentro della consacrazione totale e di una totale disponibilità alla missione.
È veramente molto importante la risposta alla prima chiamata. Essa deve essere coraggiosa, anche se non priva
di tormenti, di giorni nei quali tutto viene messo in discussione da qualcosa che, dentro di noi, si oppone alla proposta di Dio e spinge verso un'altra direzione il nostro futuro. Già la prima chiamata può essere, negli anni dell'adolescenza e della giovinezza, il tempo nel quale sperimentare con una certa drammaticità che il passo della risposta alla vocazione è possibile solo alla potenza della grazia di Dio e che le difficoltà - apparentemente insuperabili richiedono di strappare a Dio la forza, e poi il dono di una pace interiore, che consente di passare oltre il crinale della montagna e di entrare in una condizione spirituale nuova, fatta di luce, di gioia, di intima risoluzione.

L'importanza dello stile nella "quotidianità"

E ancora, la crisi dell' età adulta, oltre a essere una cosa diversa a seconda di quel che è stata la crisi della prima chiamata, è pure caratterizzata dal modo secondo il quale si affronta il quotidiano negli anni che conducono al momento della prova e di una svolta spirituale. Lo stile quotidiano degli anni di vigilia può maturare la capacità di far propria, lentamente, l'indicazione del Vangelo su ciò che è possibile a Dio e non a noi; oppure può creare delle condizioni sfavorevoli, preambolo di un dramma che potrebbe non essere a lieto fine.

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:06
 

Conoscere la crisi non vuoi dire colpa 

L'osservazione precedente ha bisogno di essere completata per evitare equivoci di interpretazione. Come ci ha ricordato Voillaume, il completamento consiste nel dire che non si deve pensare alla crisi della seconda chiamata, come del resto a quella della prima, come se fossero semplicemente attribuibili al fatto che si è vissuto male o si sta trascinando stancamente il proprio cammino. Certo, può essere così. Ma va onestamente constatato che tale crisi può investire i migliori tra i seminaristi o tra i preti giovani. Si tratta, per tutti, di fare i conti con la propria umanità e di raggiungere una sintesi tra esigenze che paiono escludersi vicendevolmente.
Anche per i migliori arrivano i giorni nei quali tutto potrebbe "saltare". Quelli sono momenti molto importanti: se la libertà si determina nell' adesione rinnovata alla chiamata del Signore, si compie un passo verso la maturità. Qualcosa deve morire, e ciò costa molto. Ma avverrà come al seme che, caduto in terra, muore e, proprio attraverso questo passaggio, dà molto frutto.

Non trascurare l'antropologia

L'insegnamento di Voillaume non è alternativo a quello di Guardini. In realtà, lo presuppone e lo comprende, anche se non viene esplicitamente illustrato.
In ogni caso non si può sottovalutare quanto Guardini propone e che, con un termine comprensibile (e un po' generico), possiamo chiamare "formazione umana", sia prima di diventare preti, sia mentre ci si trova a svolgere il ministero sacerdotale.
È forse il caso di domandarci apertamente quanto tutta questa premura di formazione umana compagina la pedagogia del nostro cammino di preti, quando e come venga
considerata e approfondita, quali scelte concrete (e magari urgenti) potrebbe esprimerla.

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:07
 

La preziosità dell'aiuto reciproco

C'è ancora almeno un punto che deve essere accennato.
Seguendo Guardini si potrebbe dire che, nel processo che consente di diventare adulti, gli altri possono dare una mano: intendo dire quegli altri adulti con i quali ci si può confrontare e insieme ai quali approfondire sia i valori che si svelano soprattutto nella vita adulta, sia i motivi che possono mettere in crisi negli anni della vita adulta, sia le scelte che stanno a dire una "risolutezza" con cui si intende affrontare il futuro.
Qualcosa di analogo può essere detto a proposito della traccia del cammino verso la maturità spirituale suggerita da Voillaume. In questo caso l'aiuto vicendevole tra sacerdoti consiste, per esempio, in una comunicazione nella fede circa la propria esperienza spirituale e, ancor più, nella testimonianza di un ritrovamento più profondo e reale di Dio; consiste in una condivisione sincera di ciò che maggiormente conta nella propria vita e di ciò che, in fondo, spiega perché nella giovinezza si è diventati preti o religiosi. Senza dimenticare che tante persone, anche tra i laici, possono costituire uno strumento di Dio per la maturazione del sacerdote e o per la sua fedeltà nel tempo. (49)

Mi sembra necessario accennare anche al fatto che l'incontro con l'altro non è automaticamente e sempre positivo e costruttivo: dipende da come viene inteso e da come viene impostato. Male inteso, potrebbe anche essere negativo. Occorre dunque vigilanza e anche decidere che l'incontro con l'altro (o gli altri) sia ispirato al desiderio di "promuovere" la persona: la propria e quella degli altri.
Mi sembra utile infine rimarcare un significato racchiuso nel fatto che la riflessione di Guardini e di Voillaume (nelle pagine considerate, non quindi in tutto il loro insegnamento) metta tanto in evidenza la persona di ciascuno di noi, la sua responsabilità, la sua vocazione. In questo modo non si nega certo l'apporto comunitario al cammino personale, ma si esclude che il cammino personale possa esaurirsi o essere totalmente riversato in ciò che noi chiamiamo "esperienza comunitaria".

Melin
00martedì 3 febbraio 2009 22:07

***

Tutto quanto ho detto fin qui diventa per me, a questo punto, motivo per esprimere a tutti i giovani sacerdoti un augurio: quello di diventare, tra i venticinque e i quarantacinque anni (alzerei un poco le età rispetto a quelle indicate da Guardini), veramente adulti, di sperimentare un vigoroso respiro spirituale e di conoscere la maturità spirituale.

 

[7] Renato Corti (1936), sacerdote dell'arcidiocesi di Milano, è stato ordinato vescovo nel 1981; dal 1990 è vescovo della diocesi di Novara; ha ricoperto e ricopre diversi incarichi nell' ambito della Conferenza Episcopale Italiana. Il testo riportato è la trascrizione della relazione tenuta a Gazzada (VA) il 13 novembre 1997 ai sacerdoti dell'arcidiocesi di Milano, ordinati negli anni: 1985, 1986 e 1987.
[8] Renato Corti, lettera pastorale A immagine di Cristo, Novara, 22 settembre 1996.
[9] Renato Corti, op. cit., pp. 100, 104-106.
[10] Romano Guardini, Le età della vita, Vita e Pensiero, Milano, 1986.
[11] René Voillaume, Sulle strade del mondo, Editrice Morcelliana, Brescia, 1960.
[12] Romano Guardini, op. cit.
[13] Romano Guardini, op. cit.
[14] Romano Guardini, op. cit.
[15] Romano Guardini, op. cit.
[16] Romano Guardini, op. cit.
[17] Romano Guardini, op. cit.
[18] Romano Guardini, op. cit.
[19] Romano Guardini, op. cit.
[20] Romano Guardini, op. cit.
[21] Romano Guardini, op. cit.
[22] Romano Guardini, op. cit.
[23] Romano Guardini, op. cit.
[24] Romano Guardini, op. cit.
[25] Romano Guardini, op. cit.
[26] Romano Guardini, op. cit.
[27] Romano Guardini, op. cit.
[28] Romano Guardini, op. cit.
[29] René Voillaume, op. cit., p. 3.
[30] René Voillaume, op. cit., p. 3. 
[31] René Voillaume, op. cit., p. 3.
[32] René Voillaume, op. cit., p. 3. 
[33] René Voillaume, op. cit., p. 3.
[34] René Voillaume, op. cit., pp. 3 e 4. 
[35] René Voillaume, op. cit., p. 4.
[36] René Voillaume, op. cit., p. 4.
[37] René Voillaume, op. cit., p. 4.
[38] Cfr. Renato Corti, op. cit., pp. 108-111.
[39] René Voillaume, op. cit., p. 5. 
[40] René Voillaume, op. cit., p. 5.
[41] René Voillaume, op. cit., p. 7.
[42] René Voillaume, op. cit., p. 9. 
[43] René Voillaume, op. cit., p. 9.
[44] René Voillaume, op. cit., p. 9.
[45] René Voillaume, op. cit., pp. 9 e 10. 
[46] René Voillaume, op. cit., p. 11.
[47] René Voillaume, op. cit., p. 11. 
[48] René Voillaume, op. cit., p. 10.
[49] Cfr. Renato Corti, op. cit., p. 101.

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