L'Avvocato di NPS e Ministero della Salute: contro legge l'obbligo di test Hiv ed esclusione sieropositivi da Forze Armate

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Adminsierone
00giovedì 10 marzo 2011 21:33
10 MAR - “La legge smentisce con chiarezza l’indirizzo adottato dal ministero della Difesa nei bandi di concorso, che prevedendo l’obbligatoria esecuzione per tutti i candidati del test di sieropositività come condizione preliminare all’accesso al concorso, con esclusione di tutti coloro che risultino positivi, integrano una palese violazione di norme di legge vigenti nell’ordinamento”. Ad affermarlo è l’avvocato Matteo Schwarz, Ufficio legale Network Persone Sieropositive, che in relazione alle risposte fornite dal ministro Ignazio La Russa alle interrogazioni parlamentari sull’esclusione dei concorrenti sieropositivi dal concorso per allievi di prima classe dell’Accademia navale, ha fornito le seguenti spiegazioni:

“Con questa nota si desidera svolgere alcune osservazioni su quanto dichiarato dal Ministro della Difesa, On. Ignazio La Russa nella risposta alla interrogazioni delle parlamentari riguardante i bandi di concorso per l’arruolamento di personale militare, bandi che contengono la richiesta di esecuzione obbligatoria del test di sieropositività, prevedendo l’esclusione di diritto di tutti i candidati che ad esso risultino positivi.
Ciò che risalta maggiormente, nelle considerazioni svolte dal Ministro, è l’affermazione secondo la quale il diritto vigente sancirebbe la sostanziale incompatibilità tra lo stato di sieropositività e la carriera militare in generale. Detta affermazione risulta tanto più allarmante alla luce delle successive dichiarazioni del Ministro in cui Questi afferma la propria intenzione di procedere alla sistematica esclusione di tutti i nuovi candidati all’arruolamento mediante lo screening generalizzato degli stessi.
Al contempo, la scelta di “tollerare” la presenza di personale militare HIV+ ove già arruolato, adibendolo a funzioni che si ritengono compatibili con tale stato, costituisce una violazione del principio costituzionale di uguaglianza (art.3 Cost.) nella misura in cui tale scelta esclude a priori tutti coloro che, pur trovandosi nelle medesime condizioni di salute ed aspirando ad una carriera militare, non risultano tuttavia ancora arruolati. Se si ritiene infatti, come giustamente affermato dal Ministro, che per il personale già arruolato la condizione di sieropositività non debba costituire motivo di esclusione dall’impiego e tantomeno di ostacolo alla progressione di carriera, non vi è ragione di escludere l’applicazione dei medesimi criteri e delle medesime cautele anche per coloro che desiderano accedere alla carriera militare.
Gli orientamenti adottati dal Ministro paiono dunque assolutamente arbitrari e non sorretti da adeguate argomentazioni in diritto. A riguardo, ci è d’obbligo svolgere nuovamente le considerazioni già fatte a suo tempo circa la reale portata della legge 135/90, così come modificata dalla più volte citata sentenza della Corte Costituzionale 218/94, il cui dispositivo e le cui motivazioni sono dal Ministro poste alla base degli indirizzi che hanno ispirato l’emissione dei contestati bandi di concorso.
La pronuncia della Corte ha una portata circoscritta, limitandosi a stabilire che possono sussistere circostanze concrete, da valutarsi caso per caso, nelle quali talune attività lavorative possono, in relazione alle condizioni fisiche di chi le svolge, presentare una maggiore percentuale di rischio per la salute di terzi. Ricorrendo tali presupposti, la Corte ha ritenuto di apportare una parziale e limitata deroga ai divieti di cui all’art.5, commi 3 e 5 della legge 135/90, consentendo dunque di procedere ad accertamenti sanitari volti ad escludere la presenza di malattie infettive capaci di mettere in pericolo la salute dei destinatari delle attività considerate. Le categorie rispetto alle quali la Corte ha ritenuto di dover consentire tale deroga ai divieti posti dalla legge sono quelle rappresentate dalle forze di polizia e dal personale sanitario. Specifica tuttavia la Corte che, in tali limitate ipotesi in cui l’indagine sullo stato sierologico è consentita, “…non si tratta quindi di controlli sanitari indiscriminati, di massa o per categorie di soggetti, ma di accertamenti circoscritti sia nella determinazione di coloro che vi possono essere tenuti…… sia nel contenuto degli esami. Questi devono essere funzionalmente collegati alla verifica dell’idoneità all’espletamento di quelle specifiche attività e riservati a chi ad esse è, o intende essere, addetto”.
Risulta dunque evidente che la Corte, con il proprio intervento, non ha inteso considerare tutte le attività delle categorie in questione come potenzialmente rischiose ma solo talune, da considerarsi caso per caso e non collettivamente, come nei bandi di concorso contestati. Specifica poi la Corte come tali accertamenti “… trovano un limite non valicabile nel rispetto della dignità della persona che vi può essere sottoposta. In quest’ambito il rispetto della persona esige l’efficace protezione della riservatezza, necessaria anche per contrastare il rischio di emarginazione nella vita lavorativa e di relazione”. Quest’ultimo punto risulta dunque cruciale ai sensi di una corretta valutazione della legittimità delle disposizioni del bando contestato, poiché laddove sia consentito procedere ad una esclusione preventiva tout court, di tutti i candidati sieropositivi dalle generiche mansioni di assistente sanitario si sta, in sostanza, affermando che chiunque si trovi in tali condizioni è già di per sé inidoneo all’esercizio della professione sanitaria. Tale conclusione è particolarmente allarmante sia per la sua assoluta arbitrarietà, sia soprattutto perché apre degli scenari a dir poco inquietanti quando solo si rifletta sulle devastanti conseguenze che l’applicazione generalizzata di un simile principio può produrre sul mondo del lavoro.
Ma vi è di più. La lettura data dal Ministero della Difesa delle leggi vigenti pone un problema di coerenza logica del sistema normativo che riteniamo indispensabile affrontare e risolvere. La legge 5 giugno 1990 n.135 prevede, all’art.7, che il Ministro della Sanità emani un decreto recante norme di protezione dal contagio professionale da Hiv nelle strutture sanitarie ed assistenziali pubbliche e private, cosa che il Ministero ha puntualmente fatto con l’adozione del Decreto Ministeriale 28 settembre 1990. Il Decreto, partendo dalla premessa che: “…non è possibile identificare con certezza tutti i pazienti con infezione da Hiv, e che pertanto, in aggiunta alle misure che si riferiscono all’assistenza ai soggetti per i quali è già nota l’infezione, è necessario definire precauzioni finalizzate alla protezione dal contagio con riferimento alle attività che vengono prestate, nelle strutture sanitarie ed assistenziali pubbliche e private, nei confronti della generalità delle persone assistite…”, detta norme precauzionali, generiche e di specie, per tutti gli operatori sanitari. Lo scopo di dette norme è proprio quello di scongiurare il possibile rischio di contagio sia del paziente da parte dell’operatore sanitario, sia di quest’ultimo da parte del paziente.
Si è dunque ritenuto che, laddove l’applicazione delle cautele sia scrupolosa e costante, il rischio di trasmissione, nelle due direzioni qui sopra indicate, venga ad essere ridotto al minimo. Con ciò il Ministero ha voluto affermare il principio, largamente condiviso dalla comunità scientifica, che la professionalità nell’espletamento delle funzioni di operatore sanitario costituisce una garanzia sufficiente a tutela della salute collettiva, risiedendo la pericolosità non già nella professione in sé, ma semmai nei comportamenti dei singoli che deviano dall’osservanza delle norme precauzionali. Orbene, fatta tale premessa, non può non risultare con evidenza l’intrinseca contraddittorietà di un sistema che da una parte prescrive l’osservanza di regole di protezione dal contagio professionale a tutela della salute di pazienti ed operatori sanitari, e dall’altra sembra, nella pratica, ritenere insufficienti o inadeguate tali norme, arrivando a giustificare accertamenti di massa volti ad escludere un’ampia generalità di soggetti, gli stessi a cui sono indirizzate le norme precauzionali, dal generico esercizio di una professione che si esplica in modi e contesti molto differenti.
È dunque chiaro come, alla luce di quanto qui sopra esposto, sia oggi quanto mai urgente un intervento in sede legislativa che riconduca ad una coerente unità un sistema normativo in cui la citata sentenza della Corte Costituzionale, pur nella legittimità e ragionevolezza delle sue statuizioni, ha finito per aprire un varco ad interpretazioni tanto arbitrarie quanto illegittime, vanificando di fatto l’efficacia e la puntualità delle disposizioni di tutela contenute nella legge 135/90 e nelle norme di attuazione della stessa.
Per quanto riguarda, infine, il riferimento effettuato dal Ministro al Decreto Legge 276/1990, si osserva che quest’ultimo, convertito in legge 30 novembre 1990 n.359, ha sì, da un lato, affermato il principio per cui nelle forze di polizia possono essere disposti, sempre col consenso dell’interessato, accertamenti volti a verificare l’assenza di infezione da HIV per i servizi che comportano rischi per la sicurezza, ma lo stesso articolo 15 della legge di conversione ha altrettanto chiaramente statuito che nessun provvedimento può essere adottato nei confronti di chi si sia rifiutato di sottoporsi a tali accertamenti o nei confronti di chi avendoli accettati, sia risultato positivo al test.
Ancora una volta, dunque, la legge smentisce con chiarezza l’indirizzo adottato dal Ministero della Difesa nei bandi di concorso in questione, che prevedendo l’obbligatoria esecuzione per tutti i candidati del test di sieropositività come condizione preliminare all’accesso al concorso, con esclusione di tutti coloro che risultino positivi, integrano una palese violazione di norme di legge vigenti nell’ordinamento”.

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