Into the wild

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zinz@n
00venerdì 1 febbraio 2008 02:31
(meglio averlo visto prima di leggere qui sotto... dai poi ne discutiamo...)
Un ragazzo di 22 anni. Famiglia benestante. Una laurea in Politica Internazionale appena conseguita. Un luminoso futuro agli albori di un decennio (i 90's) travagliato e controverso che di lì a poco avrebbe spazzato via la plasticosa superficie che aveva caratterizzato il decennio appena trascorso. Questo ragazzo, senza avvertire nessuno, si mette uno zaino in spalla e decide di andarsene per mettersi alla ricerca di se stesso e della Verità. Forse riuscirà a trovare entrambe, forse no. La storia è quella vera di Christopher Mc Candless. Il destino scritto nel nome. Come un novello Gesù guidato dalla sfrontatezza di un Jack Keruac magicamente uscito illeso dagli anni '80. Il resto è quella che epicamente viene chiamata "una grande avventura".
Solo apparentemente "Into the Wild" può sembrare un film di facile comprensione e di facile suggestione: un on the road solo in superficie (per via del viaggio scandito dagli incontri che il protagonista compie durante il tragitto). Un racconto fatto di frammenti (di poesie, citazioni, canzoni, lettere, messaggi) narrati dallo stesso protagonista e dalla voce della sorella. Un film-denuncia sulla povertà come valore etico e sulle corruzioni continue che infliggono il sistema in cui siamo nati. Un poema sull'eterno confronto tra l'uomo e la natura filtrato con gli occhi di Terrence Malick. Il quarto film di Sean Penn è tutto questo e non solo. Ed è qui che risiede tutta la sua maestosa grandezza. Troppo esplicito nei discorsi politici messi in bocca al giovane Chris, troppo visivamente abusato nel raccontare (con inquadrature sgranate e "nascoste") le radici "familiari" del suo disagio esistenziale, troppo repentino nel trasformare questa affannosa sete di verità in un'inesorabile sconfitta. Ma è proprio in questo "troppo" (troppo lungo, troppo pesante, troppo "indie") che Sean Penn colpisce il bersaglio. Perchè il suo è un film l i b e r o. Alla faccia della spocchiosità da Sundance o della fredda eleganza di certo cinema d'autore col patentino da festival. "Into the wild" invece corre libero e selvaggio come il suo protagonista. Senza coscienza di come sarà ripreso il momento successivo, di ciò che verrà detto, di cosa verrà visto. Un'inquadratura iniziale che potrebbe far già intuire tutto: una distesa innevata vista dall'alto e l'azione che si svolge in basso a sinistra, come se quell'azione (l'arrivo di un automobile) che è la cosa più cinematograficamente rilevante della sequenza, fosse minuscola nell'immensità della natura. Poi ancora il titolo che si allarga e si allunga fino a occupare tutto lo spazio. Tutta questa sequenza è come se non avesse baricentro, come se Penn non stesse cercando di farci "entrare" nella storia (compito che spetta alle sequenze di apertura di un film). La storia, a quel punto, con l'arrivo in Alaska, è già successa. 5 capitoli che hanno per nome le 5 tappe della vita di un uomo: nascita, adolescenza, età adulta, famiglia, e l'ultima, che non è la morte, bensì la "conquista della saggezza". Anche in questo dettaglio c'è il succo del film, il pensiero di un cineasta-attore tra i più importanti oggi. All'inizio, quando finalmente vediamo il giovane Chris capellone e barbuto sembra proprio di vedere lui, Sean Penn. La ricerca di Chris in fondo è anche la sua (basta dare un'occhiata alla sua vita: da marito di Madonna negli anni '80 al fenomenale attore-autore di oggi, dagli eccessi di droga e alcoool alle scorribande in Iraq e nella New Orleans post-Katrina ecc). 10 anni ci ha messo Sean Penn per convincere la famiglia di Chris che solo lui poteva portare sullo schermo questa storia. L'attesa ci ha portato agli occhi un poema che mescola mito americano e coscienza politica, asprezze da New Hollywood anni '70 (tutti quegli zoom, i ralenty, le canzoni come flusso narrativo) e raffinatezze moderne (il silenzioso William Hurt, il padre di Chris, che in 20 secondi ridefinisce tutto il suo personaggio semplicemente uscendo di casa e sedendosi in strada; la narrazione destrutturata da un montaggio selvaggio; le velocizzazioni e i flash del finale che porta alla mente l'ultima sequenza de "La 25ma ora"). Sopra a tutto un protagonista (Emile Hirsch - "La ragazza della porta accanto" e "Alpha dog" alla sua prima straordinaria prova d'attore) che entra in profonda simbiosi sia col personaggio che col regista, che da par suo gli regala dei momenti di complicità estremi (un folle fugace sguardo in macchina) e raffinati (quel perlustrare il perimetro dell'obiettivo con gli occhi in più di un'occasione). Piccola menzione per Gli attori di contorno : insolito ruolo per Vince Vaughn, ma il suo contadino travolge per intensità e passione; Catherine Keener siamo così abituati a vederla in ruoli da fredda spalla in commedie più o meno bizzarre che la sua hippie disincantata e tratteggiata qui con immensa dolcezza fa venire le lacrime (e forse è il personaggio più importante tra quelli incontrati da Chris: mamma anche lei di un figlio che non vede da anni...); dolcissima è anche Kristen Stewart, che rivedremo sicuramente presto; infine il vecchio Hal Holbrook i cui occhi "liquidi" lasciano intuire il rammarico di un'esistenza persa da qualche parte... Le musiche e le parole di Eddie Vedder a tratti accompagnano il protagonista, in altri frangenti ne divengono il pensiero nascosto, in altri ne anticipano la malinconica solitudine che lo attende. Cos'altro dire? "Into the wild" si candida ad essere uno dei film più straordinariamente belli dell'anno e uno dei massimi esempi di cinema libero, vero. Un cinema che ha l'urgenza di dire qualcosa e la sfrontatezza di dirtelo in faccia. Come ai tempi di "Easy rider" e di "Cinque pezzi facili".
Un pugno nello stomaco (l'alce, l'orso...), la più dolce delle carezze ("Vuoi andare a mangiare Jen? Perchè se vuoi io rimango qui con te tutta la notte"), il più sincero degli sguardi (quell'autoscatto...). Negli occhi di Chris troviamo la ricerca continua degli affetti. Affetti che gli sono stati negati, e che forse non può più recuperare. Fateci caso, Chris scappa ogni volta che sente il rischio di rimanere legato a una persona. E allora, se gli affetti veri sono una verità e se quegli affetti ti sono stati negati non puoi far altro che andare alla ricerca di una Verità più grande, di una tua felicità. Ma la felicità è reale solo se condivisa. E allora la sconfitta esistenziale diviene inevitabile. E questo, forse, è solo un dettaglio di questo immenso, libero film.
Spettacolo.

voto: 9.5


P.s. si diceva "Easy rider" e "Cinque pezzi facili". Non a caso tra i ringraziamenti nei titoli di coda spicca il nome di Jack Nicholson, attore in quei film e nei precedenti film di Penn... Quando si dice il caso...
P.p.s. da vedere in accoppiata con uno dei film-documentari più belli e devastanti degli ultimi anni, di cui condivide lo spirito e la storia. Si chiama "Grizzly man", è di Werner Herzog ed è edito in dvd dalla Fandango
zinz@n
00venerdì 1 febbraio 2008 02:32
Madonna...
vabbè dai era tanto che non scrivevo qualcosa...
Andrè, ma perchè non rimetti il font che c'era prima che è più stretto (ed è più bello) ?
andrea997
00venerdì 1 febbraio 2008 14:00
a sapere qual'era =)
ora vedo...
cmq bentornato!
l'hai ricevuta alla fine stacacchio di mail? ho la posta in palla =(
andrea997
00martedì 25 marzo 2008 16:08
beh andrè, hai già detto tutto tu, e quindi non aggiungo altro se non che la "pecca" più grande di questo film è che purtroppo è limitato a doverlo guardare senza poterlo vivere.
è di grande trasporto e di grande illuminazione.
a prescindere dalla lentezza, durata, scelta scenica -almeno per me che non ne capisco niente- lascia trasparire l'IDEA, la voglia di trovare qualcosa e di condividerlo con gli altri e con se stessi pur conoscendolo già.
di arrivare ad una meta, sapendo di non doverla raggiungere senza aver provato una sofferenza nel tragitto...arrivando pronti.
bello bello bello.
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