In questo topic non si finiscono le frasi che.

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Bruttoformo
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:07
Ciao ragazzi, spero che questo topic. Fatene buon uso, ma attenti a. Non vorrei mai che Tommy o Checco.
Ennio Bunder Junior
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:09
E' davvero una.
Ciro Cumulo
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:11
Mi dispiace Bruttoformo ma non posso mettere post stupidi perché.
Dunque avevo promesso che dopo il millesimo post, io.
Non può andare a finire tutto a tarallucci e.
Ennio Bunder Junior
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:14
Oh, Cyrus, stasera ci troviamo alle.
Ci vediamo direttamente al.
Forse era meglio accordarci in un altro.
Tommychaos
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:18
Questo thread è una gran.
Bruttoformo
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:21
Se solo il nostro caro (tazmania) scrivesse ancora sul forum, penso che questo topic sarebbe.
jonathangrass
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:21
Ho scoperto che tommy va a.
Bruttoformo
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:25
Dici? E preferisce le nigeriane, le ucraine o le?
elisa.adragna
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:27
sicuramente le!!
Ennio Bunder Junior
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:28
Berta, non te l'ho mai detto, ma io ti amo. Fanculo stronzo.
elisa.adragna
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:30
ragazzi, ho scoperto una cosa sensazionale, davvero, non ci srederà mai nessuno, ma io l'ho visto, ero là ed è!

a me sembrava una battuta...una delle più belle dell'ultimo...lo so ho avuto un....

....dai...non così...
Bruttoformo
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:33
Preferisco.
elisa.adragna
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:35
Re:
Ennio Bunder Junior, 21/01/2009 18.28:

Berta, non te l'ho mai detto, ma io ti amo. Fanculo stronzo.




l'ho notato solo ora...ma è !!!!!!!!!!!!!!!!!

Bruttoformo
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:43
Re: Re:
elisa.adragna, 21/01/2009 18.35:


l'ho notato solo ora...ma è !!!!!!!!!!!!!!!!!

Non mi ha.


Ennio Bunder Junior
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:46
Oh, volevo solo dirvi che Dante Alighieri (Firenze, tra il 14 maggio ed il 13 giugno 1265 – Ravenna, 13 settembre 1321) è stato un poeta, scrittore e politico italiano. Considerato il "padre" della lingua italiana, è l'autore della celebre Commedia.

Il suo nome, secondo la testimonianza di Jacopo Alighieri, era un ipocorismo di "Durante";[1] nei documenti, era seguito dal patronimico "Alagherii" o il gentilizio "de Alagheriis", mentre la variante "Alighieri" si afferma con l'avvento di Boccaccio, che fu, tra l'altro, uno dei maggiori commentatori trecenteschi dell'opera di Dante e copiò di suo pugno diversi manoscritti della Commedia e delle Rime dantesche.
Indice
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* 1 Biografia
o 1.1 Gli studi
o 1.2 Lo "Stilnovo" e Beatrice
o 1.3 Filosofia e politica
* 2 Opere
o 2.1 Vita Nova
o 2.2 Rime
o 2.3 La Commedia
o 2.4 Convivio
+ 2.4.1 Lo stile del Convivio
+ 2.4.2 L’epistola a Cangrande
o 2.5 De vulgari eloquentia
o 2.6 De Monarchia
* 3 Dante nella cultura moderna
* 4 Curiosità
* 5 Note
* 6 Bibliografia
* 7 Voci correlate
* 8 Altri progetti
* 9 Collegamenti esterni

Biografia [modifica]

La data di nascita di Dante è sconosciuta, anche se viene in genere indicata attorno al 1265, da alcune allusioni autobiografiche fatte nella Vita Nova, nell'Inferno (che comincia Nel mezzo del cammin di nostra vita: poiché in altre sue opere, seguendo una tradizione ben nota, la metà della vita dell'uomo viene considerata di 35 anni, e svolgendosi il viaggio immaginario nel 1300, si risalirebbe al 1265). Alcuni versi del Paradiso ci dicono poi che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 21 maggio e il 21 giugno (secondo alcuni il 29 maggio 1265).
Il più antico ritratto documentato di Dante Alighieri conosciuto, Palazzo dell'Arte dei Giudici e Notai, Firenze
« L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom' io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve dà colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. »

(Paradiso, Canto XXII, 151-154)

Nacque comunque nell'importante famiglia fiorentina degli Alighieri, legata alla corrente dei Guelfi, un'alleanza politica coinvolta in una complessa opposizione ai Ghibellini; gli stessi Guelfi si divisero poi in "Guelfi bianchi" e "Guelfi neri".

Dante credeva che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani (Inferno Canto XV, 76), ma il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei (Paradiso Canto XV, 135), vissuto intorno al 1100.

Suo padre, Aleghiero o Alaghiero di Bellincione, era un Guelfo, ma non patì vendette dopo che i Ghibellini vinsero la battaglia di Montaperti. Questo perché la sua famiglia non godeva di una particolare popolarità da considerarsi una minaccia.
Dante in un affresco di Luca Signorelli

La madre di Dante era Donna Bella degli Abati; "Bella" corrisponde a Gabriella, Abati era il nome di un'importante famiglia. Ella morì quando Dante aveva 5 o 6 anni ed Alighiero presto si risposò con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. (È incerto se realmente l'abbia sposata, poiché i vedovi avevano limitazioni sociali in materia). La donna mise al mondo due bambini: il fratello di Dante, Francesco e sua sorella Tana (Gaetana).

Quando Dante aveva 12 anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di 20 anni. Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune ed era una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti ad un notaio. La famiglia a cui essa apparteneva (i Donati) era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale, che in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, i guelfi neri. Politicamente Dante apparteneva alla fazione dei guelfi bianchi, che pur trovandosi nella lotta per le investiture schierati col Papa, erano contrari ad un eccessivo aumento del potere temporale papale; Dante in particolare nel De Monarchia auspicava l'indipendenza del potere imperiale dal Papa, pur riconoscendogli una superiore autorità morale.

Dante da Gemma ebbe tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia. Antonia divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice sembra nel Convento delle Olivetane a Ravenna. Si dice fosse figlio suo anche un certo Iohannes filius Dantis Aligherii de Florentia, che compare come testimone in un atto del 21 ottobre del 1308 a Lucca.

A Firenze ebbe una carriera politica di discreta importanza: dopo l'entrata in vigore dei regolamenti di Giano della Bella (1295), che escludevano l'antica nobiltà dalla politica permettendo ai ceti intermedi di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte, egli si immatricolò all'Arte dei Medici e Speziali.

L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, perché i verbali delle assemblee sono andati perduti, comunque attraverso altre fonti si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296; fu nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l'elezione dei Priori, cioè dei massimi rappresentanti di ciascuna Arte; dal maggio al settembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta come ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano. Lo stesso anno fu priore dal 15 giugno al 15 agosto.

Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico papa Bonifacio VIII. Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato come paciere, almeno nominale (in realtà spedito dal papa per ridimensionare la potenza della parte dei guelfi bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui neri), Dante cercò, con successo, di ostacolare il suo operato ed era in carica durante il difficile momento quando il cardinale mosse un esercito da Lucca contro Firenze, venendo però bloccato ai confini dello stato fiorentino.
Dante in un ritratto di Gustave Doré

Quale membro del Consiglio dei Cento, fu tra i promotori del discusso provvedimento che spedì ai due estremi della Toscana, i capi e le "teste calde" delle due fazioni. Questo non solo fu una disposizione inutile (presto essi tornarono alla spicciolata), ma fece rischiare un colpo di stato da parte dei Neri che stavano per approfittarsi della situazione quando i Bianchi erano senza leader, ritardando oltre misura l'inizio del loro esilio. Inoltre il provvedimento attirò sui responsabili, compreso Dante, sia l'odio della parte nemica, che la diffidenza degli "amici", e da lui stesso fu definito come l'inizio della sua rovina.

Con l'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come teorico "paciere" (ma conquistatore di fatto), la Repubblica spedì a Roma un'ambasceria con Dante stesso, accompagnato da Maso Minerbetti e il Corazza da Signa.

Dante si trovava quindi a Roma, trattenuto oltre misura proprio da Bonifacio, quando Carlo di Valois, al primo pretesto, mise a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano. Il 9 novembre 1301, Cante Gabrielli da Gubbio fu nominato Podestà di Firenze, dando inizio ad una politica di sistematica persecuzione degli elementi ostili al Papa, che si risolse nell'uccisione o nell'esilio di tutti i guelfi Bianchi. Con due condanne successive, quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302, il poeta fu condannato da Cante Gabrielli, in contumacia, al rogo ed alla distruzione delle case. Dante fu raggiunto dal provvedimento di esilio a Roma e non rivide mai più Firenze.

Durante l'esilio, Dante fu ospite di varie corti e famiglie dell'Italia centro-settentrionale, fra cui i ghibellini Ordelaffi, signori di Forlì, dove probabilmente si trovava quando Enrico VII entrò in Italia. Qui è possibile che abbia conosciuto le opere del famoso pensatore ebreo Hillel ben Samuel da Verona, che era da poco morto, dopo aver trascorso a Forlì gli ultimi anni della sua vita.

In particolare, falliti i tentati colpi di mano del 1302, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò, insieme a Scarpetta degli Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì, un nuovo tentativo di rientrare in Firenze. L'impresa, però, fu sfortunata: il podestà di Firenze, un altro forlivese (nemico degli Ordelaffi), Fulcieri da Calboli, riuscì ad avere la meglio nella battaglia di Castel Puliciano.

Dopo ciò, Dante, deluso, anche se tornò a Forlì ancora nel 1310-1311 e nel 1316 (data incerta, quest'ultima), decise di fare "parte per se stesso" e di non contare più sull'appoggio dei ghibellini per rientrare nella sua città.

Morì il 14 settembre del 1321 a Ravenna, città nella quale aveva trovato rifugio presso la corte del signore Guido Novello da Polenta quando, passando dalle paludose Valli di Comacchio prese la malaria, di ritorno da un'ambasceria a Venezia, allora in attrito con Ravenna ed in alleanza con Forlì: gli storici pensano che sia stato scelto Dante per quella missione, in quanto amico degli Ordelaffi, signori di Forlì, e quindi in grado di trovare meglio una via per comporre le divergenze. I funerali, in pompa magna, vennero officiati nella chiesa di San Francesco a Ravenna. Le sue ossa riposano oggi nella cappella fatta appositamente edificare, sotto un piccolo altare che porta l'epigrafe in versi latini dettati da Bernardo da Canaccio nel 1366 :
(LA)
« IVRA MONARCHIE SVPEROS PHLAEGETONTA LACVSQVE LUSTRANDO CECINI FATA VOLVERVNT QVOVSQVE SED QVIA PARS CESSIT MELIORIBVS HOSPITA CASTRIS ACTOREMQVE SVVM PETIIT FELICIOR ASTRIS HIC CLAVDOR DANTES PATRIS EXTORRIS ABORIS QVIA GENVIT PARVI FLORENTIA MATRIS AMORIS. »
(IT)
« I diritti della monarchia, i cieli e le acque di Flegetonte (gli inferi), visitando cantai finché volsero i miei destini mortali. Poiché però la mia anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sto racchiuso, (io) Dante, esule dalla patria terra, cui generò Firenze, madre di poco amore. »
(Epigrafe)
La tomba di Dante a Ravenna

Gli studi [modifica]

Poco si sa circa gli studi di Dante. La cultura dantesca, formatasi in un contesto educativo totalmente diverso da quello attuale, è ricostruibile, in assenza di dati documentari affidabili, innanzitutto a partire dalle opere. Si ottiene così l'immagine di un attento studioso di teologia, filosofia, fisica, astronomia, grammatica e retorica: in breve, di tutte le discipline del Trivium e del Quadrivium previste dalle scuole e dalle Universitates medievali. È tuttavia probabile che abbia frequentato gli studia religiosi e laici di cui si ha notizia a Firenze. Alcuni ritengono che Dante abbia studiato presso l'Università di Bologna, ma non vi sono prove. In un verso della Divina Commedia (Par., X, 133-138) Che, leggendo nel vico de li Strami, silogizzò invidïosi veri, Dante allude a Rue Fouarre, dove si svolgevano le lezioni della Sorbona; questo ha fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente congetturale, che Dante possa essersi realmente recato a Parigi. Ovviamente, la cultura ufficiale delle Università era essenzialmente in lingua latina. Di conseguenza, la cultura letteraria di Dante è basata principalmente sugli autori latini; in particolare Virgilio, che ebbe un'influenza determinante sulle opere dantesche. Dante, tuttavia, conobbe certamente un buon numero di poeti volgari, sia italiani che provenzale. Nelle sue opere è evidente il legame con la poesia toscana di Guittone d'Arezzo e di Bonagiunta Orbicciani (cfr. Purgatorio, Canto XXIV, 52-62)di Guido Guinizelli e della Scuola poetica siciliana, una corrente letteraria attiva alla corte di Federico II che si esprimeva in volgare, la quale proprio allora stava cominciando ad essere conosciuta in Toscana e che aveva in Giacomo da Lentini (il famoso "Notaro" di cui alla citazione precedente) il suo maggior esponente. La conoscenza del provenzale da parte di Dante è ricostruibile sia dalle citazioni contenute nel De vulgari eloquentia, sia dai versi provenzali inserti nel Purgatorio (XXVI, 140-147).

Alla scelta di Dante di utilizzare la lingua volgare per scrivere alcune sue opere, possono avere influito notevolmente le opere di Andrea da Grosseto, letterato del Duecento che utilizzava la lingua volgare da lui parlata, il dialetto grossetano dell'epoca, per la traduzione di opere prosaiche in latino, come i trattati di Albertano da Brescia.

Grazie ai suoi interessi, Dante scoprì i menestrelli ed i poeti provenzali e la cultura latina, professando una devozione particolare per Virgilio:
« Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore »

(Inferno I, 85-87)

Dovrebbe essere sottolineato che durante il Medioevo le rovine dell'Impero romano decaddero definitivamente, lasciando dozzine di piccoli stati, così la Sicilia era tanto lontana (culturalmente e politicamente) dalla Toscana quanto lo era la Provenza: le regioni non condividevano una lingua, una cultura, o collegamenti facili. È possibile supporre che Dante fosse per il suo periodo un intellettuale aggiornato, acuto e con interessi, come si direbbe oggi, internazionali.

Lo "Stilnovo" e Beatrice [modifica]
Dolce Stil Novo
Per categoria
Precursori
Guido Guinizelli
Gli Stilnovisti
Guido Cavalcanti - Dante Alighieri
Lapo Gianni - Gianni Alfani
Dino Frescobaldi - Cino da Pistoia
Portale Letteratura
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A 18 anni egli incontrò Lapo Gianni, Cino da Pistoia e subito dopo Brunetto Latini; insieme essi divennero i capiscuola del Dolce Stil Novo. Brunetto Latini successivamente fu ricordato nella Divina Commedia (Inferno, XV, 82), per quello che aveva insegnato a Dante: non come un semplice maestro, ma uno dei più grandi luminari che segnò profondamente la sua carriera letteraria e filosofica: maestro di retorica, abile compilatore di trattati enciclopedici, dovette iniziarlo alla letteratura cortese provenzale e francese, scrivendo il Tresor proprio in Francia. Brunetto mette in evidenza il rapporto tra gli studi di grammatica (latino) e di retorica e la filosofia amorosa cortese, gettando le basi degli interessi speculativi del futuro Dante.

Altri studi sono segnalati, o sono dedotti dalla Vita Nuova o dalla Divina Commedia, per ciò che riguarda la pittura e la musica. Quando aveva 9 anni incontrò Beatrice Portinari, la figlia di Folco Portinari. Si è detto che Dante la vide soltanto una volta e mai le parlò (ma altre versioni sono da ritenersi ugualmente valide). Più interessante è però, al di là degli scarni dati biografici che ci sono rimasti, è la Beatrice divinizzata, e dunque sublimata della Vita Nuova: l'angelo che opera la conversione spirituale di Dante sulla terra, lo studio psicologico che compie il poeta sul proprio innamoramento. L'introspezione psicologica, l'autobiografismo, ignoto al Medioevo, guardano già al Petrarca e più lontano ancora, al Rinascimento. Il nome Beatrice, assumerà soprattutto nella Divina Commedia la sua reale importanza, in quanto, etimologicamente parlando significa "Portatrice di Beatitudine", tanto che solo questa figura potrà condurre Dante lungo il percorso del Paradiso.

È difficile riuscire a capire in cosa sia consistito questo amore, ma qualcosa di estremamente importante stava accadendo per la cultura italiana: è nel nome di questo amore che Dante ha dato la sua impronta al Dolce stil novo e condurrà i poeti e gli scrittori a scoprire i temi dell'amore, in un modo mai così enfatizzato prima.

L'amore per Beatrice (come in modo differente Francesco Petrarca mostrerà per la sua Laura) sarà il punto di partenza per la formulazione della sua concezione del dolce stil novo, nuova concezione dell'amor cortese sublimata dalla sua intensa sensibilità religiosa (il culto mariano con le laudi arrivato a Dante attraverso le correnti pauperistiche del Duecento, dai Francescani in poi), per poi approdare alla filosofia dopo la morte dell'amata, che segna simbolicamente il distacco dalla tematica amorosa e l'ascesa del Sommo Poeta verso la sapienza, luce abbacinante e impenetrabile che avvolge Dio nel Paradiso della Divina Commedia.

Filosofia e politica [modifica]
Moneta da due euro italiana

Quando Beatrice morì nel 1290, Dante cercò di trovare un rifugio nella letteratura latina. Dal Convivio sappiamo che aveva letto il De consolatione philosophiae di Boezio e il De amicitia di Cicerone. Egli allora si dedicò agli studi filosofici presso le scuole religiose come quella Domenicana in Santa Maria Novella. Prese parte alle dispute che i due principali ordini religiosi (Francescani e Domenicani) pubblicamente o indirettamente tennero in Firenze, gli uni spiegando la dottrina dei mistici e di San Bonvenutura, gli altri presentando le teorie di San Tommaso d'Aquino. La sua "eccessiva" passione per la filosofia gli sarebbe stata successivamente rimproverata da Beatrice nel Purgatorio.

Dante fu anche soldato, e l'11 giugno 1289 combatté nella battaglia di Campaldino che vide contrapposti i cavalieri fiorentini ad Arezzo; successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d'Angiò (figlio di Carlo II d'Angiò) quando questi si trovava a Firenze. Dante stesso cita Carlo Martello d'Angiò nella Divina Commedia (Paradiso, Ct. VIII, 31 e Ct. IX, 1)

Opere [modifica]

Vita Nova [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Vita Nuova.

La Vita nuova, che può essere considerata il racconto di una vicenda autobiografica resa come exemplum, narra la vita spirituale di Dante ed è strutturata in quarantadue capitoli in prosa collegati in una storia omogenea che spiega una serie di poesie composte in tempi differenti.

L'opera è consacrata all'amore per Beatrice e fu composta probabilmente tra il 1293 e il 1295. La composizione delle rime si può far risalire, secondo la cronologia che Dante fornisce, tra il 1283 come risulta dal sonetto A ciascun alma presa e dopo il giugno del 1291, anniversario della morte di Beatrice. Per stabilire con una certa sicurezza la data della composizione del libro nel suo insieme organico, ultimamente la critica è propensa ad avvalersi del 1300, data non superabile, che corrisponde alla morte del destinatario Guido Cavalcanti: "Questo mio primo amico a cui io ciò scrivo" (Vita Nuova, XXX).

Quest'opera ha avuto una particolare fortuna negli Stati Uniti, dove fu tradotta dal grande filosofo e letterato Ralph Waldo Emerson.

Rime [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Le Rime.

Le rime sono una raccolta messa insieme e ordinata da moderni editori,che riunisce il complesso della produzione lirica dantesca dalle prove giovanili a quelle dell'età matura. Le rime giovanili comprendono componimenti che riflettono le varie tendenze della lirica cortese del tempo,quella guittoniana,quella guinizzelliana e quella cavalcantiana. Tra questo gruppo di testi Dante aveva scelto quelli che dovevano entrare a far parte della Vita nuova

La Commedia [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Divina Commedia.

La Comedìa — titolo originale dell'opera — è il capolavoro del poeta fiorentino ed è considerata la più importante testimonianza letteraria della civiltà medievale nonché una delle più grandi opere della letteratura universale. Viene definita "comedia" in quanto scritto in stile "comico" ovvero non aulico. Un'altra interpretazione si fonda sul fatto che il poema inizia da situazioni piene di dolore e paura e finisce con la pace e la sublimità della visione di Dio. Dante iniziò a lavorare all'opera intorno al 1300 (anno giubilare, tanto che egli data al 7 aprile di quell'anno il suo viaggio nella selva oscura) e la continuò nel resto della vita, pubblicando le cantiche man mano che le completava. Si hanno notizie di copie manoscritte dell'Inferno intorno al 1313, mentre il Purgatorio fu pubblicato nei due anni successivi. Il Paradiso, iniziato forse nel 1316, fu pubblicato man mano che si completavano i canti negli ultimi anni di vita del poeta.

Il poema è diviso in tre libri o cantiche, ciascuno formato da 33 canti (tranne l'Inferno che ne presenta 34, poiché il primo funge da proemio all'intero poema); ogni canto si compone di terzine di endecasillabi. La Commedia tende a una rappresentazione ampia e drammatica della realtà, ben lontana dalla pedante poesia didattica medievale, ma intrisa di una spiritualità cristiana nuova che si mescola alla passione politica e agli interessi letterari del poeta. Si narra di un viaggio immaginario nei tre regni dell'aldilà, nei quali si proiettano il bene e il male del mondo terreno, compiuto dal poeta stesso, quale "simbolo" dell'umanità, sotto la guida della ragione e della fede. Il percorso tortuoso e arduo di Dante, il cui linguaggio diventa sempre più complesso quanto più egli sale verso il Paradiso, rappresenta, sotto metafora, anche il difficile processo di maturazione linguistica del volgare illustre, che si emancipa dai confini angusti entro i quali lo aveva rinchiuso il pregiudizio scolastico medievale. Dante è accompagnato sia nell'inferno che nel purgatorio dal suo maestro Virgilio; in paradiso da Beatrice e da San Bernardo.

Convivio [modifica]
Statua di Dante, sita agli Uffizi
Per approfondire, vedi la voce Convivio.

Convivio (1304-1307), dal latino Convivium, ovvero banchetto di sapienza. È la prima delle opere di Dante scritta subito dopo il forzato allontanamento di Firenze. È un prosimetro che si presenta come un'enciclopedia dei saperi più importanti per coloro che vogliano dedicarsi all'attività pubblica e civile senza aver compiuto gli studi superiori. È scritta in volgare per essere appunto capita da chi non ha avuto la possibilità in precedenza di conoscere la scienza. L'incipit del Convivio fa capire chiaramente che l'autore è un grande conoscitore e seguace di Aristotele; questi, infatti, viene citato con il termine "Lo Filosofo". L'incipit in questo caso spiega a chi è rivolta quest'opera e a chi non è rivolta. Coloro che non hanno potuto conoscere la scienza sono stati impediti da due tipi di ragioni:

* Interne: Malformazioni fisiche, vizi e malizia
* Esterne: Cura familiare, civile e difetto di luogo di nascita

Dante ritiene beati i pochi che possono partecipare alla mensa della scienza, dove si mangia il "pane degli angeli", e miseri coloro che si accontentano di mangiare il cibo delle pecore. Dante non siede alla mensa, ma è fuggito da coloro che mangiano il pastume e ha raccolto quello che cade dalla mensa degli eletti per crearne un altro banchetto. A questo convivio saranno invitati solo coloro che sono stati impediti da ragioni esterne, perché gli altri non avrebbero la capacità di capire. L'autore allestirà un banchetto e servirà una vivanda (i componimenti in versi) accompagnata dal pane (la prosa) necessario per assimilarne l'essenza. Saranno invitati a sedersi solo coloro che erano stati impediti da cura familiare e civile, mentre i pigri sarebbero stati ai loro piedi per raccogliere le briciole.

Lo stile del Convivio [modifica]

Dante nel Convivio pronuncia la prima difesa del volgare, ritenuto superiore al latino quanto a bellezza e nobiltà. La prosa del Convivio raggiunge una solidità sintattica, un equilibrio compositivo ed una chiarezza espositiva non inferiori a quelle tramandate dal latino. Dunque Dante fonda la prosa filosofica in volgare in cui frequenti sono gli usi di metafore e similitudini, attraverso cui l'autore conferisce concretezza ed evidenza alle proprie rappresentazioni, anche a quelle più squisitamente teoriche. I tre temi fondamentali del Convivio dunque sono la difesa del volgare, l'esaltazione della filosofia, la discussione intorno all'essenza della nobiltà, cui si riconnette la proposta della monarchia universale rappresentata dall'impero e dalla tradizione romana.

L’epistola a Cangrande [modifica]

Strettamente collegata al Convivio è anche l’epistola a Cangrande della Scala, che dovrebbe risalire agli anni tra il 1315 e 1317. L’epistola contiene la dedica del Paradiso al signore di Verona, che era stato molto generoso col poeta. Quest'opera è ancora più importante poiché contiene le indicazioni per leggere il poema: il soggetto (la condizione delle anime dopo la morte), la pluralità dei sensi, il titolo (che deriva dal fatto che inizia in modo aspro e triste e si conclude con il lieto fine), la finalità dell’opera che non è solo speculativa, ma pratica poiché mira a rimuovere i viventi dallo stato di miseria per portarli alla felicità.

De vulgari eloquentia [modifica]
Monumento a Dante in Piazza Santa Croce a Firenze (1865)
Per approfondire, vedi la voce De vulgari eloquentia.

Contemporaneo al Convivio il De vulgari eloquentia è un trattato in lingua latina scritto da Dante Alighieri tra il 1303 e il 1304. Composto da un primo libro intero e da 14 capitoli del secondo libro, era inizialmente destinato a comprendere quattro libri.

Pur affrontando il tema della lingua volgare, fu scritto in latino perché gli interlocutori a cui Dante si rivolse appartenevano all'élite culturale del tempo, che forte della tradizione della letteratura classica riteneva il latino senz'altro superiore a qualsiasi volgare, ma anche per conferire alla lingua volgare una maggior dignità: il latino era infatti usato soltanto per scrivere di legge, religione e trattati internazionali, cioè argomenti della massima importanza. Dante si lanciò in una appassionata difesa del volgare, dicendo che meritava di diventare una lingua illustre in grado di competere se non uguagliare la lingua di Virgilio, sostenendo però che per diventare una lingua in grado di trattare argomenti importanti il volgare doveva essere:

* illustre (in quanto luminoso e quindi capace di dare lustro a chi ne fa uso nello scritto),
* cardinale (tale che intorno ad esso ruotassero come una porta intorno al cardine, i volgari regionali),
* aulico (reso nobile dal suo uso dotto, tale da esser parlata nella reggia),
* curiale (come linguaggio delle corti italiane, e da essere adoperata negli atti politici di un sovrano).

Con tali termini intendeva l'assoluta dignità del volgare anche come lingua letteraria, non più come lingua esclusivamente popolare. Dopo avere ammesso la grande dignità del siciliano illustre, la prima lingua letteraria assunta a dignità nazionale, passa in rassegna tutti gli altri volgari italiani trovando nell'uno alcune, nell'altro altre delle qualità che sommate dovrebbero costituire la lingua italiana. Dante vede nell'italiano la panthera redolens dei bestiari medievali, animale che attrae la sua preda (qui lo scrittore) con il suo irresistibile profumo, che Dante sente in tutti i volgari regionali, e in particolare nel siciliano, senza però riuscire mai a vederla materializzarsi: manca in effetti ancora una lingua italiana utilizzabile in tutti i suoi registri, da tutti gli strati della popolazione italiana. Per farla riapparire era dunque necessario attingere alle opere dei migliori scrittori italiani, ma molti di quei libri attendevano ancora di essere scritti, e in questo senso il trattato di Dante è un appello ai dotti lettori alla cui penna chiedeva disperatamente aiuto.

De Monarchia [modifica]
Per approfondire, vedi la voce De Monarchia.
Dante, ritratto di Andrea del Castagno
Cenotafio di Dante nella Basilica di Santa Croce a Firenze (scultura di Pietro Lombardo)

L'opera è divisa in tre libri. Nel primo Dante afferma la necessità di un Impero universale e autonomo, e riconosce questo impero come unica forma di governo capace di garantire unità e pace. Nel secondo riconosce la legittimità del diritto dall'impero da parte dei Romani. Nel terzo libro Dante dimostra che l'autorità del monarca è una volontà divina, e quindi dipende da Dio. Non è soggetta all'autorità del pontefice.
La posizione dantesca è per più aspetti originale. Essa è in contrasto tanto con i sostenitori della concezione teocratica,quanto con i sostenitori dell'autonomia politica e religiosa dei sovrani nazionali rispetto all'imperatore e al papa.

Dante nella cultura moderna [modifica]

La vita e l'opera di Dante hanno avuto un influenza determinante sulla costruzione dell'identità italiana e in generale sulla cultura moderna. Numerosissimi gli scrittori e gli intellettuali che hanno utilizzato e continuano ad utilizzare la Commedia e le altre opere dantesche come fonte di ispirazione tematica, linguistica, espressiva. Di seguito si cerca di offrire un panorama sintetico, organizzato per periodi e per autori, della presenza di Dante nella cultura moderna italiana e mondiale.

Letteratura italiana del Novecento:

* Nell'opera poetica di Eugenio Montale è frequente la ripresa di termini e formule del Dante lirico e del Dante della Commedia.

* Il poeta Mario Luzi ha utilizzato più volte temi danteschi e in particolare 'purgatoriali', ad esempio nella lirica La notte lava la mente.

* In Se questo è un uomo di Primo Levi si trovano numerosi riferimenti alla discesa dantesca agli Inferi; uno dei capitoli è inoltre strutturato come una ripresa del viaggio di Ulisse nel canto XXVI dell'Inferno.

* Il poeta Thomas Stearns Eliot trae ispirazione da Dante e al v. 63 del poema La terra desolata traduce letteralmente i versi 56-57 del canto terzo dell'Inferno: «i' non averei creduto / che morte tanta n'avesse disfatta». Il passo descrive una mattina londinese nella quale la folla delle persone che vanno al lavoro è associata all'immagine dantesca degli ignavi.

Curiosità [modifica]

* Nel 2005 è stato ultimato il restauro di un affresco fiorentino nella sede dell'Arte dei Giudici e dei Notai, vicino al Bargello. Risalente al 1375, è il più antico ritratto di Dante conosciuto e smentisce l'affermazione del Boccaccio circa i tratti aquilini. La lunetta restaurata riporta quattro ritratti: Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca, e Zanobi da Strada, oltre a Dante. L'immagine del poeta è quella di un uomo non bello, scuro di carnagione e dal naso lungo, ma non aquilino.
* L'attore statunitense Johnny Depp ha annunciato che intende dirigere un film dedicato a Dante e alla Divina Commedia, titolato The Head of Dante. [2].
* La Divina Commedia è tornata popolarmente alla ribalta, grazie alle pubbliche letture di Roberto Benigni, da sempre grande estimatore di Dante. Per queste letture, è stata proposta la candidatura di Benigni al Premio Nobel per la Letteratura.
* Una casa di produzione americana ha realizzato un videogioco in cui Dante scende nell'Inferno della Divina Commedia e deve affrontare i diavoli e superare i vari gironi. [3]

Note [modifica]

1. ^ «Durante, olim vocatus Dante»
2. ^ spettacolo.alice.it/gallery/johnny_depp_dante.html
3. ^ www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=38790&sez=LEALTRE


Bibliografia [modifica]

La Bibliografia sulla vita e sull'opera di Dante è sterminata; normalmente, il primo strumento di ricerca è l'Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1970-1978. Si possono utilizzare anche le risorse informatiche, in primo luogo la bibliografia consultabile sul sito della Società Dantesca Italiana. La bibliografia qui riportata è quindi espressamente parziale e non scientifica.

* Eugène Aroux, Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste, révélations d'un catholique sur le Moyen-Âge (1854)
* Erich Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 1963 (prima edizione Berlin-Leipzig 1929).
* Michele Barbi, Problemi di critica dantesca. Prima serie (1893-1918), Sansoni, Firenze, 1934).
* Vittore Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella «Vita Nuova», in «Studi in onore di Italo Siciliano», I, Firenze, Olschki, 1966, pp. 123-143.
* Alessandro Bausani, Il tema del viaggio celeste come legame fra Dante e la cultura orientale, in «Dantismo russo e cornice europea», II (1989), pp. 241-251.
* Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, (p. 15 su Inf. XIV, 30; p. 16 su Par. III, 123; pp. 81-83 su Purg. XVII, 13-18, 25).
* Gabriele Carletti, Dante Politico - La felicità terrena secondo il pontefice, il filosofo, l'imperatore. Pescara, 2006.
* Gianfranco Contini, Un' idea di Dante: saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1970 (1), 2001.
* Etienne-Jean Delécluze, Dante et la poésie amoureuse, 1854
* Gabriella Di Paola Dollorenzo, Lo stilo puntuto - Percorsi della Commedia di Dante, Edizioni Studium, 2005.
* Claude Fauriel, Dante et les origines de la langue et de la littérature italiennes, cours fait à la Faculté des lettres de Paris, 1854
* Étienne Gilson, Dante et la philosophie, Vrin (1939, 4ème éd. 2002)
* René Guénon, L’Ésotérisme de Dante, Charles Bosse (1925), Gallimard (1957, regolarmente rieditata).
* Louis Lallement, Dante, maître spirituel (3 tomes), Maisnie Trédaniel (1984, 1988, 1993).
* Giorgio Inglese, L'intelletto e l'amore. Studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, La Nuova Italia, Firenze, 2000.
* Kurt Leonhard: Dante. Mit Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Rowohlt, Reinbek 1998, (Rowohlts Monographien; Bd. 167) ISBN 3-499-50167-8
* Didier Ottaviani, La philosophie de la lumière chez Dante, Honoré Champion, 2004.
* Bruno Nardi, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Laterza, Bari, 1942.
* Horia-Roman Patapievici,Gli occhi di Beatrice, Bruno Mondadori, Milano 2006.
* Ulrich Prill: Dante, Metzler, Stuttgart 1999, (Sammlung Metzler; Bd. 318), ISBN 3-476-10318-8
* Giambattista Salinari, Il comico nella Commedia, in «Belfagor», 10 (1955), pp. 623-641.
* Gennaro Sasso, Dante. l'Imperatore e Aristotele, ISIME, Roma, 2002.
* Charles S. Singleton, Viaggio a Beatrice, Il Mulino, Bologna 1968.
* Philippe Sollers, La Divine Comédie, Gallimard, 2002
* Mario Tobino: "Biondo era e bello", Mondadori, 1998.
* Giuseppe Toffanin, Perché l’Umanesimo comincia con Dante, Bologna 1967.
* Aldo Vallone, Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo, Vallardi-La Nuova Libraria, Padova, 1981.
* Winfried Wehle: Dichtung über Dichtung. Dantes 'Vita Nuova': Die Aufhebung des Minnesangs im Epos, Fink, München 1986.

Voci correlate [modifica]
Monumento a Dante a Trento

* Dolce Stil Novo
* Alighieri
* Battaglia di Campaldino
* Firenze medievale
* Guido Guinizelli
* Guido Cavalcanti
* Francesco Petrarca
* Giovanni Boccaccio

Altri progetti [modifica]

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Collegamenti esterni [modifica]

* Testi di e su Dante Alighieri su Liber Liber
* Sito su Dante a cura della Società Dantesca Italiana
* Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali, Ravenna
* World of Dante contiene il testo italiano e la traduzione inglese di Allen Mandelbaum, una galleria, mappe dal Museo Casa di Dante, un timeline, music, e materiali per l'insegnamento della Divina Commedia
* Audiolibri di Dante in formato MP3

Dante Alighieri (1265 - 1321)
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elisa.adragna
00mercoledì 21 gennaio 2009 18:54
Re:
Ennio Bunder Junior, 21/01/2009 18.46:

Oh, volevo solo dirvi che Dante Alighieri (Firenze, tra il 14 maggio ed il 13 giugno 1265 – Ravenna, 13 settembre 1321) è stato un poeta, scrittore e politico italiano. Considerato il "padre" della lingua italiana, è l'autore della celebre Commedia.

Il suo nome, secondo la testimonianza di Jacopo Alighieri, era un ipocorismo di "Durante";[1] nei documenti, era seguito dal patronimico "Alagherii" o il gentilizio "de Alagheriis", mentre la variante "Alighieri" si afferma con l'avvento di Boccaccio, che fu, tra l'altro, uno dei maggiori commentatori trecenteschi dell'opera di Dante e copiò di suo pugno diversi manoscritti della Commedia e delle Rime dantesche.
Indice
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* 1 Biografia
o 1.1 Gli studi
o 1.2 Lo "Stilnovo" e Beatrice
o 1.3 Filosofia e politica
* 2 Opere
o 2.1 Vita Nova
o 2.2 Rime
o 2.3 La Commedia
o 2.4 Convivio
+ 2.4.1 Lo stile del Convivio
+ 2.4.2 L’epistola a Cangrande
o 2.5 De vulgari eloquentia
o 2.6 De Monarchia
* 3 Dante nella cultura moderna
* 4 Curiosità
* 5 Note
* 6 Bibliografia
* 7 Voci correlate
* 8 Altri progetti
* 9 Collegamenti esterni

Biografia [modifica]

La data di nascita di Dante è sconosciuta, anche se viene in genere indicata attorno al 1265, da alcune allusioni autobiografiche fatte nella Vita Nova, nell'Inferno (che comincia Nel mezzo del cammin di nostra vita: poiché in altre sue opere, seguendo una tradizione ben nota, la metà della vita dell'uomo viene considerata di 35 anni, e svolgendosi il viaggio immaginario nel 1300, si risalirebbe al 1265). Alcuni versi del Paradiso ci dicono poi che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 21 maggio e il 21 giugno (secondo alcuni il 29 maggio 1265).
Il più antico ritratto documentato di Dante Alighieri conosciuto, Palazzo dell'Arte dei Giudici e Notai, Firenze
« L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom' io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve dà colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. »

(Paradiso, Canto XXII, 151-154)

Nacque comunque nell'importante famiglia fiorentina degli Alighieri, legata alla corrente dei Guelfi, un'alleanza politica coinvolta in una complessa opposizione ai Ghibellini; gli stessi Guelfi si divisero poi in "Guelfi bianchi" e "Guelfi neri".

Dante credeva che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani (Inferno Canto XV, 76), ma il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei (Paradiso Canto XV, 135), vissuto intorno al 1100.

Suo padre, Aleghiero o Alaghiero di Bellincione, era un Guelfo, ma non patì vendette dopo che i Ghibellini vinsero la battaglia di Montaperti. Questo perché la sua famiglia non godeva di una particolare popolarità da considerarsi una minaccia.
Dante in un affresco di Luca Signorelli

La madre di Dante era Donna Bella degli Abati; "Bella" corrisponde a Gabriella, Abati era il nome di un'importante famiglia. Ella morì quando Dante aveva 5 o 6 anni ed Alighiero presto si risposò con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. (È incerto se realmente l'abbia sposata, poiché i vedovi avevano limitazioni sociali in materia). La donna mise al mondo due bambini: il fratello di Dante, Francesco e sua sorella Tana (Gaetana).

Quando Dante aveva 12 anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di 20 anni. Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune ed era una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti ad un notaio. La famiglia a cui essa apparteneva (i Donati) era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale, che in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, i guelfi neri. Politicamente Dante apparteneva alla fazione dei guelfi bianchi, che pur trovandosi nella lotta per le investiture schierati col Papa, erano contrari ad un eccessivo aumento del potere temporale papale; Dante in particolare nel De Monarchia auspicava l'indipendenza del potere imperiale dal Papa, pur riconoscendogli una superiore autorità morale.

Dante da Gemma ebbe tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia. Antonia divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice sembra nel Convento delle Olivetane a Ravenna. Si dice fosse figlio suo anche un certo Iohannes filius Dantis Aligherii de Florentia, che compare come testimone in un atto del 21 ottobre del 1308 a Lucca.

A Firenze ebbe una carriera politica di discreta importanza: dopo l'entrata in vigore dei regolamenti di Giano della Bella (1295), che escludevano l'antica nobiltà dalla politica permettendo ai ceti intermedi di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte, egli si immatricolò all'Arte dei Medici e Speziali.

L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, perché i verbali delle assemblee sono andati perduti, comunque attraverso altre fonti si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296; fu nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l'elezione dei Priori, cioè dei massimi rappresentanti di ciascuna Arte; dal maggio al settembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta come ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano. Lo stesso anno fu priore dal 15 giugno al 15 agosto.

Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico papa Bonifacio VIII. Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato come paciere, almeno nominale (in realtà spedito dal papa per ridimensionare la potenza della parte dei guelfi bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui neri), Dante cercò, con successo, di ostacolare il suo operato ed era in carica durante il difficile momento quando il cardinale mosse un esercito da Lucca contro Firenze, venendo però bloccato ai confini dello stato fiorentino.
Dante in un ritratto di Gustave Doré

Quale membro del Consiglio dei Cento, fu tra i promotori del discusso provvedimento che spedì ai due estremi della Toscana, i capi e le "teste calde" delle due fazioni. Questo non solo fu una disposizione inutile (presto essi tornarono alla spicciolata), ma fece rischiare un colpo di stato da parte dei Neri che stavano per approfittarsi della situazione quando i Bianchi erano senza leader, ritardando oltre misura l'inizio del loro esilio. Inoltre il provvedimento attirò sui responsabili, compreso Dante, sia l'odio della parte nemica, che la diffidenza degli "amici", e da lui stesso fu definito come l'inizio della sua rovina.

Con l'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come teorico "paciere" (ma conquistatore di fatto), la Repubblica spedì a Roma un'ambasceria con Dante stesso, accompagnato da Maso Minerbetti e il Corazza da Signa.

Dante si trovava quindi a Roma, trattenuto oltre misura proprio da Bonifacio, quando Carlo di Valois, al primo pretesto, mise a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano. Il 9 novembre 1301, Cante Gabrielli da Gubbio fu nominato Podestà di Firenze, dando inizio ad una politica di sistematica persecuzione degli elementi ostili al Papa, che si risolse nell'uccisione o nell'esilio di tutti i guelfi Bianchi. Con due condanne successive, quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302, il poeta fu condannato da Cante Gabrielli, in contumacia, al rogo ed alla distruzione delle case. Dante fu raggiunto dal provvedimento di esilio a Roma e non rivide mai più Firenze.

Durante l'esilio, Dante fu ospite di varie corti e famiglie dell'Italia centro-settentrionale, fra cui i ghibellini Ordelaffi, signori di Forlì, dove probabilmente si trovava quando Enrico VII entrò in Italia. Qui è possibile che abbia conosciuto le opere del famoso pensatore ebreo Hillel ben Samuel da Verona, che era da poco morto, dopo aver trascorso a Forlì gli ultimi anni della sua vita.

In particolare, falliti i tentati colpi di mano del 1302, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò, insieme a Scarpetta degli Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì, un nuovo tentativo di rientrare in Firenze. L'impresa, però, fu sfortunata: il podestà di Firenze, un altro forlivese (nemico degli Ordelaffi), Fulcieri da Calboli, riuscì ad avere la meglio nella battaglia di Castel Puliciano.

Dopo ciò, Dante, deluso, anche se tornò a Forlì ancora nel 1310-1311 e nel 1316 (data incerta, quest'ultima), decise di fare "parte per se stesso" e di non contare più sull'appoggio dei ghibellini per rientrare nella sua città.

Morì il 14 settembre del 1321 a Ravenna, città nella quale aveva trovato rifugio presso la corte del signore Guido Novello da Polenta quando, passando dalle paludose Valli di Comacchio prese la malaria, di ritorno da un'ambasceria a Venezia, allora in attrito con Ravenna ed in alleanza con Forlì: gli storici pensano che sia stato scelto Dante per quella missione, in quanto amico degli Ordelaffi, signori di Forlì, e quindi in grado di trovare meglio una via per comporre le divergenze. I funerali, in pompa magna, vennero officiati nella chiesa di San Francesco a Ravenna. Le sue ossa riposano oggi nella cappella fatta appositamente edificare, sotto un piccolo altare che porta l'epigrafe in versi latini dettati da Bernardo da Canaccio nel 1366 :
(LA)
« IVRA MONARCHIE SVPEROS PHLAEGETONTA LACVSQVE LUSTRANDO CECINI FATA VOLVERVNT QVOVSQVE SED QVIA PARS CESSIT MELIORIBVS HOSPITA CASTRIS ACTOREMQVE SVVM PETIIT FELICIOR ASTRIS HIC CLAVDOR DANTES PATRIS EXTORRIS ABORIS QVIA GENVIT PARVI FLORENTIA MATRIS AMORIS. »
(IT)
« I diritti della monarchia, i cieli e le acque di Flegetonte (gli inferi), visitando cantai finché volsero i miei destini mortali. Poiché però la mia anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sto racchiuso, (io) Dante, esule dalla patria terra, cui generò Firenze, madre di poco amore. »
(Epigrafe)
La tomba di Dante a Ravenna

Gli studi [modifica]

Poco si sa circa gli studi di Dante. La cultura dantesca, formatasi in un contesto educativo totalmente diverso da quello attuale, è ricostruibile, in assenza di dati documentari affidabili, innanzitutto a partire dalle opere. Si ottiene così l'immagine di un attento studioso di teologia, filosofia, fisica, astronomia, grammatica e retorica: in breve, di tutte le discipline del Trivium e del Quadrivium previste dalle scuole e dalle Universitates medievali. È tuttavia probabile che abbia frequentato gli studia religiosi e laici di cui si ha notizia a Firenze. Alcuni ritengono che Dante abbia studiato presso l'Università di Bologna, ma non vi sono prove. In un verso della Divina Commedia (Par., X, 133-138) Che, leggendo nel vico de li Strami, silogizzò invidïosi veri, Dante allude a Rue Fouarre, dove si svolgevano le lezioni della Sorbona; questo ha fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente congetturale, che Dante possa essersi realmente recato a Parigi. Ovviamente, la cultura ufficiale delle Università era essenzialmente in lingua latina. Di conseguenza, la cultura letteraria di Dante è basata principalmente sugli autori latini; in particolare Virgilio, che ebbe un'influenza determinante sulle opere dantesche. Dante, tuttavia, conobbe certamente un buon numero di poeti volgari, sia italiani che provenzale. Nelle sue opere è evidente il legame con la poesia toscana di Guittone d'Arezzo e di Bonagiunta Orbicciani (cfr. Purgatorio, Canto XXIV, 52-62)di Guido Guinizelli e della Scuola poetica siciliana, una corrente letteraria attiva alla corte di Federico II che si esprimeva in volgare, la quale proprio allora stava cominciando ad essere conosciuta in Toscana e che aveva in Giacomo da Lentini (il famoso "Notaro" di cui alla citazione precedente) il suo maggior esponente. La conoscenza del provenzale da parte di Dante è ricostruibile sia dalle citazioni contenute nel De vulgari eloquentia, sia dai versi provenzali inserti nel Purgatorio (XXVI, 140-147).

Alla scelta di Dante di utilizzare la lingua volgare per scrivere alcune sue opere, possono avere influito notevolmente le opere di Andrea da Grosseto, letterato del Duecento che utilizzava la lingua volgare da lui parlata, il dialetto grossetano dell'epoca, per la traduzione di opere prosaiche in latino, come i trattati di Albertano da Brescia.

Grazie ai suoi interessi, Dante scoprì i menestrelli ed i poeti provenzali e la cultura latina, professando una devozione particolare per Virgilio:
« Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore »

(Inferno I, 85-87)

Dovrebbe essere sottolineato che durante il Medioevo le rovine dell'Impero romano decaddero definitivamente, lasciando dozzine di piccoli stati, così la Sicilia era tanto lontana (culturalmente e politicamente) dalla Toscana quanto lo era la Provenza: le regioni non condividevano una lingua, una cultura, o collegamenti facili. È possibile supporre che Dante fosse per il suo periodo un intellettuale aggiornato, acuto e con interessi, come si direbbe oggi, internazionali.

Lo "Stilnovo" e Beatrice [modifica]
Dolce Stil Novo
Per categoria
Precursori
Guido Guinizelli
Gli Stilnovisti
Guido Cavalcanti - Dante Alighieri
Lapo Gianni - Gianni Alfani
Dino Frescobaldi - Cino da Pistoia
Portale Letteratura
Questo box: vedi • disc. • mod.

A 18 anni egli incontrò Lapo Gianni, Cino da Pistoia e subito dopo Brunetto Latini; insieme essi divennero i capiscuola del Dolce Stil Novo. Brunetto Latini successivamente fu ricordato nella Divina Commedia (Inferno, XV, 82), per quello che aveva insegnato a Dante: non come un semplice maestro, ma uno dei più grandi luminari che segnò profondamente la sua carriera letteraria e filosofica: maestro di retorica, abile compilatore di trattati enciclopedici, dovette iniziarlo alla letteratura cortese provenzale e francese, scrivendo il Tresor proprio in Francia. Brunetto mette in evidenza il rapporto tra gli studi di grammatica (latino) e di retorica e la filosofia amorosa cortese, gettando le basi degli interessi speculativi del futuro Dante.

Altri studi sono segnalati, o sono dedotti dalla Vita Nuova o dalla Divina Commedia, per ciò che riguarda la pittura e la musica. Quando aveva 9 anni incontrò Beatrice Portinari, la figlia di Folco Portinari. Si è detto che Dante la vide soltanto una volta e mai le parlò (ma altre versioni sono da ritenersi ugualmente valide). Più interessante è però, al di là degli scarni dati biografici che ci sono rimasti, è la Beatrice divinizzata, e dunque sublimata della Vita Nuova: l'angelo che opera la conversione spirituale di Dante sulla terra, lo studio psicologico che compie il poeta sul proprio innamoramento. L'introspezione psicologica, l'autobiografismo, ignoto al Medioevo, guardano già al Petrarca e più lontano ancora, al Rinascimento. Il nome Beatrice, assumerà soprattutto nella Divina Commedia la sua reale importanza, in quanto, etimologicamente parlando significa "Portatrice di Beatitudine", tanto che solo questa figura potrà condurre Dante lungo il percorso del Paradiso.

È difficile riuscire a capire in cosa sia consistito questo amore, ma qualcosa di estremamente importante stava accadendo per la cultura italiana: è nel nome di questo amore che Dante ha dato la sua impronta al Dolce stil novo e condurrà i poeti e gli scrittori a scoprire i temi dell'amore, in un modo mai così enfatizzato prima.

L'amore per Beatrice (come in modo differente Francesco Petrarca mostrerà per la sua Laura) sarà il punto di partenza per la formulazione della sua concezione del dolce stil novo, nuova concezione dell'amor cortese sublimata dalla sua intensa sensibilità religiosa (il culto mariano con le laudi arrivato a Dante attraverso le correnti pauperistiche del Duecento, dai Francescani in poi), per poi approdare alla filosofia dopo la morte dell'amata, che segna simbolicamente il distacco dalla tematica amorosa e l'ascesa del Sommo Poeta verso la sapienza, luce abbacinante e impenetrabile che avvolge Dio nel Paradiso della Divina Commedia.

Filosofia e politica [modifica]
Moneta da due euro italiana

Quando Beatrice morì nel 1290, Dante cercò di trovare un rifugio nella letteratura latina. Dal Convivio sappiamo che aveva letto il De consolatione philosophiae di Boezio e il De amicitia di Cicerone. Egli allora si dedicò agli studi filosofici presso le scuole religiose come quella Domenicana in Santa Maria Novella. Prese parte alle dispute che i due principali ordini religiosi (Francescani e Domenicani) pubblicamente o indirettamente tennero in Firenze, gli uni spiegando la dottrina dei mistici e di San Bonvenutura, gli altri presentando le teorie di San Tommaso d'Aquino. La sua "eccessiva" passione per la filosofia gli sarebbe stata successivamente rimproverata da Beatrice nel Purgatorio.

Dante fu anche soldato, e l'11 giugno 1289 combatté nella battaglia di Campaldino che vide contrapposti i cavalieri fiorentini ad Arezzo; successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d'Angiò (figlio di Carlo II d'Angiò) quando questi si trovava a Firenze. Dante stesso cita Carlo Martello d'Angiò nella Divina Commedia (Paradiso, Ct. VIII, 31 e Ct. IX, 1)

Opere [modifica]

Vita Nova [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Vita Nuova.

La Vita nuova, che può essere considerata il racconto di una vicenda autobiografica resa come exemplum, narra la vita spirituale di Dante ed è strutturata in quarantadue capitoli in prosa collegati in una storia omogenea che spiega una serie di poesie composte in tempi differenti.

L'opera è consacrata all'amore per Beatrice e fu composta probabilmente tra il 1293 e il 1295. La composizione delle rime si può far risalire, secondo la cronologia che Dante fornisce, tra il 1283 come risulta dal sonetto A ciascun alma presa e dopo il giugno del 1291, anniversario della morte di Beatrice. Per stabilire con una certa sicurezza la data della composizione del libro nel suo insieme organico, ultimamente la critica è propensa ad avvalersi del 1300, data non superabile, che corrisponde alla morte del destinatario Guido Cavalcanti: "Questo mio primo amico a cui io ciò scrivo" (Vita Nuova, XXX).

Quest'opera ha avuto una particolare fortuna negli Stati Uniti, dove fu tradotta dal grande filosofo e letterato Ralph Waldo Emerson.

Rime [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Le Rime.

Le rime sono una raccolta messa insieme e ordinata da moderni editori,che riunisce il complesso della produzione lirica dantesca dalle prove giovanili a quelle dell'età matura. Le rime giovanili comprendono componimenti che riflettono le varie tendenze della lirica cortese del tempo,quella guittoniana,quella guinizzelliana e quella cavalcantiana. Tra questo gruppo di testi Dante aveva scelto quelli che dovevano entrare a far parte della Vita nuova

La Commedia [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Divina Commedia.

La Comedìa — titolo originale dell'opera — è il capolavoro del poeta fiorentino ed è considerata la più importante testimonianza letteraria della civiltà medievale nonché una delle più grandi opere della letteratura universale. Viene definita "comedia" in quanto scritto in stile "comico" ovvero non aulico. Un'altra interpretazione si fonda sul fatto che il poema inizia da situazioni piene di dolore e paura e finisce con la pace e la sublimità della visione di Dio. Dante iniziò a lavorare all'opera intorno al 1300 (anno giubilare, tanto che egli data al 7 aprile di quell'anno il suo viaggio nella selva oscura) e la continuò nel resto della vita, pubblicando le cantiche man mano che le completava. Si hanno notizie di copie manoscritte dell'Inferno intorno al 1313, mentre il Purgatorio fu pubblicato nei due anni successivi. Il Paradiso, iniziato forse nel 1316, fu pubblicato man mano che si completavano i canti negli ultimi anni di vita del poeta.

Il poema è diviso in tre libri o cantiche, ciascuno formato da 33 canti (tranne l'Inferno che ne presenta 34, poiché il primo funge da proemio all'intero poema); ogni canto si compone di terzine di endecasillabi. La Commedia tende a una rappresentazione ampia e drammatica della realtà, ben lontana dalla pedante poesia didattica medievale, ma intrisa di una spiritualità cristiana nuova che si mescola alla passione politica e agli interessi letterari del poeta. Si narra di un viaggio immaginario nei tre regni dell'aldilà, nei quali si proiettano il bene e il male del mondo terreno, compiuto dal poeta stesso, quale "simbolo" dell'umanità, sotto la guida della ragione e della fede. Il percorso tortuoso e arduo di Dante, il cui linguaggio diventa sempre più complesso quanto più egli sale verso il Paradiso, rappresenta, sotto metafora, anche il difficile processo di maturazione linguistica del volgare illustre, che si emancipa dai confini angusti entro i quali lo aveva rinchiuso il pregiudizio scolastico medievale. Dante è accompagnato sia nell'inferno che nel purgatorio dal suo maestro Virgilio; in paradiso da Beatrice e da San Bernardo.

Convivio [modifica]
Statua di Dante, sita agli Uffizi
Per approfondire, vedi la voce Convivio.

Convivio (1304-1307), dal latino Convivium, ovvero banchetto di sapienza. È la prima delle opere di Dante scritta subito dopo il forzato allontanamento di Firenze. È un prosimetro che si presenta come un'enciclopedia dei saperi più importanti per coloro che vogliano dedicarsi all'attività pubblica e civile senza aver compiuto gli studi superiori. È scritta in volgare per essere appunto capita da chi non ha avuto la possibilità in precedenza di conoscere la scienza. L'incipit del Convivio fa capire chiaramente che l'autore è un grande conoscitore e seguace di Aristotele; questi, infatti, viene citato con il termine "Lo Filosofo". L'incipit in questo caso spiega a chi è rivolta quest'opera e a chi non è rivolta. Coloro che non hanno potuto conoscere la scienza sono stati impediti da due tipi di ragioni:

* Interne: Malformazioni fisiche, vizi e malizia
* Esterne: Cura familiare, civile e difetto di luogo di nascita

Dante ritiene beati i pochi che possono partecipare alla mensa della scienza, dove si mangia il "pane degli angeli", e miseri coloro che si accontentano di mangiare il cibo delle pecore. Dante non siede alla mensa, ma è fuggito da coloro che mangiano il pastume e ha raccolto quello che cade dalla mensa degli eletti per crearne un altro banchetto. A questo convivio saranno invitati solo coloro che sono stati impediti da ragioni esterne, perché gli altri non avrebbero la capacità di capire. L'autore allestirà un banchetto e servirà una vivanda (i componimenti in versi) accompagnata dal pane (la prosa) necessario per assimilarne l'essenza. Saranno invitati a sedersi solo coloro che erano stati impediti da cura familiare e civile, mentre i pigri sarebbero stati ai loro piedi per raccogliere le briciole.

Lo stile del Convivio [modifica]

Dante nel Convivio pronuncia la prima difesa del volgare, ritenuto superiore al latino quanto a bellezza e nobiltà. La prosa del Convivio raggiunge una solidità sintattica, un equilibrio compositivo ed una chiarezza espositiva non inferiori a quelle tramandate dal latino. Dunque Dante fonda la prosa filosofica in volgare in cui frequenti sono gli usi di metafore e similitudini, attraverso cui l'autore conferisce concretezza ed evidenza alle proprie rappresentazioni, anche a quelle più squisitamente teoriche. I tre temi fondamentali del Convivio dunque sono la difesa del volgare, l'esaltazione della filosofia, la discussione intorno all'essenza della nobiltà, cui si riconnette la proposta della monarchia universale rappresentata dall'impero e dalla tradizione romana.

L’epistola a Cangrande [modifica]

Strettamente collegata al Convivio è anche l’epistola a Cangrande della Scala, che dovrebbe risalire agli anni tra il 1315 e 1317. L’epistola contiene la dedica del Paradiso al signore di Verona, che era stato molto generoso col poeta. Quest'opera è ancora più importante poiché contiene le indicazioni per leggere il poema: il soggetto (la condizione delle anime dopo la morte), la pluralità dei sensi, il titolo (che deriva dal fatto che inizia in modo aspro e triste e si conclude con il lieto fine), la finalità dell’opera che non è solo speculativa, ma pratica poiché mira a rimuovere i viventi dallo stato di miseria per portarli alla felicità.

De vulgari eloquentia [modifica]
Monumento a Dante in Piazza Santa Croce a Firenze (1865)
Per approfondire, vedi la voce De vulgari eloquentia.

Contemporaneo al Convivio il De vulgari eloquentia è un trattato in lingua latina scritto da Dante Alighieri tra il 1303 e il 1304. Composto da un primo libro intero e da 14 capitoli del secondo libro, era inizialmente destinato a comprendere quattro libri.

Pur affrontando il tema della lingua volgare, fu scritto in latino perché gli interlocutori a cui Dante si rivolse appartenevano all'élite culturale del tempo, che forte della tradizione della letteratura classica riteneva il latino senz'altro superiore a qualsiasi volgare, ma anche per conferire alla lingua volgare una maggior dignità: il latino era infatti usato soltanto per scrivere di legge, religione e trattati internazionali, cioè argomenti della massima importanza. Dante si lanciò in una appassionata difesa del volgare, dicendo che meritava di diventare una lingua illustre in grado di competere se non uguagliare la lingua di Virgilio, sostenendo però che per diventare una lingua in grado di trattare argomenti importanti il volgare doveva essere:

* illustre (in quanto luminoso e quindi capace di dare lustro a chi ne fa uso nello scritto),
* cardinale (tale che intorno ad esso ruotassero come una porta intorno al cardine, i volgari regionali),
* aulico (reso nobile dal suo uso dotto, tale da esser parlata nella reggia),
* curiale (come linguaggio delle corti italiane, e da essere adoperata negli atti politici di un sovrano).

Con tali termini intendeva l'assoluta dignità del volgare anche come lingua letteraria, non più come lingua esclusivamente popolare. Dopo avere ammesso la grande dignità del siciliano illustre, la prima lingua letteraria assunta a dignità nazionale, passa in rassegna tutti gli altri volgari italiani trovando nell'uno alcune, nell'altro altre delle qualità che sommate dovrebbero costituire la lingua italiana. Dante vede nell'italiano la panthera redolens dei bestiari medievali, animale che attrae la sua preda (qui lo scrittore) con il suo irresistibile profumo, che Dante sente in tutti i volgari regionali, e in particolare nel siciliano, senza però riuscire mai a vederla materializzarsi: manca in effetti ancora una lingua italiana utilizzabile in tutti i suoi registri, da tutti gli strati della popolazione italiana. Per farla riapparire era dunque necessario attingere alle opere dei migliori scrittori italiani, ma molti di quei libri attendevano ancora di essere scritti, e in questo senso il trattato di Dante è un appello ai dotti lettori alla cui penna chiedeva disperatamente aiuto.

De Monarchia [modifica]
Per approfondire, vedi la voce De Monarchia.
Dante, ritratto di Andrea del Castagno
Cenotafio di Dante nella Basilica di Santa Croce a Firenze (scultura di Pietro Lombardo)

L'opera è divisa in tre libri. Nel primo Dante afferma la necessità di un Impero universale e autonomo, e riconosce questo impero come unica forma di governo capace di garantire unità e pace. Nel secondo riconosce la legittimità del diritto dall'impero da parte dei Romani. Nel terzo libro Dante dimostra che l'autorità del monarca è una volontà divina, e quindi dipende da Dio. Non è soggetta all'autorità del pontefice.
La posizione dantesca è per più aspetti originale. Essa è in contrasto tanto con i sostenitori della concezione teocratica,quanto con i sostenitori dell'autonomia politica e religiosa dei sovrani nazionali rispetto all'imperatore e al papa.

Dante nella cultura moderna [modifica]

La vita e l'opera di Dante hanno avuto un influenza determinante sulla costruzione dell'identità italiana e in generale sulla cultura moderna. Numerosissimi gli scrittori e gli intellettuali che hanno utilizzato e continuano ad utilizzare la Commedia e le altre opere dantesche come fonte di ispirazione tematica, linguistica, espressiva. Di seguito si cerca di offrire un panorama sintetico, organizzato per periodi e per autori, della presenza di Dante nella cultura moderna italiana e mondiale.

Letteratura italiana del Novecento:

* Nell'opera poetica di Eugenio Montale è frequente la ripresa di termini e formule del Dante lirico e del Dante della Commedia.

* Il poeta Mario Luzi ha utilizzato più volte temi danteschi e in particolare 'purgatoriali', ad esempio nella lirica La notte lava la mente.

* In Se questo è un uomo di Primo Levi si trovano numerosi riferimenti alla discesa dantesca agli Inferi; uno dei capitoli è inoltre strutturato come una ripresa del viaggio di Ulisse nel canto XXVI dell'Inferno.

* Il poeta Thomas Stearns Eliot trae ispirazione da Dante e al v. 63 del poema La terra desolata traduce letteralmente i versi 56-57 del canto terzo dell'Inferno: «i' non averei creduto / che morte tanta n'avesse disfatta». Il passo descrive una mattina londinese nella quale la folla delle persone che vanno al lavoro è associata all'immagine dantesca degli ignavi.

Curiosità [modifica]

* Nel 2005 è stato ultimato il restauro di un affresco fiorentino nella sede dell'Arte dei Giudici e dei Notai, vicino al Bargello. Risalente al 1375, è il più antico ritratto di Dante conosciuto e smentisce l'affermazione del Boccaccio circa i tratti aquilini. La lunetta restaurata riporta quattro ritratti: Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca, e Zanobi da Strada, oltre a Dante. L'immagine del poeta è quella di un uomo non bello, scuro di carnagione e dal naso lungo, ma non aquilino.
* L'attore statunitense Johnny Depp ha annunciato che intende dirigere un film dedicato a Dante e alla Divina Commedia, titolato The Head of Dante. [2].
* La Divina Commedia è tornata popolarmente alla ribalta, grazie alle pubbliche letture di Roberto Benigni, da sempre grande estimatore di Dante. Per queste letture, è stata proposta la candidatura di Benigni al Premio Nobel per la Letteratura.
* Una casa di produzione americana ha realizzato un videogioco in cui Dante scende nell'Inferno della Divina Commedia e deve affrontare i diavoli e superare i vari gironi. [3]

Note [modifica]

1. ^ «Durante, olim vocatus Dante»
2. ^ spettacolo.alice.it/gallery/johnny_depp_dante.html
3. ^ www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=38790&sez=LEALTRE


Bibliografia [modifica]

La Bibliografia sulla vita e sull'opera di Dante è sterminata; normalmente, il primo strumento di ricerca è l'Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1970-1978. Si possono utilizzare anche le risorse informatiche, in primo luogo la bibliografia consultabile sul sito della Società Dantesca Italiana. La bibliografia qui riportata è quindi espressamente parziale e non scientifica.

* Eugène Aroux, Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste, révélations d'un catholique sur le Moyen-Âge (1854)
* Erich Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 1963 (prima edizione Berlin-Leipzig 1929).
* Michele Barbi, Problemi di critica dantesca. Prima serie (1893-1918), Sansoni, Firenze, 1934).
* Vittore Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella «Vita Nuova», in «Studi in onore di Italo Siciliano», I, Firenze, Olschki, 1966, pp. 123-143.
* Alessandro Bausani, Il tema del viaggio celeste come legame fra Dante e la cultura orientale, in «Dantismo russo e cornice europea», II (1989), pp. 241-251.
* Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, (p. 15 su Inf. XIV, 30; p. 16 su Par. III, 123; pp. 81-83 su Purg. XVII, 13-18, 25).
* Gabriele Carletti, Dante Politico - La felicità terrena secondo il pontefice, il filosofo, l'imperatore. Pescara, 2006.
* Gianfranco Contini, Un' idea di Dante: saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1970 (1), 2001.
* Etienne-Jean Delécluze, Dante et la poésie amoureuse, 1854
* Gabriella Di Paola Dollorenzo, Lo stilo puntuto - Percorsi della Commedia di Dante, Edizioni Studium, 2005.
* Claude Fauriel, Dante et les origines de la langue et de la littérature italiennes, cours fait à la Faculté des lettres de Paris, 1854
* Étienne Gilson, Dante et la philosophie, Vrin (1939, 4ème éd. 2002)
* René Guénon, L’Ésotérisme de Dante, Charles Bosse (1925), Gallimard (1957, regolarmente rieditata).
* Louis Lallement, Dante, maître spirituel (3 tomes), Maisnie Trédaniel (1984, 1988, 1993).
* Giorgio Inglese, L'intelletto e l'amore. Studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, La Nuova Italia, Firenze, 2000.
* Kurt Leonhard: Dante. Mit Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Rowohlt, Reinbek 1998, (Rowohlts Monographien; Bd. 167) ISBN 3-499-50167-8
* Didier Ottaviani, La philosophie de la lumière chez Dante, Honoré Champion, 2004.
* Bruno Nardi, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Laterza, Bari, 1942.
* Horia-Roman Patapievici,Gli occhi di Beatrice, Bruno Mondadori, Milano 2006.
* Ulrich Prill: Dante, Metzler, Stuttgart 1999, (Sammlung Metzler; Bd. 318), ISBN 3-476-10318-8
* Giambattista Salinari, Il comico nella Commedia, in «Belfagor», 10 (1955), pp. 623-641.
* Gennaro Sasso, Dante. l'Imperatore e Aristotele, ISIME, Roma, 2002.
* Charles S. Singleton, Viaggio a Beatrice, Il Mulino, Bologna 1968.
* Philippe Sollers, La Divine Comédie, Gallimard, 2002
* Mario Tobino: "Biondo era e bello", Mondadori, 1998.
* Giuseppe Toffanin, Perché l’Umanesimo comincia con Dante, Bologna 1967.
* Aldo Vallone, Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo, Vallardi-La Nuova Libraria, Padova, 1981.
* Winfried Wehle: Dichtung über Dichtung. Dantes 'Vita Nuova': Die Aufhebung des Minnesangs im Epos, Fink, München 1986.

Voci correlate [modifica]
Monumento a Dante a Trento

* Dolce Stil Novo
* Alighieri
* Battaglia di Campaldino
* Firenze medievale
* Guido Guinizelli
* Guido Cavalcanti
* Francesco Petrarca
* Giovanni Boccaccio

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Collegamenti esterni [modifica]

* Testi di e su Dante Alighieri su Liber Liber
* Sito su Dante a cura della Società Dantesca Italiana
* Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali, Ravenna
* World of Dante contiene il testo italiano e la traduzione inglese di Allen Mandelbaum, una galleria, mappe dal Museo Casa di Dante, un timeline, music, e materiali per l'insegnamento della Divina Commedia
* Audiolibri di Dante in formato MP3

Dante Alighieri (1265 - 1321)
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Opere in volgare: Vita Nuova - Le Rime - Convivio
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00mercoledì 21 gennaio 2009 19:40
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Zeman81, 21/01/2009 19.10:

elisadragna mi ha rotto i



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00mercoledì 21 gennaio 2009 23:05
Lunedì mi.
Black Francis
00giovedì 22 gennaio 2009 11:10
dio
Ciro Cumulo
00giovedì 22 gennaio 2009 12:34
Ha
Bloch: “Lavoro e tecnica nel medioevo”

Di Angelo Lucido

Il metodo comparativo può molto; la sua generalizzazione ed il suo perfezionamento sono una delle necessità più urgenti che si pongono agli studi storici. Ma esso non può tutto : in fatto di scienza non vi sono talismani. Inoltre il metodo comparativo non è una novità assoluta. È stato usato nel campo di parecchie scienze umane, nonché nella storia delle istituzioni politiche, economiche, giuridiche. Ma la maggioranza degli storici non lo usa perché ritiene che la storia comparata è una capitolo della filosofia della storia o delle sociologia generale, disciplina che si guardando bene dal praticare. Ciò che domanda il ricercatore ad un metodo è di essere uno strumento tecnico, di uso corrente, maneggevole e suscettibile di affrontare risultati positivi. Il metodo comparativo è proprio questo, anche se, forse, non sufficientemente dimostrato. Esso può / deve informare le ricerche particolari. L’avvenire della scienza dipende da ciò. Bloch davanti ad un pubblico di medievalisti dice di voler precisare la natura del metodo comparativo, indicando con qualche esempio i più importanti servizi che ci si aspetta da esso, suggerire infine qualche mezzo pratico per facilitarne l’impiego. Dice anche che prenderà i suoi esempi dal Medioevo, anche se le osservazioni che seguono potrebbero essere applicate anche alle società europee dell’età moderna. Il termine storia comparata ha subito sensibili modificazioni nel suo significato, innanzitutto cosa significa “paragonare”? scegliere in uno o più ambienti sociali differenti due o più fenomeni che sembrino a prima vista presentare tra di loro analogie, descrivere le curve della loro evoluzione, constatare le somiglianze e differenze e cercare di spiegare le une e le altre. Sono due le condizioni necessarie perché storicamente parlando vi possa essere “paragone” :

1. una certa somiglianza tra i fatti presi in osservazioni
2. una certa dissomiglianza tra gli ambienti in cui tali fatti si sono verificati

se per esempio uno studia il regime signorile del Limosino sarà indotto a confrontare i dati sia di una signoria sia di un’altra, quindi si farà un paragone. In tal caso non si avrà l’impressione di fare storia comparata : infatti si ricaveranno i diversi oggetti dello studio da frazione di una medesima società che nel suo insieme presenta una grande unità. Nella pratica è invalso l’uso di ricavare il nome di storia comparata esclusivamente al confronto di fenomeni che si sono svolti al di qua e al di là di una frontiera, di uno stato o di una nazione. A seconda però del settore di studio preso in considerazione, il procedimento comparativo è suscettibile di due applicazioni differenti in quanto ai loro principi e in quanto ai loro risultati.
PRIMO CASO : si scelgono delle società separate nel tempo e nello spazio, di distanza tale che le analogie osservate nell’uno e nell’altro caso tra questo e quel fenomeno non possano essere spiegate né in forza di influenza reciproca né in forza di un’origine comune. Per esempio si confrontano le civiltà del mediterraneo e le società dette primitive a noi contemporanee. Nei primi tempi dell’impero romano, a due passi da Roma, sulle rive del lago di Nemi, vi è un rito crudele nel mezzo di un mondo relativamente civile : chi vuol diventare sacerdote del tempi di Diana, lo può essere solo se uccide il servente, al cui posto egli ambisce. Dice Bloch “se noi possiamo dimostrare che questa misura è esista altrove, allora noi potremo indurre legittimamente che questi stessi motivi dettero origine in un’altra epoca al sacerdozio di Nemi. Questa fu la partenza della ricerca del Ramo d’oro ove vi fu una ricerca fondata sulla raccolta di testimonianze ricavate ai 4 angoli della terra. Lo studio comparativo così concepito ha reso servizi grandissimi. 1°beneficio : l’educazione umanistica ci aveva assuefatti a considerare la Grecia e Roma come troppo simili a noi, e il metodo comparativo nelle mani degli etnografichi ci restituisce quella sensazione della differenza, dell’esotismo, che è la condizione indispensabile di ogni sana intelligenza del passato. Altri benefici : colmare con l’aiuto dei poteri fondati sulle analogie, lacune nella documentazione ; aperture di nuove direzioni sulla ricerca, suggerite dal confronto; inoltre possibilità di spiegare molte sopravvivenze sino allora intelligibili. Per riassumere, questo metodo comparativo a lunga portata è un procedimento di interpolazioni di curve. Vi è un’altra applicazione del procedimento comparativo : studiare parallelamente due società vicine e contemporanee sottoposte ad influenze reciproche, risalenti almeno in parte ad una origine comune. Questo procedimento (nella storia) è l’equivalente della linguistica storica (es. linguistica europea), mentre la storia comparata nel suo accennato e più largo senso, corrisponde alla linguistica generale. Il metodo comparativo più limitato nel suo orizzonte è il più fecondo dal punto di vista scientifico, più atto a classificare rigorosamente e a esercitare la critica sui fatti avvicinati, può sperare di pervenire a delle conclusioni di fatto, meno ipotetiche e più precise. Bloch dice che userà il secondo metodo mettendo a confronto diverse società europee centro-occidentali, prossime nello spazio e derivate da parecchie fonti comuni. Per prima cosa bisogna scoprire i fenomeni, poi bisognerà interpretarli. Per scoprire i fenomeni (e qui ci apparirà l’utilità del metodo comparativo) bisogna leggere antichi documenti, ma bisogna anche sapere in che modo. Un documento è come un testimone : non parla che quando lo si interroga, e la difficoltà consiste nello stabilire il questionario. Il confronto reca allo storico il soccorso più prezioso. È possibile che vi siano fatti simile, per esempio politici, successi in diverse società; però, in seguito, allo stato della ns. documentazione sia in ragione di una costituzione politica e sociale diversa, la loro influenza è meno percettibile ma non è che sia meno rilevante. È come una affezione dell’organismo che manca solo di manifestarsi immediatamente in sintomi ben definiti, rimane anni senza svelarsi e quando ciò succede non la si riconosce ma solo perché è troppo vecchia. Tutto ciò non è che un’ipotesi teorica? Per dimostrare che la cosa non è così, Bloch ricava un esempio dalle sue ricerche personali. Dall’inizio del sedicesimo secolo, fino ai primi anni del 19esimo, fu quel vasto movimento di enclosures che può definirsi essenzialmente come disposizione delle servitù collettive ed individualizzazione della condizione agricola. Si prenda ora in considerazione solo il caso della recinzione dei terreni seminativi. Come punto di partenza c’è un regime per cui dopo il raccolto mediamente il pascolo diventava oggetto atto a proteggere l’interesse della collettività; come punto di arrivo si ha invece una condizione di appropriazione personale. Tutto questo non ha fatto che aggiungere più potere alla gentry. Nella storia economica francese non si troveranno trasformazioni del tipo predetto, tuttavia esse sono esistite. Grazie al lavoro di Henry Sée, si conosce questo fenomeno (anche se non se ne può valutare l’estensione rispetto alle recinzioni inglesi e non si conosco le evoluzioni, al tempo stesso simili e divergenti. Lasciando da parte queste considerazioni, per ora ci si trova ancora nella fase della scoperta. Si sa per es. che nella Provenza (a partire dal secolo 15esimo) vi fu una trasformazione di questo genere. Questa trasformazione però è sfuggita all’osservazione, perché la sparizione delle servitù collettive non aveva portato alla pratica delle recinzioni, e non era stata descritta da scrittori di quel periodo.
Le conseguenze furono, in Provenza, le stesse che in Inghilterra? Bloch lo ignora. Però è interessante constatare la presenza, con caratteri suoi propri, in un paese mediterraneo, di un fenomeno diffuso più a nord- L’autore conosce non benissimo i fatti di cui parla perché ha potuto seguirne le tracce da testi che lui ha avuto modo di leggere. Certo, gli eruditi della storia provenzale ne sanno di più. Però questi testi occorre ricercarli e accostarli e poi essi potranno sfruttare la vena che Bloch indicherà. Il solo vantaggio che l’autore ha nei confronti degli storici è che ha letto opere concernenti le enclousers inglesi o involuzioni agrarie analoghe che si sono prodotte in altri paesi europei ed ha cercato di ispirarsene. In una parola, ha impiegato il metodo comparativo.
Ed ora l’interpretazione.
Da fonti attinenti a società diverse, il confronto è quello che permette di discernere le influenze esercitate da questi gruppi gli un sugli altri. Ecco un esempio: Carolingi e Merovingi. I merovingi erano laici nei confronti della chiesa. Pipino e i suoi discendenti riceve invece un impronta sacrale, attraverso l’unzione con olio sacro. Anche se credenti, i Merovingi non avevano mai messo la forza pubblica al servizio dei precetti della chiesa. Le cose vanno diversamente con i Carolingi. Essi si consideravano come incaricati di far regnare sulla terra la legge di Dio. La loro legislatura era religiosa (Bloch in un giornale aveva letto il testo di un decreto emanato dall’emiro Wahhabita del Negal ed era rimasto colpito dalle rassomiglianze con la letteratura pietista dei capitolari). L’autore fa altri esempi (parla dell’Europa barbara ove i Re ricevevano la “Sacrosanta unzione” e della Spagna)e parla di analogie e anche di differenze e si domanda se riti subissero influenze, come per esempio quelli spagnoli portati dai visigoti. Alcuni fatti sembrano rendere verosimile questa ipotesi. L’autore dice che certe analogie sono le più interessanti da osservarsi. Ciò porta a scoprire le cause. Ed è in questo momento che il metodo comparativo sembra rendere agli storici i seguenti servigi: condurli alle vere cause di avvenimenti e allontanarli da certe altre che sono dei circoli chiusi.
Bloch fa un altro esempio. Parla degli stati Generali o provinciali nella Francia del XIV e XV secolo. Sono state scritte numerose monografie malgrado la documentazione sia scarsa. Sei autori delle monografie non hanno colto una cosa: il problema delle origini. Essi hanno cercato le istituzioni più antiche (in modo di poter arrivare alla creazione degli stati generali o provinciali) e questa ricerca è legittima; ma in un secondo tempo è rimasto il problema (ed è il secondo procedimento) di spiegare perché gli stati generali o provinciali siano potuti diventare tali. Quindi, dice Bloch, questo secondo procedimento dovrà essere fatto provincia per provincia, in modo di poter comparare i risultati (le cause) ed arrivare a capire l’evoluzione che ha portato agli stati generali o provinciali.
Il metodo comparativo ha molto sofferto. Si ritiene che esso non abbia altro oggetto che la caccia alle rassomiglianze; lo si accusa, poi, di contentarsi di analogie forzate, . Invece correttamente inteso, esso porta alla percezione delle differenze, siano queste originarie o risultino invece da diverse strade prese da un diverso punto di partenza. Se si deduce che due oggetti non sono simili, bisogna determinare quali precisi caratteri li distinguono e quindi – come prima operazione – bisognerà esaminarli nel loro insieme. Questo , per liberare il terreno dalle false somiglianze che spesso non sono che delle omonimie.
Quante volte sono stati considerati come equivalenti il Villainage inglese dei sec XII, XIV, XV ed il Servage francese! Servo e villano sono considerati come privi di libertà. Qui Bloch parla diffusamente del Villainage e del Servage per giungere alla conclusione che i due tipi di persone che lavoravano la terra per un signore fino all’inizio del XII secolo, avevano appartenuto a condizioni giuridiche prossime e che è possibile, quindi, trattarle correttamente come due aspetti di una stessa istituzione. Sopraggiunge però , in Inghilterra, la formazione del Villainage ed ogni parallelismo cessa. Conclusione: si tratta di due classi totalmente dissimili. Vale la pena di porle a confronto? Si, ma con lo scopo di sottolineare i punti di contrasto. L’autore continua parlando della “libertà” relativamente a varie condizioni giuridiche che riguardavano i lavori dei vari “servi” che lavoravano la terra. Poi dice che è opportuno soffermarsi ancora sulla storia delle classi nelle società medievali. La nascita pone fra gli uomini delle differenze incalcolabili, comuni a tutte le epoche. Nel 987, il vescovo Auberon rinfaccia a Carlo di Lorena, candidato al trono di Francia e legittimo erede dei Carolingi il matrimonio con una donna che non era sua eguale e che, quindi, Carlo si era maritato nell’ordine dei vassalli, il padre della donna, infatti, aveva servito i duchi di Francia. Poi Bloch continua parlando delle varie categorie e classi sociali che in altri paesi avevano istituzioni (anche nel senso giuridico) diverse.
Altri fatti, più facili a cogliersi se non a spiegarsi, furono il risultato di un'altra forma di divergenza: il fatto che istituzioni, che originariamente erano state comuni a due società vicine mantenendosi lungamente nell’una e nell’altra, scompaiano. Nell’epoca carolingia sia sui territori francesi che su quelli tedeschi, parte del terreno riservata ai censuari era divisa in mansi ove, di frequente, vi erano molte famiglie di coltivatori. Il manso, per il signore, era un’unica unità e mai avrebbe dovuto essere spezzettata. Trasferiamoci nella Francia del 1200, non si parla più di mansi, ma sulle carte si conteggiano (numerandoli) i vari appezzamenti di terreno occupato da un individuo alla volta. In questo modo il terreno potrà essere o ereditato o venduto, dividendolo e spezzettandolo. In Germania, invece, la hufe (manso) non poteva essere spezzettata. Certo questo finirà per cessare con la fine del regime signorile, ma fino ad allora i signori tedeschi, al contrario dei signori francesi, si sforzeranno di mantenere il manso (hufe) integro. Conclusione: se si considera un solo paese, la morte del manso da una parte, la sua sopravvivenza dall’altro apparirebbe come uno di quei fenomeni che non avrebbero neanche bisogno di essere spiegati. Solo il confronto mostra che un problema esiste. Contributo notevolissimo, perché non vi è nulla di più pericoloso della tentazione di trovare tutto “naturale”.
La linguistica comparata ha come compito principale quello di individuare i caratteri originali delle diverse lingue. Antecedentemente, il suo sforzo si era sviluppato verso la ricerca delle lingue madri. Meillet diceva che non si erano trovate tracce per cui una lingua determinata risultava dalla mescolanza di morfologie di due lingue distinte. Se ciò invece dovesse succedere? La linguistica dovrebbe elaborare nuovi metodi. A questo punto Bloch, a proposito di confronto, spiega perché sono stati commessi errori di parte di Meitzen nel tentativo di ricostruire la carta etnica dell’Europa partendo da consuetudini agrarie.
1) Non ha distinto, per correttezza di metodo, abitato e forma dei campi;
2) Ha postulato il carattere primitivo di molti fenomeni;
3) Non ha studiato a fondo le consuetudini sociali, guardando solo i fatti materiali;
4) Ha considerato fattori tecnici, solo i celti, germani e slavi che erano i nuovi venuti nel loro habitat a discapito delle popolazioni anteriormente stabilite in quel suolo.
L’insegnamento che ci dà la storia comparata è che sarebbe ora di pensare a rompere i desueti compartimenti topografici nei quali si pretende di richiudere le realtà sociali. A questo proposito, quante volte non si è creduto di trovare 1 quadro soddisfacente per uno studio giuridico o economico del passato nelle frontiere degli stati attuali?
Qui ci sono 2 errori:

1) Anacronismo. Per quale ragione ci si è ridotti ad attribuire a questo tracciato 1 qualsiasi significato prima che questi fossero fissati?
2) perché si cercano fatti entro certi limiti territoriali quando questi potrebbero sfociare in zone più ampie? Es. lingua d’oil o lingua d’oc

Quindi, bisognerà trovare il quadro geografico proprio ad ogni aspetto della vita sociale nelle sue diverse fasi, quadro determinato dall’interno e non dall’esterno.
In pratica come lavorare?
Il confronto non avrà valore che in condizione di appoggiarsi su degli studi di fatti, critici e solidamente determinati. È anche evidente che non conviene, per ricerche di prima mano, a degli ambiti vasti. Gli autori di monografie dovranno leggere tutto quanto è stato pubblicato prima di loro e sia su società vicine che lontane, separate per via di condizioni politiche o do nazionalità da quelli che essi studiano. Converrà anche leggere monografie dettagliate simili per natura a quelle che essi intraprendono. Tutto questo per capire se delle piste sono da proseguire o abbandonare. Essi si impegneranno a non attribuire 1 importanza eccessiva alle pseudo cause locali; e al tempo stesso, si formeranno 1 sensibilità alle differenza specifiche.
Bloch invita gli eruditi a percorrere questa strada, anche se difficile. Infatti le informazioni bibliografiche finche sono difficili a raccogliersi; le opere poi di accesso ancora più difficile. Ci vorrebbe 1 buon organizzatore del prestito internazionale delle biblioteche, in modo di conoscere ciò che è stato gelosamente custodito.
L’autore consiglia al linguista di studiare almeno un’altra lingua. E fa cenno alle differenze tra il francese e il tedesco. La storia comparata volta alla conoscenza non alla grafica.
Quindi domanda agli autori di manuali generali non di abbandonare gli ambiti nazionali nei quali si rinchiudono ma, visto che le loro opere saranno lette al di fuori delle loro frontiere, di utilizzare tutti assieme un linguaggio scientifico comune, nel senso elevato della parola, al tempo stesso collezione di segni e ordine di classificazione. La storia comparata, resa più agevole a conoscersi e a esercitare la sua funzion
e, xxxx del suo spirito gli studi locali senza i quali essa non può nulla, ma senza la quale questi ultimi a loro volta non pervengono a nulla.
In una parola si finisca di discutere da storia nazionale a storia nazionale senza mai comprendersi in un dialogo a sordi nel quale ognuno risponde a sproposito alle domande dell’altro.

elisa.adragna
00sabato 17 ottobre 2009 11:02
Le serate bruttissimi sono
Ciro Cumulo
00sabato 17 ottobre 2009 11:48
Un applauso per me: l'Inferno di Dante interrotto al
Inferno - canto 1
1. 1 Nel mezzo del cammin di nostra vita
1. 2 mi ritrovai per una selva oscura
1. 3 ché la diritta via era smarrita.

1. 4 Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
1. 5 esta selva selvaggia e aspra e forte
1. 6 che nel pensier rinova la paura!

1. 7 Tant'è amara che poco è più morte;
1. 8 ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
1. 9 dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

1. 10 Io non so ben ridir com'i' v'intrai,
1. 11 tant'era pien di sonno a quel punto
1. 12 che la verace via abbandonai.

1. 13 Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
1. 14 là dove terminava quella valle
1. 15 che m'avea di paura il cor compunto,

1. 16 guardai in alto, e vidi le sue spalle
1. 17 vestite già de' raggi del pianeta
1. 18 che mena dritto altrui per ogne calle.

1. 19 Allor fu la paura un poco queta
1. 20 che nel lago del cor m'era durata
1. 21 la notte ch'i' passai con tanta pieta.

1. 22 E come quei che con lena affannata
1. 23 uscito fuor del pelago a la riva
1. 24 si volge a l'acqua perigliosa e guata,

1. 25 così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
1. 26 si volse a retro a rimirar lo passo
1. 27 che non lasciò già mai persona viva.

1. 28 Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso,
1. 29 ripresi via per la piaggia diserta,
1. 30 sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

1. 31 Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
1. 32 una lonza leggiera e presta molto,
1. 33 che di pel macolato era coverta;

1. 34 e non mi si partia dinanzi al volto,
1. 35 anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
1. 36 ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.

1. 37 Temp'era dal principio del mattino,
1. 38 e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
1. 39 ch'eran con lui quando l'amor divino

1. 40 mosse di prima quelle cose belle;
1. 41 sì ch'a bene sperar m'era cagione
1. 42 di quella fiera a la gaetta pelle
1. 43 l'ora del tempo e la dolce stagione;
1. 44 ma non sì che paura non mi desse
1. 45 la vista che m'apparve d'un leone.

1. 46 Questi parea che contra me venisse
1. 47 con la test'alta e con rabbiosa fame,
1. 48 sì che parea che l'aere ne tremesse.
1 49 Ed una lupa, che di tutte brame
1. 50 sembiava carca ne la sua magrezza,
1. 51 e molte genti fé già viver grame,

1. 52 questa mi porse tanto di gravezza
1. 53 con la paura ch'uscia di sua vista,
1. 54 ch'io perdei la speranza de l'altezza.

1. 55 E qual è quei che volontieri acquista,
1. 56 e giugne 'l tempo che perder lo face,
1. 57 che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;

1. 58 tal mi fece la bestia sanza pace,
1. 59 che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
1. 60 mi ripigneva là dove 'l sol tace.

1. 61 Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
1. 62 dinanzi a li occhi mi si fu offerto
1. 63 chi per lungo silenzio parea fioco.

1. 64 Quando vidi costui nel gran diserto,
1. 65 «*Miserere* di me», gridai a lui,
1. 66 «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

1. 67 Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
1. 68 e li parenti miei furon lombardi,
1. 69 mantoani per patria ambedui.

1. 70 Nacqui *sub Iulio*, ancor che fosse tardi,
1. 71 e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
1. 72 nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

1. 73 Poeta fui, e cantai di quel giusto
1. 74 figliuol d'Anchise che venne di Troia,
1. 75 poi che 'l superbo Ilion fu combusto.

1. 76 Ma tu perché ritorni a tanta noia?
1. 77 perché non sali il dilettoso monte
1. 78 ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

1. 79 «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
1. 80 che spandi di parlar sì largo fiume?»,
1. 81 rispuos'io lui con vergognosa fronte.

1. 82 «O de li altri poeti onore e lume
1. 83 vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
1. 84 che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

1. 85 Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
1. 86 tu se' solo colui da cu' io tolsi
1. 87 lo bello stilo che m'ha fatto onore.

1. 88 Vedi la bestia per cu' io mi volsi:
1. 89 aiutami da lei, famoso saggio,
1. 90 ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».

1. 91 «A te convien tenere altro viaggio»,
1. 92 rispuose, poi che lagrimar mi vide,
1. 93 «se vuo' campar d'esto loco selvaggio:

1. 94 ché questa bestia, per la qual tu gride,
1. 95 non lascia altrui passar per la sua via,
1. 96 ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

1. 97 e ha natura sì malvagia e ria,
1. 98 che mai non empie la bramosa voglia,
1. 99 e dopo 'l pasto ha più fame che pria.

1.100 Molti son li animali a cui s'ammoglia,
1.101 e più saranno ancora, infin che 'l veltro
1.102 verrà, che la farà morir con doglia.

1.103 Questi non ciberà terra né peltro,
1.104 ma sapienza, amore e virtute,
1.105 e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

1.106 Di quella umile Italia fia salute
1.107 per cui morì la vergine Cammilla,
1.108 Eurialo e Turno e Niso di ferute.

1.109 Questi la caccerà per ogne villa,
1.110 fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
1.111 là onde 'nvidia prima dipartilla.

1.112 Ond'io per lo tuo me' penso e discerno
1.113 che tu mi segui, e io sarò tua guida,
1.114 e trarrotti di qui per loco etterno;

1.115 ove udirai le disperate strida,
1.116 vedrai li antichi spiriti dolenti,
1.117 ch'a la seconda morte ciascun grida;

1.118 e vederai color che son contenti
1.119 nel foco, perché speran di venire
1.120 quando che sia a le beate genti.

1.121 A le quai poi se tu vorrai salire,
1.122 anima fia a ciò più di me degna:
1.123 con lei ti lascerò nel mio partire;

1.124 ché quello imperador che là sù regna,
1.125 perch'i' fu' ribellante a la sua legge,
1.126 non vuol che 'n sua città per me si vegna.

1.127 In tutte parti impera e quivi regge;
1.128 quivi è la sua città e l'alto seggio:
1.129 oh felice colui cu' ivi elegge!».

1.130 E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
1.131 per quello Dio che tu non conoscesti,
1.132 acciò ch'io fugga questo male e peggio,

1.133 che tu mi meni là dov'or dicesti,
1.134 sì ch'io veggia la porta di san Pietro
1.135 e color cui tu fai cotanto mesti».
1.136 Allor si mosse, e io li tenni dietro.

Inferno - canto 2
2. 1 Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
2. 2 toglieva li animai che sono in terra
2. 3 da le fatiche loro; e io sol uno

2. 4 m'apparecchiava a sostener la guerra
2. 5 sì del cammino e sì de la pietate,
2. 6 che ritrarrà la mente che non erra.

2. 7 O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
2. 8 o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
2. 9 qui si parrà la tua nobilitate.

2. 10 Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
2. 11 guarda la mia virtù s'ell'è possente,
2. 12 prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.

2. 13 Tu dici che di Silvio il parente,
2. 14 corruttibile ancora, ad immortale
2. 15 secolo andò, e fu sensibilmente.

2. 16 Però, se l'avversario d'ogne male
2. 17 cortese i fu, pensando l'alto effetto
2. 18 ch'uscir dovea di lui e 'l chi e 'l quale,

2. 19 non pare indegno ad omo d'intelletto;
2. 20 ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
2. 21 ne l'empireo ciel per padre eletto:

2. 22 la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
2. 23 fu stabilita per lo loco santo
2. 24 u' siede il successor del maggior Piero.

2. 25 Per quest'andata onde li dai tu vanto,
2. 26 intese cose che furon cagione
2. 27 di sua vittoria e del papale ammanto.

2. 28 Andovvi poi lo Vas d'elezione,
2. 29 per recarne conforto a quella fede
2. 30 ch'è principio a la via di salvazione.

2. 31 Ma io perché venirvi? o chi 'l concede?
2. 32 Io non Enea, io non Paulo sono:
2. 33 me degno a ciò né io né altri 'l crede.

2. 34 Per che, se del venire io m'abbandono,
2. 35 temo che la venuta non sia folle.
2. 36 Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».

2. 37 E qual è quei che disvuol ciò che volle
2. 38 e per novi pensier cangia proposta,
2. 39 sì che dal cominciar tutto si tolle,

2. 40 tal mi fec'io 'n quella oscura costa,
2. 41 perché, pensando, consumai la 'mpresa
2. 42 che fu nel cominciar cotanto tosta.

2. 43 «S'i' ho ben la parola tua intesa»,
2. 44 rispuose del magnanimo quell'ombra;
2. 45 «l'anima tua è da viltade offesa;

2. 46 la qual molte fiate l'omo ingombra
2. 47 sì che d'onrata impresa lo rivolve,
2. 48 come falso veder bestia quand'ombra.

2. 49 Da questa tema acciò che tu ti solve,
2. 50 dirotti perch'io venni e quel ch'io 'ntesi
2. 51 nel primo punto che di te mi dolve.

2. 52 Io era tra color che son sospesi,
2. 53 e donna mi chiamò beata e bella,
2. 54 tal che di comandare io la richiesi.

2. 55 Lucevan li occhi suoi più che la stella;
2. 56 e cominciommi a dir soave e piana,
2. 57 con angelica voce, in sua favella:

2. 58 "O anima cortese mantoana,
2. 59 di cui la fama ancor nel mondo dura,
2. 60 e durerà quanto 'l mondo lontana,

2. 61 l'amico mio, e non de la ventura,
2. 62 ne la diserta piaggia è impedito
2. 63 sì nel cammin, che volt'è per paura;

2. 64 e temo che non sia già sì smarrito,
2. 65 ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
2. 66 per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.

2. 67 Or movi, e con la tua parola ornata
2. 68 e con ciò c'ha mestieri al suo campare
2. 69 l'aiuta, sì ch'i' ne sia consolata.

2. 70 I' son Beatrice che ti faccio andare;
2. 71 vegno del loco ove tornar disio;
2. 72 amor mi mosse, che mi fa parlare.

2. 73 Quando sarò dinanzi al segnor mio,
2. 74 di te mi loderò sovente a lui".
2. 75 Tacette allora, e poi comincia' io:

2. 76 "O donna di virtù, sola per cui
2. 77 l'umana spezie eccede ogne contento
2. 78 di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,

2. 79 tanto m'aggrada il tuo comandamento,
2. 80 che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;
2. 81 più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.

2. 82 Ma dimmi la cagion che non ti guardi
2. 83 de lo scender qua giuso in questo centro
2. 84 de l'ampio loco ove tornar tu ardi".

2. 85 "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,
2. 86 dirotti brievemente", mi rispuose,
2. 87 "perch'io non temo di venir qua entro.

2. 88 Temer si dee di sole quelle cose
2. 89 c'hanno potenza di fare altrui male;
2. 90 de l'altre no, ché non son paurose.

2. 91 I' son fatta da Dio, sua mercé, tale,
2. 92 che la vostra miseria non mi tange,
2. 93 né fiamma d'esto incendio non m'assale.

2. 94 Donna è gentil nel ciel che si compiange
2. 95 di questo 'mpedimento ov'io ti mando,
2. 96 sì che duro giudicio là sù frange.

2. 97 Questa chiese Lucia in suo dimando
2. 98 e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
2. 99 di te, e io a te lo raccomando -.

2.100 Lucia, nimica di ciascun crudele,
2.101 si mosse, e venne al loco dov'i' era,
2.102 che mi sedea con l'antica Rachele.
2.103 Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
2.104 ché non soccorri quei che t'amò tanto,
2.105 ch'uscì per te de la volgare schiera?

2.106 non odi tu la pieta del suo pianto?
2.107 non vedi tu la morte che 'l combatte
2.108 su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? -

2.109 Al mondo non fur mai persone ratte
2.110 a far lor pro o a fuggir lor danno,
2.111 com'io, dopo cotai parole fatte,

2.112 venni qua giù del mio beato scanno,
2.113 fidandomi del tuo parlare onesto,
2.114 ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".

2.115 Poscia che m'ebbe ragionato questo,
2.116 li occhi lucenti lagrimando volse;
2.117 per che mi fece del venir più presto;

2.118 e venni a te così com'ella volse;
2.119 d'inanzi a quella fiera ti levai
2.120 che del bel monte il corto andar ti tolse.

2.121 Dunque: che è? perché, perché restai?
2.122 perché tanta viltà nel core allette?
2.123 perché ardire e franchezza non hai?

2.124 poscia che tai tre donne benedette
2.125 curan di te ne la corte del cielo,
2.126 e 'l mio parlar tanto ben ti promette?».

2.127 Quali fioretti dal notturno gelo
2.128 chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca
2.129 si drizzan tutti aperti in loro stelo,

2.130 tal mi fec'io di mia virtude stanca,
2.131 e tanto buono ardire al cor mi corse,
2.132 ch'i' cominciai come persona franca:

2.133 «Oh pietosa colei che mi soccorse!
2.134 e te cortese ch'ubidisti tosto
2.135 a le vere parole che ti porse!

2.136 Tu m'hai con disiderio il cor disposto
2.137 sì al venir con le parole tue,
2.138 ch'i' son tornato nel primo proposto.

2.139 Or va, ch'un sol volere è d'ambedue:
2.140 tu duca, tu segnore, e tu maestro».
2.141 Così li dissi; e poi che mosso fue,
2.142 intrai per lo cammino alto e silvestro.

Inferno - canto 3
3. 1 "Per me si va ne la città dolente,
3. 2 per me si va ne l'etterno dolore,
3. 3 per me si va tra la perduta gente.

3. 4 Giustizia mosse il mio alto fattore:
3. 5 fecemi la divina podestate,
3. 6 la somma sapienza e 'l primo amore.

3. 7 Dinanzi a me non fuor cose create
3. 8 se non etterne, e io etterno duro.
3. 9 Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate".
3. 10 Queste parole di colore oscuro
3. 11 vid'io scritte al sommo d'una porta;
3. 12 per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».

3. 13 Ed elli a me, come persona accorta:
3. 14 «Qui si convien lasciare ogne sospetto;
3. 15 ogne viltà convien che qui sia morta.

3. 16 Noi siam venuti al loco ov'i' t'ho detto
3. 17 che tu vedrai le genti dolorose
3. 18 c'hanno perduto il ben de l'intelletto».

3. 19 E poi che la sua mano a la mia puose
3. 20 con lieto volto, ond'io mi confortai,
3. 21 mi mise dentro a le segrete cose.

3. 22 Quivi sospiri, pianti e alti guai
3. 23 risonavan per l'aere sanza stelle,
3. 24 per ch'io al cominciar ne lagrimai.

3. 25 Diverse lingue, orribili favelle,
3. 26 parole di dolore, accenti d'ira,
3. 27 voci alte e fioche, e suon di man con elle

3. 28 facevano un tumulto, il qual s'aggira
3. 29 sempre in quell'aura sanza tempo tinta,
3. 30 come la rena quando turbo spira.

3. 31 E io ch'avea d'error la testa cinta,
3. 32 dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?
3. 33 e che gent'è che par nel duol sì vinta?».

3. 34 Ed elli a me: «Questo misero modo
3. 35 tegnon l'anime triste di coloro
3. 36 che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.

3. 37 Mischiate sono a quel cattivo coro
3. 38 de li angeli che non furon ribelli
3. 39 né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

3. 40 Caccianli i ciel per non esser men belli,
3. 41 né lo profondo inferno li riceve,
3. 42 ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».

3. 43 E io: «Maestro, che è tanto greve
3. 44 a lor, che lamentar li fa sì forte?».
3. 45 Rispuose: «Dicerolti molto breve.

3. 46 Questi non hanno speranza di morte
3. 47 e la lor cieca vita è tanto bassa,
3. 48 che 'nvidiosi son d'ogne altra sorte.

3. 49 Fama di loro il mondo esser non lassa;
3. 50 misericordia e giustizia li sdegna:
3. 51 non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

3. 52 E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
3. 53 che girando correva tanto ratta,
3. 54 che d'ogne posa mi parea indegna;

3. 55 e dietro le venìa sì lunga tratta
3. 56 di gente, ch'i' non averei creduto
3. 57 che morte tanta n'avesse disfatta.

3. 58 Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
3. 59 vidi e conobbi l'ombra di colui
3. 60 che fece per viltade il gran rifiuto.

3. 61 Incontanente intesi e certo fui
3. 62 che questa era la setta d'i cattivi,
3. 63 a Dio spiacenti e a' nemici sui.

3. 64 Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
3. 65 erano ignudi e stimolati molto
3. 66 da mosconi e da vespe ch'eran ivi.

3. 67 Elle rigavan lor di sangue il volto,
3. 68 che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
3. 69 da fastidiosi vermi era ricolto.

3. 70 E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,
3. 71 vidi genti a la riva d'un gran fiume;
3. 72 per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi

3. 73 ch'i' sappia quali sono, e qual costume
3. 74 le fa di trapassar parer sì pronte,
3. 75 com'io discerno per lo fioco lume».

3. 76 Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
3. 77 quando noi fermerem li nostri passi
3. 78 su la trista riviera d'Acheronte».

3. 79 Allor con li occhi vergognosi e bassi,
3. 80 temendo no 'l mio dir li fosse grave,
3. 81 infino al fiume del parlar mi trassi.

3. 82 Ed ecco verso noi venir per nave
3. 83 un vecchio, bianco per antico pelo,
3. 84 gridando: «Guai a voi, anime prave!

3. 85 Non isperate mai veder lo cielo:
3. 86 i' vegno per menarvi a l'altra riva
3. 87 ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.

3. 88 E tu che se' costì, anima viva,
3. 89 pàrtiti da cotesti che son morti».
3. 90 Ma poi che vide ch'io non mi partiva,

3. 91 disse: «Per altra via, per altri porti
3. 92 verrai a piaggia, non qui, per passare:
3. 93 più lieve legno convien che ti porti».

3. 94 E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
3. 95 vuolsi così colà dove si puote
3. 96 ciò che si vuole, e più non dimandare».

3. 97 Quinci fuor quete le lanose gote
3. 98 al nocchier de la livida palude,
3. 99 che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

3.100 Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude,
3.101 cangiar colore e dibattero i denti,
3.102 ratto che 'nteser le parole crude.

3.103 Bestemmiavano Dio e lor parenti,
3.104 l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
3.105 di lor semenza e di lor nascimenti.

3.106 Poi si ritrasser tutte quante insieme,
3.107 forte piangendo, a la riva malvagia
3.108 ch'attende ciascun uom che Dio non teme.

3.109 Caron dimonio, con occhi di bragia,
3.110 loro accennando, tutte le raccoglie;
3.111 batte col remo qualunque s'adagia.

3.112 Come d'autunno si levan le foglie
3.113 l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
3.114 vede a la terra tutte le sue spoglie,

3.115 similemente il mal seme d'Adamo
3.116 gittansi di quel lito ad una ad una,
3.117 per cenni come augel per suo richiamo.

3.118 Così sen vanno su per l'onda bruna,
3.119 e avanti che sien di là discese,
3.120 anche di qua nuova schiera s'auna.

3.121 «Figliuol mio», disse 'l maestro cortese,
3.122 «quelli che muoion ne l'ira di Dio
3.123 tutti convegnon qui d'ogne paese:

3.124 e pronti sono a trapassar lo rio,
3.125 ché la divina giustizia li sprona,
3.126 sì che la tema si volve in disio.

3.127 Quinci non passa mai anima buona;
3.128 e però, se Caron di te si lagna,
3.129 ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».

3.130 Finito questo, la buia campagna
3.131 tremò sì forte, che de lo spavento
3.132 la mente di sudore ancor mi bagna.

3.133 La terra lagrimosa diede vento,
3.134 che balenò una luce vermiglia
3.135 la qual mi vinse ciascun sentimento
3.136 e caddi come l'uom cui sonno piglia.

Inferno - canto 4
4. 1 Ruppemi l'alto sonno ne la testa
4. 2 un greve truono, sì ch'io mi riscossi
4. 3 come persona ch'è per forza desta;

4. 4 e l'occhio riposato intorno mossi,
4. 5 dritto levato, e fiso riguardai
4. 6 per conoscer lo loco dov'io fossi.

4. 7 Vero è che 'n su la proda mi trovai
4. 8 de la valle d'abisso dolorosa
4. 9 che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.

4. 10 Oscura e profonda era e nebulosa
4. 11 tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
4. 12 io non vi discernea alcuna cosa.

4. 13 «Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
4. 14 cominciò il poeta tutto smorto.
4. 15 «Io sarò primo, e tu sarai secondo».

4. 16 E io, che del color mi fui accorto,
4. 17 dissi: «Come verrò, se tu paventi
4. 18 che suoli al mio dubbiare esser conforto?».

4. 19 Ed elli a me: «L'angoscia de le genti
4. 20 che son qua giù, nel viso mi dipigne
4. 21 quella pietà che tu per tema senti.

4. 22 Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
4. 23 Così si mise e così mi fé intrare
4. 24 nel primo cerchio che l'abisso cigne.

4. 25 Quivi, secondo che per ascoltare,
4. 26 non avea pianto mai che di sospiri,
4. 27 che l'aura etterna facevan tremare;

4. 28 ciò avvenia di duol sanza martìri
4. 29 ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
4. 30 d'infanti e di femmine e di viri.
4. 31 Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
4. 32 che spiriti son questi che tu vedi?
4. 33 Or vo' che sappi, innanzi che più andi,

4. 34 ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
4. 35 non basta, perché non ebber battesmo,
4. 36 ch'è porta de la fede che tu credi;

4. 37 e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,
4. 38 non adorar debitamente a Dio:
4. 39 e di questi cotai son io medesmo.

4. 40 Per tai difetti, non per altro rio,
4. 41 semo perduti, e sol di tanto offesi,
4. 42 che sanza speme vivemo in disio».

4. 43 Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
4. 44 però che gente di molto valore
4. 45 conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.

4. 46 «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
4. 47 comincia' io per voler esser certo
4. 48 di quella fede che vince ogne errore:

4. 49 «uscicci mai alcuno, o per suo merto
4. 50 o per altrui, che poi fosse beato?».
4. 51 E quei che 'ntese il mio parlar coverto,

4. 52 rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
4. 53 quando ci vidi venire un Possente,
4. 54 con segno di vittoria coronato.

4. 55 Trasseci l'ombra del primo parente,
4. 56 d'Abèl suo figlio e quella di Noè,
4. 57 di Moisè legista e ubidente;

4. 58 Abraàm patriarca e Davìd re,
4. 59 Israèl con lo padre e co' suoi nati
4. 60 e con Rachele, per cui tanto fé;

4. 61 e altri molti, e feceli beati.
4. 62 E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
4. 63 spiriti umani non eran salvati».

4. 64 Non lasciavam l'andar perch'ei dicessi,
4. 65 ma passavam la selva tuttavia,
4. 66 la selva, dico, di spiriti spessi.

4. 67 Non era lunga ancor la nostra via
4. 68 di qua dal sonno, quand'io vidi un foco
4. 69 ch'emisperio di tenebre vincia.

4. 70 Di lungi n'eravamo ancora un poco,
4. 71 ma non sì ch'io non discernessi in parte
4. 72 ch'orrevol gente possedea quel loco.

4. 73 «O tu ch'onori scienzia e arte,
4. 74 questi chi son c'hanno cotanta onranza,
4. 75 che dal modo de li altri li diparte?».

4. 76 E quelli a me: «L'onrata nominanza
4. 77 che di lor suona sù ne la tua vita,
4. 78 grazia acquista in ciel che sì li avanza».

4. 79 Intanto voce fu per me udita:
4. 80 «Onorate l'altissimo poeta:
4. 81 l'ombra sua torna, ch'era dipartita».

4. 82 Poi che la voce fu restata e queta,
4. 83 vidi quattro grand'ombre a noi venire:
4. 84 sembianz'avevan né trista né lieta.

4. 85 Lo buon maestro cominciò a dire:
4. 86 «Mira colui con quella spada in mano,
4. 87 che vien dinanzi ai tre sì come sire:

4. 88 quelli è Omero poeta sovrano;
4. 89 l'altro è Orazio satiro che vene;
4. 90 Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.

4. 91 Però che ciascun meco si convene
4. 92 nel nome che sonò la voce sola,
4. 93 fannomi onore, e di ciò fanno bene».

4. 94 Così vid'i' adunar la bella scola
4. 95 di quel segnor de l'altissimo canto
4. 96 che sovra li altri com'aquila vola.

4. 97 Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
4. 98 volsersi a me con salutevol cenno,
4. 99 e 'l mio maestro sorrise di tanto;

4.100 e più d'onore ancora assai mi fenno,
4.101 ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,
4.102 sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.

4.103 Così andammo infino a la lumera,
4.104 parlando cose che 'l tacere è bello,
4.105 sì com'era 'l parlar colà dov'era.

4.106 Venimmo al piè d'un nobile castello,
4.107 sette volte cerchiato d'alte mura,
4.108 difeso intorno d'un bel fiumicello.

4.109 Questo passammo come terra dura;
4.110 per sette porte intrai con questi savi:
4.111 giugnemmo in prato di fresca verdura.

4.112 Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
4.113 di grande autorità ne' lor sembianti:
4.114 parlavan rado, con voci soavi.

4.115 Traemmoci così da l'un de' canti,
4.116 in loco aperto, luminoso e alto,
4.117 sì che veder si potien tutti quanti.

4.118 Colà diritto, sovra 'l verde smalto,
4.119 mi fuor mostrati li spiriti magni,
4.120 che del vedere in me stesso m'essalto.

4.121 I' vidi Eletra con molti compagni,
4.122 tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,
4.123 Cesare armato con li occhi grifagni.

4.124 Vidi Cammilla e la Pantasilea;
4.125 da l'altra parte, vidi 'l re Latino
4.126 che con Lavina sua figlia sedea.

4.127 Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
4.128 Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
4.129 e solo, in parte, vidi 'l Saladino.

4.130 Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,
4.131 vidi 'l maestro di color che sanno
4.132 seder tra filosofica famiglia.

4.133 Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
4.134 quivi vid'io Socrate e Platone,
4.135 che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;

4.136 Democrito, che 'l mondo a caso pone,
4.137 Diogenés, Anassagora e Tale,
4.138 Empedoclès, Eraclito e Zenone;

4.139 e vidi il buono accoglitor del quale,
4.140 Diascoride dico; e vidi Orfeo,
4.141 Tulio e Lino e Seneca morale;

4.142 Euclide geomètra e Tolomeo,
4.143 Ipocràte, Avicenna e Galieno,
4.144 Averoìs, che 'l gran comento feo.

4.145 Io non posso ritrar di tutti a pieno,
4.146 però che sì mi caccia il lungo tema,
4.147 che molte volte al fatto il dir vien meno.

4.148 La sesta compagnia in due si scema:
4.149 per altra via mi mena il savio duca,
4.150 fuor de la queta, ne l'aura che trema.
4.151 E vegno in parte ove non è che luca.

Inferno - canto 5
5. 1 Così discesi del cerchio primaio
5. 2 giù nel secondo, che men loco cinghia,
5. 3 e tanto più dolor, che punge a guaio.

5. 4 Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
5. 5 essamina le colpe ne l'intrata;
5. 6 giudica e manda secondo ch'avvinghia.

5. 7 Dico che quando l'anima mal nata
5. 8 li vien dinanzi, tutta si confessa;
5. 9 e quel conoscitor de le peccata

5. 10 vede qual loco d'inferno è da essa;
5. 11 cignesi con la coda tante volte
5. 12 quantunque gradi vuol che giù sia messa.

5. 13 Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
5. 14 vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
5. 15 dicono e odono, e poi son giù volte.

5. 16 «O tu che vieni al doloroso ospizio»,
5. 17 disse Minòs a me quando mi vide,
5. 18 lasciando l'atto di cotanto offizio,

5. 19 «guarda com'entri e di cui tu ti fide;
5. 20 non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
5. 21 E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?

5. 22 Non impedir lo suo fatale andare:
5. 23 vuolsi così colà dove si puote
5. 24 ciò che si vuole, e più non dimandare».

5. 25 Or incomincian le dolenti note
5. 26 a farmisi sentire; or son venuto
5. 27 là dove molto pianto mi percuote.

5. 28 Io venni in loco d'ogne luce muto,
5. 29 che mugghia come fa mar per tempesta,
5. 30 se da contrari venti è combattuto.

5. 31 La bufera infernal, che mai non resta,
5. 32 mena li spirti con la sua rapina;
5. 33 voltando e percotendo li molesta.

5. 34 Quando giungon davanti a la ruina,
5. 35 quivi le strida, il compianto, il lamento;
5. 36 bestemmian quivi la virtù divina.

5. 37 Intesi ch'a così fatto tormento
5. 38 enno dannati i peccator carnali,
5. 39 che la ragion sommettono al talento.

5. 40 E come li stornei ne portan l'ali
5. 41 nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
5. 42 così quel fiato li spiriti mali

5. 43 di qua, di là, di giù, di sù li mena;
5. 44 nulla speranza li conforta mai,
5. 45 non che di posa, ma di minor pena.

5. 46 E come i gru van cantando lor lai,
5. 47 faccendo in aere di sé lunga riga,
5. 48 così vid'io venir, traendo guai,

5. 49 ombre portate da la detta briga;
5. 50 per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
5. 51 genti che l'aura nera sì gastiga?».

5. 52 «La prima di color di cui novelle
5. 53 tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
5. 54 «fu imperadrice di molte favelle.

5. 55 A vizio di lussuria fu sì rotta,
5. 56 che libito fé licito in sua legge,
5. 57 per tòrre il biasmo in che era condotta.

5. 58 Ell'è Semiramìs, di cui si legge
5. 59 che succedette a Nino e fu sua sposa:
5. 60 tenne la terra che 'l Soldan corregge.

5. 61 L'altra è colei che s'ancise amorosa,
5. 62 e ruppe fede al cener di Sicheo;
5. 63 poi è Cleopatràs lussuriosa.

5. 64 Elena vedi, per cui tanto reo
5. 65 tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
5. 66 che con amore al fine combatteo.

5. 67 Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
5. 68 ombre mostrommi e nominommi a dito,
5. 69 ch'amor di nostra vita dipartille.

5. 70 Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito
5. 71 nomar le donne antiche e ' cavalieri,
5. 72 pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

5. 73 I' cominciai: «Poeta, volontieri
5. 74 parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
5. 75 e paion sì al vento esser leggieri».

5. 76 Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
5. 77 più presso a noi; e tu allor li priega
5. 78 per quello amor che i mena, ed ei verranno».

5. 79 Sì tosto come il vento a noi li piega,
5. 80 mossi la voce: «O anime affannate,
5. 81 venite a noi parlar, s'altri nol niega!».

5. 82 Quali colombe dal disio chiamate
5. 83 con l'ali alzate e ferme al dolce nido
5. 84 vegnon per l'aere, dal voler portate;

5. 85 cotali uscir de la schiera ov'è Dido,
5. 86 a noi venendo per l'aere maligno,
5. 87 sì forte fu l'affettuoso grido.

5. 88 «O animal grazioso e benigno
5. 89 che visitando vai per l'aere perso
5. 90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

5. 91 se fosse amico il re de l'universo,
5. 92 noi pregheremmo lui de la tua pace,
5. 93 poi c'hai pietà del nostro mal perverso.

5. 94 Di quel che udire e che parlar vi piace,
5. 95 noi udiremo e parleremo a voi,
5. 96 mentre che 'l vento, come fa, ci tace.

5. 97 Siede la terra dove nata fui
5. 98 su la marina dove 'l Po discende
5. 99 per aver pace co' seguaci sui.

5.100 Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende
5.101 prese costui de la bella persona
5.102 che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

5.103 Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
5.104 mi prese del costui piacer sì forte,
5.105 che, come vedi, ancor non m'abbandona.

5.106 Amor condusse noi ad una morte:
5.107 Caina attende chi a vita ci spense».
5.108 Queste parole da lor ci fuor porte.

5.109 Quand'io intesi quell'anime offense,
5.110 china' il viso e tanto il tenni basso,
5.111 fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».

5.112 Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
5.113 quanti dolci pensier, quanto disio
5.114 menò costoro al doloroso passo!».

5.115 Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
5.116 e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
5.117 a lagrimar mi fanno tristo e pio.

5.118 Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri,
5.119 a che e come concedette amore
5.120 che conosceste i dubbiosi disiri?».

5.121 E quella a me: «Nessun maggior dolore
5.122 che ricordarsi del tempo felice
5.123 ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.

5.124 Ma s'a conoscer la prima radice
5.125 del nostro amor tu hai cotanto affetto,
5.126 dirò come colui che piange e dice.

5.127 Noi leggiavamo un giorno per diletto
5.128 di Lancialotto come amor lo strinse;
5.129 soli eravamo e sanza alcun sospetto.

5.130 Per più fiate li occhi ci sospinse
5.131 quella lettura, e scolorocci il viso;
5.132 ma solo un punto fu quel che ci vinse.

5.133 Quando leggemmo il disiato riso
5.134 esser basciato da cotanto amante,
5.135 questi, che mai da me non fia diviso,

5.136 la bocca mi basciò tutto tremante.
5.137 Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
5.138 quel giorno più non vi leggemmo avante».

5.139 Mentre che l'uno spirto questo disse,
5.140 l'altro piangea; sì che di pietade
5.141 io venni men così com'io morisse.
5.142 E caddi come corpo morto cade.

Inferno - canto 6
6. 1 Al tornar de la mente, che si chiuse
6. 2 dinanzi a la pietà de'due cognati,
6. 3 che di trestizia tutto mi confuse,

6. 4 novi tormenti e novi tormentati
6. 5 mi veggio intorno, come ch'io mi mova
6. 6 e ch'io mi volga, e come che io guati.

6. 7 Io sono al terzo cerchio, de la piova
6. 8 etterna, maladetta, fredda e greve;
6. 9 regola e qualità mai non l'è nova.

6. 10 Grandine grossa, acqua tinta e neve
6. 11 per l'aere tenebroso si riversa;
6. 12 pute la terra che questo riceve.

6. 13 Cerbero, fiera crudele e diversa,
6. 14 con tre gole caninamente latra
6. 15 sovra la gente che quivi è sommersa.

6. 16 Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
6. 17 e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
6. 18 graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.

6. 19 Urlar li fa la pioggia come cani;
6. 20 de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
6. 21 volgonsi spesso i miseri profani.

6. 22 Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
6. 23 le bocche aperse e mostrocci le sanne;
6. 24 non avea membro che tenesse fermo.

6. 25 E 'l duca mio distese le sue spanne,
6. 26 prese la terra, e con piene le pugna
6. 27 la gittò dentro a le bramose canne.

6. 28 Qual è quel cane ch'abbaiando agogna,
6. 29 e si racqueta poi che 'l pasto morde,
6. 30 ché solo a divorarlo intende e pugna,

6. 31 cotai si fecer quelle facce lorde
6. 32 de lo demonio Cerbero, che 'ntrona
6. 33 l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.

6. 34 Noi passavam su per l'ombre che adona
6. 35 la greve pioggia, e ponavam le piante
6. 36 sovra lor vanità che par persona.

6. 37 Elle giacean per terra tutte quante,
6. 38 fuor d'una ch'a seder si levò, ratto
6. 39 ch'ella ci vide passarsi davante.

6. 40 «O tu che se' per questo 'nferno tratto»,
6. 41 mi disse, «riconoscimi, se sai:
6. 42 tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto».

6. 43 E io a lui: «L'angoscia che tu hai
6. 44 forse ti tira fuor de la mia mente,
6. 45 sì che non par ch'i' ti vedessi mai.

6. 46 Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente
6. 47 loco se' messo e hai sì fatta pena,
6. 48 che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente».

6. 49 Ed elli a me: «La tua città, ch'è piena
6. 50 d'invidia sì che già trabocca il sacco,
6. 51 seco mi tenne in la vita serena.

6. 52 Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
6. 53 per la dannosa colpa de la gola,
6. 54 come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

6. 55 E io anima trista non son sola,
6. 56 ché tutte queste a simil pena stanno
6. 57 per simil colpa». E più non fé parola.

6. 58 Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
6. 59 mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita;
6. 60 ma dimmi, se tu sai, a che verranno

6. 61 li cittadin de la città partita;
6. 62 s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione
6. 63 per che l'ha tanta discordia assalita».

6. 64 E quelli a me: «Dopo lunga tencione
6. 65 verranno al sangue, e la parte selvaggia
6. 66 caccerà l'altra con molta offensione.

6. 67 Poi appresso convien che questa caggia
6. 68 infra tre soli, e che l'altra sormonti
6. 69 con la forza di tal che testé piaggia.

6. 70 Alte terrà lungo tempo le fronti,
6. 71 tenendo l'altra sotto gravi pesi,
6. 72 come che di ciò pianga o che n'aonti.

6. 73 Giusti son due, e non vi sono intesi;
6. 74 superbia, invidia e avarizia sono
6. 75 le tre faville c'hanno i cuori accesi».

6. 76 Qui puose fine al lagrimabil suono.
6. 77 E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni,
6. 78 e che di più parlar mi facci dono.

6. 79 Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni,
6. 80 Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca
6. 81 e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni,

6. 82 dimmi ove sono e fa ch'io li conosca;
6. 83 ché gran disio mi stringe di savere
6. 84 se 'l ciel li addolcia, o lo 'nferno li attosca».

6. 85 E quelli: «Ei son tra l'anime più nere:
6. 86 diverse colpe giù li grava al fondo:
6. 87 se tanto scendi, là i potrai vedere.

6. 88 Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
6. 89 priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
6. 90 più non ti dico e più non ti rispondo».

6. 91 Li diritti occhi torse allora in biechi;
6. 92 guardommi un poco, e poi chinò la testa:
6. 93 cadde con essa a par de li altri ciechi.

6. 94 E 'l duca disse a me: «Più non si desta
6. 95 di qua dal suon de l'angelica tromba,
6. 96 quando verrà la nimica podesta:

6. 97 ciascun rivederà la trista tomba,
6. 98 ripiglierà sua carne e sua figura,
6. 99 udirà quel ch'in etterno rimbomba».

6.100 Sì trapassammo per sozza mistura
6.101 de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
6.102 toccando un poco la vita futura;

6.103 per ch'io dissi: «Maestro, esti tormenti
6.104 crescerann'ei dopo la gran sentenza,
6.105 o fier minori, o saran sì cocenti?».

6.106 Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza,
6.107 che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
6.108 più senta il bene, e così la doglienza.

6.109 Tutto che questa gente maladetta
6.110 in vera perfezion già mai non vada,
6.111 di là più che di qua essere aspetta».

6.112 Noi aggirammo a tondo quella strada,
6.113 parlando più assai ch'i' non ridico;
6.114 venimmo al punto dove si digrada:
6.115 quivi trovammo Pluto, il gran nemico.

Inferno - canto 7
7. 1 «*Papé Satàn, pape Satàn aleppe!*»,
7. 2 cominciò Pluto con la voce chioccia;
7. 3 e quel savio gentil, che tutto seppe,

7. 4 disse per confortarmi: «Non ti noccia
7. 5 la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
7. 6 non ci torrà lo scender questa roccia».

7. 7 Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,
7. 8 e disse: «Taci, maladetto lupo!
7. 9 consuma dentro te con la tua rabbia.

7. 10 Non è sanza cagion l'andare al cupo:
7. 11 vuolsi ne l'alto, là dove Michele
7. 12 fé la vendetta del superbo strupo».

7. 13 Quali dal vento le gonfiate vele
7. 14 caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,
7. 15 tal cadde a terra la fiera crudele.

7. 16 Così scendemmo ne la quarta lacca
7. 17 pigliando più de la dolente ripa
7. 18 che 'l mal de l'universo tutto insacca.

7. 19 Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
7. 20 nove travaglie e pene quant'io viddi?
7. 21 e perché nostra colpa sì ne scipa?

7. 22 Come fa l'onda là sovra Cariddi,
7. 23 che si frange con quella in cui s'intoppa,
7. 24 così convien che qui la gente riddi.

7. 25 Qui vid'i' gente più ch'altrove troppa,
7. 26 e d'una parte e d'altra, con grand'urli,
7. 27 voltando pesi per forza di poppa.

7. 28 Percoteansi 'ncontro; e poscia pur lì
7. 29 si rivolgea ciascun, voltando a retro,
7. 30 gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».

7. 31 Così tornavan per lo cerchio tetro
7. 32 da ogne mano a l'opposito punto,
7. 33 gridandosi anche loro ontoso metro;

7. 34 poi si volgea ciascun, quand'era giunto,
7. 35 per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.
7. 36 E io, ch'avea lo cor quasi compunto,

7. 37 dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
7. 38 che gente è questa, e se tutti fuor cherci
7. 39 questi chercuti a la sinistra nostra».

7. 40 Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
7. 41 sì de la mente in la vita primaia,
7. 42 che con misura nullo spendio ferci.

7. 43 Assai la voce lor chiaro l'abbaia
7. 44 quando vegnono a' due punti del cerchio
7. 45 dove colpa contraria li dispaia.

7. 46 Questi fuor cherci, che non han coperchio
7. 47 piloso al capo, e papi e cardinali,
7. 48 in cui usa avarizia il suo soperchio».

7. 49 E io: «Maestro, tra questi cotali
7. 50 dovre' io ben riconoscere alcuni
7. 51 che furo immondi di cotesti mali».

7. 52 Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
7. 53 la sconoscente vita che i fé sozzi
7. 54 ad ogne conoscenza or li fa bruni.

7. 55 In etterno verranno a li due cozzi:
7. 56 questi resurgeranno del sepulcro
7. 57 col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.

7. 58 Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
7. 59 ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
7. 60 qual ella sia, parole non ci appulcro.

7. 61 Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
7. 62 d'i ben che son commessi a la fortuna,
7. 63 per che l'umana gente si rabbuffa;

7. 64 ché tutto l'oro ch'è sotto la luna
7. 65 e che già fu, di quest'anime stanche
7. 66 non poterebbe farne posare una».

7. 67 «Maestro mio», diss'io, «or mi dì anche:
7. 68 questa fortuna di che tu mi tocche,
7. 69 che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».

7. 70 E quelli a me: «Oh creature sciocche,
7. 71 quanta ignoranza è quella che v'offende!
7. 72 Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.

7. 73 Colui lo cui saver tutto trascende,
7. 74 fece li cieli e diè lor chi conduce
7. 75 sì ch'ogne parte ad ogne parte splende,

7. 76 distribuendo igualmente la luce.
7. 77 Similemente a li splendor mondani
7. 78 ordinò general ministra e duce

7. 79 che permutasse a tempo li ben vani
7. 80 di gente in gente e d'uno in altro sangue,
7. 81 oltre la difension d'i senni umani;

7. 82 per ch'una gente impera e l'altra langue,
7. 83 seguendo lo giudicio di costei,
7. 84 che è occulto come in erba l'angue.

7. 85 Vostro saver non ha contasto a lei:
7. 86 questa provede, giudica, e persegue
7. 87 suo regno come il loro li altri dèi.

7. 88 Le sue permutazion non hanno triegue;
7. 89 necessità la fa esser veloce;
7. 90 sì spesso vien chi vicenda consegue.

7. 91 Quest'è colei ch'è tanto posta in croce
7. 92 pur da color che le dovrien dar lode,
7. 93 dandole biasmo a torto e mala voce;

7. 94 ma ella s'è beata e ciò non ode:
7. 95 con l'altre prime creature lieta
7. 96 volve sua spera e beata si gode.

7. 97 Or discendiamo omai a maggior pieta;
7. 98 già ogne stella cade che saliva
7. 99 quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».

7.100 Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva
7.101 sovr'una fonte che bolle e riversa
7.102 per un fossato che da lei deriva.

7.103 L'acqua era buia assai più che persa;
7.104 e noi, in compagnia de l'onde bige,
7.105 intrammo giù per una via diversa.

7.106 In la palude va c'ha nome Stige
7.107 questo tristo ruscel, quand'è disceso
7.108 al piè de le maligne piagge grige.

7.109 E io, che di mirare stava inteso,
7.110 vidi genti fangose in quel pantano,
7.111 ignude tutte, con sembiante offeso.

7.112 Queste si percotean non pur con mano,
7.113 ma con la testa e col petto e coi piedi,
7.114 troncandosi co' denti a brano a brano.

7.115 Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
7.116 l'anime di color cui vinse l'ira;
7.117 e anche vo' che tu per certo credi

7.118 che sotto l'acqua è gente che sospira,
7.119 e fanno pullular quest'acqua al summo,
7.120 come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.
7.121 Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo
7.122 ne l'aere dolce che dal sol s'allegra,
7.123 portando dentro accidioso fummo:

7.124 or ci attristiam ne la belletta negra".
7.125 Quest'inno si gorgoglian ne la strozza,
7.126 ché dir nol posson con parola integra».

7.127 Così girammo de la lorda pozza
7.128 grand'arco tra la ripa secca e 'l mézzo,
7.129 con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
7.130 Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.

Inferno - canto 8
8. 1 Io dico, seguitando, ch'assai prima
8. 2 che noi fossimo al piè de l'alta torre,
8. 3 li occhi nostri n'andar suso a la cima

8. 4 per due fiammette che i vedemmo porre
8. 5 e un'altra da lungi render cenno
8. 6 tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre.

8. 7 E io mi volsi al mar di tutto 'l senno;
8. 8 dissi: «Questo che dice? e che risponde
8. 9 quell'altro foco? e chi son quei che 'l fenno?».

8. 10 Ed elli a me: «Su per le sucide onde
8. 11 già scorgere puoi quello che s'aspetta,
8. 12 se 'l fummo del pantan nol ti nasconde».

8. 13 Corda non pinse mai da sé saetta
8. 14 che sì corresse via per l'aere snella,
8. 15 com'io vidi una nave piccioletta

8. 16 venir per l'acqua verso noi in quella,
8. 17 sotto 'l governo d'un sol galeoto,
8. 18 che gridava: «Or se' giunta, anima fella!».

8. 19 «Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto»,
8. 20 disse lo mio segnore «a questa volta:
8. 21 più non ci avrai che sol passando il loto».

8. 22 Qual è colui che grande inganno ascolta
8. 23 che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
8. 24 fecesi Flegiàs ne l'ira accolta.

8. 25 Lo duca mio discese ne la barca,
8. 26 e poi mi fece intrare appresso lui;
8. 27 e sol quand'io fui dentro parve carca.

8. 28 Tosto che 'l duca e io nel legno fui,
8. 29 segando se ne va l'antica prora
8. 30 de l'acqua più che non suol con altrui.

8. 31 Mentre noi corravam la morta gora,
8. 32 dinanzi mi si fece un pien di fango,
8. 33 e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?».

8. 34 E io a lui: «S'i' vegno, non rimango;
8. 35 ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?».
8. 36 Rispuose: «Vedi che son un che piango».

8. 37 E io a lui: «Con piangere e con lutto,
8. 38 spirito maladetto, ti rimani;
8. 39 ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto».

8. 40 Allor distese al legno ambo le mani;
8. 41 per che 'l maestro accorto lo sospinse,
8. 42 dicendo: «Via costà con li altri cani!».

8. 43 Lo collo poi con le braccia mi cinse;
8. 44 basciommi 'l volto, e disse: «Alma sdegnosa,
8. 45 benedetta colei che 'n te s'incinse!

8. 46 Quei fu al mondo persona orgogliosa;
8. 47 bontà non è che sua memoria fregi:
8. 48 così s'è l'ombra sua qui furiosa.

8. 49 Quanti si tegnon or là sù gran regi
8. 50 che qui staranno come porci in brago,
8. 51 di sé lasciando orribili dispregi!».

8. 52 E io: «Maestro, molto sarei vago
8. 53 di vederlo attuffare in questa broda
8. 54 prima che noi uscissimo del lago».

8. 55 Ed elli a me: «Avante che la proda
8. 56 ti si lasci veder, tu sarai sazio:
8. 57 di tal disio convien che tu goda».

8. 58 Dopo ciò poco vid'io quello strazio
8. 59 far di costui a le fangose genti,
8. 60 che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

8. 61 Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
8. 62 e 'l fiorentino spirito bizzarro
8. 63 in sé medesmo si volvea co' denti.

8. 64 Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
8. 65 ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
8. 66 per ch'io avante l'occhio intento sbarro.

8. 67 Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
8. 68 s'appressa la città c'ha nome Dite,
8. 69 coi gravi cittadin, col grande stuolo».

8. 70 E io: «Maestro, già le sue meschite
8. 71 là entro certe ne la valle cerno,
8. 72 vermiglie come se di foco uscite

8. 73 fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
8. 74 ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
8. 75 come tu vedi in questo basso inferno».

8. 76 Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse
8. 77 che vallan quella terra sconsolata:
8. 78 le mura mi parean che ferro fosse.

8. 79 Non sanza prima far grande aggirata,
8. 80 venimmo in parte dove il nocchier forte
8. 81 «Usciteci», gridò: «qui è l'intrata».

8. 82 Io vidi più di mille in su le porte
8. 83 da ciel piovuti, che stizzosamente
8. 84 dicean: «Chi è costui che sanza morte

8. 85 va per lo regno de la morta gente?».
8. 86 E 'l savio mio maestro fece segno
8. 87 di voler lor parlar segretamente.

8. 88 Allor chiusero un poco il gran disdegno,
8. 89 e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada,
8. 90 che sì ardito intrò per questo regno.

8. 91 Sol si ritorni per la folle strada:
8. 92 pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai
8. 93 che li ha' iscorta sì buia contrada».

8. 94 Pensa, lettor, se io mi sconfortai
8. 95 nel suon de le parole maladette,
8. 96 ché non credetti ritornarci mai.

8. 97 «O caro duca mio, che più di sette
8. 98 volte m'hai sicurtà renduta e tratto
8. 99 d'alto periglio che 'ncontra mi stette,

8.100 non mi lasciar», diss'io, «così disfatto;
8.101 e se 'l passar più oltre ci è negato,
8.102 ritroviam l'orme nostre insieme ratto».

8.103 E quel segnor che lì m'avea menato,
8.104 mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo
8.105 non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato.

8.106 Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso
8.107 conforta e ciba di speranza buona,
8.108 ch'i' non ti lascerò nel mondo basso».

8.109 Così sen va, e quivi m'abbandona
8.110 lo dolce padre, e io rimagno in forse,
8.111 che sì e no nel capo mi tenciona.

8.112 Udir non potti quello ch'a lor porse;
8.113 ma ei non stette là con essi guari,
8.114 che ciascun dentro a pruova si ricorse.

8.115 Chiuser le porte que' nostri avversari
8.116 nel petto al mio segnor, che fuor rimase,
8.117 e rivolsesi a me con passi rari.

8.118 Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
8.119 d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
8.120 «Chi m'ha negate le dolenti case!».

8.121 E a me disse: «Tu, perch'io m'adiri,
8.122 non sbigottir, ch'io vincerò la prova,
8.123 qual ch'a la difension dentro s'aggiri.

8.124 Questa lor tracotanza non è nova;
8.125 ché già l'usaro a men segreta porta,
8.126 la qual sanza serrame ancor si trova.

8.127 Sovr'essa vedestù la scritta morta:
8.128 e già di qua da lei discende l'erta,
8.129 passando per li cerchi sanza scorta,
8.130 tal che per lui ne fia la terra aperta».

Inferno - canto 9
9. 1 Quel color che viltà di fuor mi pinse
9. 2 veggendo il duca mio tornare in volta,
9. 3 più tosto dentro il suo novo ristrinse.

9. 4 Attento si fermò com'uom ch'ascolta;
9. 5 ché l'occhio nol potea menare a lunga
9. 6 per l'aere nero e per la nebbia folta.

9. 7 «Pur a noi converrà vincer la punga»,
9. 8 cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse.
9. 9 Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!».

9. 10 I' vidi ben sì com'ei ricoperse
9. 11 lo cominciar con l'altro che poi venne,
9. 12 che fur parole a le prime diverse;

9. 13 ma nondimen paura il suo dir dienne,
9. 14 perch'io traeva la parola tronca
9. 15 forse a peggior sentenzia che non tenne.

9. 16 «In questo fondo de la trista conca
9. 17 discende mai alcun del primo grado,
9. 18 che sol per pena ha la speranza cionca?».

9. 19 Questa question fec'io; e quei «Di rado
9. 20 incontra», mi rispuose, «che di noi
9. 21 faccia il cammino alcun per qual io vado.

9. 22 Ver è ch'altra fiata qua giù fui,
9. 23 congiurato da quella Eritón cruda
9. 24 che richiamava l'ombre a' corpi sui.

9. 25 Di poco era di me la carne nuda,
9. 26 ch'ella mi fece intrar dentr'a quel muro,
9. 27 per trarne un spirto del cerchio di Giuda.

9. 28 Quell'è 'l più basso loco e 'l più oscuro,
9. 29 e 'l più lontan dal ciel che tutto gira:
9. 30 ben so 'l cammin; però ti fa sicuro.

9. 31 Questa palude che 'l gran puzzo spira
9. 32 cigne dintorno la città dolente,
9. 33 u' non potemo intrare omai sanz'ira».

9. 34 E altro disse, ma non l'ho a mente;
9. 35 però che l'occhio m'avea tutto tratto
9. 36 ver' l'alta torre a la cima rovente,

9. 37 dove in un punto furon dritte ratto
9. 38 tre furie infernal di sangue tinte,
9. 39 che membra feminine avieno e atto,

9. 40 e con idre verdissime eran cinte;
9. 41 serpentelli e ceraste avien per crine,
9. 42 onde le fiere tempie erano avvinte.

9. 43 E quei, che ben conobbe le meschine
9. 44 de la regina de l'etterno pianto,
9. 45 «Guarda», mi disse, «le feroci Erine.

9. 46 Quest'è Megera dal sinistro canto;
9. 47 quella che piange dal destro è Aletto;
9. 48 Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.

9. 49 Con l'unghie si fendea ciascuna il petto;
9. 50 battiensi a palme, e gridavan sì alto,
9. 51 ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.

9. 52 «Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto»,
9. 53 dicevan tutte riguardando in giuso;
9. 54 «mal non vengiammo in Teseo l'assalto».

9. 55 «Volgiti 'n dietro e tien lo viso chiuso;
9. 56 ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi,
9. 57 nulla sarebbe di tornar mai suso».

9. 58 Così disse 'l maestro; ed elli stessi
9. 59 mi volse, e non si tenne a le mie mani,
9. 60 che con le sue ancor non mi chiudessi.

9. 61 O voi ch'avete li 'ntelletti sani,
9. 62 mirate la dottrina che s'asconde
9. 63 sotto 'l velame de li versi strani.

9. 64 E già venia su per le torbide onde
9. 65 un fracasso d'un suon, pien di spavento,
9. 66 per cui tremavano amendue le sponde,

9. 67 non altrimenti fatto che d'un vento
9. 68 impetuoso per li avversi ardori,
9. 69 che fier la selva e sanz'alcun rattento

9. 70 li rami schianta, abbatte e porta fori;
9. 71 dinanzi polveroso va superbo,
9. 72 e fa fuggir le fiere e li pastori.

9. 73 Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
9. 74 del viso su per quella schiuma antica
9. 75 per indi ove quel fummo è più acerbo».

9. 76 Come le rane innanzi a la nimica
9. 77 biscia per l'acqua si dileguan tutte,
9. 78 fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,

9. 79 vid'io più di mille anime distrutte
9. 80 fuggir così dinanzi ad un ch'al passo
9. 81 passava Stige con le piante asciutte.

9. 82 Dal volto rimovea quell'aere grasso,
9. 83 menando la sinistra innanzi spesso;
9. 84 e sol di quell'angoscia parea lasso.

9. 85 Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo,
9. 86 e volsimi al maestro; e quei fé segno
9. 87 ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.

9. 88 Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
9. 89 Venne a la porta, e con una verghetta
9. 90 l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.

9. 91 «O cacciati del ciel, gente dispetta»,
9. 92 cominciò elli in su l'orribil soglia,
9. 93 «ond'esta oltracotanza in voi s'alletta?

9. 94 Perché recalcitrate a quella voglia
9. 95 a cui non puote il fin mai esser mozzo,
9. 96 e che più volte v'ha cresciuta doglia?

9. 97 Che giova ne le fata dar di cozzo?
9. 98 Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
9. 99 ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo».

9.100 Poi si rivolse per la strada lorda,
9.101 e non fé motto a noi, ma fé sembiante
9.102 d'omo cui altra cura stringa e morda

9.103 che quella di colui che li è davante;
9.104 e noi movemmo i piedi inver' la terra,
9.105 sicuri appresso le parole sante.

9.106 Dentro li 'ntrammo sanz'alcuna guerra;
9.107 e io, ch'avea di riguardar disio
9.108 la condizion che tal fortezza serra,

9.109 com'io fui dentro, l'occhio intorno invio;
9.110 e veggio ad ogne man grande campagna
9.111 piena di duolo e di tormento rio.

9.112 Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
9.113 sì com'a Pola, presso del Carnaro
9.114 ch'Italia chiude e suoi termini bagna,

9.115 fanno i sepulcri tutt'il loco varo,
9.116 così facevan quivi d'ogne parte,
9.117 salvo che 'l modo v'era più amaro;

9.118 ché tra gli avelli fiamme erano sparte,
9.119 per le quali eran sì del tutto accesi,
9.120 che ferro più non chiede verun'arte.

9.121 Tutti li lor coperchi eran sospesi,
9.122 e fuor n'uscivan sì duri lamenti,
9.123 che ben parean di miseri e d'offesi.

9.124 E io: «Maestro, quai son quelle genti
9.125 che, seppellite dentro da quell'arche,
9.126 si fan sentir coi sospiri dolenti?».

9.127 Ed elli a me: «Qui son li eresiarche
9.128 con lor seguaci, d'ogne setta, e molto
9.129 più che non credi son le tombe carche.

9.130 Simile qui con simile è sepolto,
9.131 e i monimenti son più e men caldi».
9.132 E poi ch'a la man destra si fu vòlto,
9.133 passammo tra i martiri e li alti spaldi.

Inferno - canto 10
10. 1 Ora sen va per un secreto calle,
10. 2 tra 'l muro de la terra e li martìri,
10. 3 lo mio maestro, e io dopo le spalle.

10. 4 «O virtù somma, che per li empi giri
10. 5 mi volvi», cominciai, «com'a te piace,
10. 6 parlami, e sodisfammi a' miei disiri.

10. 7 La gente che per li sepolcri giace
10. 8 potrebbesi veder? già son levati
10. 9 tutt'i coperchi, e nessun guardia face».

10. 10 E quelli a me: «Tutti saran serrati
10. 11 quando di Iosafàt qui torneranno
10. 12 coi corpi che là sù hanno lasciati.

10. 13 Suo cimitero da questa parte hanno
10. 14 con Epicuro tutti suoi seguaci,
10. 15 che l'anima col corpo morta fanno.

10. 16 Però a la dimanda che mi faci
10. 17 quinc'entro satisfatto sarà tosto,
10. 18 e al disio ancor che tu mi taci».

10. 19 E io: «Buon duca, non tegno riposto
10. 20 a te mio cuor se non per dicer poco,
10. 21 e tu m'hai non pur mo a ciò disposto».

10. 22 «O Tosco che per la città del foco
10. 23 vivo ten vai così parlando onesto,
10. 24 piacciati di restare in questo loco.

10. 25 La tua loquela ti fa manifesto
10. 26 di quella nobil patria natio
10. 27 a la qual forse fui troppo molesto».

10. 28 Subitamente questo suono uscìo
10. 29 d'una de l'arche; però m'accostai,
10. 30 temendo, un poco più al duca mio.

10. 31 Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
10. 32 Vedi là Farinata che s'è dritto:
10. 33 da la cintola in sù tutto 'l vedrai».

10. 34 Io avea già il mio viso nel suo fitto;
10. 35 ed el s'ergea col petto e con la fronte
10. 36 com'avesse l'inferno a gran dispitto.

10. 37 E l'animose man del duca e pronte
10. 38 mi pinser tra le sepulture a lui,
10. 39 dicendo: «Le parole tue sien conte».

10. 40 Com'io al piè de la sua tomba fui,
10. 41 guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
10. 42 mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».
Bruttoformo
00sabato 17 ottobre 2009 12:30
Credo che Ciro Cumulo sia troppo avanti per noi.
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