macrino
00sabato 14 novembre 2015 11:26
Si perdeva la voce dei gabbiani fra le pagine del vento. Pertiche di luce foravano le nuvole. Trafitture di ricordi nel buio che si sfalda. Passavano ombre leggere, scivolando sul confine dell’aurora. Gli astri, lacrime di rugiada, immillavano, nella memoria, il suo viso sull’icona del cielo.

Erano passate poche settimane, da quando la mamma era andata via… per sempre. ***seduto su uno scoglio contemplava l’alba, immerso nella rievocazione immemore di un passato che ormai apparteneva ad un altro tempo, ad un altro universo, ad un’altra realtà. Molti sogliono ribadire che il passare dei giorni lenisce anche il dolore più acerbo. Non è vero: la sofferenza non scema, semmai si trasfigura. Come un raggio che, attraversando un prisma, si scompone nei colori dello spettro, la pena si scinde: si scheggia nell’azzurro della nostalgia, nel nero della disperazione, nello scarlatto dell’ira.

*** sentiva la sua anima sbranata da un destino fiero e vorace. Il fato produce un suono: è il ticchettio indiavolato di un orologio meccanico che frantuma il silenzio, che disarticola la vita, un pezzo alla volta, con la tenacia di una tarma.

Dov’era approdata? Sulla riva dell’infinito da cui non si torna più, una volta compiuta l’ultima missione?

*** s’incamminò verso casa, riflettendo su quanto gli avevano detto amici e parenti: “La vita continua”. No, la vita non continua, in quanto essa è già finita; finisce il giorno in cui, presto o tardi, si comprende che il corso degli eventi è irrazionale, che si è in balia di correnti senza direzione né meta. Allora alla vita subentra l’esilio dell’esistenza, la fragile catena di giorni inani e dolorosi. Ecco: il dolore. Può una nuova sofferenza eclissarne un’altra o uno strazio si sedimenta su un altro a formare uno strato spesso e duro?

Non trovava più alcun conforto: il suo unico appiglio era ormai il pensiero della morte. Era un pensiero che gli offriva qualche istante di serena disperazione, gli lasciava intravedere la possibilità dell’oblio, persino un mondo in cui l’afflizione e l’amarezza sarebbero state del tutto cancellate, dove finalmente avrebbe ritrovato tutto quello che aveva perduto.

Strada facendo, provò ad intonare un motivo, illudendosi così di allontanare l’ossessione. Invano: dalla bocca uscì solo un fioco lamento. L’abbrivo della melodia si soffocava in gola. Neanche una canzone per dar sfogo alle lacrime! Solo un nulla roccioso, granitico, inscalfibile! Solo un vuoto inespugnabile!

Incrociò un anziano che parlava da solo, ripetendo: “Brutte nuove: Dio è altrove.”

Già… Dio è altrove, comunque troppo lontano per udire il grido muto che proviene dal fondo del cosmo.

Arrivò a casa. Si distese sul letto a fissare il soffitto, il diaframma tra la prigione dell’esistenza ed il nulla dell’oltre. Si assopì per annegare in uno stato di liquida smemoratezza. Nella mente e negli orecchi ancora quel picchiettio perenne, petulante. Si rizzò sul letto di scatto per recarsi sul poggiolo dove una camelia, con i suoi bei fiori bianchi, intristiva da quando la mamma era andata via… per sempre. Le foglie erano screziate di giallo e le corolle, subito dopo essersi aperte, si sgualcivano come sogni appassiti. Il giovane prese un petalo tra le mani e lo odorò: aveva la stessa fragranza vellutata della sua pelle.

“Povera camelia, manca anche a te. Forse ti manca la sua voce. Per fiorire non ti bastano l’acqua ed il sole. Presto morrai anche tu?”

Rientrò in camera. Era il crepuscolo e là fuori il firmamento esalava pallide linfe. *** si fermò di fronte allo specchio: ne toccò con l’indice la superficie da cui emerse una figura evanescente che lo avviluppò in un sudario di luce. Fu un’estasi di armonie e di colori, come essere rapiti e condotti fino al cielo più alto e cristallino…

All’improvviso, dileguato quello stato di beatitudine, dinanzi a sé scorse, stagliata sullo specchio, una sagoma nera: allungò la mano che penetrò in uno spazio freddo e buio, simile all’atmosfera di una cripta. Un impulso incoercibile lo spinse ad entrare in quel luogo. Rabbrividì, ma dopo un po’ cominciò a spirare un alito tiepido: adesso era un posto accogliente, piacevole, sebbene vi filtrasse soltanto un barlume. Udì un vocio, un vagito. Intravide infine una luce metallica ed ostile.

“Figlio mio, che questa sia, come per me, la tua ultima tappa”.


Anna L.60
00sabato 19 dicembre 2015 01:13
Molto bella... [SM=x142887]

macrino, 14/11/2015 11:26:

Si perdeva la voce dei gabbiani fra le pagine del vento. Pertiche di luce foravano le nuvole. Trafitture di ricordi nel buio che si sfalda. Passavano ombre leggere, scivolando sul confine dell’aurora. Gli astri, lacrime di rugiada, immillavano, nella memoria, il suo viso sull’icona del cielo.

Erano passate poche settimane, da quando la mamma era andata via… per sempre. ***seduto su uno scoglio contemplava l’alba, immerso nella rievocazione immemore di un passato che ormai apparteneva ad un altro tempo, ad un altro universo, ad un’altra realtà. Molti sogliono ribadire che il passare dei giorni lenisce anche il dolore più acerbo. Non è vero: la sofferenza non scema, semmai si trasfigura. Come un raggio che, attraversando un prisma, si scompone nei colori dello spettro, la pena si scinde: si scheggia nell’azzurro della nostalgia, nel nero della disperazione, nello scarlatto dell’ira.

*** sentiva la sua anima sbranata da un destino fiero e vorace. Il fato produce un suono: è il ticchettio indiavolato di un orologio meccanico che frantuma il silenzio, che disarticola la vita, un pezzo alla volta, con la tenacia di una tarma.

Dov’era approdata? Sulla riva dell’infinito da cui non si torna più, una volta compiuta l’ultima missione?

*** s’incamminò verso casa, riflettendo su quanto gli avevano detto amici e parenti: “La vita continua”. No, la vita non continua, in quanto essa è già finita; finisce il giorno in cui, presto o tardi, si comprende che il corso degli eventi è irrazionale, che si è in balia di correnti senza direzione né meta. Allora alla vita subentra l’esilio dell’esistenza, la fragile catena di giorni inani e dolorosi. Ecco: il dolore. Può una nuova sofferenza eclissarne un’altra o uno strazio si sedimenta su un altro a formare uno strato spesso e duro?

Non trovava più alcun conforto: il suo unico appiglio era ormai il pensiero della morte. Era un pensiero che gli offriva qualche istante di serena disperazione, gli lasciava intravedere la possibilità dell’oblio, persino un mondo in cui l’afflizione e l’amarezza sarebbero state del tutto cancellate, dove finalmente avrebbe ritrovato tutto quello che aveva perduto.

Strada facendo, provò ad intonare un motivo, illudendosi così di allontanare l’ossessione. Invano: dalla bocca uscì solo un fioco lamento. L’abbrivo della melodia si soffocava in gola. Neanche una canzone per dar sfogo alle lacrime! Solo un nulla roccioso, granitico, inscalfibile! Solo un vuoto inespugnabile!

Incrociò un anziano che parlava da solo, ripetendo: “Brutte nuove: Dio è altrove.”

Già… Dio è altrove, comunque troppo lontano per udire il grido muto che proviene dal fondo del cosmo.

Arrivò a casa. Si distese sul letto a fissare il soffitto, il diaframma tra la prigione dell’esistenza ed il nulla dell’oltre. Si assopì per annegare in uno stato di liquida smemoratezza. Nella mente e negli orecchi ancora quel picchiettio perenne, petulante. Si rizzò sul letto di scatto per recarsi sul poggiolo dove una camelia, con i suoi bei fiori bianchi, intristiva da quando la mamma era andata via… per sempre. Le foglie erano screziate di giallo e le corolle, subito dopo essersi aperte, si sgualcivano come sogni appassiti. Il giovane prese un petalo tra le mani e lo odorò: aveva la stessa fragranza vellutata della sua pelle.

“Povera camelia, manca anche a te. Forse ti manca la sua voce. Per fiorire non ti bastano l’acqua ed il sole. Presto morrai anche tu?”

Rientrò in camera. Era il crepuscolo e là fuori il firmamento esalava pallide linfe. *** si fermò di fronte allo specchio: ne toccò con l’indice la superficie da cui emerse una figura evanescente che lo avviluppò in un sudario di luce. Fu un’estasi di armonie e di colori, come essere rapiti e condotti fino al cielo più alto e cristallino…

All’improvviso, dileguato quello stato di beatitudine, dinanzi a sé scorse, stagliata sullo specchio, una sagoma nera: allungò la mano che penetrò in uno spazio freddo e buio, simile all’atmosfera di una cripta. Un impulso incoercibile lo spinse ad entrare in quel luogo. Rabbrividì, ma dopo un po’ cominciò a spirare un alito tiepido: adesso era un posto accogliente, piacevole, sebbene vi filtrasse soltanto un barlume. Udì un vocio, un vagito. Intravide infine una luce metallica ed ostile.

“Figlio mio, che questa sia, come per me, la tua ultima tappa”.




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