Il cinema di impegno è morto?

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vanni-merlin
00domenica 18 novembre 2007 01:28
Il cinema di impegno è morto?


"Difficile raccontare questa Italia"


FULVIA CAPRARA
INVIATA A ASSISI
C’è un luogo dove Francesco Rosi, il grande padre del cinema italiano di denuncia che ha appena compiuto 85 anni, ammette di provare ancora oggi una forte emozione. E’ la distesa arida di Portella della Ginestra, quella che fece da sfondo al massacro di braccianti ricostruito in Salvatore Giuliano, uno dei suoi film più belli: «E’ vero, qui l’emozione mi riprende sempre». Uomo di parole chiare e piglio deciso, Rosi, celebrato ieri ad Assisi (nell’ambito della rassegna Primo piano sull’autore), non è tipo da commozioni scontate, il fatto è che da lì, raccontando quella storia, prese corpo l’ispirazione che lo ha guidato in tutta la sua lunga carriera: «Ho sempre creduto nella funzione del cinema come denuncia di realtà, e come racconto di storie attraverso cui i figli possano conoscere meglio i padri e trarre insegnamento per un giudizio di cui la Storia costituisce un riferimento». Un cinema che, dalla Sfida a Lucky Luciano, da Le mani sulla città a Cadaveri eccellenti, è stato lucida radiografia della realtà, sempre passionale, mai asettica.

Un cinema che in Italia per anni si è fatto poco, pur restando esempio irrinunciabile nel lavoro di tanti autori, da Giuseppe Ferrara a Marco Tulllio Giordana, da Pasquale Scimeca a Pasquale Squitieri, arrivati ad Assisi per festeggiare il maestro, ma anche per interrogarsi sul perchè è sempre così difficile raccontare il nostro Paese. La prima spiegazione, pragmatica, la da’ Rosi stesso: «Una volta si facevano 300 film all’anno, oggi se ne fanno 30, e già questo è un dato importante, girare un film costa danaro, tempo, impegno, certe volte diventa una vera impresa». E poi c’è la realtà, quella che dovrebbe essere osservata e re-interpretata sul grande schermo: «Bisogna guardare quello che sta succedendo, non c’è solo la violenza e la corruzione, c’è soprattutto una frenesia di vita a tutti i livelli, non esistono più regole, per nulla, la tv ci fa vivere in tempo reale quello che accade nel globo, partecipiamo in diretta alle guerre, ai disastri naturali, tutto questo influenza profondamente l’impulso creativo». In qualche modo, suggerisce Rosi, lo blocca, perchè non capita sempre di riuscire «come ha fatto Roberto Saviano con Gomorra di poter scrivere subito quello che stava vivendo, e non è facile rendere i tanti frastagliamenti del panorama di violenza in cui oggi siamo immersi».

Qualcuno ci ha provato e ci è riuscito, come Giordana che racconta: «Nei Cento passi Rosi è citato esplicitamente, attraverso Mani sulla città. Prima di iniziare le riprese lo andai a trovare, ero in crisi, preoccupato, gli spiegai che temevo di non saper descrivere quel mondo, che, forse, da milanese, ero troppo lontano... Lui mi disse che la cosa da fare era andare lì, vivere lì. Lo feci, sono andato a stare in Sicilia, quelle parole mi spinsero a fare il film che ho fatto». Con Roberto Andò, il regista palermitano che gli fece da assistente per Cristo si è fermato a Eboli, Rosi ha compiuto un viaggio in Sicilia che è diventato un documentario: «Siamo partiti da Palermo - spiega Andò -, ci siamo fermati a Castelvetrano, nel cortile dove fu ritrovato il cadavere di Giuliano, siamo arrivati fino a Racalmuto sulla tomba di Sciascia. Durante questo lavoro ho fatto una scoperta, la definizione di Rosi regista politico è impropria, parziale, la sua spinta più forte è la contestazione della morte. Tutti i suoi film hanno un tema ricorrente che è togliere prestigio alla morte». Nel documentario, presentato ieri ad Assisi, parlano di Rosi anche Martin Scorsese che si sofferma sul «sul taglio chiaro, nitido, coinvolgente» dei film dell’autore, e Giuseppe Tornatore che sottolinea la capacità di delineare i personaggi senza mai mitizzarli. In lui, soprattutto nella Sconosciuta, Rosi individua la continuità con un cinema di fatti e storia che «dovrebbe essere insegnato a scuola». Scuole come quelle frequentate a Napoli, nella giovinezza allegra e illuminata, quella in cui con Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi e tanti altri, Rosi ha condiviso entusiasmi, letture, soprattutto «scoperte culturali». Lui, cresciuto nella piccola borghesia partenopea, con un padre appassionato di fotografia che sognava di diventare regista: «Mi aveva fatto una foto in cui sembavo Jackie Coogan, vinse il premio che consisteva in un viaggio in America, ma mia madre non ne volle sapere, si oppose decisamente e così papà non è diventato famoso e io non sono diventato attore».

Adesso Rosi lavora per il teatro, tornando sui testi di Eduardo «formidabili per la capacità di descrivere culture diverse». Il prossimo lavoro sarà Filomena Marturano con Lina Sastri. Il cinema? Può attendere: «Tutti i film che volevo fare li ho fatti, ho affrontato argomenti tuttora attuali, la mafia, la camorra, il conflitto d’interessi, il terrorismo, il petrolio, l’olocausto. E’ chiaro, c’è sempre spazio e modo per raccontare la realtà, ma c’è anche il sospetto della ripetizione».



da: www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200711articoli/27674gi...

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