Il caffè

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kamo58
00martedì 21 dicembre 2010 12:54
Svegliarsi la mattina tra il borbottio della caffettiera e il pungente aroma che ne scaturisce è il piacere massimo di tutti gli italiani.
E’ il primo gesto di tutta la Penisola. Dopo aver indossato le pantofole, ancora in pigiama con gli occhi semi chiusi, la coscienza ancora lì sul cuscino, sotto le coperte che non vuole venir via e tu, che cerchi di svegliarla in ogni maniera. Lei s’alza soltanto quanto da quel beccuccio inizia a colare il liquido nero, denso di schiuma. E’ allora che l’aroma entra nelle narici che ne aspirano con avidità. Raggiunge i nostri sensi intorpiditi e la coscienza, stiracchiandosi tra uno sbadiglio e l’altro, decide di riprendersi il corpo e soltanto allora, gli è permesso parlare.
Il rito del caffé si ripete in tutte le case, in ogni piccola cella d’alveare dei nostri condomini di città, più o meno alla stessa ora. Dalle finestre appena aperte, per far entrare l’aria fresca del mattino, si spande su per l’aere e sale in alto, lassù e sveglia i gabbiani che si librano sulle ali spiegate, per poi andare a disturbare il sonno del piccolo putto alato che ancora è avvolto nella bambagia, della sua nuvoletta paffuta.
Ognuno ha la sua moka: la monodose per i single, quella a due tazze per le coppiette innamorate che la mattina si scambiano dolcezze come zucchero nel caffé. La sei tazze per le famiglie numerose o per irriducibili dormiglioni, ai quali, neanche un overdose di caffeina basta per corroborare la giornata.
C’è chi nel gustarsi il liquido nero e bollente ci aggiunge i cerchietti di fumo di una sigaretta, perché la vita è breve e anche se fa male, pazienza, sono pochi i piaceri che ci rimangono. Ingolla il caffé e colpevolmente aspira il fumo dal mozzicone ormai consunto, prima di gettarsi nella mischia come un antico gladiatore, armato di portatile e determinazione per affrontare, solo dopo “il rito” la battaglia per la vita.
Centinaia di bar, ogni mattino, mettono in moto e scaldano le macchine per l’espresso, che sbuffando come locomotive in partenza, si preparano per la sfilza di tazzine da riempire, tutte in fila come soldatini che incrociano le armi tintinnando al rumore dei cucchiaini girati. Il rito si ripete, non a casa stavolta, dove non c’è stato tempo a sufficienza, perché la sveglia ha scioperato e il pupo ha vegliato tutta la notte, mentre il gatto è appena rientrato dalle sue scorribande notturne.
Nel ritmo vorticoso del risveglio di un’intera nazione mi sovviene l’antico rito della napoletana.
Quel Pasquale, probabile alter ego del celebre Edoardo, che chiacchiera al balcone, col Professore, dirimpettaio pettegolo, spiegandogli come basti poco per essere felici: così come lo è lui quando può bersi un caffé da lui stesso preparato con cura. “A noialtri napoletani, toglieteci questo poco di sfogo…”, e spiega come il caffè, con la napoletana se lo prepara lui stesso, perché il rito è antico. “Sul becco, lo vedete il becco? … Lì ci metto questo coppitello di carta, perché il fumo denso, quello del primo caffè, quello più carico, profuma tutto l’ambiente…” Quali migliori parole per esprimere tutta la passione che ci si mette nel preparare la bevanda? La napoletana però, non è amica dei tempi moderni. La si deve corteggiare come una bella donna, bisogna aspettare il suo tempo, perché essa, sia pronta a donare tutto il suo amore.
Il caffè che entra nei versi degli scrittori e non soltanto nelle loro tazzine. Pirandello che immagina l’insonnia notturna della vecchiaia, vicina alla morte, la quale aspetta che lui ne beva l’ultimo sorso per poi, forse accompagnarlo nell’altra vita.

…Ancora, ancora un sorso,
vecchietto, non dar retta.
Perché ti guardi attorno?
Silenzio. Batton l ’ore.
Le cinque. Chi t ’aspetta?
È giorno, vedi? è giorno
già chiaro.
Finisci il tuo caffè.

(Poi, vecchietto caro,
fa ’ cuore,
te ne verrai con me.)

Caffè sinonimo di cultura, un luogo, dove ci si raduna a parlare di letteratura o d’arte.
Locali dove da sempre, gli artisti hanno composto le loro opere. Un tempo con la penna, oggi muniti di portatile, con i tasti battuti febbrilmente mentre il caffè bollente nell’attesa, pian, piano intiepidisce.
Recentemente, durante un viaggio nell’estremo nord europeo, ho scoperto il caffè lungo, che noi definiamo americano.
La brodaglia insipida, che fa storcere il naso agli italiani. E’ l’espresso l’orgoglio nazionale, divenuto famoso all’estero, un po’ come la pizza, soltanto che se lo richiedi, ti arriva d’italiana soltanto la tazzina, il contenuto è la stesso della grande tazza, soltanto leggermente più concentrato per loro ma al nostro palato non si avverte.
Controcorrente e italiana “traditrice” io non amo molto l’espresso ma sono invece divenuta fanatica dell’american coffee. Invidio quei posti, dove ti puoi prendere un bicchierone di caffè bollente e andartene a passeggio mentre lo sorseggi, fonte di riscaldamento invernale e piacevole compagnia.
In Italia a meno che non si sia nati altrove, nessuno cerca la “brodaglia”. Capita così che, dopo una lunga ricerca, sia riuscita ad acquistare una caffettiera a filtropressa.
Filtro che? E’ la classica domanda che segue alla mia affermazione. C’è chi non vuol apparire ignorante e finge di conoscerla, chi dopo averti guardato con compatimento, asserisce di non sapere di cosa parli, per poi concludere con disgusto, che a lui, piace solo il caffè di casa nostra. Ho conosciuto questo modo di fare caffè all’estero e l’ho trovato affascinante. Un infuso di caffè, leggermente trasparente dal gusto delicato, lungo quanto vuoi tu. Spesso me ne preparo una bella tazza bollente, prima di scrivere al portatile, mentre le idee si dipanano ne sorseggio con lentezza, un sorso alla volta, una piccola pausa, una virgola calda, tra un pensiero e l’altro.
Ho scoperto Starbuck a Dublino ma in Italia non esiste. A differenza del cheeseburger americano, di quel Ronald al quale manca la o finale e nulla ha a che fare col pallone, Starbuck non è mai riuscito ad entrare nel nostro paese. Reietto, è stato miseramente esiliato fuori dai confini nazionali.
Se voglio la grande, grossa, grassa tazza di american coffee, me la devo preparare da me. Osare l’inosabile, come diceva il d’Annunzio, entrando in un bar e chiedere un caffè all’americana, provocherebbe risatine d’ilarità da parte degli altri clienti, imbarazzo nel gestore, che non sa neanche di cosa stai parlando.
So che è impresa praticamente impossibile. Dopo il difficile reperimento della filtropressa, c’è stato quello del caffé tostato e macinato all’americana. Nella mia città, c’è soltanto una famosissima catena di negozi che lo vende. Benché rifornito della merce agognata, anche lì c’è sempre una certa forma d’imbarazzo alla richiesta da parte di una concittadina. Si aspettano il turista e finché non sentono l’idioma nostrano, nessuno si meraviglia, poi però partono le domande. Ti chiedono se è un regalo, se davvero lo vuoi macinato grosso, perché la moka si potrebbe rompere. Ti trattano insomma come se fossi un po’ cretina e non avessi neanche capito cosa hai chiesto.
Subito dopo, vengono meraviglia e compatimento, come due amici a braccetto.
L’Italia per quel che riguarda il caffè non ha subito globalizzazione, anche se molti bar ormai, sono gestiti da cinesi, che fanno l’espresso più buono degli italiani, questo sì, non taroccato!
A forza di parlare del caffè, tante ce ne sarebbero ancora, la tazza della mia bevanda americana è vuota. Vado a prepararne una nuova e vi lascio l’aroma da aspirare.

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