I lavoratori poveri della Sardegna e la colpa delle imprese

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centrosardegna
00venerdì 6 aprile 2007 14:13
Non è la disoccupazione il problema più grave della nostra regione, ma la cattiva occupazione. Gli ultimi dati Istat - gli unici cui si deve fare riferimento - indicano con chiarezza che in Sardegna la disoccupazione si mostra in ulteriore calo rispetto agli anni precedenti: si contano 15.000 disoccupati in meno nel corso del 2006, che corrispondono ad una riduzione piuttosto netta (quasi il 17% in meno in un solo anno).

L'indicatore di questo fenomeno - il tasso di disoccupazione - è ad un minimo storico: meno dell'11%. Questo buon risultato è stato accompagnato da un andamento positivo dell'occupazione, che da anni nell'isola continua a crescere con intensità diversa. I dati mostrano addirittura che l'ultimo anno - il 2006 - è stato particolarmente favorevole: gli occupati sono quasi 11.000 in più rispetto al 2005, corrispondenti ad un incremento medio annuo dell'1,8%. In tutto il paese, del resto, il 2006 è stato un anno abbastanza positivo per il mercato del lavoro: 425.000 occupati in più (di cui 225.000 concentrati nel nord), e 215.000 disoccupati in meno (di cui 158.000 nel Mezzogiorno).

A fronte di queste cifre, sulla cui affidabilità è ridicolo discutere (semmai occorrerebbe promuovere una maggiore conoscenza dell'esatto confine dei fenomeni che questi dati descrivono), abbiamo letto sulla stampa regionale che secondo alcuni siamo di fronte ad una catastrofe senza precedenti, segnata da un'occupazione in calo e da una disoccupazione che cresce. E che da questa situazione discenderebbe il livello di povertà nell'isola.

Evidentemente non è così. Non credo si tratti di una lettura disattenta dei dati, ma di una ostinata e irragionevole abitudine a misurare i fenomeni sociali sulla base del proprio metro personale (e forse di una qualche opportunità istituzionale), disconoscendo i dati ufficiali e spesso accantonando anche il buon senso. Posto che all'Istat non gliene importi un gran che se la CISL sarda preferisce continuare a dire che la disoccupazione cresce e l'occupazione diminuisce, a noi invece sembra interessante capire quali effetti può sortire questo strano modo di vedere le cose.

In primo luogo, produce una grave distorsione dei fenomeni e delle cause che li determinano. Se le cause sono confuse, diventa più difficile affrontarli con successo. Prendiamo il caso della povertà relativa (questo è il concetto esatto): è fortemente legata ad alcune condizioni. In primo luogo l'età anziana, cui è associato un livello di reddito ridotto che deriva da pensioni “povere”.

A questo proposito, il 23 marzo abbiamo letto su L'AltraVoce che la media delle pensioni erogate dall'Inps in Sardegna è molto bassa (581,74 euro mensili), e che il 25% circa della popolazione sarda è costituita da pensionati. Bisogna considerare che molti di questi pensionati non facevano mestieri che potessero garantire pensioni alte, erano allevatori, agricoltori, muratori e manovali, dipendenti pubblici, commercianti. La povertà relativa della Sardegna è quindi ampiamente connessa sia alla struttura per età della popolazione che ai livelli mediamente bassi delle prestazioni previdenziali in ragione della struttura economica della regione dei decenni passati.

Allo stesso modo, l'occupazione che abbiamo oggi si rifletterà sulle pensioni di domani: i lavoratori dell'edilizia, che costituiscono più della metà dell'occupazione “industriale” della Sardegna, i lavoratori della grande distribuzione e dei call center, ma anche gli “esternalizzati” dalla pubblica amministrazione, non saranno pensionati “ricchi”, e forse neppure adulti benestanti. Dunque i poveri sono innanzitutto persone anziane che vivono di pensioni basse, non disoccupati.

Un altro fattore che favorisce la diffusione della povertà relativa è l'instabilità del lavoro e la mancanza di tutele, che determinano condizioni di precarietà sempre più estese. Come nel modello sociale americano, la povertà è sempre più legata alle cattive condizioni di lavoro (i working poor lo dimostrano) piuttosto che alla mancanza del lavoro. Questo sì che è diventato un problema grave, che affligge i giovani nel presente e inciderà pesantemente sulle loro pensioni e condizioni di vita da anziani (cioè tra 30-40 anni, non tra un millennio).

In un prossimo futuro rischiamo di avere una fetta di popolazione anziana sempre più ampia e molto più povera di quanto siano gli anziani oggi, che pure rappresentano una buona parte della povertà. I poveri sono quindi persone e famiglie precarie, che vivono di lavori e redditi instabili, non disoccupati.

È proprio sulla qualità del nuovo lavoro che dovremmo discutere molto seriamente, eliminando anche su questo fronte la retorica e le drammatizzazioni che servono solo a confondere, a far credere che ogni singolo caso di difficoltà imponga un intervento pubblico. Il rischio è di continuare a dedicare risorse pubbliche ad obiettivi sbagliati o generici, senza selezionare e senza individuare le aree davvero problematiche, assecondando l'idea che tutto vada male e che quindi tutti abbiano diritto almeno a un piccolo aiuto.

Un secondo effetto preoccupante dell'ottusa negazione dei fenomeni che vengono delineati dalle statistiche ufficiali risiede proprio nella distorsione della prospettiva di intervento. Se il problema da affrontare fosse la disoccupazione, sarebbe del tutto ragionevole chiedere che gli interventi pubblici fossero concentrati sull'incentivazione delle assunzioni e dell'inserimento lavorativo dei giovani (i più colpiti).

Ma se il problema è la cattiva occupazione, gli interventi devono essere di altro tipo e riguardare in primo luogo la revisione delle norme sul lavoro e soprattutto l'accertamento sistematico della loro corretta applicazione da parte delle imprese, che finora hanno ricevuto incentivi in cambio di niente, neppure di una regolare applicazione dei contratti di lavoro. Posto che un'impresa non si debba trattare come una persona amata alla quale si fa un regalo semplicemente per ringraziarla di esistere, bisogna cominciare a chiedere in cambio qualcosa.

Le imprese hanno grandi responsabilità nella diffusione della precarietà e dell'insicurezza (e della povertà), ben al di là delle responsabilità politiche di chi ha perseguito una ossessiva moltiplicazione delle forme contrattuali, che avrebbe dovuto modernizzare il mercato del lavoro e invece lo ha “brasilianizzato”, come dice Beck. Sono molte le imprese che forzano a proprio vantaggio l'applicazione dei contratti “flessibili” o che li violano palesemente, come nel clamoroso caso dei call center di Atesia.

L'irresponsabilità delle imprese, più che la disattenzione della politica, dovrebbe essere evocata anche nel caso della Legler, sia dai sindacati che dalla Pastorale della Chiesa. La Regione e lo Stato stanno cercando di riparare al danno, ma dobbiamo smetterla di pagare con i soldi pubblici i conti sbagliati di imprenditori irresponsabili (e iper-agevolati). In Sardegna aumenta il lavoro irregolare, aumentano gli infortuni sul lavoro, i giovani laureati vengono utilizzati per mansioni poco qualificate, la durata dei lavori è mediamente molto breve: vogliamo anche ringraziarli?

Fa piacere sapere che la Giunta abbia deciso di aumentare le risorse per gli interventi rivolti all'occupazione, alla lotta alle vecchie e nuove povertà e alla stabilizzazione del precariato: vorremmo solo essere certi che i 55 milioni di euro resi disponibili non si traducano ancora una volta in un generoso e indistinto ringraziamento alle imprese.


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