Helga Schneider

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
sergio.T
00venerdì 28 marzo 2008 12:07
Consigliata da una mia collega di lavoro.


Helga Schneider nasce nel 1937 in Slesia, nell'attuale Polonia, ma ha vissuto a Berlino nell'epoca della disfatta hitleriana. Trasferitasi in Austria con la famiglia già nell'immediato dopoguerra, a partire dal 1963 risiede in Italia e precisamente a Bologna.

Vive da piccola l'esperienza, per lei sconvolgente, di essere condotta insieme ad altri bambini, fra i quali anche il fratellino Peter, nel bunker di Adolf Hitler di cui fa la conoscenza.

Ha legato la sua fama in modo particolare a due libri, Il rogo di Berlino (1998) e Lasciami andare, madre (2001), entrambi pubblicati da Adelphi.


Hitler “patrono delle arti”. Questa foto di Heinrich Hoffmann ha fatto la sua apparizione sul frontespizio di diversi cataloghi e annuari d'arte nella Haus der Deutschen Kunst.
Accostandoci alla vita e all'opera di Helga Schneider, non si possono certo ignorare tutti quei fermenti culturali, che all'indomani del crollo della Germania nazista e della conseguente divisione del Paese in due parti (3) - la Repubblica Federale ad ovest e quella Democratica ad est - convergono nella formazione intellettuale di scrittori come Gunther Grass ed Heinrich Böll, ma soprattutto, per restare in tema di scrittura al femminile, hanno caratterizzato le tematiche e gli atteggiamenti di Christa Wolf, Ingeborg Bachmann Anna Seghers , per tacere dello sperimentalismo, sia sul piano linguistico che espressivo di Elfriede Jelinek , sotteso a indubbie ascendenze freudiane e che denotano in questo cotè di autrici l'appartenenza ad un più ampio contesto esistenziale e culturale e che trascende la valenza meramente “geografica” del termine tedesco(8): senonché, in Helga Schneider, a colpirci è proprio - paradossalmente - l'assenza, o quasi, di questa Weltanschaung propria delle sue connazionali, già ad una prima lettura dei suoi romanzi (!) Non già dunque la ‘decostruzione di un femminismo arcaico’ alla maniera della Wolf e nemmeno quello evidenziato dalla Bachmann e dalla Jelinek ed espresso il più delle volte, come si è già accennato, ( in un'ottica punitiva e masochistica: in lei ciò, che più conta, al di là del rapporto con la pagina stessa, è (per l'appunto) il valore, che la ‘testimonianza’ racchiude in sé e per sé, senza quegli infingimenti e quegli artifici, che potrebbero in tal modo ‘inficiarla’ , sminuendola così – e tout court – della sua validità e quindi della sua fedeltà medesima.

Leggendo un suo libro, ci si sente pertanto indotti ad essere trascinati, o quasi, dentro un film, in cui siano solo le ‘immagini’ a parlare e a dialogare con il pubblico, in questo caso con il lettore .

Leit motiv dell'intera sua opera narrativa è l'avvento del nazismo in Germania, vissuto non tanto nelle sue dinamiche storico politiche, quanto nelle implicazioni che ciò avrebbe costituito sul piano umano, vale a dire non soltanto nello scontro fra la popolazione tedesca comunemente definita ariana e quella di ‘razza’ ebraica, ma anche e soprattutto all'interno degli svariati gruppi sociali quando non all'interno di interi nuclei familiari.

Così in Stelle di cannella , un lungo racconto ambientato in una cittadina nei pressi di Berlino all'incombere della presa del potere da parte di Adolf Hitler, tutti – sembrerebbe quasi dire l'autrice – vanno d'accordo con tutti – non soltanto gli umani ma perfino gli animali – David, il figlio del giornalista ebreo Jakob Korsakov e Fritz, figlio del poliziotto Rauch, oltre ad essere compagni di scuola sono amici per la pelle, la sorellastra di David è la fidanzata del figlio del noto architetto Winterloh, e il gatto di Fritz ha un debole per Muschi, la bella gattina di David

In modo dapprima subdolo, poi sempre più immediato e virulento, senza infingimenti, il potere nazista finisce per sconvolgere il tranquillo andamento della vita, pubblica e privata, del benestante quartiere di Wilmersdorf, mentre il Natale si fa annunciare da copiose nevicate e dalla dedizione riservata dalle massaie alla preparazione di dolci tipici, come le succitate ‘stelle di cannella’, che danno il titolo alla narrazione

«Si battono i bianchi,
si aggiungono
lo zucchero a velo,
quello vanigliato, le
mandorle e la cannella.

Sulla tavola cosparsa
di zucchero si stende
la pasta, vi si tagliano
delle stelle, si passano
su carta pergamena
unta, si cospargono
di glassa bianca, si cuociono
30 ñ 40 minuti in forno
molto caldo»

A differenza dello storico Ernst Nolte (14), autore di famosi testi sulle guerre mondiali, civili ed ideologiche del XX secolo, che nel suo I presupposti storici del Nazionalsocialismo(15), capovolgendo le analisi dei suoi predecessori, dirige il suo sguardo alle ‘radici’ di, quelle tematiche, politiche o ideologiche, che ritiene alimento e retroterra delle circostanze, per cui il nazismo sale al potere, la Schneider non si pone questi interrogativi: non se li può porre, infatti, in quanto allo scoppio della Guerra Mondiale è una bimba in tenera età, ha soltanto cinque anni (!) ed un fratellino – Peter – è ancora più piccolo.

Un dramma privato, pertanto, l'ascesa del nazionalsocialismo in Germania ha portato nella vita della piccola Helga: la madre, mossa da fanatismo politico e da ammirazione per il Fuehrer, non esita ad abbandonare il marito e i figli per darsi anima e corpo alla militanza all'interno delle SS, contravvenendo (paradossalmente!) in questo modo all'assunto nazista delle tre K – Kirche, Küche, Kinder (16) – che aveva la pretesa di circoscrivere e relegare il ruolo della donna nell'ambito prettamente familiare e domestico, ribadendone per di più l'obbligo di assoluta fedeltà al coniuge.


Una scena del film Rosenstrasse, della regista tedesca Margaret Von Trotta, 2005
Un tema, questo, che ben altri sviluppi avrebbe avuto più tardi anche nel cinema – ed in quello tedesco del dopoguerra in modo particolare: basti ricordare a questo proposito l'ormai datato Il matrimonio di Maria Braun di R. W. Fassbinder (17) ma soprattutto il bellissimo e più recente Rosenstrasse (18) di Margaret Von Trotta, regista notoriamente impegnata da anni sia sul fronte del dibattito ideologico politico in Germania ed in Italia – Anni di piombo, Il lungo silenzio – sia in un ambito più intimista ma non per questo dimentico delle problematiche del – ‘femminile’ – Paura e amore, L'Africana – una vicenda ispirata ad un episodio realmente accaduto a Berlino, dove un folto gruppo di donne ariane, ma sposate a degli ebrei, conduce una protesta ad oltranza perché i nazisti liberino i loro mariti, altrimenti destinati alla deportazione nei Lager.

La loro costanza verrà premiata proprio perché si fa in questo modo simbolo di quella fedeltà indiscussa nei riguardi del proprio coniuge, tanto ‘millantata’ dal credo nazionalsocialista, anche al di là – come le donne della Rosenstrasse testimoniano – del fatto di amare un non ariano (!)

A colmare il vuoto lasciato dalla partenza della madre provvede, almeno per qualche tempo, la nonna paterna della piccola, giunta apposta a Berlino dalla Polonia, per la quale Helga prova un sincero affetto, peraltro ricambiato dall'anziana donna. Il padre nel frattempo, ottenuto il divorzio dalla moglie, ha sposato una giovane berlinese, Ursula, che fin dall'inizio mostra di non nutrire alcuna simpatìa per Helga, che all'epoca ha cinque anni, mentre tutto il suo affetto va al piccolo Peter, che non esita di lì a poco a chiamarla con l'affettuoso diminutivo di Mutti (19).

Il padre Stephan viene però chiamato presto in guerra e per la famigliola comincia così il periodo più doloroso e difficile.

Così ne Il rogo di Berlino la scrittrice rievoca quei drammatici giorni, da lei vissuti come il periodo più difficile della sua vita: il rapporto fra lei e Ursula si fa sempre più insostenibile e la matrigna la fa rinchiudere prima in un istituto di correzione, insieme ai cosiddetti indesiderati dal regime – non solo gli ebrei, ma anche i disabili ed i malati di mente – quindi in un collegio, alle porte di Berlino, la cui direttrice, una donna colta e sensibile, la mette per la prima volta in guardia nei confronti dell'intolleranza contro gli Ebrei: intolleranza, che – a suo dire – rischia di far precipitare nell'abisso il nazismo.

«A Eden ho sentito dire cose orrende del Fuhrer; la direttrice non aveva peli sulla lingua.
Sosteneva che Hitler stava trascinando la Germania verso la catastrofe, che era un pazzo megalomane e un terribile razzista» (20)

I suoi discorsi sembrano riecheggiare le parole che – ne Il vento sulla sabbia di Fausta Cialente – la giovane Lisa, sembra pronunciare quasi a mo' di vaticinio a proposito dell'ascesa del Fuehrer e dei destini della Germania, quasi di rincalzo ai discorsi farneticanti di Lottie, stravagante pittrice di origine tedesca, stanziatasi da tempo sulle rive del Nilo:

«Capisco! In Germania, da noi, voglio dire, è un'altra cosa!» Spalancò i grandi occhi cerulei e iniziò lentamente uno dei suoi lunghi discorsi nebbiosi, pieni di reticenze, di andate e ritorni, ma dal quale potevo districare via via che secondo lei ‘quell'uomo’ (non lo nominò mai) portava un messaggio al popolo tedesco, lei lo sapeva e lo sentiva, oh sì! Nel suo cuore e nel suo cervello; e anche il popolo lo sentiva.

«Una bella scalogna gli porterà» pensai indignata, ma tacevo senza batter ciglio: Volevo vedere fin dove si sarebbe spinta. (21)


La maschera del Fürer Adolf Hitler, nell'interpretazione donataci da uno splendido Buno Ganz nel film La caduta, di Oliver Hirschbiegel, 2005, tratto dal romanzo di Trevor Roper Gli ultimi giorni di Hitler, 1947
La piccola Helga avrebbe visto ‘quell'uomo’ e sarebbe stata obbligata a trattarlo con deferenza: grazie a Hilde, la sorella nubile della matrigna, che lavora presso il Ministero della Guerra, lei e Peter hanno il permesso di abbandonare per qualche tempo l'umidità della cantina, cui la guerra li ha costretti, per trascorrere un periodo nel Bunker dove il Fuehrer e i suoi si sono asserragliati:

Ma ecco, sentiamo dei rumori e da una porta sulla sinistra entra un gruppo di giovani SS che si dispone lungo la parete di fronte a noi. Li segue una donna in uniforme che regge un cesto.

Nella sala c'è un silenzio assoluto, mentre il mio stomaco si contrae in uno spasmo nervoso. E finalmente arriva lui, Adolf Hitler, il Fuehrer del Terzo Reich!

Avverto un certo ondeggiamento tra le file mentre il Fuehrer avanza lentamente. Tutti scattiamo sull'attenti, alziamo la mano e gridiamo «Heil Hitler»

Abbiamo urlato troppo forte e il viso del Fuehrer tradisce un guizzo di fastidio.

Mentre Hitler avanza verso di noi, io lo fisso senza fiatare. Quante cose ho sentito dire su di lui, dalle più entusiastiche alle più spregevoli. (22)

Ma qual era il volto di Berlino, al di fuori dal Bunker?


«Ricomincio a sbirciare fuori dal finestrino. Dopo la vista dei cadaveri non vorrei più guardare, ma quel funesto spettacolo mi attira come una calamita. [...] Ovunque giri lo sguardo, mi imbatto in tetri ruderi e cumuli di macerie senza fine. Poco dopo percorriamo un'intera strada in fiamme, mentre il cielo si è tinto di viola.[...] Il bus si sposta bruscamente sulla sinistra e striscia lungo le traversine del tram per evitare che ci cadano addosso le facciate roventi delle case. La vettura si riempie di fumo e di un odore di incendio, che secca la gola; fuori pioviggina cenere. [...] Dappertutto si vedono rottami, tram rovesciati e crivellati come colabrodo; un magro cavallo tira un carretto carico di cadaveri.»(23)

A quest'ultima immagine, che ci riporta quasi ad un'atmosfera manzoniano, allorché ne I promessi sposi l'autore descrive la Milano del '600 falcidiata dalla peste, fa da contrappunto nella mente della piccola protagonista il ricordo di quella, che fino a qualche tempo prima era stata la vivace capitale della Germania:

«In che mondo vivo? E che fine ha fatto quella città di cui Opa (24) ogni tanto si compiace di decantare le passate meraviglie? Era una città splendida, viva, con milioni di abitanti che lavoravano, producevano e si organizzavano la vita con quella perfezione di cui sono capaci i tedeschi. Una città ricca con strade sempre illuminate a giorno, vetrine fastose e gente elegante che passeggiava per il Kurfuersterdamm o Unter den Linden. Gente che affollava i ristoranti, i caffè, i cinematografi, i teatri e le sale da concerto. [...] Gente che amava, che si sposava, aveva dei figli e li cresceva con sani principi. Una città moderna, dotata di un'efficiente sotterranea e di un'altrettanto funzionale sopraelevata. Che cosa è successo per trasformare tutto in un immenso cimitero a cielo aperto?» (25)


Carte d'identità di Julius Israel. Visibile sulla sinistra del documento un grande "J", per Juden. Gli uomini dovevano assumere come secondo nome "Israel" e le donne "Sarah". Risulta così che questo documento sia intestato a Julius Israel Israel.
In merito alle ‘testimonianze’ degli orrori nazisti, si è fatto in genere riferimento ad Anna Frank e ad Etty Hillesum, per restare in ambito internazionale, in Italia a Primo Levi con il suo Se questo è un uomo e – più recentemente – a Daniela Padoan, autrice di Come una rana d'inverno (26) , che racchiude la testimonianza, tutta al femminile, di tre sopravvissute (27) ai campi di sterminio di Auschwitz -Birkenau; ancora in Germania, il ritrovamento delle lettere di Lilli Jahn da parte del nipote di lei, il giornalista Martin Doerry (28), fa si che quest'ultimo rievochi la vicenda di una donna ebrea, sposata a un medico ‘ariano’, che dal lager in cui è stata deportata non smetterà di scrivere ai suoi cinque figli fino al momento della morte: ci troviamo però di fronte ad un dato, che pur nella sua indubbia inconfutabilità, ha creato pur sempre un grosso interrogativo: qual è stato l'atteggiamento dei tedeschi ‘non ebrei’ verso le vittime dell'Olocausto? Consenziente o – tuttalpiù – di mera acquiescenza, quando non caratterizzato da una vera e propria omertà?

Certo non sono mancati i casi di vera e propria ‘Resistenza’ antinazista,come testimonia il sacrificio di Hans e Sophia Scholl e degli altri componenti il Circolo della Rosa Bianca: ma la gente comune, come reagiva alle provocazioni del regime?

Sempre ne Il rogo di Berlino Helga Schneider scrive a questo proposito:

«La nostra infanzia è stata infestata da una feroce propaganda antiebraica e quotidianamente abbiamo assistito al manifestarsi dell'antisemitismo. Fin da piccoli abbiamo visto le saracinesche imbrattate con la parola Jude. La gente la pronuncia con prudenza, con diffidenza, con imbarazzo o con timore, come se si riferisse ad una malattia contagiosa; talvolta con un cieco disprezzo, frutto naturale di una propaganda secondo la quale l'avvelenatore di tutti i popoli è il ‘giudaismo internazionale’ .Tutti sappiamo che gli ebrei devono portare la stella giudaica appuntata sul petto, che Hitler ha fatto bruciare le sinagoghe, che agli ebrei è stato vietato di farsi crescere la barba.

Tutti sanno che la Gestapo cerca ovunque gli Ebrei per arrestarli e deportarli nei campi di concentramento e tutti sono stati ampiamente avvertiti che nascondere ebrei comporta la fucilazione, mentre denunciarli assicura dei vantaggi. La gente rinnega i parenti ebrei e tronca amicizie un tempo saldissime con persone anche solo lontanamente sospettate di essere di origine ebraica. Si sente parlare perfino di figli che rinnegano i genitori o, peggio, che li denunciano alle autorità e, al contrario, di gente che ha rischiato la vita per proteggere o nascondere gli ebrei. Perché mio fratello non apre gli occhi?» (29)

«Sentivo dire cose spaventose e mi domandavo cosa avessero fatto mai gli ebrei alla Germania perchè due madri potessero parlarne con un tale disprezzo. Fu lì che udii per la prima volta parlare di ‘sterminio degli ebrei’, mentre l'espressione ‘campo di concentramento di Auschwitz’ usciva dalla bocca delle due donne come una condanna a morte.» (30)

Quando, ormai adulta – siamo nel 1971 – e a sua volta madre di un bimbo, Helga (che ormai risiede in Italia) torna a Vienna col figlio, ansioso di conoscere la ‘nonna austriaca’, che non ha mai visto e, dopo pochi abbracci di circostanza, l'anziana donna apre un armadio, da cui estrae l'uniforme da SS ancora intatta, sospirando nostalgica che «soltanto con indosso quella, si era sentita veramente qualcuno» e mostrando orgogliosa alla figlia una manciata dell'oro sottratto agli ebrei, inorridita quest'ultima scappa via, giurandole di non voler rivederla mai più (!) Manterrà in effetti la sua promessa, fino a quando – nell'ottobre del 1998 – la lettera di una certa Frau Freihorst, che le è del tutto sconosciuta, le comunica che sua madre vive ancora.
sergio.T
00lunedì 14 luglio 2008 17:07
Vediamo di leggere qualcosa di suo tramite la biblioteca del paese.
A posto del solito thriller estivo( come scoperta di uno nuovo) quest'anno puntiamo su questa autrice.
sergio.T
00martedì 15 luglio 2008 10:59
Mah, che dire dopo poche pagine? forse qualcosa di estremamente semplice?
sergio.T
00giovedì 17 luglio 2008 09:29
e' un libro da ragazzi niente di piu'.
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 06:39.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com