HIV E DIRITTO ALLA PRIVACY: COME TUTELARSI

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Adminsierone
00sabato 29 maggio 2010 14:02
L’evoluzione giuridica del mondo medico-scientifico si dimostra – sotto molteplici aspetti – ancora impreparata e lacunosa nel gestire e risolvere le complesse problematicità sociali che la patologia HIV/AIDS porta con sé. Infatti, benché detta ‘sindrome’ abbia assunto, con il tempo, un’incidenza significativa nei programmi sanitari della maggior parte degli Stati Occidentali, rimane ancor oggi di stretta attualità la trattazione e gestione di una serie di problemi, non solo di ordine medico-scientifico, ma altresì di ordine umano, sociale ed etico, che risultano essere per il giurista di non agevole soluzione.




1. Bilanciamento tra gli interessi collettivi e interessi individuali


Come noto una delle problematiche giuridicamente più rilevanti nell’affrontare temi attinenti alla salute riguarda il bilanciamento fra l’interesse generale della collettività e quello dei singoli, ossia tra la necessità di tutela della salute pubblica (anche attraverso interventi autoritativi in grado di frenare il rischio collettivo della diffusione delle malattie) e l’opportunità di fissare limiti etico-giuridici alla compressione dei diritti individuali alla libertà e alla riservatezza.


Nel caso dell’infezione da HIV tale bilanciamento diventa ancora più critico, tenuto conto dei persistenti riflessi sociali, anche in termini discriminatori, derivanti da interventi principalmente volti alla tutela della salute pubblica. In altre parole, la dicotomia tra tutela della salute pubblica e tutela dei diritti individuali investe maggiormente la responsabilità e gli obblighi dei professionisti sanitari coinvolti nell’assistenza medica al soggetto sieropositivo o in AIDS, non solo sotto il profilo professionale, bensì anche sotto quello giuridico e deontologico.


Purtroppo, come vedremo, gli interventi normativi ad hoc del Legislatore volti al bilanciamento degli interessi collettivi e individuali coinvolti nella vicenda, risultano farraginosi, datati e spesso non correttamente coordinati con le regole di deontologia medica, ingenerando un clima di incertezza in ordine alle scelte prospettabili agli operatori sanitari che si trovano ad affrontare problemi legati alla gestione di questi pazienti.




2. Il bilanciamento degli interessi in tema di Privacy


Tra gli aspetti più controversi e dibattuti, nell’analisi del bilanciamento dei vari interessi, vi è senza dubbio quello sul valore da attribuire al diritto alla privacy, inteso come strumento giuridico volto a fornire tutela a una duplice ed elementare esigenza dell’individuo:


1. la protezione della sfera privata dall’altrui interesse a invaderla;


2. il controllo del flusso di informazioni in uscita dalla sfera privata verso l’esterno.


L’attenzione sul tema è sempre più crescente, dato il costante affermarsi del progresso tecnologico e della possibilità di conservazione e accesso alle informazioni, con la necessità, sempre più sentita, di garantire che la raccolta dei dati personali non avvenga all’insaputa dell’interessato e non si presti a utilizzi lesivi dei suoi diritti e della sua dignità.


In tale contesto, è agevole comprendere come la sussistenza in capo all’individuo di informazioni altamente sensibili quali la sua sieropositività, determina negli operatori sanitari, con cui inevitabilmente il soggetto si troverà ad interagire, scenari giuridici particolarmente complessi e dagli equilibri assai delicati che non investono unicamente il diritto alla riservatezza, ma interessano altresì l’ambito del segreto professionale e della deontologia medica.


In altri termini, ci si deve domandare fino a che punto il diritto alla privacy della persona con HIV trovi supporto, tutela e conferma nel vincolo al segreto professionale del medico, inteso come obbligo deontologico a non comunicare ad altri un’informazione così riservata.


Infatti, se da un lato la riservatezza del singolo deve, in linea di principio, trovare protezione quale diritto inviolabile della sua personalità, dall’altro la rivelazione del segreto professionale potrebbe essere ritenuta lecita e, dunque, non censurata ove si rinvenisse una giusta causa stabilita dalla legge.
In tale dimensione, l’interesse del singolo a mantenere un riserbo sul proprio stato di salute, peraltro ampiamente giustificato dalle probabili discriminazioni sociali di cui potrebbe essere fatto oggetto, potrebbe andare in conflitto con quello della collettività ad approntare strumenti efficaci atti a evitare il contagio e la diffusione dell’infezione.


Come si noterà nel proseguo della trattazione, l’attuale legislazione e le norme deontologiche non hanno sciolto tutti i dubbi che il potenziale conflitto di interessi sopra descritto porta con sé, sebbene si possa comunque affermare che ormai alcune scelte di fondo siano state fatte dal nostro ordinamento giuridico.




3. Il quadro normativo italiano


Nel nostro ordinamento giuridico, la tutela della riservatezza e della salute di una persona con HIV o in AIDS risulta garantita da molteplici norme contenute, in ordine di importanza, nella Costituzione, nella Legge n. 135 del 1990, nel Decreto Legislativo n. 196 del 2003, nelle Linee guida del Garante della privacy e nel Codice di deontologia medica qui di seguito brevemente commentati.


La Costituzione


La salute viene tutelata nel nostro ordinamento soprattutto come interesse fondamentale del singolo; è la stessa Costituzione che all’art. 32 recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
I trattamenti sanitari possono dirsi obbligatori nel momento in cui le attività diagnostiche e terapeutiche, finalizzate alla prevenzione, individuazione e cura dello stato patologico, si realizzino mediante comportamenti imposti dal legislatore, in via diretta o indiretta, al fine di garantire l’interesse della collettività alla tutela della salute pubblica.
In altri termini, la natura individualistica presente nel diritto alla salute non esclude, comunque, la sussistenza di limiti ben precisi che possano essere disposti dalla legge per salvaguardare la salute della collettività dai pericoli derivanti dalle manifestazioni positive e negative dell’esercizio di tale diritto personale; infatti, nel caso in cui lo stato patologico del singolo individuo possa mettere a rischio la salute altrui, il legislatore può comunque obbligarlo a sottoporsi ai trattamenti sanitari posti a presidio della salute collettiva.
L’ambito in cui il diritto alla salute si ricongiunge con il diritto alla riservatezza della persona con HIV è quello della sua dignità umana; il nostro ordinamento, infatti, impone il rispetto del malato come essere umano non solo con riguardo agli aspetti fisici bensì, soprattutto, con riferimento agli aspetti psicologici e morali, i quali esigono massima delicatezza e riservatezza. A tal riguardo, giova porre l’accento come nel dettato costituzionale il diritto alla riservatezza non sia espressamente enunciato e, dunque, sia stata la giurisprudenza a collocarlo tra i diritti inviolabili della personalità previsti dall’art. 2 della Carta.


La Legge n. 135/1990


Soltanto con la Legge n. 135 del 1990 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS), per la prima volta in Italia la riservatezza è stata annoverata nella più ampia categoria dei diritti della personalità, manifestandosi come autonoma figura di diritto soggettivo.
Scendendo nel dettaglio, il predetto provvedimento sancisce il divieto generale di diffondere notizie riservate sulle condizioni di salute dei soggetti con HIV o con AIDS; in particolare, l’art. 5 impone agli operatori sanitari di prestare la necessaria assistenza, adottando tutte le misure occorrenti per la tutela della riservatezza della persona che ne è affetta.


Inoltre, secondo la medesima disposizione “Nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso, ad analisi tendenti ad accertare l'infezione da HIV se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse” e la successiva “comunicazione dei risultati di accertamenti diagnostici diretti o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla persona cui tali esami sono riferiti”.


L’obbligo di riservatezza è ovviamente finalizzato ad evitare il sorgere di forme di discriminazione a livello sociale e in ambito lavorativo. A tal fine, nel medesimo art. 5 si impone l’anonimato del test sierologico per la verifica della positività al virus HIV, proprio nell’intento di rispettare in maniera più incisiva i diritti del paziente e incentivare gli accertamenti per quei soggetti con comportamenti a rischio, da effettuarsi nelle strutture sanitarie preposte allo screening per le infezioni da HIV.


Il Codice della Privacy


La protezione della riservatezza dei pazienti sieropositivi è offerta anche da molteplici disposizioni inserite nel Decreto Legislativo n. 196 del 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali che ha sostituito il D. Lgs. 675/97), nonché dalle prescrizioni del Garante contenute nelle “Linee guida per i trattamenti di dati personali nell’ambito delle sperimentazioni cliniche di medicinali” e in quelle “in tema di Fascicolo sanitario elettronico (FSE) e di dossier sanitario”.


In particolare, i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale dell’interessato vengono qualificati dal Codice come sensibili e, per tale ragione, ricevono una protezione maggiore che si estrinseca, ad esempio: a) nella previsione dell’obbligo di consenso iscritto al trattamento (e previa autorizzazione del Garante); b) nell’ammissibilità di informativa e consenso successivi alla prestazione medica, soltanto ove quest’ultima possa venire pregiudicata (in termini di tempestività o efficacia) dalla loro acquisizione preventiva; c) nell’ammissibilità di informativa e consenso successivi alla prestazione medica in caso di rischio grave, imminente ed irreparabile per la salute o l'incolumità fisica dell'interessato.


Può succedere quindi che l’esigenza di prevedere per l’individuo un consenso ampiamente informato sui trattamenti cui dovrebbe essere sottoposto in campo medico sia limitata da ragioni di tutela di diritto alla salute o all’incolumità fisica dell’individuo stesso. Per questi motivi è previsto un bilanciamento di interessi dell’individuo prevedendo che, ove giudicato necessario, “il consenso al trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute […] possa essere manifestato con un'unica dichiarazione, anche oralmente. In tal caso il consenso è documentato, anziché con atto scritto dell'interessato, con annotazione dell'esercente la professione sanitaria o dell'organismo sanitario pubblico”.


Anche le Linee guida sopra citate rafforzano e ribadiscono le cautele già previste dal Codice in termini di accesso ai dati sensibili, custodia e sicurezza dei medesimi, individuazione dei soggetti deputati a trattarli, consenso informato, misure minime di sicurezza.


Il Codice Deontologico


In tema di privacy si ricorda, infine, che il medico è tenuto a rispettare le disposizioni del Codice Deontologico inerenti al segreto professionale (art. 10), alla riservatezza dei dati personali (art. 11) e al trattamento dei dati sensibili (art. 12).


Per quanto concerne il segreto professionale, il medico ha il dovere di mantenere il segreto su tutto ciò che gli viene confidato o che può conoscere in ragione della sua professione e deve altresì conservare il massimo riserbo sulle prestazioni professionali effettuate o programmate, nel rispetto dei principi che garantiscono la tutela della riservatezza. Inoltre, nelle pubblicazioni scientifiche contenenti dati clinici o osservazionali relativi ai singoli pazienti, il medico deve assicurare la loro non identificabilità.




4. Le criticità legate al test sierologico per l’accertamento HIV


Per diagnosticare l’infezione da HIV vengono eseguiti test di laboratorio per i quali è necessario prelevare un campione di sangue del paziente: questo prelievo secondo la legge deve essere eseguito esclusivamente con il consenso scritto e, quindi, a condizione che sussista la volontà del paziente, intesa come autonomia dell’individuo di poter decidere se sottoporsi o meno al trattamento diagnostico.
Infatti come già detto nel nostro ordinamento, in linea di principio, il consenso del paziente assurge a elemento indispensabile per poter avviare qualsiasi trattamento medico; proprio per tale ragione, risulta di notevole importanza stabilire se un individuo possa o meno essere sottoposto al test dell’HIV (cd. screening) o a conseguenti terapie senza, o addirittura contro, la sua volontà.


A tal riguardo, giova evidenziare che si è di fronte a un ‘trattamento sanitario’ ogni qualvolta si richiede a una persona il consenso nel mettere a disposizione il proprio corpo, anche per la sola effettuazione di accertamenti medici i quali, sovente, comportano una serie di esami più o meno invasivi sul paziente.
Un’eccezione al principio della volontarietà è rappresentata dai Trattamenti Sanitari Obbligatori (cd. TSO) i quali, tuttavia, sono da considerarsi un’extrema ratio cui ricorrere solamente nel caso in cui non sia possibile ottenere il consenso dell’interessato; i TSO sono espressamente previsti da specifiche disposizioni di legge e comportano la necessità di presupposti oggettivi per non ricadere in un ambito costituzionalmente illegittimo.


Quindi, la domanda del trattamento da parte dell’interessato costituisce la regola, l’obbligatorietà è solo un’eccezione.


La richiesta del paziente e il suo consenso al trattamento sanitario risultano un vero e proprio atto giuridico, un permesso con cui qualcuno (il paziente) conferisce a qualcun altro (il medico) un potere ad agire; per tale ragione, si tratta di “potestà” o “facoltà” di curare, poiché il medico esercita in concreto la sua attività solo conseguentemente alla richiesta del paziente, a meno che non sussista per il medico un obbligo giuridico di intervenire imposto da una circostanza particolare.


Con riguardo alla disciplina generale in merito ai trattamenti sanitari volontari e obbligatori bisogna fare riferimento alla Legge n. 833 del 1978. In tale provvedimento viene affermato con forza come gli accertamenti e i trattamenti sanitari siano di norma volontari, nel pieno rispetto di quel principio costituzionale che impone di attenersi alla volontà del paziente (presupponendo così il suo previo necessario consenso); il medico dunque non può, almeno in via ordinaria, intervenire sul paziente senza averne prima ricevuto il consenso: l’assenso del paziente costituisce, pertanto, il presupposto per l’intervento del medico.


I principi generali appena illustrati risultano assolutamente applicabili in tema di AIDS laddove, per molteplici ragioni, ancor più è stato ritenuto opportuno dare al paziente la possibilità di decidere se sottoporsi o meno al test di sieropositività.


Allo stato attuale, infatti, non esistendo alcuna normativa che preveda un TSO specifico per i pazienti con HIV, la sottoposizione ad accertamento di alcune categorie di pazienti (c.d. categorie a rischio), senza un loro preventivo consenso, non appare giuridicamente legittima, né può essere condivisa la giustificazione di tale pratica allo scopo di tutelare la salute degli operatori sanitari.


In tal senso, infatti, si è espressa di recente anche la Suprema Corte di Cassazione la quale, con un forte richiamo alle strutture sanitarie nazionali ad adoperarsi maggiormente per tutelare la privacy dei pazienti con HIV, ha fermamente censurato la condotta di un’azienda ospedaliera che non soltanto aveva sottoposto un paziente al test dell’HIV senza il suo previo consenso, ma aveva altresì consentito che i risultati dell’accertamento e i dati sulle sue abitudini sessuali fossero lasciati incustoditi (sentenza n. 2468 del 30 gennaio 2009).




5. Comunicazione dei risultati del test


Una delle questioni che desta ancor oggi accese diatribe sia in ambito giuridico che nell’opinione pubblica è sicuramente quella relativa alla condotta che il professionista sanitario dovrebbe tenere di fronte al rischio che corrono i terzi esposti al contagio, in particolare i partner del soggetto con HIV. In una simile situazione, gli interessi potenzialmente in conflitto sono evidenti: da un lato, quello del sieropositivo al rispetto della propria riservatezza e della propria dignità umana al fine di evitare alcun genere di discriminazione, dall’altro quello della collettività ad impedire che altri individui, non venendo informati della patologia, abbiano rapporti non protetti con il paziente con HIV e, conseguentemente, rimangano a loro volta contagiati.


Si deve innanzitutto precisare che, in base alla normativa vigente, il medico ha la possibilità di scambiare informazioni od opinioni riguardanti il paziente HIV-positivo solo con i colleghi, a patto che tale trasmissione di informazioni soddisfi contemporaneamente le seguenti condizioni:


a. deve effettuarsi tra soggetti tenuti al segreto professionale;


b. la finalità deve essere quella di tutelare la salute del paziente;


c. sussista il consenso di quest’ultimo.


Tuttavia, tale tutela rivolta al paziente sieropositivo potrebbe far sorgere dei problemi di ordine giuridico, deontologico ed etico, nel caso in cui provocasse un grave pregiudizio ai partner del medesimo; l’esposizione a un possibile rischio di contagio dei partner sessuali della persona sieropositiva potrebbe divenire, infatti, uno dei motivi della diffusione incontrollata del virus.


Proprio al fine di evitare questa situazione, molti Paesi hanno incentivato e incentivano i soggetti sieropositivi a rintracciare tutti i propri partner, allo scopo di informarli sul loro possibile contagio.
Nell’ipotesi in cui l’individuo con HIV non intenda rivelare al partner il proprio stato di salute, il medico viene a trovarsi in una situazione conflittuale determinata da un lato dall’obbligo di tutelare il diritto al riserbo del proprio paziente, dall’altro dal dovere di proteggere la comunità da un possibile rischio di contagio.


Sotto il profilo squisitamente giuridico, il dibattito sulla condotta che il medico dovrebbe adottare risulta ancora aperto.


Per alcuni, l’operatore sanitario risulta sempre e comunque vincolato al rispetto del segreto professionale non solo in virtù delle previsioni del Codice Deontologico (art. 10) bensì anche in base a due norme del Codice Penale: l’art. 622, che punisce chi rivela il segreto professionale (fatta salva l’ipotesi di giusta causa), e l’articolo 326, che sanziona la persona incaricata di un pubblico servizio il quale, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio o comunque abusando della sua qualità, riveli notizie d'ufficio coperte dal segreto.


Secondo tale orientamento il medico, essendo sempre vincolato al massimo riserbo professionale, dovrebbe profondersi in ogni modo per far acquisire all’individuo sieropositivo la piena e profonda consapevolezza delle conseguenze che un comportamento omissivo cagionerebbero sulla vita e sulla salute del proprio partner, ma non potrebbe mai violare il segreto informando le persone a rischio di contagio al posto del paziente.


Vi è invece un altro orientamento dottrinale favorevole a giustificare, in caso di AIDS, la rivelazione del segreto professionale da parte del medico proprio in base al tenore letterale dell’art. 622 del Codice Penale, semplicemente considerando come giusta causa il pericolo di contagio del partner del sieropositivo tenuto all’oscuro della patologia.


Infine, autorevole dottrina sostiene come il dovere di rivelare il segreto da parte del medico sarebbe avvallato dall’art. 40 del Codice Penale, secondo cui “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”; a ben vedere tale ultima interpretazione non solo riterrebbe giustificata la rivelazione del segreto professionale nei casi di AIDS, ma la considererebbe addirittura un dovere da parte degli operatori sanitari.


Peraltro, il Codice Deontologico, nel ribadire che “il medico deve mantenere il segreto su tutto ciò che gli è confidato o di cui venga a conoscenza nell’esercizio della professione”, chiarisce tuttavia come “la rivelazione è ammessa ove motivata da una giusta causa, rappresentata dall’adempimento di un obbligo previsto dalla legge”, rinviando di fatto ai problemi interpretativi sopra illustrati con riferimento alle norme penali.


Naturalmente, le considerazioni sopra riportate in merito alla sussistenza in capo all’operatore sanitario del vincolo del segreto professionale assumono un valore ancora maggiore nell’ipotesi in cui un medico di base abbia tra i propri pazienti persone legate da un vincolo di parentela o amicizia, una delle quali è affetta da sieropositività; in tale circostanza, la rivelazione del segreto si appalesa come un evidente e grave violazione del diritto alla privacy, che non trova nemmeno giustificazione nell’interesse a tutelare la collettività da un possibile contagio.


Da tale breve trattazione della questione, è agevole comprendere come la medesima, coinvolgendo aspetti e profili giuridici, deontologici ed etici sovente non univoci, ma contrastanti, risulti tuttora oggetto di approfondimento e dibattito. Ad oggi, pertanto, tale delicata questione è affidata alla coscienza e ai principi etici del medico, guidati dalle norme esistenti nel nostro ordinamento giuridico in materia di segreto professionale e possibilità di violarlo.




6. Il trattamento dei dati sensibili da parte delle strutture sanitarie


Il trattamento dei dati sensibili in ambito medico deve assicurare adeguati standard di sicurezza e il pieno rispetto della privacy a quanti si rivolgono alle diverse strutture sanitarie per finalità di controllo, prevenzione e cura delle malattie.


Secondo l’art. 11 del Codice sulla privacy, tale trattamento deve avvenire in ossequio ai principi di liceità, correttezza, esattezza e pertinenza e deve risultare compatibile e non eccedente rispetto agli scopi prefissati, anche con riferimento al periodo di conservazione dei dati stessi.


Come già anticipato, i dati relativi alle persone con HIV, essendo idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale dell’individuo, sono considerati dati sensibili e, come tali, destinatari di una disciplina specifica in tema di garanzie di riservatezza, poiché la loro diffusione e comunicazione rappresenta una profonda intrusione nella vita privata dell’interessato, che può ammettersi solo nei casi previsti dalla legge.
I suddetti dati devono, pertanto, essere custoditi e monitorati attraverso tutte quelle regole tecniche che ne assicurino in ogni momento l’integrità, preservandoli cioè da fenomeni di distruzione, perdita, accesso non autorizzato o trattamento non consentito; a tal riguardo, gli artt. 33 e 34 del Codice, il Disciplinare tecnico in materia di misure minime di sicurezza e le Linee guida emanate dal Garante, dettano le misure volte ad assicurare il livello minimo necessario a garantire la riservatezza di dati ritenuti particolarmente degni di protezione.
Sotto il profilo della privacy, due sono le questioni di maggior rilievo da affrontare nell’ambito del trattamento sanitario dei dati sensibili delle persone con HIV: quella del ‘previo consenso’ espresso al trattamento e quella delle modalità di trattamento di tali dati, finalizzate a garantire il più stretto riserbo sulla vicenda.
Come già precedentemente accennato, in ambito medico il consenso può essere raccolto dagli organismi sanitari (pubblici o privati che siano) e dagli esercenti le professioni sanitarie anche in forma semplificata, attraverso un’unica dichiarazione fatta oralmente (art. 81); ciò a patto che sia debitamente documentato per iscritto da chi lo ha raccolto.


Secondo le recenti Linee guida del Garante sul Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), il consenso del paziente è altresì necessario per procedere alla costituzione del suo dossier elettronico, ossia di un documento informatico atto a raccogliere un’ampia storia sanitaria dell’individuo.
In ragione delle finalità perseguite attraverso il FSE, è opportuno che sia illustrata all'interessato l'utilità di costituire e disporre di un quadro il più possibile completo delle informazioni sanitarie che lo riguardano, in modo da poter offrire un migliore supporto all'organismo sanitario, al medico e all'interessato stesso.


Tuttavia, devono essere previsti momenti distinti in cui l'interessato possa esprimere la propria volontà, attraverso un consenso di carattere generale per la costituzione del dossier e di consensi specifici ai fini della sua consultazione o meno da parte dei singoli titolari del trattamento (ad esempio, il medico di medicina generale, il farmacista, il medico ospedaliero, ecc.); naturalmente, tali prescrizioni assumono maggiore rilevanza se a voler costituire un proprio FSE sia un paziente con HIV o in AIDS.


Un'altra previsione contenuta nelle citate Linee guida, di grande rilievo per i sieropositivi, è quella che consente di non far confluire nel dossier elettronico alcune informazioni sanitarie, indicate espressamente dal paziente, relative a singoli eventi clinici (ad esempio, il riferimento all'esito di una determinata visita specialistica o alla prescrizione di un particolare farmaco); in tal modo, viene offerta la possibilità al paziente con HIV di modulare l’ampiezza del proprio FSE, sia stabilendo le categorie di operatori sanitari che possono venire a conoscenza dei propri dati sensibili, sia gli eventi clinici o farmacologici che non devono risultare dal dossier.


Con riferimento alle modalità di trattamento dei dati sensibili di un paziente sieropositivo, le pulsioni discriminatorie che tale patologia ancora ingenera, evidenziano quanto sia importante tutelare con ogni accorgimento il diritto alla riservatezza delle persone con HIV.


In tale ottica, il già citato art. 5 della Legge n. 135 del 1990 impone modalità che non consentano l'identificazione della persona in occasione del test sierologico per la verifica della positività al virus HIV, proprio con l’intento di rispettare in maniera incisiva i diritti del paziente e di incentivare gli accertamenti per quegli individui con comportamenti a rischio, da effettuarsi nelle strutture sanitarie appositamente attrezzate e preposte.


Anche in relazione alla cartella clinica del sieropositivo, il Codice sulla privacy (contenente una disciplina ancor più garantista della Legge n. 135 del 1990) impone agli organismi sanitari e agli esercenti la professione sanitaria di conservata secondo precisi accorgimenti, tutti orientati a garantire il massimo del riserbo su una situazione così delicata.


Non stupisce, dunque, come il recente intervento della Corte di Cassazione (sentenza n. 2468 del 30 gennaio 2009 già citata precedentemente) abbia censurato con estrema fermezza una struttura ospedaliera il cui personale di servizio si era reso colpevole di aver lasciato la cartella clinica di una persona con HIV abbandonata in sala infermieri su di un termosifone, a disposizione di qualunque curioso; per effetto di tale dissennato comportamento, non solo la madre (prima all’oscuro) aveva appreso la sieropositività del figlio, ma la notizia si era diffusa all’interno e all’esterno dell’ospedale, cagionando un grave pregiudizio personale e patrimoniale al paziente che, peraltro, aveva anche dovuto chiudere la propria attività commerciale.


Dall’analisi fin qui svolta, ciò che emerge con particolare evidenza è l’auspicio che gli organismi sanitari e gli esercenti la professione sanitaria prestino un’attenzione sempre maggiore al rispetto della riservatezza delle persone con HIV/AIDS; infatti, nel nostro ordinamento giuridico, le norme a garanzia della privacy e della dignità di tali individui ci sono ma, forse, sono proprio gli operatori del settore a dover dimostrare maggiore impegno nel conoscerle e attenzione nell’osservarle, cercando di tenere sempre a mente gli effetti, spesso devastanti, che un comportamento non corretto può cagionare.




7. Domande e Risposte


Riportiamo qui di seguito le risposte ad alcune delle domande più frequenti in relazione alla tutela della riservatezza nell’ambito dell’infezione da HIV.


a. Il test sierologico per l’accertamento HIV può essere obbligatorio?
Allo stato attuale nel nostro ordinamento giuridico non vi è una disposizione di legge che impone l’effettuazione obbligatoria del test sierologico per l’accertamento HIV, neppure per le popolazioni cosiddette ‘a rischio’. E’ quindi sempre necessario informare l’interessato e ottenere il suo consenso, salvo che il test sia reso necessario per gravi motivi di incolumità fisica e tutela della salute del paziente stesso.


b. I risultati del test possono essere comunicati dal medico curante ad altri medici?
Sì, a condizione che la comunicazione sia effettuata tra soggetti tenuti al segreto professionale, per finalità di tutela della salute del paziente stesso e ci sia il consenso di quest’ultimo.


c. I risultati del test possono essere comunicati ai familiari del paziente?
No.


d. I risultati del test possono essere comunicati dal medico curante al partner del paziente?
Il tema è ampiamente dibattuto in quanto vi è un conflitto di norme, di carattere penale, contrastanti tra loro, in particolare quelle relative alla rilevazione di segreti professionali e quelle previste per chi non impedisce, pur avendone l’obbligo, che venga cagionato un danno a terzi. La decisione finale è rimessa alla coscienza del medico curante che deve fornire tutte le informazioni al paziente tali da aiutarlo a decidere in tal senso (ad esempio dando il consenso a che la comunicazione al partner sia fatta dal medico stesso).


e. Si può chiedere che i risultati del test non siano inseriti nella Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE)?
Per procedere alla costituzione del dossier elettronico, ossia del documento informatico atto a raccogliere la storia sanitaria dell’individuo, è necessario che la struttura sanitaria ottenga il consenso scritto del paziente. Tale consenso viene raccolto in momenti distinti: il primo consenso, di carattere generale, viene raccolto per la costituzione del dossier, mentre gli altri, di tipo più specifico, vengono raccolti per permettere la consultazione solo ad alcuni titolari del trattamento (ad esempio, il medico di medicina generale, il farmacista, il medico ospedaliero, ecc.). Inoltre, su espressa richiesta del paziente, alcune informazioni sanitarie possono non essere fatte confluire nel dossier elettronico, quali ad esempio, il riferimento all'esito di una determinata visita specialistica o alla prescrizione di un particolare farmaco. Il paziente con HIV può quindi modulare l’ampiezza del proprio FSE, sia stabilendo le categorie di operatori sanitari che possono venire a conoscenza dei propri dati sensibili, sia gli eventi clinici o farmacologici che non devono risultare dal dossier.


Avv. Laura Bellicini e Avv. Alessio Briganti
CBA Studio Legale e Tributario – Roma

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