H.Scullard

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
sergio.T
00martedì 2 febbraio 2010 09:47
"Ordine, disciplina, rigore morale, forza di carattere, pochissima teoria e tantissima pratica, predilizione per la legge e - sopratttutto - cieca fiducia nella forza militare.
Eccoli i segreti dei Romani, popolo padre fondatore di tutto l'occidenete."

H.Scullard: Storia del mondo romano Vol 1
sergio.T
00martedì 2 febbraio 2010 09:51
La piu' grande differenza tra la cultura greca e quella romana fu che i Greci non andarono mai oltre l'idea di citta' stato ( Atene Sparta) mentre i secondi, i Romani, concepirono subito il concetto di unita' territoriale prima, poi repubblicana politica, infine imperiale.
Territorialmente l'italia come penisola offriva il senso dell'unita' (confini demarcati) ma questo non bastava: ci voleva il genio peculiare del popolo Romano per rappresentare quello che nessuno fino ad allora aveva solamente pensato.

H.Scullard.
mujer
00martedì 2 febbraio 2010 15:06
Eccole le basi del capitalismo globale!
Io parteggio per le città Stato. [SM=g10529]
sergio.T
00martedì 2 febbraio 2010 17:24
Va! va'!

La fondazione di Roma, ufficialmente datata 753 ac., pone le propri basi nella leggenda. Anche Romolo e Remo possono , a ben ragione, considerarsi leggenda, soprattutto il secondo.
Su Romolo le testimonianze storiche sono molto piu' certe.
O forse, come dicono alcuni storici, sono i discendenti di Enea, i fondatori? ( con commistioni etrusche)
sergio.T
00martedì 2 febbraio 2010 22:25
Il fatto che, secondo la tradizione , Romolo distribui' la terra conquistata viritim mostra che i Romani stessi consideravano la proprieta' privata come fatto esistente fin dall'origine

H.Scullard
sergio.T
00mercoledì 3 febbraio 2010 14:24
I Romani incominciarono la loro estensione nei villaggi confinanti con il concetto dell'incorporazione.

H.Scullard
mujer
00giovedì 4 febbraio 2010 08:38
vedi? lo stesso principio delle multinazionali... [SM=g8273]

ricordati di riportare il pezzo sulla cittadinanza, quella mi interessa particolarmente.
sergio.T
00giovedì 4 febbraio 2010 09:04
Fedelta' e non incorporazione in senso stretto
Non e' lo stesso concetto e Scullard con Mommsen lo spiega bene.
I Romani, nei primi tempi della monarchia militare e della Repubblica poi, annettevano le citta' stato vicine e le popolazioni relative.
Era un principio di mutua assistenza e mutuo aiuto reciproco. Le citta' che venivano annesse ( alla prima idea di unita' nazionale) mantenevano la propria municipalita' indipendente; mantenevano la propria cultura e la propria religione.
Il sentimento di unita', perche' di questo si trattava, veniva coltivato e rafforzato nella alleanza militare : essendo alleate, le citta' annesse, percepivano l'aiuto concreto che i Romani portavano alle loro difficolta'.
Ci sono infiniti casi nei quali i Romani intervenvano militarmente in soccorso degli alleati fedeli.
Ed e' proprio sulla fedelta' che si basava l'incorporazione: essere incorporati significava fidarsi reciprocamente di quell'unita' che stava nascendo. Per la prima volta in occidente.
Scullard ricorda molto bene che il naufragio di Annibale e di Pirro, ad esempio, nacque non solo dalla forza militare Romana, ma anche dal fatto che moltissime citta' italiane si schierarono con i Romani.
E che fecero costoro? a chi dimostro' fedelta' fu poi riconosciuta la cittadinanza a pieno titolo ( o minore a seconda dei casi). Chi invece tradi' l'alleanza venne inesorabilmente punito come la storia trucemente testimonia.
Ed e' questo il punto: la saldezza della fedelta'. I Romani avevano un senso di appartenenza fortissimo. E lo traslavano anche nei confronti di citta' sociee di Roma.
Ci sono moltissime testimonianze che in alcuni casi le citta' si lamentavano dei tributi all'erario romano troppo alti: i Romani per dimostrare la saldezza dell'alleanza li tolsero immediatamente o li sgravarono di un onere troppo alto. In altri casi la cittadinanza " minore" veniva trasformata in cittadinanza " completa".
Ottenuta questa la citta' incorporata era consioderata a tutti gli effetti territorio romano con stessi diritti e doveri di Roma stessa.
Non e' un caso, che uno "straniero" ottenuto la cittadinanza Romana, poi con gli anni potesse diventare persino Console, massima carica politica e militare Romana.

Il risvolto della medaglia? l'estrema severita' con la quale si puniva coloro che tradivano. Ma si sa: i Romani avevano un senso dell'onore vivissimo.
sergio.T
00giovedì 4 febbraio 2010 11:44
Fare Romano
" Quando fu annunciato dall'oracolo delfico che Veio non sarebbe caduta finche' le acque del lago Albano, che erano cresciute in modo abnorme, non si fossero prosciugate, i Romani si accinsero a drenare e a svuotare il lago"

Scullard: Storia del Mondo Romano, primo volume

Sono queste piccole cose a manifestare l'essenza di un popolo.
sergio.T
00giovedì 4 febbraio 2010 11:57
Feciali e Ambasciatori
La praticita' Romana , la loro grande virtu', la piu' immensa di tutte, si manifesta anche nei rapporti nazionali ed internazionali:
ad un torto subito, o ritenuto tale, si convocavano i Feciali( sacerdoti sulla giustizia di guerra e non solo) che esaminavano il caso. Nei piu' gravi si nominavano due Ambasciatori ( io e Manuel, forse?) che venivano delegati alla spedizione in territorio nemico:
" Se ritenete ingiusta ed empia la nostra richiesta di riparazione , non rimandateci nel nostro paese " questa era la formula ( ripetitio) con la quale gli Ambasciatori chiedevano la riparazione del torto subito. Era implicito il messaggio: se la ritenete , invece, giusta e non riparate, noi torneremo a Roma e ritorneremo da voi portandovi la guerra.
Nel frattempo a Roma si issava il vessillo e un messaggero si recava al confine del territorio nemico dopo soli trenta giorni ( il tempo dato a disposizione per riparare) e lanciava una lancia bruciata alla punta oltre il confine.
Questo era l'attimo preciso nel quale l'esercito Romano si metteva in marcia.
Non c'era piu' tempo di compromessi, di posticipi, di rinvii...
Arrivava la guerra come forma di riparazione ( Indictio belli) perche' l'onore Romano non era stato riparato. ( testatio deorum)
sergio.T
00giovedì 4 febbraio 2010 11:59
Clarigatio.
L’inizio della guerra per i Romani coincideva con un’antica usanza rituale. Il pater patratus del collegio dei feziali si recava presso i confini del territorio nemico e, dopo aver pronunziato alcune formule, dichiarava a voce alta le causae (l’offesa arrecata ai popoli alleati o la mancata restituzione e dei responsabili dell’offesa) che spingevano il popolo romano a muovere guerra al popolo offensore, espletando così la clarigatio.
sergio.T
00giovedì 4 febbraio 2010 12:13
Ordinamento dei Feciali, Bellum iustum. Antonello Calore, Universita' di Brescia.
Livio[1], narrando il periodo della monarchia romana, individua in Anco Marcio[2], successore — secondo la leggenda — di Tullo Ostilio, il re che, ispirandosi ai costumi dei vicini Equicoli[3] e imitando le procedure di pace volute dal re Numa Pompilio, introdusse i rituali giuridici per principiare l’attività bellica «a se (= Anco Marcio) bellicae caerimoniae proderentur, nec gererentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua gente Aequicolis, quod nunc fetiales habent, descripsit, quo res repetuntur»[4].

Dal paragrafo 6 al paragrafo 14 del testo è descritto minuziosamente il cerimoniale per dare inizio alla guerra, come indica l’espressione «bellum indico facioque»[5]:


Liv. 1,32,6-14: 6. Legatus ubi ad fines eorum venit unde res repetuntur, capite velato filo — lanae velamen est — “Audi, Iuppiter”, inquit; “audite, fines” — cuiuscumque gentis sunt, nominat —, “audiat fas: ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit”. 7. Peragit deinde postulata. Inde Iovem testem facit: “Si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse”. 8. Haec cum fines suprascandit, haec quicumque ei primus vir obvius fuerit, haec portam ingrediens, haec forum ingressus paucis verbis carminis concipiendique iuris iurandi mutatis peragit. 9. Si non deduntur [quos] [6] exposcit, diebus tribus et triginta — tot enim sollemnes sunt — peractis bellum ita indicit: 10. “Audi, Iuppiter, et tu, Iane Quirine, diique omnes caelestes, vosque terrestres, vosque inferni, audite: ego vos testor populum illum” — quicumque est, nominat — “iniustum esse neque ius persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo pacto ius nostrum adipiscamur”. Tum …[7] nuntius Romam ad consulendum redit. 11. Confestim rex his ferme verbis patres consulebat: “Quarum rerum, litium, causarum condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec fecerunt nec solverunt, quas res dari, fieri, solvi, oportuit, dic” inquit ei quem primum sententiam rogabat, “quid censes?” 12. Tum ille: “Puro pioque duello quaerendas censeo, itaque consentio consciscoque”. Inde ordine alii rogabantur; quandoque pars maior eorum qui aderant in eandem sententiam ibat, bellum erat consensum. Fieri solitum ut fetialis hastam ferratam aut sanguineam praeustam ad fines eorum ferret et non minus tribus puberibus praesentibus diceret: 13. “Quod populi Priscorum Latinorum homines[ve] [8] Prisci Latini adversus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusve populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus [9] populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque”. 14. Id ubi dixisset, hastam in fines eorum emittebat. Hoc tum modo ab Latinis repetitae res ac bellum indictum, moremque eum posteri acceperunt[10]



Alcuni studiosi hanno sollevato dubbi sulla rispondenza del formulario liviano agli antichi verba feziali per l’indizione della guerra[11].

Tuttavia, ad un’attenta lettura, il brano rivela una sicura coerenza testuale; una indicativa precisione nell’uso di alcune espressioni tecniche[12]; il ruolo rilevante della parola accompagnata dal gesto, tipico di una cultura dominata dall’oralità quale fu quella della Roma arcaica[13]; la presenza del pater patratus dell’antico collegio dei feziali[14]; l’affinità con altri schemi di rituali arcaici[15]. Sono tutti elementi che mi inducono a ritenere che lo storico patavino abbia riprodotto, con qualche incertezza riconducibile alla lontananza della materia trattata e ai suoi mutamenti nel tempo, l’antico rituale giuridico-religioso mediante il quale i Romani davano inizio alla guerra[16]. La documentazione su cui si basò fu quella degli annalisti, come ad esempio Gaio Licinio Macro e Valerio Anziate, entrambi della prima metà del I sec. a.C.[17].

Sulla controversa questione sono quindi d’accordo con quella parte della dottrina[18], che ritiene sostanzialmente autentica la testimonianza liviana.

Alcuni studiosi hanno riscontrato nella descrizione di Livio fasi differenti nella procedura d’inizio del conflitto armato.

Una parte di essi individua tre momenti: la rerum repetitio, cioè la richiesta al popolo antagonista della riparazione del danno da parte del pater patratus romano; la testatio deorum, cioè il ritorno dopo 30 giorni dei feziali presso la controparte inadempiente per dichiarare, chiamando gli dèi a testimoni, l’esistenza di una causa legittima di guerra; infine, la indictio belli, cioè il lancio, dopo 33 giorni, dell’asta magica nel territorio nemico, avendo il senato deciso e il popolo approvato il conflitto armato[19].

Altri, invece, colgono quattro momenti. Ad esempio, la studiosa Sigrid Albert articola in quattro fasi («vier Stufen») l’antica dichiarazione di guerra romana: la rerum repetitio o clarigatio, con cui il pater patratus chiedeva la riparazione del torto subìto; la testatio o denuntiatio, dopo trenta giorni se le richieste non venivano soddisfatte; il votum del senato autorizzato dal popolo; l’indictio belli con il lancio dell’asta insanguinata da parte del pater patratus[20]. Similmente il giusromanista francese Magdelain individua i seguenti stadi: la rerum repetitio; il ritorno del feziale presso il popolo debitore per compiere la testatio deorum dichiarando il diritto violato; la consultatio patrum, in cui i Romani decidevano sul da farsi e la controparte aveva la possibilità di riparare al danno, evitando la guerra; il lancio della hasta sanguinea nel territorio nemico, con cui il feziale dava inizio al conflitto[21]. Anche per Mauro Mantovani le fasi erano quattro: «Genugtuungsforderung, Ansage, Erklärung und Eröffnung»[22]. Schematizza quattro sequenze, rifacendosi a Lange, J.-L. Ferrary: «res repetuntur - senatus censet - populus iubet - bellum indicitur»[23].

Personalmente ritengo che nell’esposizione fatta da Livio si possano cogliere atti autonomi della procedura, disposti in successione temporale, riconducibili a due fasi, rispettivamente dal paragrafo 6 al 10 e dal paragrafo 11 al 14.





2.1. – Clarigatio


La prima fase (§§ 6-10) è caratterizzata interamente dall’azione dei feziali che portavano a conoscenza del popolo antagonista, per mezzo di formule orali accompagnate da gesti circoscritti, le richieste romane.

Assumono particolare rilevanza i protagonisti e i contenuti dell’atto. Mi soffermerò, per il primo aspetto, sul collegio sacerdotale feziale; per il secondo sulla rerum repetitio e sulla testatio.



2.1.1. I feziali


Con riferimento al soggetto principale dell’azione, Livio nel descrivere l’inizio della procedura (§ 6), rileva che un legatus, con il capo fasciato da una benda di lana, si recava sul confine del territorio del popolo nemico a res repetere.

Il portato magico-religioso del particolare abbigliamento[24] insieme agli atti formali e solenni, compiuti dal soggetto in questione, fanno ritenere con certezza che doveva trattarsi di un membro autorevole dell’antico collegio sacerdotale dei feziali[25], le cui origini sono avvolte nelle nebbie della genesi di Roma[26].

Il termine legatus, quindi, non è riferibile al funzionario laico della media e tarda repubblica romana delegato dal senato a trattare gli aspetti bellici con altri popoli[27], ma esprime il significato, che gli è proprio, di ambasciatore, come poco più avanti si esplicita nell’espressione “publicus nuntius populi Romani”, messaggero delle volontà del popolo romano[28].

Il riferimento al nuntius, permette di stabilire un parallelo tra questo atto e la stipula dei ‘trattati internazionali’ in epoca arcaica, dove il feziale verbenarius, ricevuta l’autorizzazione dal rex di manifestare la volontà del popolo romano, la trasmetteva con gesto magico-religioso al pater patratus preposto alla formalizzare del foedus[29].

Il soggetto, inviato dai Romani in territorio nemico, era quindi il pater patratus[30], come conferma più avanti il contenuto del paragrafo 11. L’indicazione di un membro autorevole del collegio sacerdotale, colui al quale in concreto si demandava l’attuazione delle formalità della procedura bellica (come di quelle di pace), spiega l’uso del termine legatus al singolare. E ciò ridimensiona la pur giusta osservazione di Ogilvie[31] secondo cui doveva trattarsi di una delegazione di più persone[32].

Ne abbiamo una riprova in:



Varr., De vit. pop. rom. 2,75 R. (= 31 K.): […] priusquam indicerent bellum is, a quibus iniurias factas sciebant, fetiales legatos res repetitum mittebant quattuor, quos oratores vocabant[33].



Secondo Varrone, gli antichi Romani, quando ritenevano di aver subito un’offesa da un altro popolo, affidavano ai feziali il compito di esigere soddisfazione (res repetere) dalla comunità antagonista, prima di procedere con un’azione di guerra.

La funzione dei feziali non era, quindi, di decidere l’azione bellica quanto piuttosto di approntare le procedure rituali, preparatorie alla guerra[34]. Un’attività più giuridica, o meglio giuridico-religiosa se riferita alla storia arcaica di Roma, che politica[35]; volta a veicolare, secondo i corretti schemi formali delle relazioni tra Roma e le altre città-stato[36], le decisioni politiche del senato prima, dei senatori e del popolo poi[37].

In tale ottica deve essere interpretato il verbo disceptare, riferito all’attività dei feziali in un passo del De legibus di Cicerone:



Cic., leg. 2,9,21: Foederum pacis belli indotiarum ratorum fetiales iudices, non sunto, bella disceptanto[38].



Non condivido la proposta di Ferrary di sostituire l’espressione “bella disceptanto” con la più verosimile ma ingiustificabile sul piano testuale “bella denuntianto”[39]. Il disceptare implica, come ha colto a suo tempo Gandolfi[40], «esaminare e decidere una questione, come atto di giudice»[41]. I feziali erano quindi esperti di diritto, non soltanto quando dovevano dirimere a livello internazionale questioni in materia di sacrosanctitas degli ambasciatori[42] ma anche quando dovevano predisporre le corrette procedure per indire la guerra[43] o stipulare la pace[44].

Se ne ha conferma in un altro testo di Varrone:



Varr., l.l. 5,86: Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant; nam per hos fiebat, ut iustum conciperetur bellum et inde desitum ut foedere fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, antequam conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus; quod fidus Ennius scribit dictum[45].



Il tratto distintivo del collegio sacerdotale era dunque quello di amministrare giuridicamente i rapporti tra i popoli, custodendo le procedure[46], come la rerum repetitio, per promuovere bella iusta o gli schemi formali, come il foedus, per la stipula di trattati di pace.

I feziali, come esperti di diritto internazionale, ebbero un ruolo determinante nel periodo del «innerer Formalismus»[47]; ruolo che andò ridimensionandosi fin quasi a scomparire con il processo di laicizzazione del diritto, che investì anche la sfera pubblica[48].

Si può quindi seguire Walbank quando rileva un processo di secolarizzazione del corpo feziale, ma non nel senso di una trasformazione dei feziali in legati, come egli afferma, quanto piuttosto nella direzione indicata dalla ricerca di Loreto di una perdita di ruolo dei feziali, fin dalla fine del IV secolo a.C., con l’introduzione di una “misura di discrezionalità” sulla pace e la guerra a favore dei legati senatori, che determinò «una modificazione radicale e profonda del meccanismo decisionale» negli affari internazionali romani[49].

Proviamo ora a capire in cosa consistesse l’incarico affidato al pater patratus, soffermandoci sui contenuti della sua azione.



2.1.2. – Rerum repetitio


È mia convinzione che l’agire del pater patratus, descritto da Livio dal paragrafo 6 al paragrafo 10, possa essere messo in relazione alla enigmatica figura della clarigatio[50]. Il termine risultava essere oscuro fin dai tempi di Quintiliano (I sec. d.C.): Opus est aliquando finitione obscurioribus et ignotioribus verbis, quid sit clarigatio…[51].

La stessa spiegazione di Servio, di qualche secolo più tarda (IV-V sec. d.C.), lascia nell’incertezza. Nel commentare l’espressione dell’Eneide “res rapuisse licebit”, il grammatico fa riferimento alla clarigatio, rinviando ad una duplice etimologia: aut a clara voce, qua utebatur pater patratus, aut a klhroi, hoc est sorte: nam per bellicam sortem invadebant agros hostium[52]. Dell’origine greca non v’è traccia in un precedente commento, dove invece si insiste essenzialmente sull’usanza del pater patratus di dichiarare con voce chiara il diritto leso dei Romani: haec clarigatio dicebatur a claritate vocis[53].

Risalendo ad una testimonianza di Varrone (II-I sec. a.C.), si deduce che un elemento centrale della clarigatio era il res repetere:



Varr., l.l. 5,86: […] Ex his (= feziali) mittebantur, ante quam conciperetur, qui res repeterent […]



Nel testo, già citato a proposito della funzione del feziale, si dice con molta puntualità che il res repetere veniva esercitato dai feziali prima della dichiarazione solenne di guerra[54].

In un’altra testimonianza dell’erudito latino, anch’essa riportata in precedenza, si legge che l’attività feziale, prima dell’indictio belli, consisteva nell’esigere soddisfazione (res repetere):



Varr., De vit. pop. rom. 2,75 R. (= 31 K.): […] priusquam indicerent bellum is, a quibus iniurias factas sciebant, fetiales legatos res repetitum mittebant quattuor […]



L’intervento dei feziali, contemplato dopo l’offesa e prima della guerra[55], consisteva nel res repetere.

In questa prospettiva per comprendere la funzione della clarigatio, è significativo riconsiderare nella sua interezza un testo di Servio, cui si è fatto cenno all’inizio del paragrafo:



Serv., Aen. 9,52: principium pugnae hoc de Romana sollemnitate tractum est. Cum enim volebant bellum indicere, pater patratus, hoc est princeps fetia­lium, proficiscebatur ad hostium fines, et praefatus quaedam sollemnia, clara voce dicebat se bellum indicere propter certas causas, aut quia socios laeserant, aut quia nec abrepta animalia nec obnoxios redderent. Et haec clarigatio dicebatur a claritate vocis[56].



L’inizio della guerra per i Romani coincideva con un’antica usanza rituale. Il pater patratus del collegio dei feziali si recava presso i confini del territorio nemico e, dopo aver pronunziato alcune formule, dichiarava a voce alta le causae (l’offesa arrecata ai popoli alleati o la mancata restituzione degli animali rubati e dei responsabili dell’offesa) che spingevano il popolo romano a muovere guerra al popolo offensore, espletando così la clarigatio.

Tralasciando per il momento il significato del termine causae, su cui torneremo, è rilevante constatare che una parte di ciò che veniva detto a voce alta dal pater patratus (aut quia nec abrepta animalia nec obnoxios redderent) coincide con il res repetere della formula liviana: illos homines illasque res dedier (Liv. 1,32,7).

Nella stessa direzione va il contenuto di un testo di Plinio il Vecchio:



Plin., nat. 22,3,5: Certe utroque nomine idem significatur, hoc est gramen ex arce cum sua terra evulsum, ac semper e legatis, cum ad hostes clarigatumque mitterentur, id est res raptas clare repetitum, unus utique verbenarius vocabatur[57];



Plinio, trattando delle erbe che accompagnavano i rituali della Roma delle origini, conclude che i sagmina si identificavano con le verbenae ed erano utilizzati quando gli ambasciatori, tra cui il verbenario[58], si recavano presso i nemici a clarigare, cioè a richiedere a voce alta le cose trafugate.

Trova così conferma l’ipotesi che Livio descriva, dal paragrafo 6 al 10, la complessa procedura della clarigatio, iniziando con la rerum repetitio che, come abbiamo visto, costituiva il primo e decisivo passo dell’azione bellica.

Per approfondire la natura del res repetere cominciamo con la descrizione contenuta nel paragrafo 6.

Il pater patratus designato a compiere la missione[59] recitava, appena giunto sul confine del territorio nemico, una formula articolata: l’esortazione al dio Giove[60], ai confini (fines) del popolo rivale[61], al fas[62] di prestare attenzione alle sue parole, cui seguiva la precisazione del ruolo assegnatogli dalla civitas: ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit.

Deve essere sottolineata, da una parte la solennità dell’atto attestata dalle molteplici divinità chiamate a testimone, dall’altra la qualificazione della missione per mezzo dei due termini “iuste pieque”. Essi esprimono la qualità che doveva avere l’agire ufficiale del popolo romano attraverso l’operato dei feziali, in una fase della storia di Roma in cui la valutazione giuridica dei comportamenti dei cives (= ius) e la valutazione religiosa (= fas) erano così strettamente collegate tra loro da formare un’unità complessa[63]. L’autonomia dei rispettivi criteri non era stata ancora raggiunta[64]. L’azione del pater patratus era quindi condotta all’insegna della «rigorosa osservanza dei riti prescritti»[65].

Nel paragrafo 7 del testo liviano, si dà conto di un’altra forma­lità di non poco rilievo della procedura feziale.

Il pater patratus, “deinde peragit postulata”[66], rivolge una exsecratio al cospetto di Giove: si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse.

Sono molti gli spunti offerti dall’analisi del passo.

Incominciamo con i due avverbi iniuste e impie, che caratterizzano la richiesta del pater patratus. Livio li aveva già utilizzati, con segno positivo, nel paragrafo precedente: “iuste pieque legatus venio”. Possiamo, quindi, concordare con coloro che ritengono anche questa espressione ‘iniuste impieque exposcere’ tipica del formulario dell’antico ius fetiale[67].

Si noti, poi, che la pretesa del pater patratus non si limitava alle res ma si estendeva anche agli homines. Alcuni commentatori interpretano le lettere ‘p.r.’, di certi manoscritti, poste dopo il verbo “dedier” («essere consegnati deliberatamente»), come abbreviazione di “populi romani”[68]. Si potrebbe, pertanto, inferire che i Romani pretendessero la restituzione di beni, ritenuti di loro proprietà. L’identificazione dei beni richiesti con i vocaboli “homines” e “res” può dar adito ad una duplice interpretazione: il bottino della razzia, in tal senso il genitivo ‘populi romani’ indicherebbe l’appartenenza dei beni; oppure la consegna delle cose rubate e dei responsabili della rapina come ricaviamo da altre testimonianze[69], in questo caso l’espressione ‘populi romani’ sarebbe inelegantemente da riferire alle sole res. Tuttavia la soluzione poco incide ai fini del nostro ragionamento, potendo sussumere entrambi i casi nel concetto generale di rerum repetitio.

È utile infine richiamare l’attenzione sulla sanzione che il soggetto invocava contro di sé, in caso di richiesta non conforme all’ordinamento feziale: il proprio allontanamento dalla comunità. Non possiamo non cogliere una forte somiglianza con la situazione dell’homo sacer, al quale poteva capitare di essere ucciso da chiunque, in conseguenza del suo stato di ‘escluso’[70]. L’orientamento della dottrina, al riguardo, si fonda sull’interpretazione di un famoso testo di Festo (s.v. ‘Sacer mons’ 424,7 L.), in cui sarebbe contenuto un doppio principio: la regola per cui non era lecito sacrificare l’homo sacer e l’asserzione secondo la quale l’eventuale esecutore della vendetta divina, uccidendo l’homo sacer, non era accusato di omicidio[71]. Il reo, abbandonato al suo destino, si ritrovava — come scrive Bayet — in uno «stato di riservato»[72].

La exsecratio del pater patratus consisteva, quindi, non tanto nell’eliminazione fisica, che pure era l’eventualità più comune, quanto nell’allontanamento dell’exsecratus dalla comunità[73]. Era questa la sorte che colpiva lo spergiuro, come ricaviamo da un’esemplare testimonianza di Festo:



Fest.. (Paul.), s.v. ‘Lapidem silicem’ 102 L.: Lapidem silicem tenebant iuraturi per Iovem, haec verba dicentes: ‘Si sciens fallo, tum me Dispiter salva urbe arceque bonis eiciat, ut ego hunc lapidem’.



Chi giurava per Iovem lapidem doveva, tenendo in mano la pietra di selce (= lapis silex)[74], pronunziare una formula esecratoria[75], con la quale invocava Giove (Dispiter) di allontanare (= eicere)[76] lo spergiuro al pari del silex, facendo salva la comunità[77]. Indi scagliava lontano da sé il silex.

Lo spergiuro, come l’homo sacer, era isolato, separato dal gruppo[78].

Il fatto che l’automaledizione sia identica a quella descritta da Livio nel testo relativo alla clarigatio, mi induce a pensare che anche nell’atto della rerum repetitio avesse luogo un giuramento.

Lo afferma esplicitamente Dionigi nel testo in cui riporta la dichiarazione di guerra dei Romani:



Dionys. 2,72,7: epeita omosaj oti proj adikou­san ercetai polin kai araj taj megistaj ei yeudoito eparasamenoj eautù te kai tÆ RwmÆ, tot' entoj Æei twn orwn ... ekei de katastaj toij en telei peri wn hkoi dielegeto pantacÆ touj te orkouj kai taj araj prostiqeij[79].



Il soggetto è il pater patratus che, investito della missione, si recava a res repetere presso il popolo offensore, facendo del giuramento un elemento centrale della procedura[80].

La presenza del giuramento è confermata in un altro testo liviano, dove si narra che i Romani, nel 427 a.C., mossero guerra contro la città di Veio, dopo che al res repetere proposto dai feziali sotto giuramento non fu data soddisfazione:



Liv. 4,30,14: Cum Veientibus nuper acie dimicatum ad Nomentum et Fidenas fuerat, indutiaeque inde, non pax facta, quarum et dies exierat, et ante diem rebellaverant; missi tamen fetiales; nec eorum, cum more patrum iurati repeterent res, verba sunt audita[81].



L’uso del giuramento nella rerum repetitio dell’antica procedura feziale è comunque attestato dal nostro testo di riferimento al paragrafo 8:



Liv. 1,32,8: Haec cum fines suprascandit, haec quicumque ei primus vir obvius fuerit, haec portam ingrediens, haec forum ingressus paucis verbis carminis concipiendique iuris iurandi mutatis peragit.



Il pater patratus reiterava il rituale della rerum repetitio, adattando lievemente[82] la formula del giuramento: all’attraversamento, suprascandere[83], del confine; all’incontro con il primo uomo in territorio nemico; all’entrata nella città e nel foro del popolo antagonista.

L’esplicito riferimento allo iusiurandum del paragrafo 8 avvalora la chiamata a testimone di Giove, dio dei giuramenti, vista nel paragrafo 7, autorizzando l’accostamento tra il procedimento della rerum repetitio di Liv. 1,32 con quello della stipula del foedus di Liv. 1,24. Tutte e due le procedure afferivano all’attività dei feziali nelle relazioni con gli altri popoli: la prima per determinare le condizioni dello stato di guerra; la seconda per stipulare accordi in situazioni di pace. In entrambe il giuramento aveva un ruolo centrale[84]. Si direbbe che lo iusiurandum fosse figura essenziale nei rapporti internazionali della Roma arcaica[85].

Si trattava di giuramenti solenni, celebrati alla presenza invocata del dio Giove. Esisteva, comunque, una netta differenza nei contenuti. Mentre il giuramento del foedus era di tipo promissorio, in quanto il pater patratus giurava di rispettare gli accordi, quello della clarigatio era assertorio, garantendo la verità della richiesta avanzata dal feziale[86].

La figura della rerum repetitio che emerge dai paragrafi del testo di Livio si presenta quindi come elemento centrale della clarigatio, la cui funzione consisteva nel richiedere al popolo nemico il risarcimento del danno subìto secondo le regole dello ius fetiale. Contribuiva a dare efficacia all’atto la prestazione del giuramento da parte del pater patratus richiedente.



2.1.3. Testatio


Nei paragrafi 9 e 10, pur cambiando la situazione, non registriamo alcuna cesura con la fase precedente: il protagonista resta sempre il pater patratus; l’azione è conseguenza del res repetere; le caratteristiche rituali dell’oralità e solennità permangono.

Nel paragrafo 9 Livio scrive che, trascorsi trentatré giorni senza l’adempimento delle richieste avanzate dal pater patratus, lo stesso procedeva alla dichiarazione di guerra (“bellum ita indicit”) mediante la pronunzia della formula solenne, riportata nel successivo paragrafo 10.

Torneremo sull’espressione rituale, è ora necessario chiarire il punto centrale del paragrafo 9.

Dopo aver registrato la volontà della controparte di non dare soddisfazione e verificato l’inesistenza di spazi per una soluzione pacifica del contenzioso, il pater patratus romano abbandonava la condotta interlocutoria. Il cambiamento si riscontrava allo scadere del termine che fungeva da demarcazione tra le due situazioni: i giorni, rigorosamente prescritti (sollemnes)[87], concessi per accettare la rerum repetitio romana. Sull’esatto numero dei giorni[88], è decisivo Dionigi che così spiega la procedura: alla rivendicazione del feziale, l’altro popolo poteva chiedere una dilazione di dieci giorni per decidere, che poteva essere concessa fino ad un massimo di tre volte (10+10+10 = 30)[89]. Lo stesso Livio, in un altro passo relativo al conflitto tra i Romani di Tullo Ostilio e gli Albani di Gaio Cluilio, indica l’inizio della guerra al trentesimo giorno: bellum in tricesimum diem indixerant[90]. Che la difformità si possa ritenere una inesattezza del testo liviano in questione, si ricava anche dall’uso improprio dell’espressione “bellum ita indicit”, con la quale si conclude il paragrafo[91]. Questa infatti sarebbe stata al momento fuori luogo non essendoci ancora stata la deliberazione istituzionale della guerra[92]. Alla luce della testimonianza di Dionigi e della contraddizione liviana, ritengo che l’indicazione di trentatré giorni del paragrafo 9 sia inesatta e che il termine prescritto fosse di trenta giorni[93].

Scaduto il termine, se non si fossero ottemperate le richieste dei Romani, il pater patratus, alla presenza del popolo inadempiente, pronunziava la seguente formula:



Liv. 1,32,10: “Audi, Iuppiter, et tu, Iane Quirine, diique omnes caelestes, vosque terrestres, vosque inferni, audite: ego vos testor populum illum” — quicumque est, nominat — “iniustum esse neque ius persolvere. Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo pacto ius nostrum adipiscamur”.



Giove e Quirino[94], insieme agli dèi del cielo, della terra e degli inferi, erano chiamati a prendere atto ([95]) che il popolo straniero era “iniustus”, non avendo adempiuto all’obbligo di legge (= “ius persolvere”), e che pertanto il consiglio degli anziani[96] avrebbe deciso il modo di soddisfare il diritto leso.

La prima fase della dichiarazione di guerra si chiudeva dunque con una testatio deorum[97]. Alcuni studiosi, come Ziegler, identificano tale testatio con la denuntiatio[98], anche se propenderei per tenere distinte le due figure non soltanto per la diversità nella forma, contenendo la prima l’invocazione divina assente nella seconda, ma anche per la differente funzione. Al riguardo è giusto il rilievo di Ferrary che, riprendendo uno spunto di Magdelain[99], interpreta la testatio «une menace plus qu’une déclaration»[100], mettendo in evidenza con ciò anche la sfasatura temporale tra le due procedure belliche.

L’omogeneità della forma e la continuità del contenuto inducono a ritenere la testatio una parte della clarigatio[101].

Si può, a questo punto, provare a definire la clarigatio come la manifestazione, palesemente espressa, della volontà del popolo romano offeso «di voler essere reintegrato nel diritto violato»[102]. Essa si articolava in due atti distinti e consequenziali: il primo, consistente nel res repetere, aveva il suo momento conclusivo nel giuramento assertorio; il secondo, a cui si addiveniva nel caso la richiesta venisse disattesa, trovava il suo compimento nella solenne testatio. Ambedue le figure avevano come tratto peculiare forme solenni e rituali[103], che per il periodo arcaico, similmente ad altre situazioni della sfera del diritto, erano conosciute e gelosamente custodite da esperti quali, nel caso di specie, il collegio dei feziali.



2.2. – Indictio belli


Dopo la testatio, con la quale si concludeva la clarigatio, aveva inizio la seconda parte della dichiarazione di guerra: l’indictio belli (dal paragrafo 11 al 13). L’espressione, comunemente usata nei documenti testuali, è ‘indicere bellum’, soltanto in un passo di Florio si riscontra il sostantivo indictio accompagnato dal genitivo belli[104]. È stata la tradizione letteraria a proporne un uso equivalente come nel caso della rerum repetitio. Il sintagma indicere bellum nel suo significato originario era riferito al rituale dello ius fetiale e indicava in particolare la fase successiva alla clarigatio[105].

Il passaggio dalla testatio all’indictio belli nel testo di Livio è purtroppo segnato da una frase incompleta, a chiusura del paragrafo 10: Tum … nuntius Romam ad consulendum redit.

I commentatori, anche grazie al testo parallelo di Dionigi[106], ritengono che la lacuna non sia molto estesa e che l’omissione riguardi l’informazione relativa al ritorno del pater patratus con gli altri feziali, per riferire l’accaduto[107].

Anche questa seconda fase si articolava in due momenti: la deliberazione dello stato di guerra ad opera delle istituzioni romane e la cerimonia del giavellotto scagliato nel territorio nemico.



2.2.1. Censere, consentire, consciscere bellum


Secondo Livio, il re, dopo aver ascoltato il resoconto dei feziali, consultava i patres sul da farsi, ponendo in essere una rogatio[108].

È indicativo analizzare il tono della formula, riportata nel paragrafo 11, con la quale il re chiedeva all’assemblea dei patres di decidere il comportamento da tenere: Quarum rerum, litium, causarum condixit pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec fecerunt nec solverunt, quas res dari, fieri solvi, oportuit, dic” inquit ei quem primum sententiam rogabat, “quid censes?.

Sono molte le allitterazioni funzionali alla solennità della formula[109].

Cominciamo con il modulo a tre termini: rerum, litium, causarum condixit. La presenza dei tre genitivi retti dal verbo condicere, seguito di norma dall’accusativo[110], ha sollevato perplessità in dottrina[111].

Gli storici del diritto propendono per l’autenticità della testimonianza.

Il Donatuti risolve la difficoltà, individuando in rerum, litium, causarum tre genitivi di relazione[112]: le res sarebbero le cose razziate, le lites gli «oggetti contestati”»[113]; le causae «gli incrementi della cosa stessa»[114]. Il verbo “condixit” indicherebbe l’azione del reclamare, che nella sostanza «consisteva nella richiesta della restituzione delle cose rapinate»[115].

Bernardo Albanese[116], pur ipotizzando qualche guasto nella tradizione manoscritta, giudica autentico il formulario. La soluzione più agevole sarebbe quella di accettare la correzione di “causarum” in causa, proposta da Madvig[117], per cui la pretesa del pater patratus faceva riferimento alle res, nel più ampio valore di “oggetti”, e alle lites, nell’accezione di res in controversia precisando “giuridicamente il significato generalissimo di res”. La frase quindi risulterebbe: rerum litium causa condixit, con il significato di intimare per res e lites.

Ritengo che, quale che sia il significato dei tre genitivi su cui dovremo tornare, il contenuto della citazione rimandi indiscutibilmente al res repetere del pater patratus.

Analizziamo ora la frase immediatamente successiva “quas res nec dederunt nec fecerunt nec solverunt”, rafforzata dalla ripetizione in forma passiva delle forme verbali “quas res dari, fieri, solvi, oportuit”. Una parte della dottrina ([118]) ipotizza una successiva rielaborazione non soltanto per la difficoltà di accordare il significato di ‘solvere’ con la coppia di verbi, appartenente al linguaggio giuridico, ‘dare-facere’ ma anche per alcune anomalie del testo nei diversi manoscritti. In alcuni infatti non è riportato il verbo “fieri”[119]; in altri è omessa l’intera locuzione nec dederunt nec fecerunt nec solverunt[120]; in altri ancora l’espressione è collocata dopo il verbo “oportuit”[121]. Pur non sottovalutando i rilievi critici, ritengo che si possa accogliere l’ipotesi di «un errore nella tradizione manoscritta»[122] che nulla toglie all’originaria portata giuridica del formulario, come si ricava dalla presenza dell’oportere dari in tutti i codici e dal richiamo al vincolo obbligatorio tipico del linguaggio processuale[123].

In conclusione, la formula del paragrafo 11 sintetizza, in modo preciso, la pretesa rituale avanzata dal pater patratus romano al pater patratus nemico.

La risposta all’interrogazione del re è contenuta nella prima parte del paragrafo 12, dove è riportata la locuzione convenzionale con cui i singoli membri del senato manifestavano la propria volontà. Anche qui la presenza dell’allitterazione “censeo, itaque consentio consciscoque” avvalora l’ipotesi dell’arcaicità del modello[124].

A suscitare maggiore interesse è la frase Puro pioque duello quaerendas censeo, con la quale si decretava una guerra, duellum[125], pura e pia per perseguire la riparazione del danno[126] non adempiuta. La formulazione ‘duellum purum’, come scrive Sordi, sarebbe “un frammento di remota antichità rimasto nel formulario che i Romani usavano ancora in età storica”[127]. L’aggettivo purus, usato per qualificare l’evento bellico, è eccezionale, non avendo riscontri in altri documenti; al contrario del termine pius utilizzato, secondo un modello preciso, in coppia con iustus[128]. L’espressione, al posto della tradizionale ‘bellum iustum’, rinvia in modo inconfutabile alla applicazione dei rituali dello ius fetiale[129].

Il senato, in seguito all’azione puntuale dei feziali e dopo aver appreso il comportamento inadempiente dell’altro popolo, deliberava in piena autonomia[130] lo stato di guerra per la civitas.



2.2.2. – Emittere hastam


Subito dopo la deliberazione dello stato di guerra, il pater patratus romano si recava nei pressi del confine nemico, portando con sé un’asta di ferro o di legno di corniolo rosso appuntita nel fuoco, e, alla presenza di almeno tre uomini puberi[131], declamava una formula (riportata nel § 13), quindi scagliava il giavellotto nel territorio nemico (§ 14). L’emittere hastam può essere considerato l’ultimo atto della procedura. Al riguardo, non convince l’osservazione di Ferrary, che esclude “le jet de la lance” dalla dichiarazione di guerra perché eliminerebbe qualsiasi forma di dialogo con il nemico[132]. I rapporti, infatti, debbono considerarsi già definitivamente troncati con la testatio (§§ 9 e 10), la quale innescava un procedimento unilaterale che andava a concludersi con le operazioni militari vere e proprie. Il pater patratus, scagliando la lancia, completava la dichiarazione di guerra dando inizio al combattimento: bellum indicere et facere.

Sono molti gli aspetti su cui è interessante soffermarsi.

Innanzitutto il ritorno sulla scena dei feziali, a conferma che il cerimoniale dell’indizione della guerra, iniziato con la clarigatio, non era ancora concluso. Il capo dei feziali, portavoce del popolo romano, compiva un atto gestuale e verbale, per formalizzare la deliberazione presa dalla civitas.

Poi c’è il lancio dell’hasta ferrata aut sanguinea[133], di cui abbiamo un preciso riscontro in Gellio[134]. Gli aspetti magico-religiosi del gesto, latore della maledizione distruttiva degli dèi schierati con i Romani, sono stati evidenziati da Frédéric Blaive rielaborando studi di Bayet e Dumézil[135]. Accanto ad essi non si possono tralasciare quelli giuridici colti da Volterra[136] e paragonabili al ruolo della festuca nella legis actio sacramento in rem. Nel processo arcaico le due parti, per rivendicare la proprietà dell’oggetto, si servivano di una bacchetta con la quale toccavano l’oggetto conteso imponendo il proprio diritto[137]. Gaio spiega così l’uso dell’asta: Festuca autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii; quod maxime sua esse credebant quae ex hostibus cepissent; unde in centumviralibus iudiciis hasta praeponitur (sottolineature mie)[138].

L’elemento magico-religioso è strettamente connesso con quello giuridico; peculiarità questa, comune a tutta l’esperienza giuridica arcaica romana. Il lancio del giavellotto nel territorio nemico da parte del feziale rappresentava non solo la manifestazione della potenza divina schierata al fianco dei Romani, conseguenza della natura “pura e pia” della guerra, ma anche la pretesa del popolo romano di conseguire con la forza il risarcimento del danno.

Resta, infine, da analizzare la frase rituale declamata dal pater patratus alla presenza di tre cittadini puberi:



Liv. 1,32,13: Quod populi Priscorum Latinorum homines[ve] Prisci Latini adversus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusve populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus populis Priscorum Latinorum hominbusque Priscis Latinis bellum indico facioque.



Dal tono solenne della formula[139] si trae che alla deliberazione dello stato di guerra aveva partecipato anche il popolo (populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse). La qual cosa è in contraddizione con quanto Livio aveva scritto nel paragrafo 11, dove l’organo deliberante risultava essere unicamente il senato.

L’incoerenza è confermata anche dal testo di Dionigi. Lo storico greco, dopo aver detto che i feziali si recavano in senato a riferire gli esiti della rerum repetitio, permettendo così di decidere la guerra col favore degli dèi, conclude:



Dionys. 2,72,9: e„ d ti m genoito toutwn oute h boulh kuria hn epiyhfisasqai polemon oute o dhmoj[140]



L’indictio belli doveva essere eseguita rigorosamente, secondo la procedura, altrimenti né il senato né il popolo potevano votare a favore della guerra.

È difficile quindi sostenere che la contraddizione sarebbe frutto di una “disattenzione” liviana. È più ragionevole l’ipotesi di una modifica del formulario originario ad opera degli stessi feziali per adeguare il rituale alla novità prodottasi alla fine del V secolo a.C. in seguito alla partecipazione del comizio centuriato alla decisione sull’entrata in guerra della città. Ho già avuto modo di rilevare che in età molto antica la competenza a decidere sulla guerra era esclusivamente dell’assemblea dei patres. I documenti testuali ci informano di una prima, controversa, partecipazione del comizio centuriato nel 427 a.C. in relazione alla lex de bello indicendo contro la città di Veio[141]. La stretta relazione tra le implicazioni militari e quelle politiche del comizio centuriato[142] da una parte, l’espandersi dell’attività bellica dall’altra, determi­narono la partecipazione dei cittadini romani alla scelta di fare guerra[143].

L’incongruenza, rilevata nei testi di Livio e Dionigi, sarebbe dunque spiegabile con il sovrapporsi di un regime più recente, successivo alla riforma, a quello più antico[144].

Nemmeno la testimonianza di Gellio, che, pur riproducendo nella sostanza il testo liviano, se ne discosta per quanto riguarda l’organo deliberante, aiuta a risolvere il contrasto:



Gell., N.A. 16,4,1: Cincius in libro tertio de re militari fetialem populi Romani bellum indicentem hostibus telumque in agrum eorum iacientem hisce verbis uti scripsit: “Quod populus Hermundulus hominesque populi Hermunduli adversus populum Romanum [bellum][145] fecere deliqueruntque quodque populus Romanus cum populo Hermundulo hominibusque Hermundulis bellum iussit, ob eam rem ego populusque Romanus populo Hermundulo hominibusque Hermundulis bellum dico facioque”[146].



Gellio, che riporta un brano dell’opera De re militari di L. Cincio antiquario vissuto tra la fine repubblica e gli inizi del principato[147], scrive che la decisione di fare la guerra era presa dall’assemblea popolare.

La mancanza di ogni riferimento al senato può essere spiegata, come ipotizza Albanese, considerando la fonte di Gellio risalente a un’età in cui «la funzione senatoria nella sfera della politica estera era in forte declino»[148].

I problemi di ordine speculativo sull’organo decisionale non ridimensionano comunque il dato essenziale ai fini della nostra indagine e su cui concordano le due versioni di Livio e di Aulo Gellio: il lancio del giavellotto, accompagnato dalla formula della dichiarazione di guerra, concludeva, dopo trentatré giorni[149], la procedura feziale dell’indictio belli, dando inizio al combattimento vero e proprio, bellum indico facioque.





2.3. – Conclusioni


L’analisi appena conclusa sulla procedura dell’indictio belli secondo lo ius fetiale rafforza la convinzione, già espressa da altri studiosi, che la guerra per i Romani era avvertita come «procedimento giuridico-religioso»[150].

Molti passaggi del rituale feziale hanno indotto la dottrina a stabilire, con sfumature diverse, una stretta relazione tra la dichiarazione di guerra e il più antico processo civile delle legis actiones. Tale parallelismo ha radici consolidate, come dimostra la sua presenza già nella scienza giuridica dell’Ottocento.

Danz sosteneva una duplice identità, sia nella prima parte della procedura feziale dove il rapporto è costruito tra la clarigatio e la vindicatio della legis actio sacramento, sia nella seconda parte tra l’indictio belli e la manus iniectio, giungendo addirittura a immaginare un formulario affine[151].

Voigt interpretava il termine ‘condicere’ (Liv. 1,32,11) come l’intimazione allo straniero di presentarsi entro i giorni prestabiliti davanti al tribunale degli dèi (Liv. 1,32,9), definendo così una stretta relazione tra il procedimento internazionale della clarigatio e il processo ‘interno’ della legis actio per condictionem[152].

Fusinato ritrovava nella procedura della dichiarazione di guerra la stessa scansione del processo civile: la parte della rerum repetitio rispondente alla fase in iure; la parte dell’indictio belli equivalente alla fase in iudicio; tra le due, la testatio deorum pari alla litis contestatio[153].

La linea interpretativa della correlazione tra la sfera giuridica pubblica e quella privata ha prevalso fino ai nostri giorni[154].

Coli identifica la procedura pubblica con quella privata circa la manifestazione di potere sui beni ritenuti di proprietà del popolo romano, per cui il lancio dell’asta nel territorio nemico equivarrebbe all’apprensione del corpo del debitore nella manus iniectio: una sorta di procedura esecutiva dopo la sentenza popolare di giudicare “iniustus” il popolo nemico inadempiente[155].

Volterra segnala due rassomiglianze fra la clarigatio e la procedura antica: la prima con il conserere manum dell’actio sacramento in rem; la seconda, legata ad una testimonianza alquanto enigmatica di Livio[156], si definirebbe tra l’obiettivo della clarigatio e le conseguenze della manus iniectio[157].

Donatuti stabilisce un punto di incontro tra la clarigatio e l’antica procedura civile romana, giungendo, dopo l’analisi del testo liviano, alla convinzione che, nonostante i diritti sui beni sottratti e sugli autori della rapina fossero da annoverare tra i diritti assoluti, la pretesa del pater patratus era di carattere squisitamente personale e pertanto la clarigatio aveva la sua rispondenza con l’actio sacramento in personam[158].

Per Biscardi «è innegabile che fra la clarigatio … e la legis actio sacramento … esiste una grande affinità», come prova la formula del giuramento della testatio internazionale che «si adatta in pieno» alla legis actio sacramento in personam[159].

Watson costruisce un parallelo articolato tra la dichiarazione di guerra e il processo per legis actionem[160]. Dopo aver suddiviso l’indictio belli in tre parti, l’autore individua nella prima (il res repetere del feziale: Liv. 1,32,6-7) la fase in iure del processo, rilevando una somiglianza sia con la struttura della legis actio per condictionem sia con quella della legis actio sacramento in rem[161]; nella seconda (la testatio deorum: Liv. 1,32,9), il paragone calzerebbe con la fase apud iudicem del processo, imperniata sulla decisione del giudice che per Watson era il giudizio di Giove[162]; nella terza (il lancio dell’asta: Liv. 1,32,13), il raffronto è con il processo di esecuzione per il mancato adempimento e dunque con la manus iniectio[163].

Albanese individua una duplice affinità tra la procedura feziale e il diritto processuale civile romano. La prima è con la legis actio per condictionem e ruota intorno alla presenza del verbo condicere e all’idea di «doverosità dei comportamenti» del popolo straniero. La seconda è tra la struttura sintattica del formulario feziale, Quod…, quod…, ob eam rem… bellum indico facioque, e quella della manus iniectio, Quod…, ob eam rem… manum inicio, con l’importante puntualizzazione sul significato del verbo indicere[164].

È mia convinzione che se da una parte sia difficile dimostrare, per carenza di informazioni sulle forme giuridiche arcaiche, la trasposizione pura e semplice delle azioni dello ius civile in quelle dello ius fetiale e/o viceversa[165], dall’altra si possa ipotizzare un comune denominatore delle categorie concettuali del diritto tanto nella sfera pubblica che privata.

L’idea del bellum iustum di quel tempo rimanda a schemi giuridici che denotano una matrice comune.

Se torniamo ad alcuni passaggi del rituale feziale descritto da Livio, l’analogia tra il processo civile e la procedura internazionale appare evidente.

Il res repetere del pater patratus era costituito da congegni verbali e gestuali di tipo giuridico-religiosi, i cui dati caratteristici si riscontrano anche nella procedura del processo civile.

Ricordiamo a mo’ di esempio:

— la presenza di alcune espressioni tipiche del diritto arcaico, come il verbo condicere nel significato di denuntiare[166] oppure la struttura sintattica della formula pronunziata dal pater patratus al momento del lancio del giavellotto identica a quella della manus iniectio[167];

— l’uso del giuramento, finalizzato a sancire il res repetere del feziale, era ricorrente in diversi campi del diritto romano arcaico: dalla sfera processuale[168] ai rapporti internazionali[169], dalla sponsio privata[170] alla regolamentazione del confronto politico-istituzionale[171], all’arruolamento nell’esercito[172];

— il termine di 30 giorni, concesso per l’adempimento della rerum repetitio, era comune a molte azioni del più antico processo romano. Trenta erano i giorni iusti concessi ai confessi e ai iudicati in iure per saldare il debito prima della manus iniectio[173]; tanti erano anche i giorni prescritti dalla lex Pinaria (IV-III sec. a.C.) per la designazione del giudice con la legis actio per iudicis arbitrive postulationem[174]; e altrettanti giorni erano intimati dall’attore al convenuto “ad iudicem capiendum” nella legis actio per condictionem [175];

— la finalità della testatio, che con la chiamata della divinità in funzione di testimone-garante collegava la rerum repetitio all’indictio belli vera e propria, sembra essere simile a quella della litis contestatio della legis actio sacramento che congiungeva la fase in iure a quella apud iudicem [176].

La natura giuridica della dichiarazione di guerra trova un ulteriore riscontro nel contenuto del res repetere che non restò sempre uguale a se stesso ma si modificò per adattarsi ai diversi tipi di guerra succedutisi nella storia di Roma. In origine, come ricaviamo dall’antico formulario liviano, il repetere era limitato alle ‘cose’ razziate essendo i conflitti circoscritti dal punto di vista spaziale e finalizzati al saccheggio, come «l’accès à quelque source sacrée ou à quelque terrain de pacage, voire de récupérere les troupeaux ou les récoltes raflés par un voisin indélicat»[177]. Le guerre erano nella sostanza delle scorrerie, “incursiones”, come narra Livio per il periodo delle origini[178]. Con il passare del tempo il fenomeno bellico mutò, trasformandosi da mezzo di competizione a strumento di espansione politico-territoriale[179]. Il res repetere non si limitò più alla semplice richiesta dei beni trafugati ma si estese al risarcimento dei danni e/o alla consegna degli autori dell’offesa[180] per giungere ad identificarsi con la rivendicazione di obiettivi politico-militari ritenuti vitali agli equilibri del nuovo dominio[181]. La situazione di svantaggio del popolo nemico nei confronti del popolo romano è insita nel sintagma ‘ius persolvere’ (Liv. 1,32,10), che nel linguaggio giuridico esprimeva il comportamento «che un soggetto era giuridicamente tenuto a compiere»[182]. L’uso della forza nei confronti del popolo antagonista era giustificato dal fatto che esso non aveva adempiuto all’obbligo prescritto dal diritto (= non ius persolvere).

L’appurato significato giuridico del res repetere ci consente di tornare a riflettere sulla frase con la quale il re sintetizzava l’attività del res repetere compiuta dal pater patratus presso il popolo straniero e che molti problemi ha posto agli interpreti per la presenza dei tre genitivi retti dal verbo condicere[183]: Quarum rerum, litium, causarum pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis. I tre termini al genitivo partitivo esprimono, come si è detto, l’istanza del popolo romano nei confronti del popolo straniero. Tuttavia è sul vocabolo res che ruotava l’argomentazione del re, come si evince dal prosieguo della formula dove le res riassumono i tre concetti espressi in precedenza: quas res nec dederunt nec fecerunt nec solverunt, quas res dari, fieri solvi, oportuit (Liv. 1,32,11). Ritengo, quindi, che gli altri due vocaboli, “litium” e “causarum”, concorrano a precisare il significato di “rerum”[184].

È merito di Thomas[185] aver attirato l’attenzione su un’antica testimonianza in cui i tre termini sono associati nello stesso contesto. Si tratta della tabula iniziale della Legge delle XII Tav., il cui contenuto è relativo allo svolgimento del processo:



Tab. 1.6: REM UBI PACUNT, ORATO. 7: NI PACUNT, IN COMITIO AUT IN FORO ANTE MERIDIEM CAUSSAM COICIUNTO. COM PERORANTO AMBO PRAESENTES. 8: POST MERIDIEM PRAESENTI LITEM ADDICITO[186]



Il versetto 6, come accredita la dottrina più recente, farebbe riferimento al luogo dove risolvere la controversia[187], per cui “rem” sarebbe oggetto di “orato”, indicando l’attività iniziata dall’attore. L’espressione ‘rem orare’ sarebbe l’equivalente di ‘rem agere’ («portare avanti la controversia nel luogo stabilito d’accordo con l’avversario»)[188], con il termine res che indicherebbe l’intento delle parti prima di essere oggetto della controversia vera e propria.

Il versetto 7 atterrebbe al proseguimento della lite davanti al giudice nel forum o nel comitium prima di mezzogiorno, nel caso non ci fosse stato accordo tra le parti. L’espressione ‘caussam coicere’[189] indicherebbe «una succinta e non formale esposizione dei termini della lite fatta dall’angolo di visuale e secondo l’assunto di ciascuna parte»[190], dove il termine causa, come res, si riferisce sempre all’oggetto della lite ma con in più lo sforzo dell’interessato di indicare il fondamento del proprio contendere davanti all’organo giudicante.

Il versetto 8 dispone che, passato mezzogiorno, la vittoria della disputa andava al contendente presente. L’espressione ‘litem addicere’ designerebbe l’approvazione della richiesta del litigante presente[191] da parte dell’autorità giudicante[192], con la quale si chiudeva in modo definitivo la lite. Qui il vocabolo lis, pur essendo riconducibile al concetto di oggetto del processo, implica qualcosa in più rispetto ai precedenti res e causa, identificandosi con l’interesse della parte vincente così come era stato precisato nel corso dell’attività processuale e poi definito con la pronunzia favorevole dell’autorità giudicante[193].

Lo schema dei tre termini, relati tra loro al fine di precisare aspetti diversi della medesima realtà processuale delle XII Tavole, è lo stesso, pur con le oggettive diversità che abbiamo riscontrato nella controversia internazionale descritta da Livio. Dopo quanto detto, la frase pronunziata dal re ai singoli patres (Quarum rerum, litium, causarum pater patratus populi Romani Quiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis) può essere intesa come un sunto dell’attività del pater patratus romano nei rapporti ufficiali con il popolo straniero, al quale si intimava ritualmente il danno (= res) subíto dai Romani precisandone, secondo le regole ‘internazionali’, gli oggetti controversi (= lites)[194] e i motivi giuridico-formali della pretesa (= causae)[195].

Si può dunque concludere che il res repetere del feziale era figura giuridica, avente molti punti di contatto con gli schemi del processo civile.

Una convinzione questa che trova una esplicita conferma in un documento di epoca assai più recente di quella a cui riconduciamo il formulario di Livio. Si tratta di in un frammento del poeta Ennio, vissuto a cavallo tra il III e il II secolo a.C., che già Aulo Gellio riferiva al libro VIII degli Annales[196]:



Pellitur e medio sapientia, vi geritur res,

Spernitur orator bonus, horridus miles amatur;

Haud doctis dictis certantes, sed maledictis

Miscent inter sese inimicitias agitantes;

Non ex iure manum consertum, sed magis ferro

Rem repetunt regnumque petunt, vadunt stolida vi.



Ennio descrive eventi bellici servendosi di un linguaggio giuridico[197] molto antiquato, come si evince, sia dal termine res che qui indica l’insieme dei beni consentendo il rimando al res repetere dell’antica dichiarazione di guerra, sia dal sintagma ex iure manum consertum, che rinvia al versetto delle XII Tavole Si [qui] in iure manum conserunt[198] e all’elaborazione della giurisprudenza pontificale[199].

È decisiva la stretta relazione che, nella parte finale del frammento, si instaura tra l’antico rito del manum conserere, posto in essere nella legis actio sacramento in rem dalle parti per rivendicare la proprietà di un bene immobile[200], e il res repetere della dichiarazione di guerra. Si ha l’impressione che il rituale dell’arcaico sistema processuale privato trovi, nella rappresentazione antitetica tra il vivere in pace e il vivere in guerra[201], un punto di incontro con l’atto dell’antica procedura bellica.

L’aspetto giuridico processuale del res repetere, emerso dall’analisi fin qui condotta, si riscontra anche per un’epoca più tarda, come quella di Cicerone:



Cic., Brut. 12,46: Itaque ait Aristoteles, cum sublatis in Sicilia tyrannis res privatae longo intervallo iudiciis repeterentur, tum primum, quod esset acuta illa gens et controversiis nata, artem et praecepta Siculos Coracem et Tisiam conscripsisse…[202].



Cicerone, in questo passaggio del Brutus, usa l’espressione ‘res privatae repetere’ per sottolineare la ripresa dell’amministrazione della giustizia dopo la caduta, nel V secolo a.C., dei tiranni Trasideo ad Agrigento e Trasibulo a Siracusa.

Dall’analisi fin qui condotta risulta provato che molti passaggi della dichiarazione di guerra fossero simili, a volte con tratti di assoluta identità, a schemi dell’antica procedura civile.

Tuttavia la constatazione non vuole pervenire, come per altri studiosi, alla tesi che il procedimento internazionale dell’indicere bellum coincidesse con una o più azioni del processo per legis actiones; infatti, ai fini dell’ipotesi che si vuole avanzare, è sufficiente aver dimostrato l’esistenza di un ordito comune, fatto di forme solenni, schemi rituali, categorie concettuali, tra l’antica procedura pubblica e quella privata. D’altra parte, quella fase dell’esperienza romana caratterizzata dall’intreccio tra la dimensione magico-religiosa con quella giuridica, dove la rigidità e la solennità delle azioni erano rigorosamente fissate dal ritualismo consuetudinario, non avrebbe potuto ancora produrre la separazione dei campi del diritto. Inoltre, l’analogia delle forme, come avvertiva Bonfante, «non è appunto che un indice di funzioni un tempo identiche»[203].

L’intreccio magico-religioso-giuridico dei rapporti sociali, tipico della città-stato romana in formazione[204], era elemento comune delle comunità di villaggio nel territorio laziale, come dimostra il fenomeno dei «sinecismi cittadini» di quel periodo[205]. Esisteva un «carattere relativamente ‘aperto’ delle strutture politiche e sociali arcaiche» che contribuì alla costruzione di un tessuto unitario tra le comunità politiche del Lazio e del territorio italico circostante.

Roma tese a consolidare la rete di relazioni ‘internazionali’ anche nella fase successiva alla “riforma serviana”, quando si affermò il nuovo ordinamento cittadino che, tra le tante innovazioni, esaltò l’appartenenza dei cives alla propria città e la differenza con lo straniero[206]. Si pensi al diritto reciproco tra romani e peregrini di utilizzare actus legitimi per lo scambio di merci (lo ius commercii) oppure di realizzare un legittimo rapporto matrimoniale (lo ius conubii)[207]; all’uso dei foedera per la regolamentazione più generale dei rapporti con le altre popolazioni[208]; al conseguente rituale imperniato sul giuramento per la stipula di tali trattati[209]; alla figura della reciperatio internazionale che consentiva il recupero dei beni sottratti illegalmente a comunità e a singoli cittadini[210].

Anche dopo il definitivo declino della Lega latina nel 338 a.C., in seguito all’affermarsi del potere egemonico di Roma, l’attenzione alle relazioni internazionali fu mantenuta come obiettivo centrale della politica estera romana e perseguita con strumenti quali la deditio in dicionem[211], la civitas sine suffragio, la civitas optimo iure, il c.d. fundus fieri, che costituirono l’inizio del sistema municipale romano[212].

Il fenomeno bellico fu parte di tale sistema di relazioni con le altre città-stato latino-italiche. I rigorosi rituali, eseguiti dai feziali, non erano formalità esclusive dell’ordinamento romano ma facevano parte del “sistema giuridico-religioso” che accomunava il popolo romano al popolo nemico[213].

È questo il dato di fondo che emerge dall’analisi della dichiarazione di guerra. La clarigatio si presentava come un insieme di forme giuridiche solenni e rituali, conosciute e messe in atto dagli esperti feziali: la rerum repetitio, tesa a definire l’oggetto del contrasto con il supporto dello iusiurandum; la testatio, volta a chiamare la divinità come testimone del comportamento iniustus (contro le regole) del popolo nemico. L’indictio belli consisteva in un procedimento orale e gestuale complesso: la deliberazione ufficiale votata dagli organi competenti e il cerimoniale del lancio dell’asta nei pressi del territorio nemico ad opera del pater patratus. Enunciati performativi, gesti costituenti che ponevano in essere validamente situazioni giuridiche. Assistiamo alla messa in pratica del formalismo giuridico-religioso dell’esperienza arcaica, per cui l’agire ‘esterno’ della comunità era riconosciuto lecito, ius est/fas est, soltanto se modellato sul rituale definito dalla tradizione e custodito dal collegio dei feziali[214].

Il congegno orale-gestuale dello ius fetiale serviva a inscrivere la pretesa del popolo romano in uno schema preciso riconoscibile dal popolo nemico, su cui era possibile portare il confronto individuando l’eventuale soluzione tecnico-politica del contrasto senza ricorrere all’uso della forza armata: una ‘giuridicizzazione’ delle relazioni con gli stranieri.

L’idea del bellum iustum è dunque molto antica nella storia romana, come attestano il formulario appena esaminato e altre testimonianze presenti nell’opera di Livio. Tra queste un valore particolare ha Liv. 39,36,12, perché l’espressione “bellum iustum piumque”, che vi si legge, sarebbe stata attinta da Polibio, il che farebbe venir meno l’ipotesi di una creazione liviana[215].

Il bellum iustum era conseguente ad una serie di atti idonei a creare una «situazione nuova»[216] in seguito alla pronunzia di formule e al compimento di gesti resi efficaci dal rispetto del formalismo dell’epoca arcaica che solo degli esperti, quali i feziali, potevano garantire[217]. Si concretizzava nella dichiarazione di guerra anche verso comunità non legate a Roma da alcun tipo di trattato[218]. La sua funzione era composita[219], dall’aspetto religioso dello schierarsi degli dèi[220], all’aspetto rituale della purificazione dall’imminente contaminazione del sangue[221], a quello altrettanto significativo di favorire la soluzione pacifica del contrasto[222]. La complessità, la durata e la scrupolosità dell’esecuzione della procedura feziale erano occasioni per le parti di riflettere sulle conseguenze del gesto bellico ed eventualmente evitare lo scontro armato. Nel testo di Dionigi, dove la dichiarazione di guerra è riportata in termini simili a Livio, si dice che se i due feziali trovavano l’accordo si lasciavano da amici (2,72,8).

L’aggettivo iustum che connotava il sostantivo bellum, stava dunque a significare la conformità della guerra al sistema giuridico[223], come la sua stessa radice ius indica[224], risolvendosi in una formula di normalità. Per riprendere uno schema teorico di Bobbio possiamo riassumere che la ‘legittimità’, come titolarità di fare la guerra, si inverava nella ‘legalità’, intesa come agire nel rispetto delle regole dello ius belli[225].

Antonello Calore. Universita' di Brescia.
sergio.T
00giovedì 4 febbraio 2010 12:17
E' un pezzo bellissimo, l'articolo che ho riportato di questo docente di Storia Romana.
Feciali e Ambasciatori: portavoci della volonta' rituale del popolo Romano. " Fate attenzione alle parole che dico..." con l'invocazione sacra.
Affascinante in maniera pazzesca.
sergio.T
00mercoledì 10 febbraio 2010 09:47
Senza processo.
anche Scullard e' molto severo su Catilina: niente prova che il suo interesse politico fosse per i poveri e per le classi cociali.
Piuttosto, e' provato, che Catilina fosse oberato di debiti, fosse in combutta politica per un'ascesa senatoriale.
I Romani se ne accorsero e naturalmente arrivo' la tremenda punizione per i congiurati: giustiziati senza processo e caccia a Catilina stesso che fu ucciso con un intervento militare contro le sue schiere.

sergio.T
00mercoledì 10 febbraio 2010 09:49
Senza appello.
I sette tribunali che Roma aveva delegato per i massimi reati ( omicidio, tradimento, ecc.ecc.) emettevano sentenza senza possibilita' d'appello.
Nel tempo della Repubblica la sentenza che decretava la pena di morte o la fustigazione in pubblica gogna doveva essere sottoposta , una volta emessa, al volere del popolo.
Intorno al 70 A.C. Roma inaspri' il concetto di punizione e la sentenza non poteva piu' essere appellata.
sergio.T
00mercoledì 10 febbraio 2010 09:55
Linguaggio Romano: Vixerunt
I Romani non amavano dilungarsi in molte parole. Spesso e volentieri gli Ambasciatori interrompevano lunghi dialoghi con gli emissari di popoli stranieri ( dopo essere stati in lungo silenzio) e rivolgevano la fatidica frase " non amiamo i diletti verbali, riparate o no?"
Cosi' anche per altri motivi.

Quando il senato, ad esempio, sentenzio' la pena capitale per i congiurati di Catilina e fece eseguire la sentenza senza processo, Cicerone uscendo nel Foro per parlare al popolo Romano disse semplicemente: "Vixerunt" ( vissero) e si ritiro'.
Una sola parola.


Ricordi julia quando scherzando su alcuni temi ti dico sempre ( esso fu, loro furono, egli fu....)

Stile perfettamente Romano: pochissime parole e tantissimi fatti.
sergio.T
00venerdì 12 febbraio 2010 09:04
"Chiari nello scopo, veloci nelle decisioni, rapidi nell'esecuzione"
I Romani in due parole.

H.Scullard.
sergio.T
00venerdì 12 febbraio 2010 09:53
Il passaggio dalla Repubblica all'Impero (Monarchia militare e costituzionale) nel tempo di Augusto ( primo decennio a.c.) fu un passaggio lieve.
In fondo, come dice Mommsen, i Romani erano predisposti da sempre ad una Monarchia militare.
sergio.T
00venerdì 12 febbraio 2010 10:41
Esercito come filosofia.
Quando noi percorriamo ancora oggi Via Emilia o la Via Appia, l'Agrippa, o la Valeriana diciamo: strade fatte dai Romani.
Per essere precisi fatte dall'esercito Romano.
La concezione dell'esercito che avevano i Romani e' diversissima dalla nostra.
Innanzitutto macchina bellica offensiva e difensiva, ma non solo.
L'esercito era chiamato per lavori di edilizia, per costruire monumenti, strade, acquedotti; era chimato per soccorrere la popolazione in caso di disastri naturali; era chiamato per la distribuzione delle terre e per ogni evenienza cittadina.

L'esercito era l'anima di Roma.

La storia Romana, in fondo, e' la storia di un esercito.

Sotto l'Impero si costitui' all'interno di esso la guardia Pretoriana. Onore e forza.

Quando il senato, sotto Claudio, fu chiamato a prendere grandi decisioni costituzionali, Tacito scrisse: " mentre il senato parlava i Pretoriani avevano deciso"

ricorda Napoleone secoli dopo: " mentre gli altri parlavano la Grand Armee' marciava"

Ed e' questo il grandissimo fascino dell'esercito Romano: non tanto la sua concezione bellica, ma la sua filosofia: " azione veloce, rapida, decisiva, determinante. Fatti e non parole"
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 13:37.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com