Friedrich Schiller a duecentocinquanta anni dalla nascita

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S_Daniele
00martedì 15 dicembre 2009 07:30


Friedrich Schiller a duecentocinquanta anni dalla nascita

L'apologeta di Roma eterna che non scese mai a sud delle Alpi


di Francesco M. Petrone

"L'Italia (e Roma specialmente) non è paese per me", così scriveva Friedrich Schiller in una lettera all'amico Wilhelm von Humboldt del 17 febbraio 1803. Viceversa, l'Italia dell'Ottocento lo ammirò più di Goethe, lo accostò a Vittorio Alfieri, lo lesse in incerte traduzioni dal francese, ne subì l'influsso letterario - in primis Manzoni, Foscolo, Pellico - e si ispirò alle trame del suo teatro per i libretti d'opera di Verdi, Rossini, Donizetti, Mercadante. Così, attraverso il melodramma, raggiunse nel nostro paese ancora scarsamente alfabetizzato, una notorietà sconosciuta agli autori di libri. Del resto, prima che con il metro letterario, Schiller, creatore di eroi ribelli e di eroici furori, fu valutato per l'intensità delle passioni che accendeva, acclamato come il poeta delle virtù repubblicane, talvolta addirittura di quelle giacobine.
 
Un suscitatore di ideali che conquistò i cuori degli europei, dai patrioti polacchi agli ebrei di lingua tedesca. Beethoven, mettendo in musica nella Nona sinfonia i versi di An die Freude, l'Inno alla Gioia, ne consacrò definitivamente la fama. A duecentocinquanta anni dalla nascita - il 10 novembre 1759 a Marbach am Neckar, nei pressi di Stoccarda - il gigante appare un po' in ombra. A Weimar, nel giorno del genetliaco, la gente comune ha deposto mazzolini di fiori ai piedi del suo monumento, segno che una certa familiarità con uno dei dioscuri delle patrie lettere permane, però nei teatri europei, Germania compresa, lo si rappresenta sempre di meno, lo si legge soprattutto per obbligo scolastico. C'è chi scorge in tale inattualità una grandezza ormai incomprensibile e chi vi sospetta un'enfasi ormai insopportabile.

Nel primo centenario della nascita, le celebrazioni di Schiller ebbero ben altra solennità. In tutta la Germania si erigevano monumenti, si tenevano discorsi ufficiali nei Parlamenti e nelle scuole, si allestivano musei, mostre e festival teatrali. Nel centocinquantesimo della morte, nel 1955, si inaugurava nella sua città natale l'imponente archivio della letteratura tedesca.
Quest'anno, malgrado la coincidenza con il ventennale della riunificazione di Berlino, i festeggiamenti non si fondono, e al retore della ribellione dedicano solo studi accademici, conferenze, saggi.

Anche nella patria di Verdi, il ricordo del drammaturgo si appanna con il declino della popolarità del melodramma. Dello "Schiller in Italia", ossia della sua ricezione - ché il poeta di Marbach mai si spinse a sud delle Alpi - è stato detto molto; dell'Italia schilleriana, dove abbondano complottatori e violenti, proviamo a isolare invece una insolita e splendente immagine, una "fantasia romana" abbozzata all'interno di una storia britannica, un "capriccio", una veduta di invenzione alla maniera di Piranesi. Benché confessasse di essere privo di "interessi per l'arte figurativa" - anche per giustificare le sue riserve sul Belpaese - il drammaturgo svevo mise a punto un modello di tutti gli innamorati delle arti e della penisola dal cielo azzurro. Anzi, come accennò Rosario Assunto in uno studio sulle estetiche del primo Ottocento, questo suo personaggio rappresentava l'antesignano dei Nazareni, quella gilda di giovani pittori tedeschi che diedero vita a una specie di avanguardia ante litteram nel nome di san Luca, il Lukasbund, e per mezzo dell'arte di Raffaello approdarono alla religione cattolica.

Il 14 giugno del 1800, al Teatro di corte di Weimar, andava in scena la prima rappresentazione di Maria Stuart; l'anno seguente usciva l'edizione a stampa della tragedia. Il secolo romantico si apriva con un conflitto di anime, un duello femminile tra due regine. Su tale contrasto si fissò l'attenzione dei più, sul pathos della muliebre contesa si educò la sensibilità dei primi romantici. Non si dette mai grande peso ai discorsi su Roma di un personaggio inventato da Schiller, quel Mortimer che, in una scena del primo atto, rivela la sua identità segreta di convertito alla sovrana cattolica perseguitata dagli anglicani:  "Avevo vent'anni mia regina, ed ero cresciuto nel più rigido senso del dovere, imbevuto di cieco odio per il papato, quando un travolgente desiderio mi spinse verso le rive del continente. Lasciai le tetre cappelle dei puritani, lasciai la patria alle mie spalle, e percorsi in fretta la Francia. Ardevo dal desiderio di arrivare nella tanto decantata Italia" (Maria Stuarda, traduzione di M. D. Ponti, Einaudi, 1982). Bildungsroman, romanzo di formazione, in poche battute, è il ritratto di molti giovani viaggiatori in Italia che spesso concluderanno il Grand Tour convertendosi alla religione di Roma.

Per la regina prigioniera, il giovane evoca la patria comune della loro fede, la città santa dove si venerano le immagini sensuali della vita e della morte:  "O mia regina! Cosa non provai quando mi venne incontro lo splendore possente delle colonne e degli archi di trionfo, quando il Colosseo mi cinse, attonito straniero, con la sua magnificenza, quando un sublime spirito creatore mi tenne nel suo meraviglioso mondo di incanti!". Il drammaturgo che dichiarava di non avere interessi per l'arte, l'austero poeta che aveva provato imbarazzo per le Römische Elegien dell'amico Goethe, affrescava una Roma di incanti. Ma soprattutto lo scrittore luterano sembrava avvertire il fascino della "religione bella", la commistione tra cattolicesimo e arte, in affinità con il coevo Franz Sternbalds Wanderungen (I vagabondaggi di Franz Sternbald), un Künstlerroman di Ludwig Tieck, un romanzo di formazione artistica che sarà il primo di una lunga serie di racconti di viaggio verso la Roma dei Papi e degli artisti del Rinascimento.

"Mai avevo sentito prima la potenza dell'arte:  la chiesa che mi ha educato odia ciò che seduce i sensi e non tollera immagine alcuna, adorando solo la parola senza corpo". In poche righe ci sono due espressioni dense:  la "potenza dell'arte", che si dispiega nelle anime dei giovani europei proprio alla vigilia di una grave crisi delle arti figurative, sembra il motto dell'epoca; la "parola senza corpo", priva dell'involucro, rinvia alla teologia della parola che ha bisogno di affiancarsi alla teologia dell'immagine, del verbo che si incarna nel visibile, secondo i principi dell'arte sacra avversata dai luterani. Il diario poetico che nessuno dei romantici pellegrini a Roma riuscì mai a scrivere è stato immaginato da Schiller:  "Che emozione provai quando entrai nelle chiese, e scesero su di me celesti armonie, mentre dal soffitto e dalle pareti erompeva una profusione di sacre figure, e tutte le cose più sante e sublimi prendevano corpo e si muovevano, presenti ai miei sensi estasiati. Potevo vederle, ora, le cose del cielo, il saluto dell'angelo, la natività del Signore, la santa Madre, la divina Trinità, la luminosa trasfigurazione sul Tabor". Cresciuto negli ambienti iconoclasti, Mortimer scopre adesso i principali temi affrontati nel corso dei secoli dalla pittura religiosa e, ai suoi occhi, le immagini sacre diventano delle epifanie divine - "potevo vedere (...) le cose del cielo". Anche l'aspetto liturgico rinvia al mondo paradisiaco:  "Che emozione infine, quando vidi il papa celebrare nella sua magnificenza l'ufficio solenne e benedire le folle. Oh, che è lo splendore dell'oro, che è il luccichio dei gioielli con cui si adornano i re della terra! Solo lui è circondato da splendore divino. La sua casa è veramente un regno dei cieli, perché quello che lo attornia non è di questa terra". A pochi decenni dalla fine del potere temporale, un poeta protestante ne magnifica lo splendore metafisico.

Si fa allora crudele il contrasto tra le meraviglie romane e la miseria della prigionia di Maria Stuarda. Le martiri cristiane delle sontuose tele barocche si fondono con le eroine romantiche. Mortimer diventa un esaltato sempre più simile ai giovani artisti del Nord che venivano numerosi a provare emozioni forti sulle sponde del Tevere. Per confortare la prigioniera racconta della sua liberazione spirituale nella città eterna:  "La mia prigione si spalancò; e ad un tratto lo spirito si sentì libero e salutò la bella luce della vita. Giurai di odiare la Bibbia cupa e angusta dei puritani e di adornarmi le tempie di fresche ghirlande, per unirmi lietamente a chi sa esser lieto". Questa brevissima italienische Reise, sotto il velo della finzione letteraria, va al di là dei pur straordinari elogi goethiani di Roma, Schiller vi mescola la gioia panica del mondo classico (cinge "le tempie di fresche ghirlande") con la "serenità" cattolica.

Dopo la metanoia per amore delle immagini, Mortimer si lascia ammaliare dal ritratto della Maria terrena. Allora l'esaltazione si trasforma in impazzimento e la passione del cavaliere coraggioso per la sua regina si cambia in concupiscenza. Forse nel colpo di scena c'è una velenosa critica di Schiller nei confronti dell'estetismo cattolico in voga. Ma la morte del giovane e quella di Maria sembrano cancellare i peccati "estetici" in una specie di poema finale della pietà. Dove il drammaturgo si serve direttamente della liturgia cattolica della confessione e della comunione per rendere solenne il suo dramma. A questo punto lui stesso sembra essere suggestionato dai riti romani. Un'apologia del cattolicesimo, forse involontaria, che nessuna immagine celestiale dei Nazareni riuscirà a eguagliare.


(©L'Osservatore Romano - 14-15 dicembre 2009)
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