Febbraio 2007

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CadillacRanch
00giovedì 8 febbraio 2007 08:45
Ultime visioni:


LITTLE CHILDREN ****

Il gioco della redenzione e del senso di responsabilità si espande per tutto il film mascherato da opportunismo e cinismo, non lo si percepisce almeno fino alla fine in cui sentiamo che è quello il nucleo del nuovo lavoro di Todd Field. LITTLE CHILDREN è una commedia nera ambigua, corale, che ci porta in una America suburbana apparentemente perfetta di giorno per distruggerla di notte, e lo fa senza peli sulla lingua, spezzettando i vari risvolti con la mente ad una casetta su due piani in cui vivono un uomo psicologicamente friabile e custode di un passato orrendo in cui fu condannato per molestie su un minore, e sua madre che ha sempre creduto nella sua innocenza e che si sbatte a trovargli moglie perchè "questa gli lavi i piatti". Un pò il fulcro di un quartiere cinico e fasullo, quello di un'ex femminista con marito ossessionato da una pornodiva del web, quello di un "casalingo" mancato avvocato e di sua moglie, documentarista coinvolta in un progetto sull'America post 11 settembre che non vuole rinunciare e discostarsi dallo status sociale in cui vive, quello di un poliziotto esageratamente suscettibile, perfino quando gioca a football, quello delle pettegole al parco che non riescono a tenere la bocca chiusa o a fare riunioni per parlare dei libri che più le condizionano. Fondamentalmente la perfezione che mostra il volto maligno non rivelandosi come tale è un cazzotto nello stomaco, e Field ha una naturale consapevolezza nei propri mezzi con la quale riesce a filmare una profondità senza fine e l'ottusa progressione dell'infedeltà e dello scetticismo. Una scena come quella della piscina in cui Ronnie rimane solo con pinne e maschera mentre tutti gli altri gli stanno intorno a bordo vasca riesce a trasmettere grande forza negativa ma non è il solo punto di forza del film. La coralità delle vicende impatta in un finale violento ma chiarificatore, in cui le ombre del passato vengono lasciate al loro destino e il futuro rimane da scrivere nel migliore dei modi possibili. Chiaramente LITTLE CHILDREN è film d'attori, e c'è l'imbarazzo della scelta, perchè non è giusto parlare solo di una Kate Winslet in formissima, ma è bene anche citare una Jennifer Connelly pressochè perfetta (la scena della cena e i giochi di camera nel mettere a fuoco e sfocare sono magistrali), un bravissimo Patrick Wilson, e l'interpretazione evolutiva di Jackie Earle Haley, bravo a delineare sfumature umane allontanandosi dalle direzioni banali che il suo personaggio poteva intraprendere (vittima o carnefice). E un film di sguardi e silenzi, di oggetti, di monili e orologi, di quel lungo e disturbante fischio del treno in arrivo, e di quei vialetti in cui è dipinta un'America apparentemente sicura di sè, ma in realtà fragile e bigotta.


THE ILLUSIONIST *** 1/2

Nella Vienna in pieno impero austro-ungarico, l'illusionista Eisenheim intrattiene il pubblico con numeri a dir poco stupefacenti, ricevendo anche una certa simpatia dal capo della polizia, incorruttibile dentro ma corrotto fuori dalla vicinanza all'erede al trono. L'omicidio della futura principessa diventa una sorta di provocatorio concatenamento di intrighi e trucchi in cui ci ritroviamo ad assistere a un numero di magia al di fuori del palcoscenico. Quasi impossibile non affiancarlo a THE PRESTIGE per tematiche e una certa struttura narrativa che porta al colpo di scena, ma in realtà THE ILLUSIONIST è leggermente diverso: è prima di tutto una storia d'amore che unisce la pratica alla disperazione. E infatti non ha la meccanicità del film di Nolan, l'illusionista come mestierante non è il vero protagonista al contrario dell'illusionista come persona emozionale, anche se ci divertiamo a vedere gli strabilianti numeri di Eisenheim che svariano quasi sulla magia vera e propria, anzichè nella semplice idea di trucco da dare in pasto al pubblico. In effetti la pianta di arance, il gioco con la spada e con gli specchi, i guanti neri che si trasformano in corvi lasciano a bocca aperta e da essi viene il sospetto di trovarci davanti a un fantasy in costume. C'è del soprannaturale nel film, ma è un soprannaturale terreno che gioca con lo spettatore e che, a tratti, diventa perfino forzato. Ma è senza dubbio affascinante, etereo e messo in scena con grazia e leggerezza. La regia di Neil Burger è morbida e astuta, gioca coi primi piani (impossibile non guardare negli occhi di Norton) e regala ottime profondità nei campi lunghi e irrompe potentemente con un fascino graziato nei momenti di intimità (molto bella la scena della notte d'amore tra Norton e la Biel), unita a un apparato tecnico maestoso e magistrale, dalle bellissime scenografie alle splendide musiche di Philip Glass. Nel cast spicca un Paul Giamatti ormai consacrato a grande attore, e a sorpresa emerge benissimo Jessica Biel, che sfrutta l'occasione di un ruolo mistico e rilevante per dare un calcio ai ruoli impalpabili del passato. Mentre i rivali Norton e Rufus Sewell meritano menzione per una certa personalità di fondo, anche se il primo ogni tanto esagera nel tratteggiare toni drammatici e il secondo nelle cariche di passione e ansia. THE ILLUSIONIST magari rimane più diretto e semplificato rispetto a Nolan, ma è pur sempre ottimo esempio di cinema. L'idea cinematografica del finale a sorpresa in questo caso ha delle limitazioni e forzature, magari non troviamo abbastanza carne al fuoco per dare al finale una carica così dirompente e ad effetto. Con meno ingenuità e un pizzico in più di realismo intelligente ci saremmo trovati davanti a una delle migliori pellicole indipendenti dell'anno appena trascorso.


THE GUARDIAN * 1/2

La solfa è quella ormai straconosciuta: una leggenda vivente della Guardia Costiera con 300 salvataggi alle spalle perde la sua interasquadra nel tentativo di portare in salvo un gruppo di naufraghi. Dimesso dall'ospedale quindi viene inviato in una base in Alaska come istruttore per giovani leve. Qui conoscerà un giovane abbastanza scavezzacollo ed egoista dal passato misterioso ma di grande talento, sul quale conterà come leader di una futura squadra di salvataggio. Niente di nuovo all'orizzonte, tutto già visto in parecchi film anche su altri corpi speciali (da "Gunny" a "Men Of Honor"), con i soliti condimenti a tratti scontati e a tratti pure retorici, e in cui Kevin Costner aggiunge poco sebbene la sua presenza non venga disdegnata. Il problema del film infatti è il voler passare per intelligente e profondo (qualcosa in cui c'entri l'umiliazione, la vecchiaia, la consapevolezza o il peso del ricordo) quando in realtà il manierismo lo rende un prodotto piatto e telefonato, che culmina nella leggenda del guardiano sotto le acque, dandogli un piccolissimo tocco di soprannaturale, ma che non lo salva da uno script a dir poco pessimo, e per niente interessante e coinvolgente. E Andrew Davis, di azione di qualità ne ha fatta, ma i tempi di "Uccidete La Colomba Bianca" sono, a quanto pare, lontani.


UNA NOTTE AL MUSEO **

Fondamentalmente è robetta innocente e innocua, mansueta come un agnellino. Di suo ha qualche trovata che lascia il sorriso (La statua Maoi che vuole il chewing-gum, il dinosauro "da riporto", il botta e risposta sbraitato in unno tra Stiller e Attila, gli uomini primitivi che mangiano la schiuma dell'estintore) ma si limita a questo proprio perchè si riduce a favoletta candida senza morale (la morale ci sarebbe anche, ma è talmente antiquata...) e agli sketch all'interno del museo. Per il resto non troverete niente di che se non la solita sceneggiatura elementare, il solito Stiller nel solito ruolo trito e ritrito, la solita regia inesistente e i soliti effetti speciali che però funzionano a strascichi. Azzerate le pretese se entrate in sala, lasciatevi scappare quella ventina di risate e uscite senza lamentarvi troppo.


LA PAROLA AI GIURATI **** 1/2
IL MASSACRO DI FORT APACHE ****
PRIMA PAGINA ****
RAN ****
CLOSER * 1/2
FERRO 3 *** 1/2
SFIDA A WHITE BUFFALO ** 1/2
IL COLOSSO D'ARGILLA *** 1/2
VELLUTO BLU ****
L'ULTIMO SPETTACOLO ****
CadillacRanch
00mercoledì 14 febbraio 2007 11:40
L'AMORE NON VA IN VACANZA **

Dalle delusioni amorose a vita nuova con uno scambio di casa a 360°. Non solo casa, ma pure auto, parenti e amici. Il film di Nancy Myers inizialmente racconta due mondi diversi ma gli stessi cuori spezzati e la voglia di fuggire, fino ad assestarsi sul limpido e proverbiale alloro e far scorrere tutto come ci si immagina già entro i limiti. Si direbbe un drink liscio, una cosa innocua, in realtà il film ne abusa proprio e va a rilento e spesso finisce pure in panne, risultando a tratti eccessivamente logorroico. Perchè è chiaro come il sole che 140 minuti sono una durata troppo lunga per raccontare una storia che con una sforbiciata di almeno una mezz'ora sarebbe stata ugualmente scontata ma meno forzata e verbosa, magari anche più divertente, mentre spesso si trasforma in una fiera della banalità e dei clichè della commediola rosa senza inventare un che minimo di interessante. Mentre SOMETHING'S GONNA GIVE poteva giocare con interpretazioni notevoli della Keaton e di Nicholson, qui tutti si limitano al compitino assegnato, da una Diaz che smorfieggia e si atteggia (si vede che non è diretta da Hanson) a un Jude Law impalpabile. Meglio la coppia Winslet-Black ma, ripeto, siamo su terreni già battuti e non si ha un vero e proprio exploit, come per un Eli Wallach simpatico ma macchiettistico. Non basta neanche il cameo fulminante di Dustin Hoffman in videoteca (per non parlare di quello di James Franco e Lindsay Lohan) a risollevare gli animi. Quindi una polpettina noiosa a scontata sull'amore ritrovato, sai che novità...


BLOOD DIAMOND **

Dal setaccio al consumatore, si potrebbe dire, con in mezzo un'ardua guerra e un lungo viaggio sanguinoso in cui un mercenario contrabbandiere di diamanti e un pescatore sfuggito al machete dei ribelli cercano di salvarsi e di recuperare un prezioso diamante rosa seppellito sotto la sabbia. Tutto nella Sierra Leone delle rivolte e delle organizzazioni ribelli che uccidevano senza pietà chiunque gli si ponesse davanti. Fondamentalmente BLOOD DIAMOND avrebbe avuto un senso se anteponesse a tutto la questione politica e drammaticamente infuocata della Sierra Leone dei '90 in maniera da colmare le lacune storiche dello spettatore, in verità si rilancia in un thriller avventuroso senza particolari exploit in cui si arriva alla morale programmatica della redenzione e si cerca un messaggio positivo nell'arrivismo e nell'inganno. Edward Zwick non sarebbe poi neanche male come regista se non si prodigasse in copioni caserecci e scricchiolanti, buttando metri di pellicola su momenti praticamente inutili e portando lo spettatore alla noia (uso massiccio delle forbici, sarebbe calzato a pennello), e cotonando la storia in una sorta di trattato internazionale sulla miseria e la situazione terzomondista sinceramente a prova di sopportazione. Dalla sua ha un trittico di interpreti che non sono certo novellini, a cominciare da un Leonardo Di Caprio di nuovo convincente o un Hounsou pienamente consapevole dei propri mezzi, che quando non strilla sa dare al suo personaggio ottime sfumature malinconiche, ma sono raggi di sole in mezzo a una giornataccia. Occasione mancata per dare al mondo una lettura storica di una pagina semidimenticata, anzichè una specie di pubblicità progresso poco saccente e infiorettata alla buona fino a scemare nel soporifero.


14a ORA (Henry Hathaway) *** 1/2
IL BRACCIO VIOLENTO DELLA LEGGE (William Friedkin) ****
BLUE SKY (Tony Richardson) ** 1/2
CINQUE PEZZI FACILI (Bob Rafelson) *** 1/2
I PROFESSIONISTI (Richard Brooks) ****
CadillacRanch
00venerdì 2 marzo 2007 11:22
L'ULTIMO RE DI SCOZIA ***

Un dito che ti cambia la vita, quello puntato sul mappamondo dal neodottore Nicholas Garrigan, che per caso è finito sul piccolo stato indipendente dell'Uganda, in Africa, per una missione umanitaria, fino a diventare medico personale e "più stretto collaboratore" del presidente Amin. L'ULTIMO RE DI SCOZIA mostra diverse facciate, alcune telefonate altre improvvise, mettendo a fuoco il complesso personaggio di Amin come un bambino viziato e indeciso, che chiede consigli a destra e a manca, che si trasforma in pessimista e ossessionato dittatore, spietato e crudele, e un minuto dopo megalomane e in cerca di gloria. Se non fosse per questo punto di forza alquanto solido e palese motivo d'interesse, il film di Kevin MacDonald (si nota ogni tanto il suo passato da documentarista, tra zoom improvvisi o movimenti frenetici in stile inchiesta) sarebbe semplicemente un ritratto terzomondista di una certa scontatezza che volge alla spy story in un secondo tempo ben più sconfortante e violento, ma nel mezzo è proprio il rapporto Amin-Nicholas che emerge come muro portante della pellicola, un rapporto tra padre-figlio-fratello che a pelle risulta quasi surreale, e forse per questo interessante. Magari c'è un exploit narrativo un pò drastico (la rivelazione di Stone sui massacri di Amin, il ritrovamento del cadavere della moglie con gli arti mozzati e ricuciti all'inverso) e un finale un pò facilone, nonostante non sia propriamente happy, ma è anche paravento d'incertezze, che mette lo spettatore davanti a una storia umana che scava a fondo nei personaggi, prima di arrivare ai fatti e a tentare un maggior stordimento nel pubblico. Infatti per un tempo c'è un'aria abbastanza spensierata (il primo discorso di Amin dai toni semi-infantili nel villaggio ugandese, con rilanci in stile concerto rock; il peto ultradecibellare dopo il mix di aspirina e birra) intervallati da momenti da dramma sociale (la missione umanitaria) e altri di tensione (il ferimento di Amin, con il lamento della mucca), per arrivare poi a una svolta quasi da thriller spionistico. Nessun particolare miracolo da Forest Whitaker, bravo e carismatico nelle sfaccettature di Amin, forse sorprende di più un James McAvoy dotato di buona personalità e capace di non farsi schiacciare dal collega. Peccato forse per altri ruoli che avrebbero meritato più spazio, da Gillian Anderson a Simon McBurney. Alla fine l'Africa rimane un pò sullo sfondo della vicenda, un pò intrappolata davanti alla mole di Whitaker e al rapporto personale con McAvoy. Niente male, ma forse avrebbe avuto più spessore con una descrizione ben più accentuata della situazione ugandese, magari senza morali terzomondiste o approcci di retorica spicciola.


SCRIVIMI UNA CANZONE * 1/2

L'inizio è un dilemma: un video pop anni '80 in puro stile Industry/Duran Duran con Hugh Grant alla classica Roland D-50, che non si sa in realtà se possa essere più "cult" o "scult". E poi il vuoto. Un ex star degli eighties che si ritrova al suo seguito la pop star più famosa d'America, che gli chiede di scrivere una canzone sull'amore ritrovato. Lui la vede come un'opportunità per tornare al successo e per togliersi da quegli insulsi palchetti da fiera davanti a non più di cinquanta zitelle. E come paroliere si ritrova per caso la ragazza che, sempre per caso, gli annaffia (anche troppo) le piante in casa. Il vuoto perchè il film, a parte titoli di testa e di coda, è proprio privo di idee e di gagliardia, scialbo, telefonato; neanche da classificare come classica commedia all'americana, perchè non c'è neanche un minimo risvolto; un tempo ai preliminari e alla creazione della canzone, e un altro tempo alla storiella d'amore all'acqua di rose con scontatissimo litigio, e finale con tanto di concertone e riappacificamento. E il ritorno "scult" dei titoli di coda col medesimo video dell'inizio in versione Mtv, accompagnato dalle curiosità e dalle note sullo sfondo. Tabula rasa, chiglia piatta, melodia a tappeto.


THE GOOD SHEPHERD **

Una storia ambientata nei corridoi del potere, quella voluta da Robert De Niro, ma soprattutto ambientata nella vita di un uomo che ormai è diventata un dispendio di segreti e bugie, atti a un solo scopo: la salvaguardia dell'America. THE GOOD SHEPHERD ha un taglio quasi documentaristico e balza avanti e indietro tra flashback e flashforward, proponendoci i fatti e le basi sulle quali è stata creata la CIA, inquadrando lo studente modello Edward Wilson che tra sette e sapienza arriva fin dove l'anima lo supporta arrivando perfino a distorgere ciò che rimane della sua vita privata. L'operazione di De Niro visivamente può risultare elegante, ma è troppo implosiva per poter essere attraente, troppo manieristica per poter essere interessante; un manierismo a tratti insopportabile che distrugge in parte quanto De Niro aveva fatto di buono con BRONX, in cui attingeva dall'amico Martin mostrando però una capacità di umiltà notevole. Qui invece avviene l'opposto, De Niro si rifugia nell'usato sicuro, proponendo un film-clichè senz'anima, stancamente assopito sui canoni hollywoodiani del film politico e politically correct, in cui la complessità della storia non fa altro che sfiancare lo spettatore, che assiste inerme a un esercizio scontato, eccessivamente musicato, e dove l'ossesso tramite gli sguardi dei protagonisti è un luogo comune in pillole. Proprio perchè nell'esercizio di stile c'è una freddezza riondante, che determina alla fine una pellicola senza cuore, nonostante qualche scena è discretamente girata (l'omicidio a Londra nel canale, la ragazza gettata dall'aereo in Congo, o l'interrogatorio/tortura della spia russa). E molto della non riuscita totale del film è dato anche da un cast eccessivamente ingessato, Damon in primis, e una Angelina Jolie che gigioneggia nella parte di moglie ormai pienamente consapevole che la propria vita circola intorno alla sfiducia e ai segreti. Nessuno emerge fino in fondo, nemmeno i comprimari più presenti (Turturro, Hurt, Baldwin e Crudup), nè i cameo di Joe Pesci (appare si e no un paio di minuti) e Timothy Hutton. Delusione cocente per un cast sprecato e una storia forse più adatta a un contesto più cocente e meno manieristico, in cui De Niro si ritrova quasi impotente e con poche idee, una cosa molto ambiziosa in cui da piccolo regista mostra di trovarsi in balia di un affare ben più grande di lui.


DREAMGIRLS **

Ecco un film facilmente paragonabile a una prostituta d'alto bordo: tutto elegante, profumato e tirato a lucido, ma con ben poco dentro. Una vicenda arraffata da qualche parte nella storia della musica e sguinzagliata in modo del tutto manieristico, fasullo e artefatto, quella del venditore di auto usate che diventa all'improvviso un Dio della produzione discografica, scritturando un terzetto di coriste da affiancare alla falling star Eddie Murphy, per poi arrivare ai soliti disguidi e litigi, i quadretti storico-politici d'intorno, gli amori da piccioncini al parco, i problemi con la droga, il viale del tramonto e via dicendo. Se non fosse per una certa "anima" rhythm 'n' blues che si porta dentro, DREAMGIRLS sarebbe un concentrato di spazzatura e noia allo stato puro, un poco innalzati comunque da qualche discreto numero musicale. Qualche numero, anche perchè a volte la migliore cosa sarebbe alzarsi dalla sedia, vista la quantità di ragionamenti cantati e la melassa dispersa per il palco, e visti anche i personaggi scritti con la biro da due soldi, un Jamie Foxx dalla capigliatura orribile in uno stereotipo totale, o una Beyoncè Knowles ai limiti del sopportabile. Si salvano Eddie Murphy (ammetto di provare anche un pò di simpatia per lui) e un affidabile e malinconico Danny Glover, mentre la tanto strombazzata Jennifer Hudson dimostra un notevole controllo dei propri mezzi, ma anche un certa inesperienza scenica che non sempre grazia il suo personaggio. Meglio un disco a questo punto, niente immagini nè dialoghi, magari un Otis Redding.


FACTORY GIRL **

Forse il vero universo di un tipo eclettico come Andy Warhol è troppo complicato per avere semplicemente un anima "pop-art", o forse è talmente semplice che è giusto abbandonare le infiocchettature per descrivere semplicemente le debolezze e le cose apparentemente insignificanti, come Warhol che reputa troppo cara una statuina da 7 dollari da comprare alla madre o una spudorata messa in scena da jet set retrò perchè in fondo le abitudini e lo stile era quello. Peccato che nella vicenda che ha accomunato Edie Sedgwick e Andy Warhol ci siano solo tante frivolezze, dozzine di sigarette fumate e parecchia pompamagna senza un briciolo di cuore, nonchè tante chiacchiere da bar. Un piccolo monumento cadente in cui funzionano gli attori ma toppano storia e confezione, che nel voler essere alternativa diventa anche spocchiosa e pretenziosa, tra filmetti amatoriali a Central Park e ritrovi artistici rimpastati di banalità. Per fortuna non tutto è da buttare, soprattutto una bella sfida a chi è più bravo tra Guy Pearce e Sienna Miller, entrambi convincenti, e una colonna sonora notevole, ma alla fine tutto si riduce a una sfilata di talenti in un giochetto che stanca già dopo dieci minuti. Insopportabile Hayden Christensen, poeta-folksinger spudoratamente ispirato a Dylan, con voce roca e smorfiette da chi la sa lunga. E tante chiacchiere inutili sulla famigerata scena di sesso tra lui e la Miller, discreto e unico momento di intimità e di calore, a dispetto di chi si aspettava una rappresentazione da selvaggi. Frivolo e spocchioso, si dimentica facilmente con uno schioccar di dita.


SHERRYBABY ** 1/2

Uscita di prigione dopo aver scontato una pena per furto, un'ex tossicomane cerca di riallacciare i suoi rapporti con la figlia, affidata al fratello e all'odiosa cognata, scoprendo la difficoltà di riambientamento e ricadendo nel baratro. Film indipendente di stampo classico-documentaristico, quello di Laurie Collyer, che fa del personaggio di Maggie Gyllenhaal (bravissima) il caposaldo della vicenda in tutti i sensi, una ragazza totalmente confusa e fragile distorta da ambizioni apparenti e da una mentalità debole. SHERRYBABY è scritto anche piuttosto bene, ma cade nel tranello del tema della redenzione e della rinascita applicato alla cinematografia indie americana, cioè alla fine esce fuori dall'ennesima fotocopiatrice raccontando una storia povera di contenuti sistematicamente essenziali. Quindi, quando vorrebbe fungere da buon sodalizio psicologico, SHERRYBABY scema nella noia e nelle ripetizioni continue, di un girovagare, corrompere e cadere che rende il film privo di personalità narrativa. Per fortuna a questa emerge davanti la personalità attoriale di una Maggie Gyllenhaal in stato di grazia (da evidenziare la scena in cui, con nonchalance, si "offre" per avere lavoro) che rende la sua Sherry un personaggio dalle mille emozioni e dalla palese completezza psicologica. Da segnalare nel cast anche un Danny Trejo che finalmente si toglie di dosso i panni di villain texmex infilandosi in quelli di ex tossicodipendente (che stranezza vederlo dietro ai fornelli o a fare il latin lover). Quindi un film funzionale a metà, strutturato in maniera piuttosto scontata e ripetitiva, e forse troppo pretenzioso nella sua indipendenza, ma sorretto piuttosto bene dalle performance attoriali e dagli occhioni perduti di Maggie Gyllenhaal.


SHORTBUS **
IL PRESCELTO *
BOOG & ELLIOTT A CACCIA DI AMICI **
INFAMOUS: UNA PESSIMA REPUTAZIONE ** 1/2


APOCALYPSE NOW *****
SAN FRANCISCO *** 1/2
IL TESORO DELLA SIERRA MADRE ****
MYSTIC RIVER ****
FAT CITY: CITTA' AMARA ****
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