Era il 1992, forse... [racconto]

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jay.ren
00venerdì 15 dicembre 2006 21:51
Altri Racconti: Era il 1992, forse...

Che cosa ho visto?
Cosa ho intuito guardando dai vetri di un autobus?
Da quegli stessi vetri dai quali attonita, ammiravo le ordinate case colorate, piene di fiori, ognuna delle quali aveva una porcellana diversa sotto l'orlo delle tende, ora guardavo un altro mondo.
Era mio compito, e lo sarebbe stato da lì in poi, osservare l'altra faccia della medaglia, e decidere se amarla o no, come amavo quelle case di bambola.
Dovevo, dovevo Vedere con questi occhi, e Capire con questa testa, quello che scorreva ad un piano di autobus sotto di me, perché avevo un debito con me stessa e con questa verde terra, che sapeva darmi così tante belle e forti emozioni: avevo ordinato il conto.
Ho visto quartieri grigi, degni dell'appellativo di alveari, immersi in un lago di cemento ad asfalto, dove panni stesi al vento, strusciano i loro angoli svolazzanti alle erbacce che nascono tra le pieghe del terreno, ho visto colori sbiaditi sulle porte d'ingresso e non porcellane, ma figurine adesive sui vetri ammassati lungo i fianchi dei blocchi di cemento.
Ho sentito il vociare dei bambini… sull'autobus accanto a me, che all'improvviso diventavano terribili e temibili, piccole pesti che la mia mente associava al paesaggio e gli dava una connotazione malvagia e pericolosa.
Come se quello scorcio di miseria mi avesse dato uno schiaffo, guardavo stringendo a me la borsa, non tanto per la paura di uno scippo, quanto alla ricerca di una… rassicurazione tattile, come se avessi voluto stringere a me la mano di un mio caro.
E sì che non era la prima volta che transitavo presso un luogo dimesso e trascurato ed io stessa provengo da una realtà di medio livello, che di benestante ha ben poco. Conosco quei quartieri, che nella capitale italiana fanno da cornice alla città, e perciò non avrei dovuto risentirne, non avrei dovuto farmi sorprendere.
Invece no.
All'improvviso notavo la sporcizia sul mio sedile, di quelle che a datarle ci vorrebbe l'esame del carbonio C14, vedevo sul parabrezza a trenta centimetri dal mio naso, gli schizzi di saliva induriti dal sole e dal tempo, facevo caso alle impronte grasse delle dita di qualche uomo che immaginavo alto, robusto ed ubriaco, e uno stuolo di moscerini che invadevano il campo visivo tra me e la lastra di vetro di fronte, reduci da qualche scorpacciata a base di patatine in busta e di bucce di un qualche improbabile frutto lasciate a macerare sotto uno dei sedili. Giungevano alle mie orecchie i rintocchi aritmici di una bottiglia di vetro abbandonata a terra a subire il moto ondulatorio dell'autobus, rintocchi sconnessi come la mente vacillante dell'uomo che, presumevo, aveva lasciato il segno del suo passaggio con le sue impronte. E la polvere, quell'invisibile pulviscolo secco ed immobile nell'aria che trovava il suo ultimo movimento grazie ai miei respiri, permeava il tutto, portando con sé vaghi effluvi di saliva, alcool e fritto.
Allora capivo, di colpo, di quanto disordine esiste nella vita di un uomo che costituiva anch'egli una parte della società dublinese, e di quanti, come lui, andavano e venivano su un autobus come quello, e di quante donne, quante ragazze, portavano con sé i fumi dell'alcool in giro per le notti brave, alla ricerca di qualcosa che andasse oltre l'impiego in banca, all'inseguimento di un sogno tutto personale, a varcare i confini di quella città che a loro, prodi irlandesi di periferia, andava stretta come una maglia bisunta e scolorita.
Capivo come ci si sente schiacciati da una democrazia che permette spazio alla povertà ed alla mancanza di prospettive e ambizioni, che orgogliosamente lascia la libertà di scelta che è propria dell'essere umano, ma che, in questo caso, cedeva il posto al lasciarsi schiacciare dall'assegno di sussidio. Capivo che c'è un limite in tutto, anche nello stesso essere degni di chiamarsi persone e cittadini e che scegliere, a volte, porta a stendere i propri panni nel cortile a fianco della fermata dell'autobus e a vendere tabacco illegalmente, lungo le arterie principali gridandolo in un incomprensibile linguaggio di strada.
In quel paese di valorosi cavalieri e di mitici castelli, c'era chi stava nelle fucine e nelle fonderie, dietro alle verdi colline, alle scogliere, ai fiori in finestra, oltre i modi gentili dei passanti, ai poliziotti senza armi, alle spalle delle vetrine di Grafton street, ai costosi maglioni delle isole Aran.
Avevo avuto l'opportunità di scoprire il lato oscuro della fiaba della principessa innamorata, qualcosa mi aveva dato l'occasione per vedere, e forse capire, i risvolti seri della storia che vivevo e che vivo tutte le volte che giungo là, oltremanica.
E compresi, quasi, la differenza tra l'innamoramento e un sentimento più profondo che i più chiamano amore.
Amai quel posto con ancora più forza e costanza di quanto avrei potuto mai immaginare, nel tempo e nei luoghi diversi da lì, attraverso i viaggi e le migrazioni verso lidi più freddi della mia città natale, attraverso il tempo che mi ha fatto donna mentre crescevo nella mia quotidianità.


Un racconto di Francesca G. (Silverland)
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