Ebrei Cristiani Musulmani

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:35
I RISCHI DEL MONOTEISMO

Pierre Lambert, o.p.

I RISCHI DEL MONOTEISMO

Soprattutto, guardati dal proclamare la sua Unità. (Al-Hallaj)

O Tu, l'al di là di tutto!
È unico, com'è unico ogni essere amato, com'è unica ogni persona. È unico perché, come miliardi di esseri umani prima di me, ho scoperto che Egli si interessava a me, che avevo un posto nel Suo pensiero. Egli è al di là di tutto e comunque Lo sento: indirettamente, attraverso ciò che gli altri hanno appreso da Lui, e talvolta direttamente, nel più profondo del mio essere.
Prendiamo quindi le ali del tempo per ritrovare il ricordo di questo incontro che, prima di noi, altri hanno fatto con Lui.
«Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti" [...] Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l'uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: "Dove sei?"» (Genesi 2,16-17; 3,8-9).
«E dicemmo: "O Adamo, abita, tu e la tua compagna, questo giardino, e mangiatene abbondantemente e dove volete, ma non vi avvicinate a quest'albero, che non abbiate a divenir degli iniqui". [...] E già stringemmo da prima un patto con Adamo, ma egli lo dimenticò e non scorgemmo in lui fermezza d'intenti» (Corano, II, 35; XX, 115).
L'uomo, quindi, può essere definito non a partire dai suoi elementi materiali o dalle sue capacità, ma dal fatto che è l'oggetto di un' attenzione particolare da parte di Colui che gli ha donato l'esistenza. Nessun'altra creatura è stata messa in relazione con Lui in questo modo. I nostri testi fondatori rendono conto delle molteplici modalità di questo intervento e di questa azione benefica nei confronti di persone i cui nomi restano dei simboli: Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe... I legami con questi uomini sono così forti che «Colui che è al di là di tutto» si presenta a Mosè definendosi con questa relazione che lo unisce a loro: «E disse: "lo sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe". Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio» (Esodo 3,6).

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00mercoledì 4 febbraio 2009 18:36
Abramo è diventato il modello di tutti i credenti dopo avere ascoltato la chiamata di Dio e avergli risposto: «Quando Abramo ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli disse: "lo sono Dio onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò numeroso molto, molto» (Genesi 17,1-2).
«E quando il suo Signore provò Abramo con certe ingiunzioni ed egli le obbedì, e Dio gli disse: "In verità, io ti farò principe del popolo"» (Corano II, 124).
Proprio per questo, nessun legame con lui può esistere al di fuori di una discendenza di Abramo: «Ma tu, Israele mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico [...] ti ho detto: "Mio servo tu sei, ti ho scelto, non ti ho rigettato. Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio» (Isaia 41,8-10).
«E chi mai potrebbe scegliere una religione migliore che quella di darsi tutto a Dio e far bene ai suoi simili e seguire la comunità di Abramo, in pia fede? Ché Dio scelse Abramo per amico» (Corano IV, 125).
È nel nome di questa amicizia tra Dio e Abramo che il credente può, oggi come nel corso dei secoli, scoprirsi presente nel pensiero di Colui che è chiamato «amico degli uomini»:

«Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l'uomo perché te ne ricordi,
il figlio dell'uomo perché te ne curi?»

(Salmo 8,4-5).

«Mi fu rivolta la parola del Signore:
Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo,
prima che uscissi alla luce, ti avevo consacrato»

(Geremia 1,4-5).

«Ma quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia»
(Lettera ai Galati 1,15).

«[...] l'Altra vita ti sarà più bella della prima, - e ti darà Dio, e ne sarai contento. Non t'ha trovato orfano e t'ha dato riparo? Non t'ha trovato errante e t'ha dato la Via? Non t'ha trovato povero e t'ha dato dovizia di beni?» (Corano XCIII, 4-8).

Nei mistici, questa presenza della persona umana nel pensiero di Dio si esprime talvolta in modo paradossale, per mettere in evidenza che questa relazione riguarda due esseri radicalmente diversi.
Grazie a un santo del Cielo (un wali del paradiso musulmano), un credente mistico (un sufi) era riuscito a far chiedere a Dio quale sorte gli riservava quest'ultimo. Dopo che il wali gli ebbe detto che Dio lo destinava all'inferno, questo sufi rispose: «Ma chi sono, io, Signore, perché tu t'interessi a me!». Sapere che esistiamo nel pensiero di Dio è molto più importante del nostro futuro personale.

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00mercoledì 4 febbraio 2009 18:36
La riflessione che facciamo in questa sede non consiste quindi nell' analizzare le diverse relazioni che la storia umana ci ha lasciato dell'esperienza di Dio e delle costruzioni dottrinali che ne sono risultate, ma nello sforzarci, basandoci su queste testimonianze, di rifare lo stesso percorso per scoprire il contenuto esistenziale di questa relazione tra Lui e ognuno di noi, al fine di dare un contenuto vivo all'incontro con l'Unico.
Esistono momenti privilegiati in cui lo spirito dell'uomo si trova in presenza di Colui che ha come unica determinazione quella di Essere. Questo incontro dell'intelletto umano con l'Essere che è solo Essere può essere paragonata alla visione della luce da parte degli occhi del corpo, che risulta immediata; l'intelletto vi si adatta nello stesso modo in cui gli occhi sono predisposti per percepire la luce. Quindi, in presenza dell'Essere nel suo assoluto, l'intelletto riceve una percezione di grandissima intensità, che supera ogni formulazione e ogni concetto comune, ma che comporta un' evidenza che si impone. Una visione di questo tipo è puramente intellettuale, non è collegata ad alcun dogma religioso ed è stata vissuta e testimoniata da molti filosofi.
È importante mettere in evidenza che, in un incontro di questo tipo, l'Essere assoluto percepito dall'intelletto è privo di ogni dimensione relazionale con l'uomo. Di fronte all'assoluto dell'Essere, l'esistenza umana diventa un granello di sabbia. È impensabile che possa esistere una qualunque relazione tra queste due realtà così diverse. È quindi necessario dissociare la relazione vissuta dai fedeli appartenenti alla discendenza di Abramo da questo Unico, oggetto del loro amore, che è radicalmente opposto all'Unico percepito dall'intelletto, nei confronti del quale non sembra possibile nessun legame. Nel caso della fede abramica, «Colui che è al di là di tutto» è unico nella relazione d'amore. Nel caso della visione intellettuale, Egli è unico in una percezione razionale.
Esistono anche situazioni, suscitate questa volta dall'azione di coloro che ci circondano, in cui ci sentiamo invasi dal sentimento di una presenza, invisibile ma molto reale. Situazioni in cui ci troviamo di fronte a un Essere totalmente diverso da noi. Questo tipo di percezione aggiunge alla precedente la dimensione di persona a Colui che si è manifestato in questo modo. Quando, trascinato dalla comunità con cui prega, il fedele diventa cosciente di trovarsi, lui e quelli che lo circondano, davanti a una Persona che non ha nulla in comune con quello che possiamo conoscere e che supera tutto ciò che l'uomo è capace di percepire, allora nasce il sentimento fortissimo della scoperta di Qualcuno che non si può commisurare con il nostro universo.
L'invocazione musulmana «Allahu akbar» esprime abbastanza bene questo sentimento che il fedele può vivere naturalmente nelle moschee. In una percezione di questo tipo, però, Colui che viene scoperto come un Essere totalmente diverso da noi non sembra dimostrare alcun interesse per il fedele prostrato ai suoi piedi. È unico, ma questa unicità è quella di un Essere totalmente diverso da noi, e nei suoi confronti il solo atteggiamento possibile è l'adorazione e la venerazione assoluta. Davanti a Lui, la nostra persona umana scompare, in quanto l'Essere dell'Uno è incommensurabile rispetto alla fragilità dell' esistenza umana. Ciò che viene allora vissuto dal credente può essere percepito in questi due versetti del Corano: «Dì: "Egli, Dio, è uno, Dio, l'Eterno"» (Corano CXII, 1-2).
Tuttavia è infine possibile un incontro con Lui, l'Essere assoluto unico, ma che è anche Colui che si rivolge a me in un dialogo che mi fa esistere in una dimensione totalmente nuova, quella del suo amore. Ecco cosa scrive Agostino, futuro vescovo di Ippona, dopo aver vissuto questo incontro:
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00mercoledì 4 febbraio 2009 18:36
 

«Che il mio cuore e la mia lingua ti lodino e che tutte le mie ossa dicano: "Chi, Signore, ti è pari?" Rispondimi, dì alla mia anima: "Sono lo, la tua salvezza!" Quale lo? Cosa c'è nel mio essere, azioni o, se non azioni, parole, o se non parole, volontà, che non sia male? Tu, al contrario, Signore, Tu fosti buono, misericordioso, sondando con la tua destra la profondità della mia condizione di morte e prosciugando nel fondo del mio cuore l'abisso della corruzione» (Confessioni, libro 9).

Con molta discrezione, Blaise Pascal conservava, piegato all'interno della fodera del vestito, il memoriale della sua estasi della sera del 23 novembre 1654:
«Fuoco, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei Filosofi e dei sapienti, certezza, certezza, sentimento, gioia, pace...
Mi sono separato da Lui, l'ho fuggito, rifiutato, crocifisso. Che io non sia mai separato da Lui!»
(Pensieri).

Infatti è estremamente difficile esprimere con le parole l'intensità di questo incontro. Quando il profeta Elia viene condotto sulla cima dell'Oreb per vivere lo stesso incontro, avverte questa presenza al di là dell'uragano, al di là del terremoto e al di là del fuoco, e quindi al di là di una realtà sensibile, in una voce diventata «silenzio incisivo» (1 Re 19,11-12).
Tanto più che è necessario mantenere, in questa relazione, una trascendenza, una differenza radicale tra «Colui che è al di là di tutto» e la persona umana. Come nota con una grande finezza l'esegeta Benno Jacob, «"Dio ha parlato" non è un antropomorfismo minore di "la mano di Dio"» (1). Anche se la distanza infinita tra Dio e l'uomo permette a quest'ultimo di sentire una voce, la forma più spirituale di tutte le percezioni sensibili, questa voce, in realtà, non può che assumere la forma del silenzio che lascia posto alla sola presenza, percepita al di là di ogni sensazione.
Ogni affermazione umana su Dio comporta un' affermazione di sé che stabilisce una certa misura comune con Dio. Quindi conviene lasciare totalmente a Dio l'iniziativa dell'incontro con l'uomo. «Sappi, diceva al-Hallaj, che l'uomo che proclama l'unità di Dio afferma se stesso. Ora, affermare se stesso significa associarsi implicitamente a Dio. In realtà, è Dio stesso che proclama la Sua unità attraverso la bocca della creatura umana che Lui ha scelto» (2).
Questo è il motivo per cui molti mistici insistevano sul cammino dell'ignoranza e della notte, senza cui nessuno può
avvicinarsi a Colui che è più di ogni parola e di ogni conoscenza. Anche prima che Giovanni della Croce formulasse questo consiglio: «Per arrivare a ciò che non conoscete, dovete percorrere vie che non conoscete» (3), anche un mistico musulmano, al-Niffari, insegnava la via dell'ignoranza: «Mi fermò nella notte e mi disse: "Se la notte viene a te, fermati tra le sue mani, accogli l'ignoranza e attraverso l'ignoranza caccia da me il sapere dei cieli e della terra. Se lo farai, mi vedrai scendere". L'ignoranza è davanti al Signore, e quando viene il Signore, l'ignoranza è il suo velo. Solo l'ignoranza è conoscibile» (4).
Per concludere questa riflessione preliminare sull'incontro con l'Unico, mi sia permesso citare due strofe del cantico di La notte oscura di Giovanni della Croce, tradotte da padre Cipriano nel XVII secolo:

«In segreto sotto il mantello nero
della Notte, senza essere visto,
o potessi non vedere
nessun oggetto della vista,
senza guida, né luce
se non la lampada ardente nel mio cuore.
«O Notte che mi porti sulla retta via!
Notte più bella dell' aurora!
Notte felice che ha riunito
l'Amata all' Amato, ma anche
quella che l'Amore ha formato,
e nel suo Amante trasformato» (5).

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00mercoledì 4 febbraio 2009 18:37
 

Le vie della conoscenza

Nel momento in cui la nostra esistenza personale ha un inizio, quell'attimo in cui si sono incontrate le due cellule provenienti da un uomo e da una donna, ciascuno di noi è «condannato» a costruire e a sviluppare la sua essenza. Questo implica, in particolare, che dobbiamo imparare. Nel nostro statuto originario, esiste solo la possibilità di acquisire ciò che ci permette di diventare esseri umani compiuti. Anche se abbiamo nel nostro cervello circa cinque miliardi di neuroni, se non li strutturiamo attraverso l'apprendimento del linguaggio e delle altre forme del pensiero, resteremo in una condizione inferiore a quella umana.
È importante prendere atto che questo apprendimento non è possibile senza l'intervento di altri esseri umani. Dagli altri impariamo a parlare, a contare, a leggere, a scrivere... Nel XVIII secolo, un re di Prussia voleva dimostrare che il tedesco era la lingua universale presente in ogni essere umano. Aveva fatto allevare tre orfani con il divieto di rivolgere loro la parola. I tre bambini morirono giovani e senza alcuna manifestazione di linguaggio o di intelligenza. Adesso sappiamo che, senza apprendimento, l'essere umano non sviluppa un linguaggio e che, senza linguaggio, non c'è il pensiero.
Paragonato agli altri mammiferi, l'essere umano è quello che, alla nascita, ha meno strutture innate ma che, al contrario, possiede la capacità maggiore di acquisire conoscenze. Tuttavia, questa acquisizione di conoscenze ci forma e ci determina in modo tale che diventiamo incapaci di tornare alla situazione originaria. All'inizio del XX secolo fu scoperto in India un ragazzo, adolescente, che camminava come un quadrupede ed emetteva i suoni degli animali che lo avevano allevato. Risultò impossibile insegnargli a camminare in posizione eretta e ancora meno fargli pronunciare parole umane: Quindi l'acquisizione delle conoscenze è necessaria, ma, allo stesso tempo, questa acquisizione determina e in seguito limita le possibilità iniziali.
Da ciò deriva una certa nostalgia per la condizione originaria, in cui tutto era ancora possibile, senza il peso di quello che, poco a poco, ha segnato la vita dell'uomo: «Molta sapienza, molto affanno: chi accresce il sapere, aumenta il dolore» (Ecclesiaste 1, 18).
«Tutto ciò che esiste di piccolo e tutto ciò che esiste di più bello e di più grande.
Tutto ciò che esiste di nuovo e tutto ciò che esiste di più bello e di più grande. [...]
In quello che comincia c'è una sorgente, una razza che non ritorna.
Una partenza, un'infanzia che troviamo, che non si ritrova mai più» (6).

Accade per la conoscenza ciò che avviene per le cellule che formano il nostro corpo: alle cellule totipotenti iniziali, che contengono ognuna la totalità della nostra identità genetica, succedono cellule specifiche destinate a costituire le ossa, il sangue, i molteplici organi. Così, i nostri neuroni iniziali, per il solo fatto dell'apprendimento di una lingua, si trovano messi in relazione gli uni con gli altri in modo definitivo e irreversibile.
Esiste un'altra caratteristica della conoscenza umana: la necessaria mediazione operata dai sensi. Secondo il famoso adagio dei maestri del Medioevo: «Non esiste nulla nell'intelletto che prima non sia esistito nei sensi». Tutto il contenuto del nostro pensiero risulta da una percezione sensibile. In un certo modo, l'intelligenza si trova imprigionata dal corpo.
Nel pensiero greco, il corpo (soma) è una tomba (sema) per il principio psichico (psyché), in cui si trova la nostra capacità di conoscere.
È vero che, per la maggior parte delle nostre conoscenze, l'acquisizione passa attraverso le nostre percezioni sensibili. Esistono però alcune situazioni che non possono essere spiegate con la sola percezione sensibile che le precede. Le teorie formulate nel corso degli anni per tentare di spiegare queste conoscenze extrasensoriali sono numerose e talvolta contraddittorie. Non cercherò di presentarle o di giustificarle in questa sede. In un primo momento, mi sembra più utile esaminare le conseguenze di una conoscenza che possiamo acquisire, nella quasi totalità dei casi, solo attraverso percezioni sensibili.
Nella misura in cui ciò che arriva alla nostra intelligenza passa in generale attraverso i sensi, quello che ci viene trasmesso in questo modo conserva i caratteri della realtà sensibile attraverso la quale li riceviamo. L'analisi della conoscenza umana compiuta dal filosofo greco Aristotele vale ancora oggi per noi: poiché conosciamo attraverso le nostre percezioni sensibili, sono le realtà sensibili, cioè materiali, le basi su cui fondiamo le parole, i concetti e le idee che, progressivamente, strutturano la nostra intelligenza.
Questo riferimento iniziale e strutturante alle realtà sensibili e materiali comporta una duplice conseguenza per ciò che riguarda una possibile conoscenza di ciò che è al di là del mondo percepito con i sensi. Da una parte, alcune realtà che implicano una certa astrazione, come i concetti di essere, bene, unità e addirittura verità si trovano costruite dal pensiero in riferimento alla realtà sensibile. Dall' altra parte, gli esseri spirituali di cui l'uomo presuppone l'esistenza (angeli, geni, dei e demoni) possono essere definiti solo in riferimento ai concetti astratti elaborati dall'intelligenza. (7)
La dimostrazione delle difficoltà incontrate dalla struttura terrena della nostra conoscenza ci è data dalla recente evoluzione delle conoscenze cosmologiche. Per molto tempo i fenomeni relativi agli astri sono stati studiati prendendo come riferimento la geometria basata sul postulato di Euclide: per un punto preso fuori da una retta si può disegnare una sola linea parallela a quella retta. In realtà le radiazioni cosmiche non sono conformi a questa geometria e, per stabilire la teoria della relatività generalizzata, Albert Einstein si è basato su geometrie non euclidee, pure immaginazioni dello spirito geometrico e senza legame con l'esperienza quotidiana. Certo, come suggerisce Einstein, «Quello che è incomprensibile, è che il mondo sia comprensibile», ma ciò non toglie che la forma abituale della nostra capacità di conoscere resti limitata. Una parte importante delle attività umane è dedicata all'elaborazione di mezzi tecnici e di strumenti che permettano ai nostri sensi (soprattutto la vista e l'udito) di accedere a ciò che per loro risulta normalmente inaccessibile. Ma, notiamolo bene, non esistono apparecchi per vedere o sentire «Colui che è al di là di tutto»!

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:37
Di conseguenza l'uomo è condannato a servirsi dei mezzi di cui dispone, il linguaggio e il pensiero, per sviluppare le sue conoscenze. Qui ci interesseremo solo al concetto di unità, in quanto costituisce il punto centrale della nostra riflessione. Prima di cercare di associare il concetto di unità o di unico alla Persona divina, che cosa sappiamo? Cosa significa per noi questa realtà che chiamiamo «uno»? .
A livello dell'aritmetica, esistono libri che si sono sforzati di definire l'uno. Nelle scienze della materia, gli studiosi, in questi ultimi secoli, hanno cercato di approfondire la conoscenza dell'atomo, l'unità indivisibile alla base di tutto ciò che
esiste nel nostro universo. Per poi giungere alla conclusione che l'atomo era comunque un insieme di elementi, a loro volta composti da particelle ancora più elementari. Tutto questo mette in evidenza un bisogno fondamentale di scoprire l'unità che costituisce la materia, ma senza mai arrivare a comprenderla.
Partendo da questa riflessione, possiamo cogliere tre livelli del concetto di unità:

- l'unità come elemento costitutivo essenziale, ma non apparente, di una realtà che esiste di per se stessa;
- l'unità quantitativa di una realtà o di un fatto. Unità che è paragonabile ad un'altra, e si tratta allora di similitudine; oppure, al contrario, che è distinta dalle altre, e si tratta allora di singolarità;
- l'unità qualitativa o affettiva di una persona o di una realtà, che mette in evidenza il legame esclusivo che ha come origine l'amore tra due esseri.

Le lingue semitiche, a differenza di altre lingue, non si preoccupano di utilizzare termini distinti per indicare i diversi sensi. La traduzione della stessa parola ebraica o araba che significa «uno» richiede in altre lingue (nella versione originale «in francese», n.d.t.) alcune aggiunte definite dal senso generale della frase.
Nella traduzione del libro della Genesi, in cui la parola ebraica «uno» compare una cinquantina di volte, la Bibbia di Gerusalemme presenta le seguenti espressioni: «uno solo» (undici volte), «uno stesso» (nove volte), «uno solo e stesso» (una volta), «uno tra altre realtà simili» (quattordici volte), «primo» (sei volte) e, in maniera occasionale: «qualunque», «ogni», «qualche», o ancora «gli stessi» (nei passaggi in cui il termine «uno» è al plurale). Nel Cantico dei Cantici (6,9), il termine ebraico «uno» è usato nel senso di un legame d'amore, e viene quindi tradotto con «unico». Nel racconto del sacrificio di Abramo, l'affetto di quest'ultimo per il figlio Isacco è espresso con un termine che ha la stessa radice e viene tradotto con «unico». Vedremo nel prossimo capitolo la portata che è possibile dare all' affermazione del Deuteronomio: «Il Signore è uno solo» (6,4).

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:37
Nel Corano avviene sensibilmente la stessa cosa. Il termine «uno» è utilizzato circa settantacinque volte e indica in primo luogo «un individuo» con un'identità non precisata (venticinque volte), oppure «uno tra gli altri» (trentasei volte) o «chiunque». Come nel Deuteronomio, il concetto di Uno viene applicato ad Allah (CXII, 1): «Dì: "Egli, Dio, è uno"». Questo versetto, come quello della Bibbia, ha dato luogo a molteplici interpretazioni.
Un altro termine con la stessa radice, tradotto uniformemente con «unico», viene usato più di trenta volte per qualificare Allah, anche se questa parola contiene anche un senso corrente; così, gli ebrei nel deserto non sopportano più il cibo dato da Dio (la manna) perché è «unico» (II, 61), cioè uniforme e ripetitivo.
La lingua greca possiede due concetti distinti per indicare l'unità. Il primo, più generico, comprende la stessa area di senso dei termini ebraici e arabi: «uno» nel senso quantitativo e quindi, a volte, «uno tra gli altri» (l'uso più frequente), o insistendo sull'spetto singolare «uno solo». Nei quattro Vangeli, troviamo occasionalmente «qualcuno», «l'altro», «ognuno», «primo», o ancora «unità». Il secondo concetto (monos) è meno utilizzato (diciannove volte nei quattro Vangeli) e viene sempre tradotto con «solo». In un versetto (Vangelo di Giovanni 5,44) alcuni traduttori l'hanno reso con «unico», facendone una lettura teologizzante (vale solo per il francese, perché in italiano viene reso con "solo",
n. d. t.).
Questa breve analisi dei testi fondatori mette in evidenza da una parte la loro grande dipendenza dalle realtà e dalle situazioni concrete, in quanto uno stesso termine può assumere significati abbastanza diversi a seconda del contesto, e, dall'altra parte, la difficoltà di attribuire a questi termini un senso preciso quando sono riferiti a Dio. «Colui che è al di là di tutto» è Uno in modo qualitativo, come unico oggetto di adorazione e di culto? È Uno perché è il primo, anche se esistono altre divinità dopo di Lui? È Uno perché è il Solo?
Constatiamo, una volta di più, i limiti del linguaggio umano che, strutturato a partire dalle percezioni sensibili, continua a dipendere dalla percezione espressa da questo stesso linguaggio. Quale può essere il senso delle stesse parole quando non esiste più percezione sensibile? Quando il linguaggio umano si sforza di descrivere quello che è al di là di qualsiasi sensazione, il pensiero umano non è più sostenuto dal criterio di verità che fa riferimento al reale sensibile.
Tuttavia, e questo è reale, alcuni uomini hanno «sentito» parlare, usando i termini della vita quotidiana, «Qualcuno» che diceva loro parole la cui verità si è manifestata in seguito in avvenimenti che si sono realizzati dopo essere stati annunciati. Quale conoscenza può avere di Dio il profeta, colui che parla in Suo nome? È quello che dobbiamo analizzare ora.

Un pensiero capace dell'infinito

Prima di affrontare la modalità di conoscenza profetica, è utile analizzare le vie attraverso le quali l'uomo scopre un qualcosa al di là delle realtà sensibili. Un superamento di questo tipo può essere osservato, in primo luogo, nell'universo della matematica e, in secondo luogo, per mezzo di un ragionamento di tipo metafisico, grazie al quale l'intelletto è in grado di comprendere che la realtà percepita come sottoposta al cambiamento e alle mutazioni non può esistere senza la presenza sottostante di una realtà stabile e permanente.
Un ragionamento simile, che permette al pensiero di superare le percezioni sensibili, non è una conseguenza della struttura dei cromosomi e dei geni umani, e nemmeno di quella dei neuroni cerebrali. Infatti queste strutture appartengono a un universo finito - anche se possediamo più di tre miliardi e mezzo di nucleotidi e più di cinque miliardi di neuroni
- mentre il pensiero porta in sé una capacità aperta sull'infinito. Conviene quindi riconoscere che questa capacità di pensare è al di là di ciò che è individuabile e misurabile nell'essere umano.

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:38
Il concetto di infinito è, in primo luogo, una creazione dello spirito matematico. Nell'algebra, la funzione inversa permette di dimostrare che, su ogni segmento di retta, esiste un numero infinito di punti. Allo stesso modo, in ogni porzione di piano esiste un numero infinito di rette e, in qualsiasi volume, si trova un numero infinito di piani. Il ragionamento matematico ci permette di scoprire la possibilità, per l'intelligenza, di pensare l'infinito senza il supporto di un'immagine o di una rappresentazione.
Si tratta di un ragionamento che consente al pensiero di compiere un'astrazione da tutto ciò che è osservabile quantitativamente. Uno stesso ragionamento permette al nostro pensiero di astrarre da tutto ciò che è oggetto di percezione, per raggiungere un'altra dimensione della realtà.
Anche se non si tratta di un atto permanente compiuto da tutti, l'intelligenza umana possiede la possibilità di stabilire razionalmente che al di là di tutto quello che possiamo percepire con i sensi esiste una realtà che non è sottoposta alla mutazione e al cambiamento. Questa presa di coscienza è similare a ciò che avviene per la matematica: alcuni sono più dotati di altri, ma l'insieme delle possibilità appartiene alla natura umana. Ci sono persone che sono capaci di fare solo delle addizioni, e altre che possono avventurarsi negli universi non euclidei o in spazi a più di tre dimensioni. Allo stesso modo, ci sono quelli che restano incapaci di riflessioni profonde, e altri che sviluppano personalmente un pensiero metafisico che sanno esprimere in un linguaggio talvolta complesso, che la loro mente scopre al di là del mondo sensibile.
La realtà scoperta in questo modo dal pensiero umano come «ciò che è al di là di ogni cambiamento» è concepita allo stesso tempo come l'Essere unico, in quanto da una parte questa realtà sfugge a ogni fenomeno di mutazione generazione, crescita, degenerazione - e dall' altra risulta perfettamente omogenea: non esiste in essa nessuna parte. Come ho già segnalato nell'introduzione, si tratta di un atto dell'intelligenza paragonabile alla visione: l'intelligenza si trova faccia a faccia con l'Essere unico, che ha come unica caratteristica quella di essere in modo assoluto e senza alcun legame riconducibile alle nostre percezioni abituali.
Tra i grandi pensatori e filosofi dell' Antichità, questa visione dell'Essere unico è stato in particolare l'oggetto degli scritti di Plotino. Ne accoglieremo questo dato importante per il nostro studio: la percezione dell'unicità dell'Essere assoluto riguarda essenzialmente la ragione umana, senza bisogno
di far ricorso a una «rivelazione», qualunque sia la sua forma.
Questa scoperta dell'Essere unico da parte del pensiero ha costituito il fondamento di molte esplicitazioni. Infatti, ancora prima di costruire una teologia a partire dalla fede cristiana, il domenicano Tommaso d'Aquino dedica tutto uno studio razionale all'Essere di Dio, alla sua semplicità, alla sua perfezione, alla sua infinitezza, alla sua eternità e unità (8), sulle basi del ragionamento filosofico.
Tutto questo procedimento costituisce, in realtà, l'esplicitazione di quello che l'apostolo Paolo scriveva ai cristiani di Roma: «Poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Lettera ai Romani 1,19-20).
Tuttavia, la percezione dell'Essere unico da parte del pensiero non provoca nessun cambiamento nello statuto dell'uomo. Al contrario, questa scoperta dell'Essere assoluto fa apparire con ancora maggiore intensità la fragilità e la finitezza dell'essere umano e di tutte le realtà sensibili. In base a questo procedimento razionale, non potrebbe esserci nessuna relazione tra l'Essere unico e la creatura umana. L'affermazione «Dio parla agli uomini» è del tutto estranea al concetto dell'Essere unico. Nel pensiero del filosofo Aristotele, questo Essere unico non è nemmeno il Creatore, in quanto è solo per il fatto di essere oggetto del desiderio che questo Essere perfetto mette in movimento l'insieme del mondo visibile.
Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:38
Affermando che l'Essere unico che è al di là di ogni cambiamento è una Persona che è allo stesso tempo creatrice dell'universo e fonte di una parola rivolta agli uomini, la fede religiosa apre il pensiero umano su una realtà radicalmente diversa, senza legami con il ragionamento logico. È consentito pensare che la dimensione personale che viene quindi attribuita all'Essere unico sia una trasposizione della dimensione personale dell'uomo - e in tal caso sarebbe come un'esplicitazione di questo procedimento che è all'origine delle religioni fondate su una rivelazione-Parola di Dio. Ciò non toglie che si tratti di un'affermazione radicalmente nuova, senza fondamento logico e senza legame razionale con il pensiero dei filosofi e dei metafisici che hanno sempre sostenuto la mancanza di comunicabilità tra l'uomo e l'Essere unico.
Quando la Torah proclama che «il Signore è uno solo» (Deuteronomio 6,4), o quando il Corano afferma che «Egli, Dio, è uno» (CXII, 1), queste affermazioni hanno come scopo fondamentale di costruire un legame tra la Persona di Allah o di Yahweh, percepita dal credente da un punto di vista personale, e l'Essere unico percepito dalla ragione, indipendentemente dalla fede. Infatti è vitale che venga stabilito un legame tra la ragione e la religione, al fine di mantenere l'unità della persona umana.
Si tratta in questo caso di una delle esigenze del pensiero umano: mantenere nei limiti della logica e del ragionamento tutto ciò che viene vissuto e provato sia nell'ambito del mondo sensibile che nell'ambito di ciò che è puramente soggettivo.
Questa esigenza è presente anche nel settore della scienza: la fisica cosmica, strutturalmente non euclidea, è stata messa in relazione con le geometrie non euclidee; allo stesso modo, le scoperte della fisica quantistica sono state «spiegate» con nuove teorie sulla luce. Così, l'esperienza vissuta di una relazione con una Persona che sfugge alle limitazioni del nostro universo fisico non aveva altra possibilità che essere messa in relazione con la capacità del pensiero umano di percepire l'Essere unico al di là di qualsiasi mutazione.
Questa comprensione della relazione tra il pensiero razionale e la fede religiosa non mette per nulla in causa l'esistenza reale dell'oggetto del pensiero e della fede. Si tratta solo di una constatazione che fa emergere la diversa origine delle due componenti del termine «monoteismo»: il primo elemento si riferisce a una percezione razionale, quella dell'unicità dell'Essere assoluto, mentre il secondo all'incontro soggettivo con una Persona chiamata Dio. È importante, per il seguito della nostra riflessione, sottolineare questa differenza, che molto spesso viene ignorata.
Partendo da questa constatazione, è possibile precisare i procedimenti umani e (in quanto facenti parte della realtà) divini che sono all'origine dell'incontro e portano al suo compimento, con molteplici forme ed espressioni, tra una Persona che appartiene alla realtà invisibile e un essere umano inserito nella realtà sensibile? All'origine di questi incontri scopriamo alcune testimonianze molto diverse all'interno della maggior parte delle civiltà: dai Veda e dagli Upanishad in India ai testi delle piramidi in Egitto, senza dimenticare i molti oracoli degli dei della Mesopotamia e della Grecia. Le persone umane cui vengono attribuiti questi insegnamenti, ricevuti e sentiti come provenienti dall' aldilà, hanno nomi molto vari a seconda delle civiltà e delle religioni: profeti, veggenti, indovini, sibille, messaggeri, ispirati, iniziati, ecc. Ciò che ricevono in alcuni casi arriva in modo imprevisto e involontario, mentre in altri casi viene ricercato e suscitato con tecniche molto diverse.
Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:39
Benché sia il filosofo che il profeta appaiano come sostenitori di una stessa scoperta - ciò che sta al di là della realtà sensibile e mutevole - quello che essi trasmettono viene ricevuto dalla comunità umana in modo radicalmente diverso: il profeta può giustificare la verità del suo messaggio solo grazie a elementi esterni a questo messaggio, mentre il filosofo - Socrate ne è l'esempio più noto - si sforza di suscitare nel discepolo la stessa scoperta che, proprio grazie a questo procedimento, manifesta la sua autenticità.
Nella maggior parte dei casi, il profeta afferma la verità del suo insegnamento aggiungendovi l'annuncio di un avvenimento futuro, sconosciuto ai suoi ascoltatori e dotato di una dimensione spettacolare. È così che il profeta Geremia invita i suoi contemporanei a distinguere le vere profezie: «Quanto al profeta che predice la pace, egli sarà riconosciuto come profeta mandato veramente dal Signore soltanto quando la sua parola si realizzerà» (28,9). Anche il Deuteronomio insegna a distinguere: «Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l'ha detta il Signore; l'ha detta il profeta per presunzione: di lui non devi aver paura» (18,22).
Molto spesso, il messaggio del profeta implica una parte di insegnamento che dipende dalla ragione; in questo caso è difficile separare ciò che deriva da una conoscenza profetica e ciò che proviene dalla sola intelligenza o da un insegnamento ricevuto precedentemente.
Per quanto riguarda l'accoglienza riservata al testo del Corano da parte dei contemporanei di Muhammad, l'assenza di annunci di avvenimenti futuri o di miracoli volti ad autenticare il messaggio viene giustificata con due ragioni significative. Da una parte, il Corano si limita a ridire ciò che è già stato trasmesso agli uomini nei testi precedenti che sono stati rivelati: «Ora, quando vengono recitati loro i Nostri Segni chiarissimi dicono coloro che rinnegano la Verità che è loro giunta: "Questa è magia manifesta!" [...] Dì: "Io non sono un novatore fra i Messaggeri"» (XLVI, 7,9).
D'altra parte, l'assenza di prove è giustificata con l'inefficacia di quelle portate precedentemente: «E quel che ci impedì di mandare ancora te con Segni di miracolo, fu solo l'aver gli antichi smentito quei Segni. [...] Così, Segni ne invieremo solo a terrore del mondo» (XVII, 59).
In molti versetti, il Corano non fa che ricordare la condanna e i castighi destinati a coloro che rifiutano di credere alle parole trasmesse da Muhammad. Questo atteggiamento è osservabile ancora ai giorni nostri, in quanto coloro che si presentano come portatori di un messaggio che proviene da Dio fanno parte dell'attualità. Sia che il contenuto dell'insegnamento risulti legato a correnti religiose preesistenti, sia che si presenti come radicalmente nuovo, si tratta sempre, con mezzi diversi, di provare l'autenticità di ciò che viene annunciato. In questo ambito, la credulità umana appare spesso priva di ogni razionalità. Molto spesso, e addirittura troppo spesso, la convinzione si basa solo sul sentimento affettivo o sulla pressione sociale.
L'esistenza di una comunità che condivide la stessa convinzione religiosa non è quindi sufficiente per fornire un fondamento razionale alla verità dei fatti e degli scritti a cui aderiscono i membri di quella comunità.
Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:39
Nel Vangelo di Giovanni, la giustificazione che Gesù porta a sostegno della verità delle sue parole si basa su di un altro modello: non è più grazie ai miracoli compiuti che il suo messaggio si trova autenticato - come avviene, per esempio, nel Vangelo di Marco, a proposito del perdono dei peccati e della guarigione del paralitico di Cafarnao. Nel Vangelo di Giovanni, ciò che suscita l'adesione o il rifiuto degli ascoltatori di Gesù, è in primo luogo la verità del loro essere interiore: «Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio» (8,46-47).
L'uomo risulta essere nella giusta disposizione per ricevere il messaggio non grazie a delle prove, ma in ragione del suo comportamento rispetto alla verità e alla luce di Dio: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Vangelo secondo Giovanni 3,19-21).
Addirittura prima che il messaggio raggiunga un uomo, Gesù invita a prendere coscienza della disposizione, precedente all'incontro, che gli permette di accogliere o di rifiutare ciò che gli è annunciato.
L'esempio più significativo, all'inizio della predicazione del Vangelo, è quello del centurione romano Cornelio, residente a Cesarea di Palestina. Questo pagano, che vive rettamente, prende l'iniziativa di far venire l'apostolo Pietro per ricevere l'annuncio del Vangelo. La sua adesione, evidentemente, precede l'ascolto dell'insegnamento che l'apostolo Pietro gli trasmette da parte di Dio.
Anche se ricevuta da un messaggero, la scoperta della dimensione personale di «Colui che è al di là di tutto» mette in evidenza la capacità del pensiero umano di percepire diversamente l'Infinito esistenziale, dote irrazionale, ma attestata comunque da tutta la storia delle religioni. Non più come l'Essere unico, ma come «Colui che entra in relazione con l'uomo».
Il pensiero filosofico ci fa scoprire l'Infinito razionale, mentre il messaggio profetico ci fa scoprire l'Infinito irrazionale. L'analisi dei grandi testi fondatori, orientata dalla realtà di questi due aspetti dell'Infinito esistenziale, ci permetterà di stabilire le caratteristiche di questo Essere personale che è entrato in relazione con l'uomo.
Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:39
 

Colui che entra in relazione con l'uomo

Non è il caso, in questo studio, di rifare un'analisi - che non potrebbe mai essere esauriente - delle molteplici testimonianze che mettono in evidenza la scoperta, di questo o di quell'individuo, di un' attenzione particolare da parte di «Colui che è al di là di tutto» nei suoi confronti. I testi che raccontano esperienze di questo tipo sono molto numerosi, e ogni anno ne vengono pubblicati di nuovi. Nella maggior parte dei casi, l'intuizione iniziale è stata inserita in un ragionamento logico e talvolta è difficile ritrovare le componenti della percezione originaria.
Nel corso del tempo, i testi fondatori di molte religioni sono stati strutturati dai teologi in nome dell'intelligenza e della ragione e, proprio per questo, si trovano ad essere molto distanti dall'esperienza vissuta dal fondatore. Ogni scienza teologica, introducendo nell' elemento iniziale una riflessione razionale, modifica in profondità tutto ciò che può esserci d'irrazionale nella scoperta di «Colui che è al di là
di tutto e che comunque entra in relazione con me».
Per rendersi conto di questo fenomeno, è sufficiente paragonare i racconti biblici della tradizione ebraica o della tradizione cristiana con, per esempio, la Somma teologica di Tommaso d'Aquino. Questo permette di capire come alcuni nostri contemporanei, preoccupati in primo luogo di coerenza, manifestino una certa delusione alla lettura della Bibbia o del Corano. Questi testi ci trasmettono una realtà vissuta in unione con situazioni concrete, situazioni che lasciano trasparire la presenza e l'intervento di una Persona che non appartiene allo scenario abituale della nostra esistenza.
Tuttavia, il profondo desiderio del pensiero umano di dare agli avvenimenti presentati in questo modo una forma più accettabile nei confronti delle regole della ragione, in alcuni casi ha spinto i redattori a fornire un'interpretazione personale dei fatti che trasmettevano. Ecco quindi che il censimento ordinato dal re Davide e l'epidemia di peste che si è verificata subito dopo (Secondo libro di Samuele 24) hanno dato luogo a interpretazioni sull'identità del promotore di questo censimento, al fine di dimostrare che la peste ne costituiva la conseguenza.
Per quanto riguarda il soggetto del nostro studio, è importante cercare di ritrovare qual è stata, a partire dalla persona di Abramo, la relazione vissuta con questa divinità protettrice che si è impegnata in una relazione di alleanza con lui. Questa relazione è all'origine, come abbiamo accennato nell'introduzione, delle tre principali religioni monoteiste: il Giudaismo, il Cristianesimo e l'Islam.
Il racconto dell'incontro tra Dio e Abramo, come l'ha trasmesso il libro della Genesi, comincia in modo brusco, con l'ingiunzione di Dio che ordina ad Abramo di mettersi in cammino, ingiunzione cui si aggiunge una promessa di benefici:

«Il Signore disse ad Abramo: "Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione"» (Genesi 12,1-2).

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:40
Nella Genesi non viene detto nulla a proposito di una preparazione a questo incontro, né dei motivi che spingono Dio ad agire così, cosa che faranno invece i testi più tardi, soprattutto quelli relativi al popolo ebraico. Il bisogno di dare una dimensione monoteista a questo primo incontro tra Dio e Abramo appare prima di tutto nel Targum, traduzione e commento in aramaico della Bibbia ebraica: Abramo riceve da Dio l'ordine di «andarsene dalla sua patria e dalla casa di suo padre» perché i suoi familiari sono idolatri. Abramo porta con sé non solo ciò che possedeva, ma anche le anime di coloro che aveva convertito alla fede nel Dio unico. (9) Questo proselitismo di Abramo, anche prima dell'intervento di Dio, è insegnato dal Talmud: «Se tutti coloro che vivono in questo secolo si riunissero per creare una zanzara e infonderle un'anima, non riuscirebbero a farlo; apprendiamo invece che Abramo, nostro padre, li fece proseliti e li introdusse sotto le ali della Shekinah» (Sifre Deuteronomio 5; 32; 65).
Secondo la tradizione coranica, Abramo, protetto da Allah, è costretto a lasciare il suo paese per aver rovesciato,e distrutto gli idoli del suo popolo e di suo padre: «E già da prima demmo ad Abramo rettitudine, poiché ben lo conoscevamo, allorché disse a suo padre e al suo popolo: "Che cosa sono questi simulacri ai quali voi siete devoti?" [...] E li ridusse in pezzi tutti. [...] Ed essi gridarono: "Bruciatelo, e soccorrete così i vostri dei, se volete fare qualcosa!" [...] E salvammo lui e Lot, portandoli alla terra benedetta da Noi per tutte le creature» (XXI, 51-52.58.68.71).
Queste interpretazioni successive relative al primo incontro tra Abramo e Dio mettono in evidenza la tendenza profonda che porta ad associare a questo incontro la percezione fondamentale dell'Essere unico, percezione che inizialmente non è presente. Ancora per molto tempo il popolo ebraico riconoscerà Dio come il suo unico Dio, senza però escludere l'esistenza di altri dei protettori di altri popoli: «Quando l'Altissimo divideva i popoli, quando disperdeva i figli dell'uomo, Egli stabilì i confini delle genti secondo il numero degli Israeliti. Porzione del Signore è il suo popolo, sua eredità è Giacobbe» (Deuteronomio 32,8-9).
Siamo quindi in grado di capire perché, quando Dio appare a Mosè nel roveto ardente, non si presenta come Colui che ha creato il cielo e la terra, e come il Dio unico, ma come «il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Esodo 3,6). Nella via che Dio desidera far percorrere agli uomini, affinché questi possano scoprirlo davvero, la dimensione della relazione con gli uomini è più determinante dell' affermazione della sua unità.
Durante un certo periodo, la condanna del culto idolatra praticato dai re di Israele o di Giuda ha avuto come fondamento non il fatto che Dio fosse l'unico Dio, ma il fatto che questo culto degli idoli distoglieva il re e il suo popolo dall' alleanza con Dio. Ciò è particolarmente evidente a partire dal regno di Salomone: «Il suo cuore non restò più tutto con il Signore suo Dio come il cuore di Davide suo padre. Salomone seguì Astarte, dea di quelli di Sidone, e Milcom, obbrobrio degli Ammoniti. Salomone commise quanto è male agli occhi del Signore [...] Il Signore, perciò, si sdegnò con Salomone, poiché aveva distolto il suo cuore dal Signore Dio di Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non servire altri dei» (Primo libro dei Re 11,4-5,9-10).
Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:40
Il sacrificio del profeta Elia sul monte Carmelo (Primo libro dei Re 18), in cui Dio viene riconosciuto come il solo Dio di fronte a Baal, non provocherà la scomparsa degli altri dei. Durante l'attacco alla capitale dei Moabiti - l'attuale città di Kerak, in Giordania - gli Israeliti fuggono quando vedono il re di Moab offrire il figlio primogenito in olocausto sulle mura (Secondo libro dei Re 3,27): di fronte a un sacrificio di questo tipo, l'assistenza di Dio non è sufficiente. Fino a quell'epoca, quindi - verso la metà del IX secolo avanti Cristo - viene riconosciuta l'esistenza di altre divinità. Tuttavia, la fedeltà e la fiducia accordate in modo unico a Dio restano le esigenze fondamentali dell' Alleanza, di questo incontro tra Dio e il popolo che discende da Abramo.
Bisogna aspettare il profeta chiamato comunemente il Secondo Isaia - verso la metà del VI secolo avanti Cristo perché sia affermato in modo esplicito che le altre divinità non esistono, in quanto Dio lancia una sfida nei confronti di quelli che pretendono di essere suoi pari: «Così dice il re di Israele, il suo redentore, il Signore degli eserciti: "lo sono il primo e io l'ultimo; fuori di me non vi sono dei [Elohim]. Chi è come me? Si faccia avanti e lo proclami, lo riveli di presenza e me lo esponga. [...] C'è forse un dio fuori di me [Eloah] o una roccia che io non conosca?"» (Isaia 44, 6-8).

«Chi ha fatto sentire ciò da molto tempo e chi l'ha predetto fin da allora? Non sono forse io, il Signore? Fuori di me non c'è altro Dio [Elohim]; Dio [El] giusto e salvatore non c'è fuori di me» (Isaia 45, 21).

È il caso di notare, ma vi ritorneremo, i tre nomi El Eloah e Elohim che in questo testo indicano la realtà di Dio. Sono formati a partire dal termine ebraico el, che significa «la forza», «il potere». Il nome Eloah è da collegare alla parola araba Ilah, tradotto con «divinità»; l'aggiunta dell'articolo arabo al produce la parola al-Ilah che si pronuncia Allah.
La professione di fede nell'unicità di Dio si ritrova dieci volte nel Corano: «Non c'è altro Dio che Lui» (II, 163.255; III, 2.6.18.62; IV, 87; V, 73; IX, 31; XXXVIII, 65). Costituisce il fondamento dell'identità musulmana. Come osserva Louis Massignon, l'affermazione dell'unicità non si riferisce al numero uno, ma l'affermazione dell'unicità di Dio è l'eccezione di una negazione. Anche in questo caso compaiono la posizione occupata dal ragionamento e la distanza che prende una professione di fede di questo tipo rispetto all' esperienza originaria di Abramo, come viene presentata nei primi testi della Genesi.
La lettura di alcuni testi della Bibbia permette di prendere coscienza del fatto che l'unicità di Dio non è ritenuta necessaria per lo sviluppo dell'incontro tra Dio e l'uomo. Infatti, in molti passaggi della Genesi, il pensiero di Dio, soprattutto quando riguarda l'uomo, si esprime al plurale rispetto alla creazione dell'essere umano e all'opera creatrice: «E Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza"» (Genesi 1,26).
La spiegazione che viene fornita normalmente, secondo cui si tratta di un plurale «deliberativo», non vale per il verbo «facciamo». Questa spiegazione non può giustificare l'aggettivo possessivo «nostra», perché, se l'immagine e la somiglianza riguardano Dio, sarebbe richiesto il singolare. L'uomo non può essere allo stesso tempo a immagine e somiglianza di Dio e di quelli (gli angeli?) con cui Dio delibera. Quindi è proprio la personalità di Dio che l'autore della Genesi descrive come plurale.

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:40
Lo stesso ragionamento vale anche per la decisione presa da Dio dopo l'atto di disobbedienza della prima coppia: «Ecco, l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male» (Genesi 3,22). Il pronome «noi»non può riferirsi a Dio e alle creature celesti, in quanto la conoscenza del bene e del male appartiene esclusivamente a Dio. Secondo la spiegazione corrente, questo «noi» è un plurale maiestatis. Un'interpretazione di questo tipo, però, che ha origine dal legame tra un capo di stato e la sua comunità, non può assolutamente riferirsi all'unicità radicale che è attribuita a Dio dalla ragione.
Benché non faccia allusione all'intervento di altri esseri celesti, il plurale viene utilizzato anche per descrivere l'azione di Dio che disperde gli uomini, diventati troppo potenti, che costruiscono una torre fino al cielo: «Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro» (Genesi 11,7). Cosa significa questo uso del plurale, se non che l'autore di questo testo non si preoccupa in nessun modo di affermare l'unicità di Colui che interviene nel suo racconto per colpire gli uomini? L'uso del singolare per descrivere il pensiero di Dio in altri passaggi vicini, come: «Il mio spirito non resterà sempre nell'uomo» (Genesi 6,3), mostra bene l'indifferenza dell'autore o dei diversi autori della Genesi nei confronti di ciò che riguarda l'unicità di Dio.
A questo proposito, il racconto più sorprendente, che ha provocato il maggior numero di commenti e di interpretazioni, è quello dell'incontro di Abramo con i tre uomini che gli appaiono alle Querce di Mamre. In tutto il testo singolare e plurale si alternano per descrivere o per dare la parola a questi tre uomini, che danno corpo a quella che viene presentata come un'apparizione di Dio ad Abramo: «Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. [...] "Se ho trovato grazia ai tuoi occhi [...]". "Lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l' albero"
. [...] "Tornerò da te fra un anno" [...]. Abramo li accompagnava» (Genesi 18,1-16).
Tutto questo ci porta necessariamente a rivolgerci a Lui in un modo in cui le strutture del nostro pensiero non riescono più a definire Colui che, invece, è in relazione con l'uomo. Nella tradizione dei rabbini del II secolo dopo Cristo, il nome divino è indicato come Shem ha-meforash, che dà luogo a interpretazioni contraddittorie. Il participio passivo meforash può avere allo stesso tempo il significato di «rivelato», «spiegato espressamente» o «pronunciato» a chiare lettere. D'altra parte, però, può anche voler dire «separato» o addirittura «occulto». Non è un paradosso da poco per la terminologia religiosa il fatto di utilizzare un solo e unico termine per indicare a volte il nome esprimibile, a volte il nome segreto e occulto. (10)
Avviene la stessa cosa per quanto riguarda l'unicità divina, in quanto il numero uno applicato a «Colui che è al di là di tutto» significa tutt'altra cosa rispetto all'uno della serie dei numeri in aritmetica. Come abbiamo visto, l'unicità divina non viene formulata nel linguaggio umano in riferimento al numero uno, ma introducendo un'eccezione in una negazione con valore universale «Non c'è altro Dio che Lui».
Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:41
Per concludere questo capitolo, vorrei semplicemente fare alcune precisazioni sull'utilizzo del nome Elohim. Si tratta del plurale del nome Eloah che ha come senso principale quello di «divinità». Normalmente, Elohim dovrebbe essere tradotto con il plurale di «divinità». Nella Bibbia è frequente e può avere il senso normale di dei o divinità (come in Esodo 12,12) (11) oppure indicare degli uomini che hanno la responsabilità di governo o di giustizia (come nel salmo 82,6). L'uso più corrente, però, riguarda la persona di Dio. Siccome la parola è al plurale, anche gli aggettivi che la qualificano sono al plurale, ma il verbo di cui è talvolta soggetto resta al singolare. Ne è un esempio il versetto seguente: «Giosuè disse al popolo: "Voi non potrete servire il Signore, perché è un Dio [Elohim] santo, un Dio [El] geloso"» (Giosuè 24,19). (12) Contrariamente alle nostre lingue indoeuropee, quella ebraica può associare senza difficoltà singolare e plurale per parlare di una stessa persona.
Il testo del Corano utilizza frequentemente la prima persona plurale per trascrivere le parole che provengono da Dio. Nella quasi totalità dei casi si tratta di un plurale maiestatis. L'unicità di Allah è l'oggetto di affermazioni che non rivelano alcuna ambiguità, diversamente da quanto abbiamo visto nella Bibbia ebraica.

La presenza e l'intervento dell'Unico

La strutturazione progressiva della relazione tra l'uomo e «Colui che è al di là di tutto» da parte della ragione umana, alla ricerca della comprensione di ciò che era vissuto, ha valorizzato l'unicità dell'Essere assoluto, come abbiamo visto. L'insistenza su questa pienezza di Dio, in virtù della quale si trovano ad essere affermate la sua immutabilità, la sua eternità e la sua immaterialità, è all' origine di due procedimenti che hanno un duplice scopo. In primo luogo rendono conto dell' esistenza di una relazione tra ciò che è sottoposto al cambiamento e Colui che invece è immutabile, tra ciò che è finito e l'Infinito, tra ciò che è temporale e l'Eterno, tra ciò che è nella materia e ciò che è puro spirito. In secondo luogo, rendono conto dell'intervento di questo Essere unico non solo in quello che riguarda il bene degli uomini, ma anche in quello che schiaccia gli uomini: il male, la sofferenza e la morte. Questa ricerca può essere formulata così: com'è presente l'Essere unico per gli uomini? E come interviene l'Essere unico pro o contro gli uomini?
Nel corso del primo incontro tra Dio e Abramo, la presenza di Dio è una presenza immediata: «Quando Abramo ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli disse: "lo sono Dio onnipotente: cammina davanti a me e sii integro. Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò numeroso molto, molto"» (Genesi 17,1-2).
Questa presenza assume una forma umana anche nell'apparizione alle Querce di Mamre (Genesi 18). Durante questo incontro, Dio e Abramo parlano uno con l'altro semplicemente, come se si trattasse di un dialogo tra uomini. Si
ritrova la stessa immediatezza con Isacco: Dio gli appare per condurlo verso il paese di Gerar - presso i Filistei - e far prosperare le sue colture (Genesi 26,2.12).
Il patriarca Giacobbe ci viene presentato ricordando che ha vissuto due incontri significativi con Dio. Una prima volta, nel sonno, durante una tappa a Bethel, sulla strada per Haran, e una seconda volta durante il ritorno a Canaan, guadando lo Yabboq. Le due situazioni sono totalmente opposte tra loro. Nella prima, Dio appare a Giacobbe in sogno, circondato da angeli sorretti da una corda che collega terra e cielo. Nella seconda, è un uomo che viene a lottare con Giacobbe, che rifiuta di dire il suo nome e che lo benedice.
In entrambi i casi, però, la presenza di Dio manifesta il legame che lo unisce a Giacobbe e l'aiuto che ha intenzione di portargli: «Ecco il Signore gli stava davanti e disse: "lo sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco [...]. Io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t'ho detto"» (Genesi 28,13.15).«Un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. [...] Giacobbe rispose: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!". Gli domandò: "Come ti chiami?". Rispose: "Giacobbe". Riprese: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio [Elohim] e con gli uomini e hai vinto". Giacobbe allora gli chiese: "Dimmi il tuo nome". Gli rispose: "Perché mi chiedi il nome?". E qui lo benedisse» (Genesi 32,25.27-30).

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:41
In seguito a quest'ultima «lotta» tra Dio e un uomo compare tuttavia il pericolo mortale rappresentato da un incontro di questo tipo: «Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel ["volto di El"], "Perché - disse - ho visto in faccia Dio [Elohim] eppure la mia vita è rimasta salva"» (Genesi 32,31).
Proprio l'impossibilità, per l'uomo, di vedere il volto di Dio senza morire, è all' origine del gesto di Mosè che si vela il viso, durante l'incontro con Dio vicino al roveto in fiamme (Esodo 3,6). Anche se «il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro» (Esodo 33,11), Mosè potrà vedere Dio solo di schiena. «Gli disse: "Mostrami la tua Gloria!". Rispose: "Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te [...]. Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. [...] Toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere"» (Esodo 33,18-23).
Vedere il volto di Dio è temibile e mortale (Esodo 19,21; Levitico 16,2; Numeri 4,20), ma, nonostante il timore del popolo ebraico (Esodo 20,19), è sorprendente che l'uomo possa anche solo sentire la voce di Dio senza morire (Deuteronomio 5,24-25).
Dopo aver vissuto senza un timore eccessivo la presenza di Dio al tempo dei Patriarchi, nella percezione dell' assoluto di Dio da parte dell'uomo si introduce una separazione terribile, che nemmeno il fedele osa superare. Quando, nel salmo, l'ebreo esprime il desiderio di vedere il volto di Dio, si tratta in realtà di andare a consultare Dio nel suo santuario, e quindi di cercare di conoscerlo e di vivere in sua presenza. (13) Il sentimento dell'infinita grandezza di Dio, l'Essere unico, prevale sul ricordo del primo incontro originario con Abramo, Isacco e Giacobbe.
Lo stesso atteggiamento del fedele si ritrova nei musulmani, nella loro interpretazione del Corano, come nella sura 92, con i famosi versetti: «Non per ottenere ricompensa da alcuno avrà fatto favori, ma per pia brama del volto del Signore suo altissimo: ed egli sarà in pace» (XCII, 19, 21). li volto di Allah indica l'obbedienza alla volontà di Allah, che l'uomo deve mettere in pratica per entrare in Paradiso, rifiutando addirittura di immaginare che Allah abbia un volto umano. (14)
In questa prospettiva diventa necessario, per la sopravvivenza dell'uomo, che non si trovi in presenza immediata dell'Essere unico. Diventano quindi necessari esseri spirituali intermediari, che permettano l'incontro tra «Colui che è al di là di tutto» e l'essere umano, limitato dalla materia. In tutta la cultura semita, questi esseri spirituali, messaggeri di Dio, compongono la moltitudine degli angeli di vari livelli, e anche quelli che sono più vicini a Dio, i serafini, si coprono il volto per non vedere (Isaia 6,2).
Si ritiene che quegli angeli abbiano accompagnato Dio nell'incontro alle Querce di Mamre (Genesi 19,1); la vita di Isacco si svolge senza il loro intervento e gli angeli «riprendono servizio» nelle relazioni tra Dio e Giacobbe (Genesi 28,12).
L'invio, da parte di Dio, di un angelo al popolo ebraico durante la traversata del deserto risponde a un duplice obiettivo: da una parte, proteggere e guidare il popolo (Esodo 23,20) e, dall' altra, evitare che Dio stermini il popolo a causa della sua dura cervice (Esodo 33,2 - 3). A cominciare dall'invio di un angelo presso il popolo ebraico, queste creature celesti diventano in seguito i messaggeri della presenza divina, al punto da venire talvolta confusi con Dio stesso. (15)
Questi angeli, però, grazie alloro intervento, permettono anche di collegare a Dio alcune azioni che riguardano le realtà umane. All' epoca di Gesù, gli ebrei affermano che la Torah è stata trasmessa a Mosè grazie agli angeli (16); non è più Dio stesso che è apparso a Mosè al roveto in fiamme, ma un angelo. (17) Un serafino viene a purificare le labbra del profeta Isaia con una brace (Isaia 6,6-7).
Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:42
In alcuni profeti, come Zaccaria, è un angelo che viene incaricato non solo di aiutare la persona spiegandole il senso di ciò che vede, ma anche di trasmetterle la parola di Dio, parola che, nei primi profeti biblici come Samuele e i successivi, veniva trasmessa direttamente. Dopo l'errore di Davide che aveva ordinato un censimento del popolo, è un angelo che compie la missione di sterminare e di punire diffondendo la peste (Secondo libro di Samuele 24,16).
Per indicare chiaramente il legame di questi esseri celesti con Dio, i racconti biblici chiamano gli angeli «figli di Dio» (come in Giobbe 38,7). Questa definizione mostra che gli angeli costituiscono un mezzo per risolvere l'opposizione tra la constatazione di una presenza e di un intervento che deriva da Dio e si realizza nel mondo degli uomini, e l'esigenza della percezione razionale dell'Essere unico. L'esistenza degli angeli e le missioni che vengono loro affidate da Dio permettono di mantenere l'affermazione dell'assoluta unicità di Dio e la situazione vissuta dagli ebrei, situazione in cui Dio si fa carico del destino degli uomini.
Per quanto riguarda il Corano e il suo messaggero Maometto (Muhammad), con l'eccezione dell'avvenimento del viaggio notturno durante il quale Maometto è ammesso alla presenza di Allah, il testo del Corano viene trasmesso al Profeta da un angelo, Gabriele (II, 97). Mentre nella Bibbia sono soprattutto i profeti che hanno la missione di intercedere per gli uomini (cfr. Amos), nel Corano il ruolo di intercessore è affidato agli angeli.(18) Intermediari tra Allah e gli uomini, gli angeli diventano anche intermediari tra gli uomini e Allah. Ciò contribuisce a mantenere una separazione radicale tra gli uomini e Colui che è estraneo a ogni tipo di relazione con la sua creazione.
L'opposizione tra la percezione da parte del pensiero umano dell'Essere unico immutabile e la realtà vissuta di
una presenza e di un intervento di una Persona che appartiene all'invisibile non si manifesta solo attraverso il ruolo attribuito in modo positivo agli angeli, ma si scopre anche nell' ambito del male, della sofferenza e della morte.
Quando si tratta di render conto del diluvio che distrugge quasi tutta l'umanità, è Dio stesso che interviene, portando le acque sulla terra (Genesi 6,17), e che chiude la porta dell' arca dove si trovano quelli che devono sopravvivere al cataclisma (Genesi 7,17). Anche nell'episodio di Babele è Dio in persona che confonde le lingue di tutti gli uomini della terra e li disperde (Genesi 11,9).
Il fatto che Dio intervenga per punire gli errori degli uomini si può comprendere in una visione di un Dio che, dopo aver dato esistenza al mondo, ha intenzione di dirigerlo sulla retta via. Ci sembra invece inaccettabile che Dio intervenga per imporre una situazione di dolore, senza comprenderne la causa. Tuttavia, è proprio in questi casi che la Bibbia mette in primo piano l'intervento di Dio:

«Il Signore fa morire e fa vivere,
scendere agli inferi e risalire.
Il Signore rende povero e arricchisce,
abbassa ed esalta»

(Cantico di Anna, Primo libro di Samuele 2,6-7).

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:42

Secondo gli antichi profeti, tutto ciò che accade agli uomini, gioia o dolore, è opera di Yahweh: «Risuona forse la tromba nella città, senza che il popolo si metta in allarme? Avviene forse nella città una sventura che non sia causata dal Signore?» (Amos 3,6). «lo formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo» (Isaia 45,7).
Questa azione «malvagia» è percepita come tale quando Davide riceve da Dio l'ordine di compiere un atto riprovevole: il censimento di Israele e di Giuda (Secondo libro di Samuele 24). Questo comportamento è radicalmente oppo
sto alla benevolenza verso il suo popolo che Dio non cessa di manifestare a partire da Abramo e di annunciare per mezzo dei profeti.
Al fine di dare a questi avvenimenti una spiegazione in cui Dio non venga messo in causa, l'origine del male è attribuita a un angelo, soprattutto in alcuni casi in cui non deriva da un errore che giustificherebbe una punizione nei confronti degli uomini. il racconto relativo a Giobbe, un uomo giusto, è molto esplicito su questo punto: tra i figli di Dio (gli angeli) si trova un nemico (Satana, in ebraico) che lancia una sfida a Dio nei riguardi di Giobbe: basterebbe privarlo della sua famiglia e dei suoi beni perché non sia più un uomo giusto che teme Dio e fugge dal male. il nemico riceve quindi da Dio il permesso di distruggere prima la sua famiglia e i suoi beni, e poi di colpirlo nel corpo (Giobbe 1,2). A questo stesso nemico un autore ebreo del IV secolo avanti Cristo attribuisce la colpa di aver incitato il re Davide a effettuare il censimento degli israeliti, che avrebbe attirato la punizione divina (Primo libro delle Cronache 21,1).
Per quanto riguarda il dolore degli uomini, constatiamo lo stesso distacco di Dio nei confronti degli uomini. L'angelo nemico dell'uomo è un mezzo per mantenere l'Essere unico lontano dalle violenze subite dagli uomini, di cui non potrebbe essere né l'autore, né il responsabile.
Il personaggio di Iblis (forma araba di diabolos) o di Shaitan occupa un posto importante nel Corano. È il nemico dichiarato dell'uomo - come attesta una decina di passaggi - e l'autore di tutto il male subito dagli uomini. Coloro che si affidano completamente ad Allah, però, sfuggono alla sua azione malvagia (XVI, 98, 99). Come nella Bibbia, l'azione di Shaitan evita di attribuire ad Allah i dolori e le sofferenze dell'universo umano.

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:43

«Ci sarà il Signore soltanto...»

La relazione con Dio è come quella tra uomo e donna: l'oggetto di un amore vissuto in tutta la sua intensità non può che essere unico. Quando commenta la professione di fede ebraica: «Ascolta, Israele: Yahweh è il nostro Dio, Yahweh è unico», il Talmud precisa: «Il Santo, sia Egli benedetto, dice a Israele: "Avete fatto di me l'oggetto unico del vostro amore in questo mondo"» (Hagiga B, 3a). Proclamare l'unicità di Dio non consiste, in primo luogo, nello sforzarsi di dimostrare l'assenza di altri dei, ma nel vivere con lui una relazione d'amore che esclude qualsiasi altro affetto, anche umano.
Questo ci porta verso due vie di ricerca: da una parte, mettere in evidenza la possibilità di una relazione di questo tipo tra Dio e l'uomo, fondata su un amore che, come vedremo, non può che essere reciproco e, dall' altra, stabilire la distinzione tra l'unicità divina come percezione dell'intelletto umano e l'unicità divina come oggetto dell'amore umano.
È possibile una relazione d'amore tra Dio e l'uomo? Non esiste una distanza immensa tra Colui che è al di là di ogni comprensione umana e la sua creatura? L'amore comporta una parte di gratuità e di dono di sé, ma com'è possibile tutto ciò, visto che l'uomo riceve tutto dal suo creatore, mentre quest'ultimo si trova in uno stato di pienezza in cui non gli manca nulla?
È proprio nel comandamento dato da Dio che ci appare la dimensione divina di questo stesso comandamento: «Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le tue forze» (Deuteronomio 6,5). Non dipende da un atteggiamento voluto dall'uomo che dentro di lui cresca un amore totale per Dio. No, questo amore assoluto dell'uomo per Dio è un ordine ricevuto da Dio stesso. Questo comandamento, messo in primo piano da tutti i commentatori della Torah, enuncia un fatto, l'amore dell'uomo per Dio, che supera la logica della ragione umana. Quindi amare Dio non è un atto deciso dall'uomo, ma la risposta dell'uomo alla volontà espressa da Dio.
Risulta più naturale per l'uomo volersi mettere in contatto con Dio attraverso atti di adorazione e di lode nel contesto di un culto religioso che comprende offerte sacrificali. Dio, però, non cesserà di ricordare alla comunità ebraica che vuole «l'amore e non il sacrificio» (Osea 6,6). Una gran parte dell'insegnamento dei profeti consiste nel ricordare la priorità che Dio attribuisce all'amore nei suoi confronti, rispetto a tutte le altre forme di relazione.
L'amore che Dio si aspetta dall'uomo non consiste solo nel rispetto i suoi comandamenti, in quanto una fedeltà di questo tipo alla Legge divina stabilisce una distanza, una separazione. Anche se naturalmente è presente il desiderio di osservare la Torah, l'amore per Dio non è vissuto unicamente in questa osservanza. No, l'amore che Dio richiede all'uomo consiste innanzitutto in un affetto e in un movimento di tutto l'essere umano nei suoi confronti. L'amore dell'uomo per Dio si fonda strutturalmente sul senso di meraviglia che suscita nell'uomo la presa di coscienza del fatto che è amato da Dio.
Nella realtà di questa relazione d'amore tra Dio e l'uomo, il passo decisivo è compiuto quando l'uomo scopre che, molto prima che si voltasse verso Dio, Dio era già rivolto verso di lui. Tutta la storia umana e divina che ci trasmette la Bibbia può essere vista come il lungo cammino dell'umanità che, progressivamente, scopre l'amore di Dio per gli uomini e, reciprocamente, come il racconto della grande pazienza di Dio che, nonostante le incomprensioni, i rifiuti e gli errori degli uomini, vuole manifestare il suo amore e la sua tenerezza.

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:43
Converrebbe citare numerosi testi; eccone alcuni scelti tra molti altri: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli - ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» (Deuteronomio 7,7 -8).
«Da lontano gli è apparso il Signore: "Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà» (Geremia 31,3).
«Poiché tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra. Come una donna abbandonata e con l'animo afflitto, il Signore ti ha richiamata. [...] Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore. [...] con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redento re, il Signore» (Isaia 54,5-8).
Quando il profeta Zaccaria ci fa intravedere come sarà l'incontro perfetto e definitivo tra gli uomini e Dio, proclama: «Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome» (Zaccaria 14,9). Senza dirlo espressamente, il profeta ci invita a scoprire che la relazione degli uomini con Dio sfocerà in un amore unico tra Yahweh e l'insieme degli uomini. Se diamo al termine «soltanto» il senso di un amore esclusivo, arriviamo alla conclusione che questa unità assoluta di Dio come oggetto dell'amore degli uomini non è ancora realizzata, ma che costituisce il fine ultimo voluto da Dio, che sarà vissuto pienamente solo dopo l'avvento del Suo Regno.
La sezione seguente permetterà di precisare sotto quale forma sia possibile, fin da oggi, per chi intende amare Dio di un amore unico, vivere pienamente questo comandamento. Dopo aver precisato il senso dell'unicità di Dio come oggetto dell' amore dell'uomo, conviene fare una distinzione tra questa unità e l'unicità percepita dall'intelligenza e che riguarda l'Essere che non ha altra determinazione che quella di essere. In che modo l'unicità dell' amore si differenzia dall'unicità della ragione?

Tra i numerosi filosofi e metafisici che hanno sviluppato la percezione dell'Essere unico, il più conosciuto, e probabilmente quello che ha segnato e influenzato maggiormente questa corrente di pensiero, è Plotino. Di origine romana, visse in Egitto nel III secolo dopo Cristo. Nell' opera di Plotino, l'Essere unico è chiamato Dio molto raramente. L'aggettivo «divino» non è riferito all'Essere unico, ma all'intelletto che, per Plotino, è la prima emanazione dell'Essere Unico.
Il procedimento di Plotino consiste nel superare i diversi livelli del reale per giungere a ciò che è semplice e senza nessuna determinazione. Anche il concetto di Bene può essergli applicato solo in senso figurato. Plotino preferisce parlare di «Ciò che è al di sopra» o di «Ciò che è al di là», espressione usata anche in questo studio. Superando il pensiero di Platone e di Aristotele, Plotino insegna che questo Essere Uno è al di là della vita e anche del pensiero: «Se qualcuno prende la sostanza ed il pensiero come punto di partenza non arriverà né a una sostanza né ad un pensiero, ma al di là, e troverà una cosa straha che non rinchiude in sé né sostanza né pensiero» (19).
Un Essere unico di questo tipo basta a se stesso ed è totalmente immobile. Non è un creatore e non è in relazione con il mondo. Secondo Plotino, il mondo deve la sua esistenza a un'emanazione involontaria che procede da questo Essere unico e che tende necessariamente verso di lui. Si tratta, concretamente, di un'Unità totalmente chiusa su se stessa.

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:44
Il pensiero di Plotino ha esercitato una grande influenza sia negli ambienti ebraici che in quelli cristiani e musulmani. Nella misura in cui il concetto filosofico di Unità fa parte delle strutture profonde del pensiero, la pratica religiosa - come abbiamo constatato nel corso di questo studio - si è trovata ad essere influenzata in modo molto consistente da tale concezione plotiniana dell'Essere unico.
Alcuni autori spirituali, appartenenti a una o all' altra religione monoteista, hanno tentato, con successo variabile, di unire i due procedimenti. Sembra che un avvicinamento di questo tipo comporti più rischi che benefici. Se l'atteggiamento fondamentale di Dio consiste nel far nascere tra lui e l'uomo una relazione d'amore, l'introduzione del concetto plotiniano dell'Essere unico per la comprensione di Dio porta a ridurre completamente il valore di questo atteggiamento.
Ritroviamo in questo caso le ambiguità della conoscenza e delle parole che la esprimono. li termine «unico» applicato a Dio nella tradizione giudaica-cristiana può certamente significare in un secondo senso che non esistono altri dei, ma non può assumere il senso di una chiusura di Dio in se stesso, senza distruggere in questo modo l'esperienza messa in evidenza da tutti i testi della Bibbia. Al contrario, Dio è riconosciuto come unico in quanto solo lui intende stabilire una relazione d'amore esclusiva con l'uomo.
Ma il fatto che Dio sia all' origine di una relazione d'amore e voglia suscitarne nell'uomo un' altra della stessa natura ci fa intravedere quello che sarà l'oggetto ultimo della manifestazione di Dio: Dio stesso è amore.

L'unità dell'amore

Senza che riflessioni di questo tipo possano essere considerate dimostrazioni, sembra illuminante avvicinare la percezione a cui siamo giunti - quella dell'amore come presente in Dio - alla conoscenza dell' amore nella coppia umana, come descrive il libro della Genesi.
Questo testo, molto lontano dalla realtà biologica, insiste sul legame strutturale che esiste tra l'uomo e la donna; questa è derivata da una costola dell'uomo, e perciò viene riconosciuta da Adamo come una sua stessa parte: «Essa è carne dalla mia carne e ossa dalle mie ossa» (Genesi 2,23). li racconto si conclude in questo modo: «E i due saranno una sola carne» (Genesi 2,24). Questa unità non appartiene al livello dell'esistenza, ma a quello dell' amore. li racconto ci invita a scoprire una modalità dell'Unità e quindi del monoteismo che renda conto dell' amore presente in Dio.
Tra tutte le realtà del nostro universo composte da due elementi separati (mente e corpo, carne e ossa, nucleo cellulare e citoplasma...), nessuno possiede un'esistenza propria. Nella coppia umana sono unite due persone, dotate ognuna di un' esistenza che non dipende dall' altra. La testimonianza di molti mistici rende conto della possibilità di vivere nell'amore di Dio un'unità che ha la stessa struttura di quella della coppia umana. Non sarebbe forse una via per approfondire la relazione tra l'uomo e Dio il fatto di accogliere la possibilità di una struttura di questo tipo in Dio stesso?

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:44
In realtà, l'esistenza in molti esseri spirituali di questo legame d'amore con Dio, che alcuni chiamano talvolta matrimonio mistico, ci porta a concludere che uno scambio di questo tipo è presente anche all'interno stesso di Dio. In una struttura così concepita, l'affermazione che non c'è altro Dio che Yahweh conserva tutta la sua forza. Ma la scoperta che Dio stesso è «unione» d'amore ci incita e procura alla nostra relazione con lui una giustificazione complementare.
Non possiamo che constatare la frattura radicale introdotta dall'uomo che accetta di entrare in questa relazione d'amore con Dio. Al-Hallaj la giustifica così:

«Quando la Verità si è impadronita di un cuore,
lo libera di tutto ciò che non le appartiene!
Quando Allah si affeziona ad un uomo,
uccide in lui ciò che non gli appartiene!
Quando ama uno dei suoi fedeli,
incita gli altri a odiarlo,
affinché il suo servitore si avvicini a lui,
per acconsentire a lui»
(20).

Una frattura di questo tipo si può osservare nella maggior parte di quelli che hanno affrontato il rischio dell'incontro d'amore con Colui che è Amore. La maggioranza ha dovuto subire le condanne dei responsabili riconosciuti della comunità religiosa. È il caso del carmelitano spagnolo Giovanni della Croce, imprigionato dai suoi confratelli.
Vorrei lasciare la parola a una cristiana nata nella metà del XIII secolo vicino a Valenciennes e condannata al rogo nella piazza di Grève a Parigi il 1° giugno 1310. Divorata da questo amore per l'Amore, Marguerite Porete percorrerà sino alla fine il suo cammino di incontro e di vita in Dio. È stata la prima ad aver osato raccontare la sua esperienza spirituale nella lingua parlata del suo paese. Ascoltiamola:

«Queste creature non possono più parlare di Dio, perché, allo stesso modo in cui possono dire dov'è Dio, non possono dire chi è Dio. Infatti, chiunque parli di Dio quando vuole, a chi vuole e dove vuole parlare, deve sapere con certezza che non ha mai sentito il vero cuore dell' amore divino, in quanto quest'ultimo si impossessa dell'anima in mezzo a tutti senza che lei se ne accorga. In effetti, il cuore vero e raffinato dell' amore divino è senza materia di creatura, ed è donato da Creatore a creatura» (21).

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:45

Marguerite Porete non esita a mettere in causa coloro che hanno la ragione come unico criterio per incontrare Dio: «Sì, Ragione, sarete sempre cieca, voi e tutti coloro che si nutrono della vostra dottrina! Infatti è proprio cieco chi vede le cose davanti agli occhi e non le conosce, e questo è il vostro caso» (22).
Esiste quindi un monoteismo che non è opera della ragione, ma che nasce da un' esperienza che è inesprimibile, come affermano tutti coloro che l'hanno vissuta. Ma c'è un elemento comune, che si ritrova nel corso della storia religiosa umana e nelle diverse correnti: la frattura necessaria che provoca questa esperienza rispetto alle espressioni ragionate del dogma religioso, e abbastanza spesso rispetto ai comportamenti comuni. Furono questi i folli in Cristo e i vagabondi mistici della cristianità russa ortodossa nel XVIII e nel XIX secolo. Associata a tale rottura si manifesta, nella maggior parte di questi innamorati di Dio, una forza che permette loro di vincere, o almeno di affrontare tutte le contraddizioni:

«Se sei innamorato dell' amore,
se è l'amore che cerchi,
prendi un pugnale affilato
e taglia il collo alla timidezza.
Sappi che la reputazione
è un grande ostacolo nel Sentiero»
(23).

Occorre accettare, in nome del rispetto che dobbiamo avere per tutti coloro che ci hanno reso partecipi della loro esperienza e ne hanno reso testimonianza, a volte a prezzo della stessa vita, che viene proposto agli uomini un cammino al fine di entrare in comunione d'amore con l'Unico. Dobbiamo anche accettare che questo cammino resta, in gran parte, estraneo a un' analisi razionale da parte della nostra intelligenza. Non per questo bisogna avvolgere nel mistero questo incontro: i mistici ebrei, cristiani e musulmani ci hanno trasmesso molte testimonianze di quello che hanno vissuto, in unione con il dogma religioso della comunità a cui appartenevano.
A conclusione di questo studio, conviene segnalare che questo concetto di «Unità» attribuito a Colui che è in relazione d'amore con gli uomini, in quanto suscita un amore in cui è unico, apre la via alla scoperta che ci propone Gesù di Nazaret di una realtà divina in cui Dio stesso, in se stesso, è una comunione d'amore. Per la creatura umana, la possibilità di entrare in una comunità d'amore con il suo Creatore si trova confortata e in un certo modo giustificata: osiamo dire che, proprio perché Dio stesso è comunione d'amore, anche noi siamo invitati a vivere con lui una simile comunione d'amore, che ci fa condividere la sua stessa «vita».
Al contrario, il procedimento di affermazione dell'unità di Dio a partire dalla ragione umana non può che portare a una distanza sempre maggiore tra «Ciò che è al di là di tutto» e la nostra identità rinchiusa nella materia e nella contingenza.
Esistono due forme distinte della dottrina monoteista, il monoteismo razionale, che ci esclude da un incontro con Dio, e il monoteismo dell'amore, che porta gli uomini in una comunione di vita con Dio.

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:45
 

Appendice 1

Monoteismo e tolleranza

Molti nostri contemporanei sono convinti che il monoteismo sia intollerante. Siccome la fede nel Dio unico provoca un rifiuto radicale e una repressione violenta delle altre dottrine religiose, il monoteismo si trova a essere accusato di essere all'origine di molte persecuzioni avvenute nel corso della storia.
Alcuni fatti possono giustificare questo giudizio:

- per avere adorato il vitello d'oro, Mosè manda i Leviti ad uccidere più di tremila uomini tra il popolo ebraico. Questo gesto costituisce addirittura un'investitura per le loro funzioni religiose (Esodo 32,19-29);
- poiché sono seguaci di Baal e quest'ultimo non ha acceso l'olocausto a differenza di Dio, il profeta Elia scanna nel torrente Kison i quattrocentocinquanta profeti di Baal (Primo libro dei Re 18,20-40);
- per aver sostenuto il partito degli oppositori di Maometto, tutti i maschi puberi della tribù dei Banu Qurayza (da settecento a ottocento individui circa) vengono decapitati dopo la vittoria dei musulmani, nell'aprile del 627 (24);
- mentre l'imperatore Costantino tollerava i culti ed i riti non cristiani dopo aver riconosciuto la libertà per i cristiani nel 313, l'imperatore Costanzo II, nel 356, decide che sono passibili della pena di morte «coloro che si ritiene abbiano partecipato ai sacrifici e onorato gli idoli» (Codice Teodosiano XVI, 10, 6). In base a questo decreto, l'autorità della comunità cristiana racconta di avere esercitato la costrizione, in epoche diverse e nella maggior parte dei paesi occidentali, arrivando fino alla pena di morte, nei confronti di tutti quelli che osavano aderire a una dottrina dichiarata eretica: catari del Languedoc o della Lombardia, marrani di Castiglia o di Andalusia.

I fatti citati sono solamente una selezione tra molti altri e, riferendosi alle tre religioni monoteiste, danno adito all' accusa di intolleranza, accusa che rende responsabile la dottrina monoteista.
In realtà, associare a quest'ultima le cause dell'intolleranza e della violenza rivela una visione molto superficiale. Infatti la stessa intolleranza e la stessa violenza si ritrovano in alcuni universi religiosi politeisti, il che sembrerebbe stabilire un legame tra intolleranza e religione, ma anche in alcune società senza riferimenti divini, come il periodo francese del Terrore o, nell' ex URSS, i gulag. Tutto ciò dimostra che il monoteismo non è direttamente all'origine dell'intolleranza.
In questa sede non è possibile cercare le cause, che del resto sono molteplici, dell'intolleranza nelle società umane, in quanto richiederebbe uno studio quasi illimitato, ma vorrei mettere in evidenza, al di là dei fatti ricordati, che il monoteismo non è strutturalmente intollerante.
All'affermazione di un Dio unico e onnipotente conviene associare da una parte la presenza della sofferenza e del male nel mondo, e dall' altra l'esistenza di più dottrine monoteiste. È opportuno esaminare cosa significano queste due realtà messe in relazione con il monoteismo nella sua struttura fondamentale.

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:46
Anche se non concorda con il pensiero corrente, conviene trovare e analizzare tutte le conseguenze dalla presenza sulla terra della sofferenza, del male e di tutte le violenze provocate dai fenomeni naturali o dall'azione degli uomini. Se Dio, l'Unico Onnipotente, non interviene di fronte a tale realtà, spesso ritorna questa domanda: l'assenza della reazione divina è la conseguenza del fatto che accanto all'Unico Onnipotente interviene un'altra forza in grado di distruggere l'opera di Dio, che però in questo caso non sarebbe più l'unico, oppure l'assenza di intervento divino di fronte al male è volontaria? In questo secondo caso, nella sua saggezza, l'Unico Onnipotente lascia che esistano alcuni mali, anche se ha il potere di impedirli, o per evitare mali più grandi, o per permettere la realizzazione di altri beni (25).
Nella misura in cui l'Onnipotenza è unica, il fatto che nel mondo esistano la sofferenza, la morte e il male mette in evidenza la tolleranza di questo Dio unico nei confronti di ciò che gli si oppone. Da questo punto di vista, il monoteismo non può essere causa di intolleranza, in quanto il comportamento dei credenti non può essere opposto a quello di Dio (26).
Da un diverso punto di vista, partendo questa volta dal comportamento umano, l'unità nell' amore indotta dall'incontro con l'Unico, così come la descrivono i mistici delle tre principali religioni monoteiste, esige nel fedele un comportamento libero e volontario. Questo atteggiamento, questa scelta dell'Unico, è insegnato sia dal Giudaismo («Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita», Deuteronomio 30,19-20), che dal Cristianesimo («E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre! "», Lettera ai Romani 8,15) e dall'Islam («Non vi sia costrizione nella Fede: la retta via ben si distingue dall'errore, e chi rifiuta Tagut [l'idolo] e crede in Dio s'è afferrato all'impugnatura saldissima che mai si può spezzare», Corano II, 256).
La coesistenza di queste religioni monoteiste, con strutture religiose ben distinte, contribuisce a dare forza e necessità all' atto di adesione libera e volontaria del credente. L'autorità, qualunque essa sia, non può imporre con la forza a un individuo di aderire a questa o a quella dottrina monoteista. Se c'è costrizione, il legame con Dio non può essere una relazione fondata sull' amore.
Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:46
Ma perché allora, nella realtà, tutte le grandi religioni monoteiste hanno avuto atteggiamenti di violenza e di costrizione in diversi momenti della loro storia? Senza voler rifare un'analisi della storia di queste religioni, bisogna tener conto di due componenti comuni a ognuna (e anche a ogni dottrina sociale, politica o economica): il bisogno, presente in ogni comunità, di organizzarsi, di possedere strutture riconosciute e la necessità di dotarsi di testi fondatori.
Fino a un'epoca recente, la maggior parte delle società umane affermava la sua identità, e di conseguenza la sua sopravvivenza, eliminando tutti gli oppositori, sia all' esterno che all'interno. Così, nei quattro fatti citati all'inizio di questa appendice, ognuno dei quattro capi, Mosè, Elia, Maometto e l'imperatore Costanzo II, agisce come responsabile del popolo che comanda: da ciò deriva la volontà di eliminare tutti quelli che costituiscono una minaccia per la coesione della comunità, che ha nella religione una delle sue componenti principali. Nei molti conflitti che hanno segnato la nostra storia, i vinti erano trattati come schiavi - e in questo modo conservavano almeno la vita - oppure venivano uccisi. Questa «legge della guerra» ha regolato per molto tempo i conflitti tra sostenitori di divinità anch' esse in lotta tra di loro.
Il ricorso alla costrizione e alla violenza deriva anche dalla difesa dei testi fondatori. Nel Giudaismo e nel Cristianesimo, questi testi sono il punto d'arrivo di tutta una riflessione di autori diversi, riunita abbastanza tardivamente e dotata di un valore normativo variabile. Oggi si ritiene che la Torah ebraica - i primi cinque libri della Bibbia - sia stata costituita nel suo stato attuale verso la fine del VI secolo avanti Cristo. In quell'epoca era considerata come l'insegnamento di Mosè, ma verso il 400 avanti Cristo fu proclamata testo dettato da Dio e scritto dagli angeli. Questa affermazione le procurò un' autorità incontestabile. È questo l'insegnamento trasmesso dal Talmud, che considera la Torah la prima delle sue creature. Ne consegue che, in virtù della sua origine divina - ma senza riferimento all'unicità di Dio -la Torah condanna a morte coloro che la infrangono.
Nel caso di una donna accusata di adulterio - atto punito con la lapidazione - Gesù, costretto a dare il suo giudizio, si limiterà a tracciare dei segni sul terreno e ad allontanare le accuse con una replica molto nota: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (Vangelo secondo Giovanni 8,7). Su questo punto Gesù preciserà il senso della  sua missione: «Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Vangelo secondo Giovanni 12,47).
Gli scritti cristiani sono molto compositi. Risalgono, nella loro totalità, a un periodo in cui i cristiani erano messi al bando dalla comunità ebraica ed erano oggetto, in diversi modi, della repressione del potere romano. Come avvenne per la Torah ebraica, però, questi testi furono riuniti e, con l'appoggio del potere imperiale, ricevettero un' autorità quasi uguale a quella della Torah. Ancora oggi si dice «è Vangelo» per qualificare un'affermazione incontestabile, mettendo in evidenza la posizione e il ruolo attribuiti a questo testo.
Il cambiamento più evidente è l'invito alla non violenza: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgi anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due» (Vangelo secondo Matteo 5,38-41).
Un invito di questo tipo alla tolleranza attiva non sarà però sufficiente per evitare che l'autorità nella comunità cristiana usi violenza e costrizione. Fornendo ai testi fondatori un'autorità divina, il potere gerarchico aveva la possibilità di esercitare la stessa autorità. Risulta evidente che questo atteggiamento non è una conseguenza del monoteismo, ma dell' autorità divina attribuita ai testi fondatori.
Il ruolo e la funzione che l'Islam attribuisce al Corano risultano in continuità con la religione ebraica riguardante la Torah e, rispetto al Giudaismo e al Cristianesimo, conferiscono al Corano uno statuto superiore. Quando trasmette i versetti del Libro di Dio (V, 44), il messaggero di Dio, Gabriele (Il, 97) si limita a far scendere nel cuore di Maometto quello che prima era stato trasmesso attraverso Mosè e Gesù: «Dio! Non c'è altro dio che Lui, il Vivente, che di sé vive. Egli t'ha rivelato il Libro, con la Verità, confermante ciò che fu rivelato prima, e ha rivelato la Torah e il Vangelo» (Corano III, 2-3).
Sino alla fine del IX secolo (III secolo dall'egira), i musulmani hanno attribuito al Corano lo stesso statuto della Torah, quello, cioè, di uno scritto dettato da Dio e comunicato agli uomini. Però, in seguito ai confronti tra il potere religioso animato dal teologo Ahmad Ibn Hanbal e il potere politico dei califfi abbassidi, il Corano fu proclamato e riconosciuto come l'espressione nel linguaggio umano della Parola increata ed eterna di Allah.
Questa Parola divina è al di là di ogni enunciazione, anche se il testo del Corano le è rigorosamente identica, senza tuttavia che questa identità possa essere spiegata. Per questo motivo, il potere religioso islamico gode di un' autorità uguale a quella del testo del Corano, e non può essere soggetto ad alcuna contestazione. In nome dell' autorità che deriva dal Corano, ogni musulmano può intervenire e imporre il suo punto di vista. Questa possibilità non è una conseguenza del monoteismo islamico, ma dello statuto divino che la religione musulmana riconosce al testo del Corano.

 

Appendice 2

Dichiarazione del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa

«A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. [...] Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma dalla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano l'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l'ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito» (1, 2).

«L'uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso» (1, 3).

Spess.
00mercoledì 4 febbraio 2009 18:46
1] Benno Jacob, Das erste Buch der Tora, Genesis, Berlin 1934, p. 58.
[2] Akhbar al-Hallaj, n. 62, p. 99.
[3] Salita al Monte Carmelo, libro 1, cap. 13.
[4] Al-Niffari, Stations, «Station de la nuit», Arfuyen, 1982.
[5] Giovanni della Croce,
Opere spirituali.
[6] Charles Péguy,
L'atrio del mistero della seconda virtù.
[7] Eccone un esempio (da non imitare), tratto da un corso di divulgazione del pensiero scolastico: «La conoscenza dell'angelo non è altro che il duplice modo in cui la sua sostanza esercita l'esistenza, essenzialmente e intenzio
nalmente». È chiaro che i nostri concetti derivati dalla relazione con il mondo materiale sono inadeguati per cogliere ciò che percepiamo come immateriale!
[8] Somma teologica, la parte, domande 2, 3, 4, 7, 10, 11.
[9] Targum pseudo-Jonathan, Genesi 12,1-5.
[10] Gershom Scholem, Le nom et les symboles de Dieu dans la mystique luive, Le Cerf 1983, p. 62.
[11] Nel testo italiano, invece, viene usato il singolare (n.d.t.).
[12] Nella versione originale, Elohim, al plurale, è accompagnato dall'aggettivo plurale "santi", mentre El dall'aggettivo singolare "geloso" (n.d.t.).
[13] Vedere il salmo 27.
[14] Il commento di questi versetti è stato dato all'autore da un membro della Confraternita al-Ash'ariyya, con sede vicino a Parigi.
[15] Cfr. libro dei Giudici 6,11 e seguenti.
[16] Cfr. Atti degli Apostoli 7,53; Lettera ai Galati 3,19.
[17] Cfr. Atti degli Apostoli 7,30.35.
[18] Cfr. le sure XL, 7-9 e XLII, 5.
[19] Le Enneadi VI, 7, 40.
[20] Louis Massignon, La Passion d'al-Hallaj, Geuthner, Paris 1922, vol. I, p. 125.
[21]
Marguerite Porete, Le miroir des limes simples et anéanties, Albin Michel, Paris 1997, p. 79.
[22] lbid., p. 107.
[23] Mawlana Jalal ud-Din Rumi, Odes mystiques, Klincksieck, Paris 1973, Ode 213, p. 130.
[24] Maxime Rodinson, Mahomet, Seuil, Paris 1968, pp. 246-247.
[25] Questa è la posizione di Tommaso d'Aquino, in risposta alla domanda: «Si devono tollerare i riti degli infedeli?», in cui giustifica un atteggiamento tollerante nei loro confronti: cfr. Somma teologica, 2a,2ae, domanda 10, articolo 11,
corpus.
[26] «Quindi, anche nella società umana, coloro che comandano tollerano di buon grado alcuni mali, pet paura che siano impediti alcuni beni, oppure per paura che avvengano mali peggiori»
(ibid.).
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