Domenico34 – Giacobbe... L’uomo trasformato da Dio –. Sommario, presentazione e introduzione. Capitoli 1-6

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Domenico34
00venerdì 25 novembre 2011 00:21


GIACOBBE...



L’UOMO TRAFORMATO DA DIO



INDICE DEL VOLUME


Presentazione
Introduzione

Capitolo 1

LA NASCITA DI GIACOBBE
Il concepimento di Rebecca
La gravidanza di Rebecca
1. Nel grembo materno Giacobbe ed Esaú si spingevano l’un l’altro
2. Un'applicazione per la vita di ogni giorno
3. La nascita di Giacobbe e di Esaú

Capitolo 2

LA CONDIZIONE DI GIACOBBE E DI ESAÚ
Esaú vende la sua primogenitura
I preparativi per la benedizione
L’atteggiamento delle mamme nei confronti dei figli
La responsabilità di Giacobbe
1. La benedizione data da Isacco a Giacobbe
2. La reazione di Esaú nei confronti di suo fratello Giacobbe per la benedizione ricevuta da Isacco, suo padre

Capitolo 3

LA PARTENZA DI GIACOBBE PER PADDAN-ARAM
Un insegnamento da prendere
Le previsioni di Rebecca

Capitolo 4

IL SOGNO DI GIACOBBE A BETHEL
1) Il viaggio di Giacobbe e la sua destinazione
2) il futuro di Giacobbe per ciò che concerne quello che avrebbe dovuto incontrare, di cui non ha la minima idea
3) l’intervento di Dio per proteggere Giacobbe da tutte le peripezie che avrebbe incontrato nel corso dei suoi lunghi anni
4. Il significato spirituale che ha il sogno a Bethel
Una prima giornata di cammino
Una notte a Bethel
Le promesse divine
La promessa del v. 15 di Genesi 28

Capitolo 5

INCONTRO DI GIACOBBE CON RACHELE
Nota introduttiva
Il testo biblico
Qualche riflessione di carattere spirituale
Giacobbe arriva dove c’è un pozzo
Il comportamento di Giacobbe nei confronti dei pastori
L’accoglienza che Labano riserva a Giacobbe

Capitolo 6

PATTEGGIAMENTO PER IL MATRIMONIO DI GIACOBBE
Arriva il giorno del matrimonio
Si indice il banchetto nuziale
La prima notte
L’inganno subito da Giacobbe
Le due mogli di Giacobbe

Capitolo 7

I PRIMI QUATTRO FIGLI CHE LEA PARTORISCE A GIACOBBE
La nascita del primo figlio, Ruben
La mancanza di amore dichiarato
La nascita del secondo figlio
Il terzo figlio di Lea
Nasce il quarto figlio

Capitolo 8
1. I QUATTRO FIGLI DI GIACOBBE NATI DALLE SERVE DI RACHELE E DI LEA
L’invidia di Rachele nei confronti della propria sorella Lea
La nuova strategia di Rachele
L’iniziativa di Lea
2. Gli altri figli che nascono a Lea
3. Dio si ricorda di Rachele e le dà un figlio

Capitolo 9

COMINCIA UN NUOVO CAPITOLO PER GIACOBBE E LA SUA FAMIGLIA
Labano esprime sentimenti di gratitudine e di riconoscenza nei confronti di Giacobbe
La richiesta specifica di Giacobbe a Labano
La strategia di Giacobbe

Capitolo 10

IL RITORNO DI GIACOBBE IN CANAAN
a) Giacobbe sente il dovere di comunicare alle sue mogli quello che Dio gli ha detto
L’incontro tra Labano e Giacobbe
L’alleanza che viene fatta tra Giacobbe e Labano

Capitolo 11

GIACOBBE SI PREPARA AD INCONTRARE ESAÙ
1) La preghiera accorata che Giacobbe innalzò a Dio
2) Una notte memorabile al torrente Jabbok
3) Un necessario chiarimento
4) L’incontro con Esaù
5) Una particolare riflessione

Capitolo 12

LA NUOVA RESIDENZA DI GIACOBBE A SICHEM
Giacobbe erige un altare a Sichem
Una riflessioneriguardo l’altare di Sichem

Capitolo 13

UN FATTO TRISTE NELLA FAMIGLIA DI GIACOBBE
La notizia dello stupro di Dina arriva a Giacobbe
La proposta dei figli di Giacobbe
Una considerazione sul silenzio di Giacobbe

Capitolo 14

DIO ORDINA A GIACOBBE DI SPOSTARSI DA SICHEM PER ANDARE A BETHEL
La forma del parlare di Dio a Giacobbe
Perché Dio ordinò a Giacobbe di andare a Bethel
Quello che Giacobbe avrebbe dovuto fare a Bethel
Giacobbe preparò la sua famiglia per la nuova residenza
Giacobbe erige un altare a Bethel
Dio rinnova la promessa a Giacobbe
La nascita di Beniamino

Capitolo 15

PREDILEZIONE DI GIACOBBE PER GIUSEPPE
La parzialità di Giacobbe
Quello che causò nella vita degli altri figli
Un avvertimento ai genitori

Capitolo 16

I SOGNI DI GIUSEPPE E LA POSIZIONE ASSUNTA DA GIACOBBE A LORO RIGUARDO
La prudenza di Giacobbe
L’imprudenza di Giacobbe

Capitolo 17

I FIGLI DI GIACOBBE MANDATI IN EGITTO PER COMPRARE DEL GRANO
Il rapporto che i figli fanno a Giacobbe loro padre
Giacobbe costretto a mandare Beniamino in Egitto

Capitolo 18

GIACOBBE SCENDE IN EGITTO
1) Giacobbe è determinato a seguire le vie di Dio
2) Le promesse di Dio rinnovate
3) Il futuro di Giacobbe e della sua discendenza, viene assicurato
Un insegnamento di vita pratica
Giuseppe va incontro a suo padre

Capitolo 19

GIACOBBE BENEDICE I FIGLI DI GIUSEPPE
Giacobbe dà istruzioni intorno al suo funerale
La malattia di Giacobbe
Giacobbe inverte la posizione dei due figli di Giuseppe
Quello che si può trarre da questa storia

Capitolo 20

GIACOBBE BENEDICE I SUOI DODICI FIGLI
Nota introduttiva
Esame scritturale

Capitolo 21

MORTE E SEPOLTURA DI GIACOBBE

Capitolo 22

QUEL CHE DICONO I PROFETI INTERNO A GIACOBBE

Conclusione

Bibliografia


PRESENTAZIONE


Giacobbe, o secondo l’etimologia corrente, “colui che prende per il calcagno” (perché alla nascita teneva con la mano il calcagno del fratello gemello Esaù). È questo il titolo dell’opera che presentiamo.

Leggendo nella Genesi tutto quello che lo riguarda, riscontriamo che questo patriarca aveva molti difetti notori per cui Dio, nella sua bontà, ha voluto intervenire, permettendo anche che questo “soppiantatore” (altra etimologia del nome), abbia a soffrire nella sua vecchiaia per la “perdita” di suo figlio Giuseppe, il prediletto.

Potremmo considerare Giacobbe come il tipo dell’uomo carnale per eccellenza, ma è stato rigenerato, “trasformato” dalla grazia immeritata di Dio, ragion per cui non è fuori luogo accettare un’altra etimologia del suo nome che dice “Dio protegga”. Il suo nome, infatti, figura tra gli “eroi” della fede” (Ebrei 11.21).

Questo, in sintesi, il personaggio che l’autore di questo libro ha preso in esame e che noi vi presentiamo. Quello però che merita di essere sottolineato, è che il pastore Domenico Barbera (già noto al pubblico italiano per le sue svariate pubblicazioni), non si limita al semplice racconto biblico che riguarda questo grande patriarca, ma trae da esso un insegnamento pratico per noi che viviamo in un contesto storico assai differente di quello di Giacobbe, affermando in questo che la Parola di Dio è utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia... (2Timoteo 3:16).


Sono certo che il lettore di quest’opera sarà edificato, stimolato ed incoraggiato nell’appropriarsi nella propria vita, quelle osservazioni e consigli che l’autore trae direttamente nell’esporre gli avvenimenti che si sono prodotti durante l’esistenza di questo nostro patriarca.

Il mio voto, per tutti quelli che leggeranno questo libro, è che realizzino che il Dio di Giacobbe (Esodo 3.6; 4.5; 2 Samuele 23.1; Salmo 20.2; Isaia 2.3), ossia il Potente di Giacobbe (Salmo 132.2), è ancora lo stesso (Ebrei13.8) e può trasformare la loro vita per poter testimoniare come Giacobbe: Iddio è stato il mio Pastore da quando esisto fino a questo giorno (Genesi 48:15).

Nino Tirelli


INTRODUZIONE


La storia di Giacobbe, così come viene presentata e descritta dal libro della Genesi, in modo particolare, — senza escludere quello che viene detto in altri testi della Bibbia — si presenta interessante sotto diversi aspetti. Non è solamente l’aspetto puramente narrativo che lo scrittore sacro fa di questo patriarca dell’antichità, che attira l’attenzione del comune lettore della Bibbia — e dello studioso in maniera particolare —, ma lo è anche, in misura rilevante, con riferimento alle diverse situazioni e ai diversi problemi che Giacobbe dovette affrontare nel corso degli anni.

Quando poi, queste diverse circostanze vengono applicate nella vita di ognuno di noi, pur vivendo in altri tempi e in altri contesti sociali, maggiormente appare evidente la validità, sul piano dell'esperienza umana. Se poi si prende in esame la vita religiosa e si fa convergere nell'esistenza quotidiana per ciò che riguarda gli insegnamenti cristiani, la storia di Giacobbe, con tutte le sue vicissitudini e le tante difficoltà in cui venne a trovarsi nel corso degli anni della sua vita, ciò diventerà un punto di contatto e di riflessioni che, immancabilmente, ci porteranno a fare dei confronti tra l’uomo del passato e l’essere umano del presente.

Quando si parla dell’uomo in genere, anche di quello primordiale, per ciò che riguarda la maniera di condurre la propria esistenza, — anche se il modo di vivere di oggi è ben diverso da quello dei tempi antichi —, tuttavia, c’è sempre un filo conduttore che accomuna gli uomini di tutti i periodi, non importa a quale fase della storia ognuno di loro sia vissuto. Questo, naturalmente, riguarda l’aspetto della natura umana, uguale per tutti gli esseri umani. Che poi le relazioni di comunione con Dio, tra Lui e l’uomo si siano sviluppate, in peggio o in meglio, rispetto all’antichità, tutto dipenderà dal come si vorrà impostare il problema e come lo si valuterà, sotto l’aspetto della vita religiosa.

La storia della vita di Giacobbe, così come la Bibbia ce la presenta, sotto diversi aspetti, può fornirci dei validi insegnamenti. Le varie circostanze che quest’uomo incontrò nella sua vita, non solo fanno parte integrale dell'esistenza umana, ma rappresentano anche le varie fasi e gli sviluppi di un susseguirsi di esperienze, positive e negative che, immancabilmente lasciano dei segni indelebili nella vita umana.
Sotto quest'aspetto, studiare la vita di Giacobbe, riuscirà utile, non solo per farci afferrare i lati oscuri dell'esistenza umana, con tutte le sue mancanze, le sue colpe e tutte le conseguenze che ne derivano, ma ci faranno vedere ed apprezzare anche gli interventi di Dio in favore dell’uomo, ultimo dei quali: la venuta del Figlio di Dio in mezzo agli esseri umani. Tutto questo, naturalmente, con la chiara prospettiva del detto della Scrittura:


Or noi sappiamo che tutte le cose cooperano al bene per coloro che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo proponimento (Romani 8:28).

Con questo chiaro indirizzo, e, con l’auspicio e la consapevolezza che la storia di Giacobbe ci potrà aprire gli occhi per farci vedere le realtà dello spirito, sul piano della vita pratica, e farci comprendere meglio gli interventi di Dio, tutto questo ci porterà immancabilmente a farci apprezzare maggiormente il Suo amore e la cura che Egli ha per i Suoi figli. Ci accingiamo quindi a passare in rassegna la storia di Giacobbe, meditando e riflettendo su questo personaggio dell’antichità.

Per quanto riguarda il dato statistico, il nome Giacobbe ricorre in tutta la Bibbia 392 volte; 365 nell’A.T. e 27 nel N.T. Il libro della Bibbia che ha più occorrenze, è quello della Genesi con 196 presenze; mentre nei profeti maggiori e minori, ricorre 93 volte. Chi, tra i profeti maggiori lo nomina maggiormente, è Isaia, con 42 occorrenze. Davanti a questa statistica, dedicheremo un capitolo che raccoglierà i riferimenti profetici, in modo che si conosca come venne definito da loro.

Il testo biblico che useremo in questo studio, sarà quello della Nuova Diodati, e, quando sarà usata un’altra versione, sarà chiaramente specificato.

Un profondo ringraziamento va al caro fratello Nino Tirelli per i sagi suggerimenti che ci ha dato ed anche per il lavoro di correzione e di revisione delle bozze.

Niagara Falls, Aprile 2004

Domenico Barbera

Si Continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00sabato 26 novembre 2011 00:03
Capitolo 1




LA NASCITA DI GIACOBBE




Questi sono i discendenti d'Isacco, figlio di Abrahamo. Abrahamo generò Isacco, e Isacco aveva quarant’anni quando prese in moglie Rebecca, figlia di Bethuel, l’Arameo di Paddan-Aram e sorella di Labano l’Arameo.
Isacco supplicò l’Eterno per sua moglie, perché lei era sterile. L’Eterno lo esaudì, e Rebecca, sua moglie, concepì.
Ma i bambini si spingevano l’uno l’altro nel suo grembo; e lei disse: «Se è così (che l’Eterno ha risposto), perché mi trovo io in queste condizioni?». Così andò a consultare l’Eterno.
E l’Eterno le disse: «Due nazioni sono nel tuo grembo, e due popoli separati usciranno dalle tue viscere. Uno dei due popoli sarà più forte dell’altro, e il maggiore servirà il minore».
Quando venne per lei il tempo di partorire, ecco che lei aveva in grembo due gemelli.
E il primo che uscì era rosso; egli era tutto quanto come un mantello peloso; così lo chiamarono Esaú.
Dopo uscì suo fratello, che con la mano teneva il calcagno di Esaú; così lo chiamarono Giacobbe. Or Isacco aveva settant’anni quando Rebecca li partorì
(Genesi 25.19-26).

Il concepimento di Rebecca

Rebecca, la moglie d'Isacco, era sterile; e, se Dio non avesse compiuto un miracolo nel suo corpo, lei non avrebbe mai potuto diventare mamma. Il concepimento di Rebecca avvenne, a seguito della preghiera che Isacco, suo marito, fece all’Eterno, in suo favore. Il suo concepimento, quindi, rappresenta l’evidenza dell’esaudimento di quella preghiera. Se Isacco pregò l’Eterno per sua moglie, questo dimostra che egli credeva che Dio poteva guarire la sterilità di Rebecca. Niente ci viene detto se la stessa Rebecca aveva in qualche modo pregato l’Eterno per la guarigione della sua sterilità. Da questo particolare che il racconto biblico ci fornisce, possiamo apprezzare il valore della preghiera innalzata a Dio in favore degli altri.

L’esortazione della Scrittura a pregare gli uni per gli altri (Giacomo 5:16), non viene limitata solo a certe cose, ma abbraccia tutto; sia che si tratti di cose materiali o di cose spirituali. Non si riferisce solamente per le persone dell’antichità, di cui la Bibbia parla in tanti passaggi, ma è anche valida per le persone e per i bisogni dei nostri tempi, qualunque essi siano.

La gravidanza di Rebecca

La gravidanza di Rebecca, non fu certamente una delle migliori. Il fatto stesso che i bambini si spingevano l’uno l’altro nel suo grembo, sta denotando che la mamma sicuramente non ne godeva, a causa di quello che sentiva nel suo corpo. Sì, è vero che ogni movimento è segno di vita, (in materia di gravidanza) in mancanza del quale la gestante potrebbe avere nella sua mente lo spettro della morte per il nascituro. Questo però non vuol affermare che quegli spintoni che i due bambini si davano nel grembo della mamma, servissero soltanto a rassicurare Rebecca che quello che era stato concepito in lei era vivo, ma parlavano anche il linguaggio del disturbo e della sofferenza.

1. Nel grembo materno Giacobbe ed Esaú si spingevano l’un l’altro

La madre Rebecca, anche se era amata da Isacco suo marito, era sterile; e perché Rebecca potesse concepire, ripetiamo, fu necessario un intervento di Dio nella sua vita, a seguito di una particolare preghiera che Isacco fece all’Eterno (Genesi 25:21). I due bambini nel grembo di sua madre sì “spingevano l’un l’altro” — o come dice un’altra versione “si urtavano”, (v. 22), tanto che la mamma, non potendo spiegarsi questo — e sicuramente i disturbi che provava non erano indifferenti — la indussero a “consultare l’Eterno”, il quale disse:

Due nazioni sono nel tuo grembo, e due popoli separati usciranno dalle tue viscere. Uno dei due popoli sarà più forte dell’altro, e il maggiore servirà il minore (v. 23).

Non abbiamo la minima idea del come Rebecca, avrà sopportato la gravidanza pensando soprattutto alle parole dell’Eterno, dal momento che la Bibbia non ci dice niente, senza peraltro sottovalutare le sofferenze fisiche che avrà affrontato quella mamma. Pensando alle “spinte” che i due fratelli si davano, nel grembo della madre, l’uno contro l’altro, senza peraltro rendersi conto — perché in quell’ambiente nel quale si trovavano non c’era in loro una minima conoscenza da renderli responsabili — tuttavia, noi che leggiamo queste parole, siamo portati a riflettere e a meditare, oltre che a pensare al fastidio e al disturbo che procuravano alla mamma.

L’atteggiamento incosciente dei due fratelli, nello “spingersi l’un l’altro” nel grembo materno, ci potrebbe suggerire l’idea che forse non ci fosse spazio abbastanza per loro. Qualunque sia stata la condizione del grembo di Rebecca, per ciò che concerneva lo spazio per la vita dei suoi due figli, e dal momento che i due fratelli, nel grembo della madre, erano separati l’uno dall’altro, il corpicino dell’uno, poteva facilmente stringere l’altro, ed obbligarlo nello stesso tempo a sentirsi scomodo nel suo ambiente. Qui non si tratta ovviamente di affrontare un problema ostetrico e spiegarlo alla luce della scienza medica, anche se l’atteggiamento dei due bambini nel grembo della madre, potrebbe spingerci a farlo.

Si Continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00domenica 27 novembre 2011 00:07
Non crediamo che questo particolare che lo scrittore sacro inserì nel racconto della Genesi — che poi è una parte del libro di Dio — avesse lo scopo di insegnarci una lezione di ginecologia. Ma se questo particolare, lo applichiamo nella vita pratica di noi persone grandi, possiamo vedere uno dei tanti atteggiamenti egoisti, e nello stesso tempo imparare una lezione importante per la vita di ogni giorno.

2. Un'applicazione per la vita di ogni giorno


1) Gli “spintoni”, che si danno l’uno all’altro, non sono certo gesta da enumerare nelle azioni “eroiche e gentili”; sono piuttosto atti grotteschi di un carattere poco gradevole e socievole.

2) Lo “spingere” l’uno all’altro, usando il detto:
Sta’ per conto tuo, non avvicinarti, perché sono più santo di te (Isaia 65:5),
non è certamente una prova e una dimostrazione di alta “spiritualità”; al contrario, denota un’attitudine di arroganza e superbia, e, l'essenza spirituale, intesa nel senso biblico, è molto lontana da quella persona, per non affermare che è quasi assente.

3) Dare “le spinte” l’uno contro l’altro, denota un’attitudine di “egoismo” e di “intolleranza”, pensando più a se stessi che agli altri. Quest'atteggiamento non è certamente consono con l’insegnamento della Scrittura che afferma:
Non facendo nulla per rivalità o vanagloria, ma con umiltà, ciascuno di voi stimando gli altri più di se stesso (Filippesi 2:3).

4) Dare uno “spintone”, non importa a chi, non è certamente una dimostrazione di interessamento e di premura, come per volerlo incitare ad amore e a buone opere (Ebrei 10:24); ma è piuttosto una dimostrazione di disprezzo e di molestia, e mette in risalto soprattutto le cosiddette “sottovalutazioni” che si fanno, per quanto riguarda quello che fanno gli altri.

5) Quelli che sì “spingevano” l’uno all’altro, erano due fratelli, figli dello stesso padre e della stessa madre. In queste “spinte” che si davano, ora l’uno ora l’altro, senza accusare l’uno e giustificare l’altro, dimostravano — almeno per noi che leggiamo — di ignorarsi a vicenda, come se, in effetti, fossero stati due “estranei”, due “nemici”, anziché due fratelli.

6) Infine, “spingersi l’uno all’altro”, come per dire: «Stai occupando il mio posto; ti sei spinto troppo sulle posizioni degli altri. Non tieni nessun conto per me che sono “il capo”; mi ignori come se non fossi “qualcuno”»; non è certamente dimostrazione di “maturità spirituale”, ma piuttosto rivelazione di uno stato di uno che ancora sta nel grembo, e quindi d'infantilismo, che agisce in una maniera quasi incosciente, a senso unico, come se non ci fosse nessun altro.

3. La nascita di Giacobbe e di Esaú

Anche se dal punto di vista della narrazione biblica della nascita di questi due figli di Isacco, è detto chiaramente che il primo che vide la luce fu Esaù, li invertiamo nell’ordine, come se Giacobbe fosse nato il primo, non per ignorare il testo della Genesi, ma solamente per essere coerenti al testo di Ebrei 11:20, che nomina prima Giacobbe e poi Esaù.

La nascita di questi due fratelli, dopo un periodo di gravidanza sicuramente infelice per Rebecca, — a causa dello “spingersi l’uno all’altro”, nel suo grembo — fu certamente una vera sorpresa, non solo per la madre e il padre, ma probabilmente anche per altri. Non crediamo che la stessa madre Rebecca, attendesse un figlio dall’aspetto rosso, e tutto quanto come un mantello peloso (Genesi 25:25). Chi sa quali parole avrà detto Rebecca nel vedere suo figlio in quello stato! Non poteva pensare né a sé né a suo marito, perché né l’uno né l’altro avevano un simile aspetto per giustificare quello del figlio e tanto meno che ci fosse qualcuno della loro famiglia che avesse quelle caratteristiche. Sarà stato per l’aspetto inaspettato del figlio Esaù, che Rebecca amava piuttosto Giacobbe anziché Esaù? O solamente per il fatto che Giacobbe era un uomo tranquillo, che viveva nelle tende mentre Esaù divenne un esperto cacciatore, un essere umano di campagna? (Genesi 25:27). Tutto è probabile oltre a quello che la Scrittura specifica chiaramente.

D’altra parte, l’atteggiamento di Giacobbe, che con la sua mano teneva il calcagno di Esaù — anche se si trovava in uno stato d'inconsapevolezza e d'innocenza —, oltre a lasciare perplessi il padre e la madre, sicuramente avrà indotto, specie i genitori, a chiedersi: perché mai questo e che cosa vorrà dire? Rebecca, a sua volta, poteva domandarsi: Chi dei due figli, sarà il popolo più forte dell’altro? Esaù, che è nato per il primo, è senza dubbio il maggiore che servirà il minore. Sin da quando i due fratelli stavano nel grembo della madre, spingendosi l’un l’altro, e poi con la nascita, Giacobbe tiene con la mano il calcagno del fratello, c’è già una precisa prefigurazione, di quello che sarà, circa l’atteggiamento che assumeranno i due fratelli, una volta diventati grandi. Anche se queste cose li leggiamo nella Bibbia, resta sempre enigmatico il fatto come abbia potuto fare Giacobbe, nel seno materno, a prendere il calcagno di suo fratello Esaù.

PS: Se al termine del capitolo 1 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura

Si continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00lunedì 28 novembre 2011 00:04
Capitolo 2



LA CONDIZIONE DI GIACOBBE E DI ESAÚ



I due fanciulli crebbero ed Esaú divenne un esperto cacciatore, un uomo di campagna, mentre Giacobbe era un uomo tranquillo, che viveva nelle tende.
Or Isacco amava Esaú, perché la sua cacciagione era di suo gusto; Rebecca invece amava Giacobbe.
Una volta che Giacobbe si cucinò una zuppa, Esaú giunse dai campi tutto stanco.
Ed Esaú disse a Giacobbe: «Per favore, lasciami mangiare un po’ di questa zuppa rossa, perché sono stanco». Per questo fu chiamato Edom.
Ma Giacobbe gli rispose: «Vendimi prima la tua primogenitura».
Esaú disse: «Ecco io sto per morire; che mi giova la primogenitura?».
Allora Giacobbe disse: «Prima, giuramelo». Ed Esaú glielo giurò e vendette la sua primogenitura a Giacobbe.
Quindi Giacobbe diede ad Esaú del pane e della zuppa di lenticchie. Ed egli mangiò e bevve; poi si alzò e se ne andò.
Così Esaú disprezzò la sua primogenitura
(Gen 25:27-34).

Esaú vende la sua primogenitura

La storia della benedizione di questi due fratelli da parte del loro padre Isacco, è narrata nel libro della Genesi nei minimi particolari. Giacobbe, da persona scaltra che è, — più tardi però si rivelerà “un soppiantatore, un imbroglione” — sfrutta una particolare situazione che gli si presenta, allorquando suo fratello Esaú, venendo dai campi tutto stanco, e vedendo che suo fratello Giacobbe aveva cucinato una zuppa rossa, chiede di dargli da mangiare quella pietanza. Al che, furbamente Giacobbe, risponde: vendimi prima la tua primogenitura (Genesi 25:31). Esaú, senza pensarci due volte, — e qui manifesta un’atteggiamento e una valutazione negativa circa il suo diritto di primogenitura — risponde: ecco io sto per morire; che mi giova la primogenitura? (Genesi 25:32). Con queste parole Esaú “sprezza la sua primogenitura”, e più tardi lo scrittore agli Ebrei, lo classificherà come un profano (Ebrei 12:16).

Giova a questo punto analizzare l’agire di Giacobbe e quello di Esaú, per meglio capire il racconto e soprattutto vedere quali riflessioni possiamo fare. Anzitutto, diciamo subito, che sfruttare una qualsiasi situazione di disaggio, a scopo egoista, non è sicuramente raccomandabile e tanto meno rispecchia lo spirito cristiano.

Qui non si tratta di sprezzare l’attività di esperto cacciatore di Esaú e di elogiare la condizione di vivere nelle tende di Giacobbe. Non è il tipo di “lavoro” che ognuno fa che dobbiamo condannare o elogiare; è piuttosto l’attitudine che si assume davanti ad una particolare situazione che rivela quello che noi siamo. Trovarci in uno stato di “bisogno materiale”, come per esempio non avere di che mangiare — e la frase di Esaú: ecco io sto per morire, (non morirò) facilmente si riferisce ad una situazione di bisogno, alla mancanza di cibo —, non dovrebbe meravigliare nessuno, perché possiamo trovarci tutti in una necessità qualsiasi.

Se Esaú fu onesto e sincero nel dire a Giacobbe che non soltanto era stanco, ma era anche bisognoso di cibo, non lo fu Giacobbe nei confronti di suo fratello Esaú, quando gli diede del pane e della zuppa di lenticchie (Genesi 25:34) ad una precisa condizione e con giuramento. Il cosiddetto “ricatto”, non è e non sarà mai raccomandabile e degno di essere elogiato. Chi fa valere la sua condizione di benessere rispetto a chi si trova nel disagio, non agisce spinto dall’amore; agisce piuttosto spinto dal proprio egoismo. La Parola di Dio ci insegna che l’amore è benigno (1Corinzi 13:4), e tutte le azioni di aiuto e opere di soccorso che si compiono, dovrebbero essere spinte e motivate dall’amore.

Se da una parte non possiamo elogiare l’atteggiamento egoista e senza scrupoli di Giacobbe, dall’altra parte, quella di Esaú, non si può esaltare, quando si nota il senso di sprezzare, un diritto e un privilegio che nessuno avrebbe potuto togliergli. I profanatori, vale a dire chi non tiene conto di un certo privilegio, non solo finiscono col considerarlo di poco valore, ma addirittura nel fare ciò, mostrano che pensano soltanto alle cose presenti, non hanno nessuna percezione e prospettiva per la vita futura, per l’eternità. La frase: ed egli mangiò e bevve; poi si alzò e se ne andò (v. 14), descrive chiaramente qual era la finalità di Esaú. A costoro, si può applicare con ragione quello che Paolo affermò:

Se noi speriamo in Cristo solo in questa vita — o come dice Luzzi: per questa vita — noi siamo i più miserabili di tutti gli uomini (1Corinzi 15:19).

I preparativi per la benedizione

I preparativi per la benedizione di Giacobbe e di Esaú, sono descritti nei minimi particolari. Isacco è ormai vecchio e cieco, e presumendo che la sua morte è vicina, chiama

Esaú suo figlio maggiore, e gli dice: figlio mio! Egli disse: eccomi! Allora Isacco disse: ecco, io sono vecchio e non conosco il giorno della mia morte. Deh, prendi ora le tue armi, il tuo turcasso e il tuo arco, esci nei campi e prendi per me della selvaggina; poi preparami una pietanza saporita di quelle che mi piacciono, e portamela, perché io ne mangi e l’anima mia ti benedica prima che io muoia (Genesi 27:1-4).

Si Continuerà il prossimo giorno...
Domenico34
00martedì 29 novembre 2011 00:20
L’ordine così dato viene accolto da Esaú, il quale, senza perdere tempo, si dirige verso i campi per procurare la selvaggina a suo padre, in vista di ricevere la sua benedizione. Ma mentre Isacco parla col suo prediletto figlio Esaú, c’è Rebecca che ascolta tutto quello che dice il marito. Siccome però per Rebecca, il figlio prediletto è Giacobbe, lei non perde tempo per informarlo della volontà di suo padre circa la benedizione che vuole dare ad Esaú suo fratello. Questo stato di «predilezione», il padre per Esaú e la madre per Giacobbe, non è certo segno e prova di maturità e «d’imparzialità». I genitori dovono fare molta attenzione nel trattare i figli; evitando, in un modo fermo e deciso, le parzialità, fonte e causa di litigi e di rancori a non finire.

Giacobbe, in un primo tempo, obietta all’ordine di sua madre, vedendo chiaramente i rischi cui va incontro, sia per la scoperta di falsità che il padre potrebbe fare e poi soprattutto pensando che invece di ricevere “una benedizione”, otterrebbe una “maledizione”. Finisce però coll’acconsentire a sua madre quando questa lo assicura: questa maledizione ricada su di me, figlio mio! (Genesi 27:13).

I consigli dettagliati che la madre Rebecca dà a suo figlio Giacobbe, per ricevere la benedizione, sembrerebbero a prima vista, che tutto l’imbroglio e l’inganno di cui Giacobbe si rese colpevole, debba “tutto” pesare sulla sua responsabilità. Ma se soppesiamo e valutiamo attentamente la «forza» di persuasione che Rebecca esercitò su Giacobbe suo figlio, è più onesto e corretto addebitarlo a Rebecca. Se dobbiamo essere obbiettivi e coerenti, non possiamo fare a meno di prendere atto che tutta la trama dell’imbroglio e dell’inganno, l’architettò Rebecca, anche se quest’ultima, probabilmente, non mise nella bocca le parole che Giacobbe disse a suo padre Isacco.

L’atteggiamento delle mamme nei confronti dei figli


Le mamme devono fare molta attenzione quando esercitano la loro forza di persuasione sui propri figli! Un consiglio o un ordine sbagliato, dato ai figli, potrebbe causare nelle loro vite, “dispiaceri” e “amarezze” d'incalcolabile portata. Ora qui, non vogliamo insinuare «uno stato di allerta», da parte dei figli, intorno a quello che dice loro la mamma, per rigettare in partenza e in blocco, tutto quello che viene detto loro. Al di sopra delle varie debolezze che una mamma potrebbe avere nei confronti dei propri figli, dando loro qualche consiglio e qualche ordine sbagliato, c’è sempre da mettere in risalto che ogni mamma — ad eccezione di qualcuna che esce dal seminato — pensano al bene dei loro figli.

Quando i figli arrivano all’età di maggiorenne, le mamme dovrebbero misurare le loro parole in materia di consigli e di ordini, e ricordarsi sempre che una pressione sulla loro vita, potrebbe significare indurli a fare scelte sbagliate, con conseguenze catastrofiche ed incalcolabili. Rebecca, per usare la sua forza di persuasione nella vita di suo figlio Giacobbe, finì, non solo per causargli un grosso problema, ma anche fu responsabile dei tanti anni — venti per esattezza — di lontananza del figlio prediletto, dalla sua casa. Tutto ciò che avvenne nella vita di Giacobbe, la sua partenza dalla casa paterna, le molte peripezie che incontrò, furono una diretta conseguenza dei consigli e degli ordini che Rebecca diede, e la forza di persuasione che esercitò nella vita di suo figlio Giacobbe.

La responsabilità di Giacobbe

Se abbiamo parlato un po’ della responsabilità di Rebecca, non l’abbiamo fatto per ignorare quella di Giacobbe. Infatti, qui di seguito, non solo cercheremo di esaminarla, per meglio valutare la responsabilità di quest’uomo, ma soprattutto la considereremo per fare una giusta applicazione per la nostra vita.

Giacobbe andò al gregge per prendere due bei capretti, perché sua madre li preparasse nella maniera che piaceva ad Isacco, e indossato i vestiti di Esaú suo fratello, si reca dal padre con la pietanza saporita in mano, e gli dice:

Padre mio! Isacco rispose: eccomi; Chi sei tu, figlio mio? Allora Giacobbe dice a suo padre: sono Esaú, il tuo primogenito. Ho fatto come tu mi hai detto (Genesi 27:18-19).

Da questo momento in poi, non solo ha inizio una serie di bugie, ma entra in piena fase quella che noi chiamiamo la «responsabilità di Giacobbe». A questo punto si potrebbe chiedere: una piccola bugia, può rappresentare una seria minaccia per l’integrità di una persona? Senza nessuna esitazione, rispondiamo, sì! Lo diciamo non solamente dal punto di vista di una coscienza cristiana, ma soprattutto in base al detto della Scrittura: un abisso chiama un’altro abisso (Salmo 42:7). Così una bugia ne chiama un’altra, fino tal punto da causare una vera valanga. Ecco la dimostrazione.

Giacobbe non era Esaú, sia come persona e sia anche come carattere; ma in quel memorabile giorno, egli ha dovuto mentire a suo padre, che chiedeva: chi sei tu, figlio mio? Si potrebbe chiedere se Giacobbe fosse stato già preparato a queste specie di domande precise del padre. Non serve a niente supporre la preparazione di Rebecca, nei confronti del figlio, come risponderà ad un'eventuale domanda. Giacobbe non è un ragazzino, che può essere trascinato qua e la senza sapere quel che fa; è un uomo che ha più di quaranta anni, e in base alla sua età, è in piena responsabilità di quello che dice.

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Domenico34
00venerdì 2 dicembre 2011 14:07
La bugia è sua, com'è anche sua la parola e la bocca dalla quale esce. In altre circostanze, Giacobbe, non avrebbe detto mai di essere Esaú, anche perché si rendeva ben conto che suo fratello, non aveva il suo stesso carattere, indipendentemente dal fatto che egli era “peloso”. Ma in quel giorno, come se tutto andasse per il giusto verso, dichiarò per la prima volta di essere Esaú, e ciò davanti a suo padre.

Questa sua prima bugia, lo indusse a dirne un’altra: Ho fatto come tu mi hai detto. Anzitutto, Isacco, non aveva parlato a Giacobbe, ma a Esaú. Giacobbe non aveva ascoltato la voce del padre, aveva ascoltato invece quella della madre, che gli aveva fatto sapere quello che Isacco aveva detto ad Esaú. Ma qui, Giacobbe, non solo si camuffa per Esaú, ma si presenta addirittura come un figlio obbediente che fa esattamente quello che ha detto il padre. Al vecchio e cieco padre, non sembra che tutto vada bene, anche ha sentito che suo figlio Esaú — così credeva almeno lui — è già davanti a sé con un bel piatto saporito.

Come hai fatto a trovarne così presto, figlio mio? Egli rispose: perché l’Eterno, il tuo DIO, l’ha fatta venire a me (Genesi 27:20).

Quest’altra bugia che Giacobbe pronuncia — forse non si aspettava da suo padre una simile domanda —, non è solamente “un’altra menzogna”, è quella che chiama in causa l’Eterno. Pronunciare il nome di Dio, per far credere che la bugia è verità, è estremamente dannoso per l’integrità dell’anima. Dio ordina al suo popolo, di

non usare il nome dell’Eterno invano, perché l’Eterno non lascerà impunito chi usa il suo nome invano (Esodo 20:7).

Da parte sua, Paolo, ammonisce:
Ritraggasi dall’iniquità chiunque nomina il nome del Signore (2 Timoteo 2:19).

A questo punto, Isacco, non potendo fare uso dei suoi occhi, perché cieco, per accertarsi se la persona che è davanti a sé è veramente suo figlio Esaú, dice:

Avvicinati e lascia che io ti palpi, figlio mio, per sapere se sei proprio mio figlio Esaú, o no.

Giacobbe dunque si avvicinò ad Isacco suo padre; e, come questi lo ebbe palpato disse:

La voce è quella di Giacobbe, ma le mani appartengono ad Esaú. Così non lo riconobbe, perché le mani di lui erano pelose come le mani di Esaú suo fratello; e lo benedisse. E disse: sei tu veramente mio figlio Esaú? Egli rispose: sì (Genesi 27:21-24).

Davanti alla chiara manifestazione d'incertezza che il vecchio padre manifesta, soprattutto quando dice: la voce appartiene a Giacobbe, e poi quando chiede — forse con un accento particolare — Sei tu veramente mio figlio Esaú? Giacobbe avrebbe dovuto tremare e fermarsi dal persistere nella menzogna. Ma ormai il cuore si è incallito, non avverte più i battiti sconvolti del cuore, e con ferma voce dice: “Sì”. Qui termina la storia dei preparativi per la benedizione.

Davanti a questa storia di Giacobbe, che parla eloquentemente della tenace persistenza di dire menzogne, fino ad usare il nome dell’Eterno, non solo dovremmo seriamente riflettere, ma soprattutto tremare, perché se un uomo come Isacco, poté essere ingannato, non si pensi di poter ingannare Dio.

Non vi ingannate, Dio non si può beffare, perché ciò che l’uomo semina, quello pure raccoglierà (Galati 6:7).

1. LA BENEDIZIONE DATA DA ISACCO A GIACOBBE E AD ESAÚ


Dopo la triste constatazione che abbiamo fatto della persistenza menzognera di Giacobbe, arriviamo al momento in cui quest'uomo viene benedetto. La benedizione che egli riceve da Isacco, non è certamente il frutto dei suoi “meriti”, ma la manifestazione della “misericordia di Dio”. L’uomo non riceve mai dalla mano di Dio una qualsiasi benedizione, basandosi sopra i propri meriti, ma sempre sulla base della bontà di Dio. La Scrittura è chiara a questo proposito, quando afferma:

Egli (l’Eterno) non ci tratta come meritano i nostri peccati, e non ci castiga in base alle nostre colpe (Salmo 103:10).

Un’altra Scrittura dice:
Ma dopo tutto quanto ci è venuto addosso a motivo delle nostre azioni malvagie e delle nostre grandi colpe, poiché tu, o DIO nostro, ci hai punito meno di quanto meritavano le nostre colpe e ci hai lasciato un residuo come questo (Esdra 9:13).

Ed ancora si legge:
Rivolgendosi alla gente dirà: ho peccato e violato la giustizia, e non sono stato punito come meritavo (Giobbe 33:27).

Infine si legge:
Egli (il Signore) ci ha salvati non per mezzo di opere giuste che noi avessimo fatto, ma secondo la sua misericordia... (Tito 3:5).

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Domenico34
00sabato 3 dicembre 2011 00:08
Ecco il momento in cui Giacobbe riceve la benedizione. Dopo che Isacco mangiò e bevve ed ebbe odorato i vestiti che aveva addosso Giacobbe, egli disse:
Ecco, l’odore di mio figlio è come la fragranza di un campo, che l’Eterno ha benedetto. Dio ti dia la rugiada dei cieli e la fertilità della terra e abbondanza di frumento e di vino. Ti servano i popoli e le nazioni si inchinino davanti a te. Sii padrone dei tuoi fratelli e i figli di tua madre si inchinino davanti a te. Maledetto sia chiunque ti maledice, benedetto sia chiunque ti benedice! (Genesi 27:27-29).

La benedizione che Isacco pronunciò — nella sua intenzione era per Esaú, ma, in effetti, andò a Giacobbe — non rispecchiava il desiderio e la volontà del padre, — come potrebbe sembrare da un punto di vista umano —, rispecchiava invece esattamente quello che Dio aveva già predetto, fin da quando i due fratelli si trovavano nel grembo della madre. Che l’uomo non possa modificare niente di tutto quello che l’Eterno ha stabilito nel Suo piano, appare chiaramente, non solo da questo racconto, ma anche da altri testi della Bibbia, come per esempio:
Riconosco che puoi tutto, e che nessun tuo disegno può essere impedito (Giobbe 42:2).

D’altra parte, conciliare la preconoscenza di Dio, con quello che l’uomo fa, — e quello che l’essere umano fa non è mai sufficiente per accaparrarsi i favori di Dio —, non è certo sempre facile, specie davanti all’agire negativo, quale fu quello di Giacobbe. Indipendentemente dal fatto che noi riusciamo a capire o no la preconoscenza di Dio, resta sempre fermo la verità che Dio tratta l’uomo, non secondo quello che egli merita, ma secondo la Sua misericordia e bontà.

2. LA REAZIONE DI ESAÚ NEI CONFRONTI DI SUO FRATELLO GIACOBBE PER LA BENEDIZIONE RICEVUTA DA ISACCO, SUO PADRE


Come Isacco finisce di benedire Giacobbe, e quest’ultimo si era appena allontanato dalla sua presenza, ecco che arriva Esaú, di ritorno dalla caccia, e, ammannita la selvaggina che aveva preso, si presenta davanti a suo padre per ricevere la sua benedizione. Fu oltremodo sbalordito Isacco, quando venne a sapere che Giacobbe, agendo con inganno, aveva preso la benedizione di suo figlio Esaú. Esaú, da parte sua, non avendo il minimo sospetto che suo fratello ha agito con inganno per prendersi la sua benedizione, reagisce con un grido forte ed amarissimo, dicendo a suo padre: benedici anche me, padre mio! Egli ha dovuto con rammarico prendere atto, che è stato

soppiantato già due volte; mi tolse la primogenitura ed ecco ora si è presa la mia benedizione (Genesi 27:36).

Facendo una certa insistenza su suo padre perché benedicesse anche lui, Isacco pronuncia le seguenti parole:

Ecco, la tua dimora sarà priva della fertilità della terra e della rugiada che scende dall’alto dei cieli. Tu vivrai della tua spada e sarai servo di tuo fratello; ma avverrà che, quando combatterai, spezzerai il suo giogo dal tuo collo (Genesi 27:39-40).

Segue subito quanto appresso:
Così Esaú prese a odiare Giacobbe a motivo della benedizione datagli da suo padre, e disse in cuor suo: i giorni del lutto per mio padre si avvicinano; allora ucciderò mio fratello Giacobbe (v. 41).

Non possiamo giustificare l’imbroglio e l’inganno di Giacobbe ai danni di Esaú — egli resterà con questo nome, fino al giorno in cui gli verrà cambiato in Israele (Genesi 32:28) —, ma neanche possiamo sorvolare e giustificare l’odio di Esaú nei confronti di Giacobbe. Anche se Giacobbe dovette allontanarsi dai suoi genitori, prendere la via di Paddan-Aram, quindi anche lontano da suo fratello Esaú, per ben venti anni, non per questo l’odio di quest’ultimo, non se ne andò dal suo cuore.

Spesso si rimane di stucco, per non dire scandalizzati, come può l’uomo conservare nel proprio cuore e per tanti anni, l’odio verso qualcuno. Indipendentemente da quelli che potrebbero essere i “motivi” che causano l’odio, l’insegnamento della Scrittura rimane sempre identico, con la stessa fermezza e precisione:

Chi dice di essere nella luce e odia il proprio fratello, è ancora nelle tenebre. Ma chi odia il proprio fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre gli hanno accecato gli occhi (1 Giovanni 2:9,11).

Da questo si riconoscono i figli di Dio e i figli del diavolo: chiunque non pratica la giustizia non è da Dio, e neppure lo è chi non ama il proprio fratello (1 Giovanni 3:10).

Ed ancora:
Chiunque odia il proprio fratello è omicida; e voi sapete che nessun omicida ha la vita eterna dimorante in sé (1 Giovanni 3:15):

Infine:
Se uno dice: io amo Dio, e odia il proprio fratello, è bugiardo; chi non ama, infatti, il proprio fratello che vede, come può amare Dio che non vede? (1 Giovanni 4:20).

Spesso si afferma che il trascorrere degli anni, conduce l’uomo a riflettere, a ripensare. Non fu però così per Esaú. Nonostante fossero trascorsi venti anni, durante i quali, Esaú, non aveva rivisto una sola volta Giacobbe, quello che si legge nel libro della Genesi, non fu soltanto sconvolgente e preoccupante per Giacobbe, lo è anche per ogni anima sensibile.

PS: Se al termine del capitolo 2 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura

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Domenico34
00domenica 4 dicembre 2011 00:06
Capitolo 3



LA PARTENZA DI GIACOBBE PER PADDAN-ARAM



Allora Isacco chiamò Giacobbe, lo benedisse, gli ordinò e gli disse: «Non prender moglie tra le donne di Canaan.
Alzati, va’ in Paddan-Aram, alla casa di Bethuel, padre di tua madre, e prenditi di là in moglie una delle figlie di Labano, fratello di tua mamma.
Dio onnipotente ti benedica, ti renda fruttifero e ti moltiplichi, sì che tu divenga un’assemblea di popoli,
e ti dia la benedizione di Abrahamo, a te e alla tua discendenza con te, affinché tu possegga il paese dove vivi come uno straniero e che DIO donò ad Abrahamo».
Così Isacco fece partire Giacobbe, che andò in Paddan-Aram da Labano, figlio di Bethuel, l’Arameo, fratello di Rebecca, madre di Giacobbe ed Esaú
(Genesi 28:1-5).

La situazione era diventata veramente difficile per Giacobbe, a causa della benedizione che aveva ricevuto da su padre Isacco, anche se la stessa l’aveva ottenuta con inganno. Esaú, suo fratello che, secondo la logica umana e in base al diritto di primogenitura che aveva, si sentiva defraudato da Giacobbe suo fratello. Però, per amor di verità, va ricordato che Esaú in precedenza, fece un giuramento con suo fratello, di vendergli il diritto della sua primogenitura, prima che Giacobbe gli avesse dato da mangiare la zuppa di lenticchie che aveva cucinato.

Esaú, non tenendo presente quello che aveva fatto in precedenza, quando si rese conto che la benedizione paterna che gli spettava in virtù del diritto di primogenitura era andata a suo fratello Giacobbe, invece di riconoscere lo sbaglio che aveva fatto e pentirsene, si accese d’ira nei confronti di suo fratello e cominciò ad odiarlo. Il sacro testo precisa:

Così Esaú prese a odiare Giacobbe a motivo della benedizione datagli da suo padre, e disse in cuor suo: «I giorni del lutto per mio padre si avvicinano; allora ucciderò mio fratello Giacobbe» (Genesi 27:1).

Non si sa chi ha riferito a Rebecca le parole e il proposito che Esaú aveva concepito nei confronti di Giacobbe suo fratello. Il testo sacro precisa in maniera certa che, a Rebecca gli vennero riferite le parole di Esaú (Genesi 27:42). Non è possibile pensare che sia stato Esaú a dirglielo — anche se egli non sapeva che sua madre era stata quella che aveva ideato ed orchestrato tutta la trama perché Giacobbe ricevesse la benedizione dal padre — e neanche che l’avesse detto a suo padre. Il testo che abbiamo riportato all’inizio, smentisce in maniera categorica che Isacco, quando ordinò a suo figlio Giacobbe di andare a Paddan-Aram, facesse riferimento alla minaccia di Esaú, ma esplicitamente al divieto di prendere moglie tra le donne di Canaan.

Un insegnamento da prendere

Davanti a questo preciso particolare che il racconto biblico ci fornisce, c’è un preciso insegnamento da ricordare, cioè: le cose che si dicono in occulto, verranno immancabilmente a sapersi.

Quello che maggiormente dà più peso a quest'affermazione, è senza dubbio la parola di Gesù:

Non li temete dunque, poiché non c’è nulla di nascosto che non debba essere rivelato e nulla di segreto che non debba essere conosciuto (Matteo 10:26; vedere anche Luca 12:2).

Se non si vuole “sapere nulla”, bisogna anche imparare a non “dire nulla”. Non sono sicuramente le cose buone che vengono dette di nascosto; sono invece le cattive, cioè, quelle che mirano ad arrecare danni e offese, calunnie, diffamazioni ed ogni sorta di malumori.

Credere che le cose dette in occulto, rimarranno segrete per sempre e che nessuno le saprà mai, è una pura illusione. Quel detto proverbiale che dice: «Le mura non hanno orecchie e sentono», mette in evidenza che gli antichi che le pronunciavano, credevano che non c’è niente che rimanga occulto, anche se a quelle persone mancava la luce della conoscenza della Parola di Dio. Quando, invece, si ha la conoscenza della Parola di Dio, e la si crede come parola infallibile, non solo le cose sono ben diverse, ma anche gli ‘atteggiamenti’ che si assumono, sono differenti.

Chi avrebbe mai pensato che il re d’Israele avrebbe saputo dei piani strategici di guerra che il sovrano di Siria concepiva con i suoi servi, nei confronti del popolo d’Israele, dal momento che questi erano segreti? Eppure si sa che il re d’Israele veniva avvisato in tempo, da rendere vani quei piani. Davanti all’evidenza che il re d’Israele conosceva in tempo questi piani di guerra, non c’era dubbio nella mente del sovrano di Siria che qualcuno dei suoi servi aveva fatto la spia per informare di tutto il re nemico.

Molto turbato in cuor suo per questa cosa, il re di Siria convocò i suoi servi e disse loro: .«Non sapete dirmi chi dei nostri parteggia per il re d’Israele?».
Uno dei suoi servi rispose: «Nessuno, o re mio signore, ma Eliseo, il profeta che è in Israele, fa sapere al sovrano d’Israele perfino le parole che tu dici nella camera da letto»
(2Re 6:11-12).

Che Dio muova il profeta Eliseo per avvisare del pericolo che incombe sul re e sul popolo d’Israele, o che Egli ispiri uno dei profeti che parlano nelle riunioni pubbliche della chiesa di Corinto, a palesare i segreti del cuore (1Corinzi 14:25), tutto è in perfetta armonia che conferma che, non c’è nulla di nascosto che non debba essere rivelato e nulla di segreto che non debba essere conosciuto.

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Domenico34
00lunedì 5 dicembre 2011 00:11
Le previsioni di Rebecca

Ritornando a Rebecca che cerca di proteggere la vita del suo prediletto figlio Giacobbe, non solo gli fa conoscere il male che suo fratello Esaú ha concepito per ucciderlo, ma gli dà anche dei consigli per metterlo al sicuro:

«Or dunque, figlio mio, ubbidisci a ciò che ti dico: alzati e fuggi a Haran da Labano mio fratello;
e rimani con lui un po’ di tempo, finché la collera di tuo fratello sia passata,
finché l’ira di tuo fratello sia distolta da te ed egli abbia dimenticato quello che tu gli hai fatto; allora io manderò a prenderti di là. Perché dovrei io essere privata di voi due in un sol giorno?»
(Genesi 27:43-45).

Davanti a queste precise parole Rebecca pensava che Giacobbe sarebbe dovuto rimanere lontano da lei, solo un po’ di tempo, (forse breve) non sapendo però, che avrebbero dovuto passare più di venti anni; che la collera di Esaú sarebbe passata e che egli avrebbe ‘dimenticato’ tutto il male ricevuto. Questa previsione che Rebecca prospettava a Giacobbe, era senza dubbio una chiara rivelazione del fatto che lei voleva il bene del suo prediletto. Non sapeva però che le cose che lei prevedeva non si sarebbero verificate, poiché Esaú non avrebbe dimenticato il male ricevuto e neanche la sua collera e la sua ira si sarebbero distolte dalla sua mente e dal suo cuore.

Tutti i sentimenti di odio, d'ira e di vendetta, non verranno mai divelti dalla mente e dal cuore dell’uomo (anche se passano tanti anni), a meno ché non intervenga Dio che, con la potenza della sua grazia, cambia la mente il cuore del peccatore. Per una persona incallita nel suo rancore e nel suo odio, che ha principalmente sete di vendetta, gli anni che passeranno — anche se saranno molti — non produrranno ‘nessun cambiamento’. Mentre, se invece, interviene il Signor Gesù nella vita di una persona che ha simili pensieri, e si impossessa della sua esistenza, allora il miracolo della ‘trasformazione’ avverrà sicuramente e in modo radicale. E, quando ciò avviene, si avvera quello che dice la Scrittura:

Se uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco tutte le cose sono diventate nuove (2Corinzi 5:17).

Rebecca non credeva solamente che suo figlio Giacobbe una volta fuggito in Haran, da suo fratello Labano, sarebbe stato messo al sicuro, credeva anche che lei stessa, attraverso i suoi messaggeri, l’avrebbe fatto ritornare presso di sé. Esaminando però, la storia della vita di Giacobbe, così come la Genesi ce la racconta, il ritorno di Giacobbe in Canaan, non avvenne per il diretto intervento di Rebecca e del suo interessamento, ma per una precisa promessa e rivelazione di Dio (cfr. 28:15; 31:3).

PS: Se al termine del capitolo 3 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 4



IL SOGNO DI GIACOBBE A BETHEL



Or Giacobbe partì da Beer-Sceba e se ne andò verso Haran.
Giunse in un certo luogo e vi passò la notte, perché il sole era già tramontato. Allora prese una delle pietre del luogo, la pose sotto la sua testa e in quel luogo si coricò.
E sognò di vedere una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa.
Ed ecco l’Eterno stava in cima ad essa e gli disse: «Io sono l’Eterno, il DIO di Abrahamo tuo padre e il DIO d'Isacco; la terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza;
e la tua discendenza sarà come la polvere della terra, e tu ti estenderai ad ovest e ad est, a nord e a sud; e tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua discendenza.
Ed ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque andrai, e ti ricondurrò in questo paese; poiché non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto».
Allora Giacobbe si svegliò dal suo sonno e disse: «Certamente l’Eterno è in questo luogo, e io non lo sapevo».
Ed ebbe paura e disse: «Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di DIO e questa è la porta del cielo!».
Così Giacobbe si alzò al Matteoino presto, prese la pietra che aveva posto sotto la sua testa, la eresse come stele e versò dell’olio sulla sua sommità.
E chiamò quel luogo Bethel, mentre prima il nome della città era Luz.
Poi Giacobbe fece un voto dicendo: «Se DIO sarà con me e mi proteggerà durante questo viaggio che faccio, se mi darà pane da mangiare e vesti da coprirmi,
e ritornerò alla casa di mio padre in pace, allora l’Eterno sarà il mio DIO;
e questa pietra che ho eretta come stele, sarà la casa di DIO; e di tutto quello che tu mi darai io ti darò la decima»
(Genesi 28:10-22).

Il racconto del sogno che Giacobbe fece in quella notte memorabile, non fu solamente per lui come un faro luminoso che lo avrebbe illuminato nel cammino della sua vita, con una promessa divina così personalizzata che gli avrebbe dato sicurezza e tranquillità. Lo è anche per noi, per ogni sincero credente, che vive in tempi diversi rispetto a quelli in cui visse Giacobbe, una lampada luminosa che brilla sul nostro sentiero. Soprattutto, nei momenti più oscuri e critici della via, quando si incontrano le svariate difficoltà e le cose non vanno nel giusto verso come vorremmo che andassero, questa promessa è atta a comunicarci certezze, soprattutto quando si fa affidamento sulla Parola di Dio.

Però, prima di fare una qualsiasi spiritualizzazione di questo passaggio biblico, è necessario mettere in risalto. 1) Il viaggio di Giacobbe e la sua destinazione; 2) il futuro di Giacobbe per ciò che concerne quello che avrebbe dovuto incontrare, di cui non ha la minima idea e 3) l’intervento di Dio per proteggere Giacobbe da tutte le peripezie che avrebbe incontrato nel corso dei suoi lunghi anni. Con una simile prospettiva davanti a noi, non solo riusciremo meglio a comprendere questo antico patriarca, ma sarà anche più facile spiritualizzare il passaggio in questione, per afferrare il valore e la portata sul piano dell’esperienza personale di tutti i giorni.

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Domenico34
00martedì 6 dicembre 2011 00:14
1) Il viaggio di Giacobbe e la sua destinazione

Rebecca per prima e poi suo marito Isacco, avevano chiaramente detto al proprio figlio Giacobbe che, doveva partire dalla loro dimora per andare a Paddan-Aram, nella casa di Bethuel, il casato di Rebecca. Anche se la madre aveva addotto i motivi del pericolo di morte che incombeva sulla vita di Giacobbe e il padre aveva ordinato di non prendere per moglie una delle donne di Canaan, tutti due però avevano indicato una precisa destinazione che il loro figlio avrebbe dovuto raggiungere, cioè, Paddan-Aram. Una qualsiasi altra destinazione che Giacobbe avrebbe potuto attingere — ammesso per ipotesi che l’avesse fatto —, non avrebbe rispecchiato la volontà dei suoi genitori.

Inoltre, quello che maggiormente bisogna tenere presente è il fatto che Isacco nel mandare il figlio alla volta di Paddan-Aram, invocava una particolare benedizione da parte dell’Iddio Onnipotente.

Dio onnipotente ti benedica, ti renda fruttifero e ti moltiplichi, sì che tu divenga un’assemblea di popoli,
e ti dia la benedizione di Abrahamo, a te e alla tua discendenza con te, affinché tu possegga il paese dove vivi come straniero e che DIO donò ad Abrahamo
(Genesi 28:3-4).

Appare pertanto chiaro che, l’augurio d'Isacco di una particolare benedizione sulla vita di Giacobbe da parte dell’Iddio Onnipotente, riguardava essenzialmente il suo matrimonio, con una delle figlie di Labano, suo cognato. Siccome Labano abitava in Paddan-Aram, ogni altra destinazione che il figlio avrebbe potuto raggiungere, non solo non rispettava l’ordine del padre, ma neanche si allineava con la benedizione che Giacobbe avrebbe ricevuto, cioè la benedizione di Abrahamo che riguardava la sua vita e quella della sua discendenza.

Siccome la benedizione di Abrahamo era basata sulla promessa che Dio gli aveva fatta, promessa che non riguardava la sola persona di Abrahamo, ma includeva anche la sua discendenza (e Giacobbe era la sua legittima discendenza), ne consegue che Isacco, nell’invocare quella benedizione sulla vita di suo figlio Giacobbe, pronunciava una profezia che riguardava anche il suo futuro.

In conclusione si può affermare che, il viaggio di Giacobbe, con destinazione Paddan-Aram, non rappresenta solamente l’appagamento della volontà d'Isacco suo padre, rappresenta anche una chiara indicazione dei piani e del volere di Dio, che riguarda il passato, il presente e il futuro della vita di Giacobbe.

La prima cosa che Dio fa nel parlare con Giacobbe, non è solamente di farsi conoscere come l’Iddio di Abrahamo e d'Isacco suo padre, ma gli fa anche una precisa promessa che riguarda il suolo su cui si trova coricato.

La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza,
e la tua discendenza sarà come la polvere della terra, e tu ti estenderai ad ovest e ad est, a nord e a sud; e tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua discendenza
(Genesi 28:13-14).

La promessa di ricevere in eredità la terra sulla quale il patriarca si trova coricato, non riguarda la sola persona di Giacobbe, ma include anche la sua discendenza, che Dio la paragona alla polvere della terra, non per significare il poco valore che ha, bensì per parlare dell’abbondanza di questa discendenza. Che poi Giacobbe si sarebbe esteso in tutte le direzioni: Ovest, Est, Nord e Sud, sta significando che il patriarca si sarebbe spinto in tutte le parti, nell’arco della sua vita, durante le sue svariate peregrinazioni. Che le esperienze di Giacobbe durante gli anni del suo pellegrinare, abbiano lasciato dei segni incancellabili nella sua vita, e che sotto certi aspetti abbiano aperti nuovi orizzonti davanti a lui, ciò è un fatto certo, stando a quello che dice il racconto della Genesi.

2) il futuro di Giacobbe per ciò che concerne quello che avrebbe dovuto incontrare, di cui non ha la minima idea

Che sia l’augurio che Isacco formula nei confronti di suo figlio Giacobbe al momento della partenza per Paddan-Aram, sia in armonia con i piani e i voleri divini, ciò appare chiaramente dal messaggio che Dio rivolge a Giacobbe a Bethel, in quella memorabile notte, in cui nel suo sogno vide quella scala che appoggiava sulla terra, e la cui cima toccava il cielo.

«Io sono l’Eterno, il DIO di Abrahamo tuo padre e il DIO d'Isacco; la terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza;
e la tua discendenza sarà come la polvere della terra, e tu ti estenderai ad ovest e ad est, a nord e a sud; e tutte le famiglie del globo terrestre saranno benedette in te e nella tua discendenza.
Ed ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque andrai, e ti ricondurrò in questo paese; poiché non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto»
(Genesi 28:13-15).

Davanti alle specificazioni precise e personali che Dio fa nel parlare con Giacobbe, ci sono tutti gli elementi dimostrativi, non solamente per ciò che concerne il matrimonio e la discendenza del patriarca, ma anche le varie difficoltà che incontrerà nel suo cammino. La parola ti ‘proteggerò’, basta da sola per farci capire che il futuro di Giacobbe sarà pieno di pericoli per la sua vita, inclusa anche la minaccia di morte che suo fratello Esaú, concepì nel giorno che ricevette la benedizione paterna.

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Domenico34
00mercoledì 7 dicembre 2011 00:15
Se poi si mettono in risalto le parole: Io sono con te, dovunque tu andrai, non ti abbandonerò, prima di aver fatto quello che ti ho detto, si può cogliere in pieno la portata e l’importanza di questa meravigliosa promessa divina.

Siccome il messaggio è personale, cioè riguarda la vita presente e futura di Giacobbe, era necessario che Dio gli desse una certa garanzia, per infondere certezze nella mente e nel cuore, senza limitarlo ad un definitivo periodo, ma estendendolo fino a quando Egli, l’Eterno, avrebbe portato a compimento la Sua parola.

3) l’intervento di Dio per proteggere Giacobbe da tutte le peripezie che avrebbe incontrato nel corso dei suoi lunghi anni


Le parole che vennero rivolte a Giacobbe a Bethel, non erano quelle di suo padre o di un altro uomo, erano invece quelle di Dio. Era Lui che si impegnava, con una precisa promessa, a garantire il Suo intervento in suo favore. Non c'era quindi da preoccuparsi se il futuro non appariva roseo, nel senso che tutto sarebbe andato liscio, senza difficoltà e peripezie. Davanti alla precisa assicurazione che l’Eterno stesso fornisce a Giacobbe nell’essere con lui, il patriarca deve solamente credere a quello che Dio gli ha detto, senza doversi spiegare l’evolversi degli eventi.

Un ultimo elemento della manifestazione di Dio a favore di Giacobbe, consiste nel mettere in evidenza che avvenne all’inizio del suo viaggio. Secondo il nostro modesto modo di vedere e di intendere le cose, crediamo che non si tratta di un puro caso accidentale che Dio abbia parlato a Giacobbe all’inizio del suo viaggio. Se si considera attentamente quello che dice il testo sacro, si potrà meglio comprendere ed apprezzare un simile intervento.

Or Giacobbe partì da Beer-Sceba e se ne andò verso Aran.
Giunse in un certo luogo e vi passò la notte, perché il sole era già tramontato
(Genesi 28:10-11).

A che ora della giornata partì Giacobbe da Beer-Sceba, alla volta di Aran, non ci viene dato di sapere. Neanche si può precisare il tempo che impiegò per arrivare a Bethel. Quello che si può dire con certezza è che quando Giacobbe arrivò a Bethel, il sole era già tramontato. Questo significa che camminò una giornata, per coprire la distanza tra Beer-Sceba e Bethel, che ammontava ad una quarantina di miglia. Quindi, si può parlare con ragione che prima che Giacobbe inizi una seconda giornata di cammino, l’Eterno gli parlò. Dio che conosceva il futuro della vita di Giacobbe, prima che si presentassero le prime difficoltà, lo volle assicurare che nel viaggio che aveva intrapreso, non doveva considerasi solo, perché Egli prometteva di essere con lui: io sono con te.

Se Dio usò il tempo del verbo essere al futuro, ‘sarò’, ciò equivaleva ad affermargli che il quel primo giorno del suo viaggio, egli stava camminando solo. Siccome Dio sapeva il lungo viaggio che Giacobbe avrebbe dovuto affrontare per raggiungere la casa di Labano, lo volle assicurare, fin dal primo giorno, che avrebbe avuto una divina compagnia con lui, non solo per quel primo dì che era trascorso, ma anche per quelli che sarebbero stati in seguito.

Anche il voto che Giacobbe fece al Signore in quella circostanza, non deve essere interpretato come se egli mettesse in dubbio la promessa di Dio.

«Se DIO sarà con me e mi proteggerà durante questo viaggio che faccio, se mi darà pane da mangiare e vesti da coprirmi,
e ritornerò alla casa di mio padre in pace, allora l’Eterno sarà il mio DIO;
e questa pietra che ho eretta come stele, sarà la casa di DIO; e di tutto quello che tu mi darai io ti darò la decima»
(Genesi 28:20-22).

Il voto di Giacobbe va interpretato come un solenne impegno che prende davanti a Dio, come risposta alla sua fedeltà. Prima Abrahamo, che diede la decima a Melchisedek, senza che venisse richiesta (Genesi 14:20) e poi Giacobbe, senza che ancora esistesse una norma divina in tal senso, sentirono spontaneamente e nella loro completa libertà di dare e promettere la decima. Più tardi, Dio stesso stabilirà delle precise norme che regoleranno il pagamento della decima. Senza che i due patriarchi si rendessero conto, si mossero sul piano della volontà di Dio, in perfetta armonia con quello che Egli avrebbe stabilito ai tempi di Mosè.

Gli interventi di Dio a favore di Giacobbe, durante le svariate prove che incontrerà nell’arco dei suoi lunghi anni, saranno i prossimi capitoli a descriverli dettagliatamente.

4. Il significato spirituale che ha il sogno a Bethel

Avendo descritto il sogno che Giacobbe ebbe a Bethel, nelle linee principali, con riferimento alla sua vita, ora ci accingiamo a considerarlo sotto l’aspetto spirituale, per cogliere tutta la ricchezza che ha, soprattutto quando viene applicato per la vita di ogni credente.

Una prima giornata di cammino

La prima giornata di cammino che Giacobbe fece, si concluse quando il sole era tramontato. Questo significa che egli camminò di giorno e non continuò il suo viaggio al calare dell’oscurità. Questo particolare ci fornisce qualche elemento per cominciare a spiritualizzare sulla prima fermata del lungo viaggio di Giacobbe. Anche se il nome della città prima si chiamava Luz = mandorlo, Giacobbe arrivando in quella località, si affrettò a cambiargli il nome in Bethel = Casa di Dio. Il cambiamento del nome non avvenne per caso, riflette essenzialmente l’esperienza particolare che quell’uomo fece in quella località, a seguito di quello che vide durante la notte.

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Domenico34
00giovedì 8 dicembre 2011 00:02
Mettendo in risalto che egli non sapesse che in quel luogo c’era con ‘certezza’ Dio, con il nome di Behetl, il patriarca in pratica sigillava la sua convinzione della reale presenza di Dio in quella località. Infatti, parlare di una casa senza fare riferimento a chi l’abita, oltre a non avere senso, non ha nessuna importanza; mentre se si fornisce il nome di chi vi dimora, il luogo in se stesso si guarda sotto un altro aspetto. Col chiamare quel luogo: Bethel = Casa di Dio, Giacobbe ha voluto dire a sé e a chi verrà in seguito, (i cristiani in un modo particolare) che quando si arriva a Bethel, non si arriva in una qualsiasi località; si arriva nella casa di Dio, dove Egli si trova.

Sotto l’aspetto puramente spirituale, è impossibile che un credente resti indifferente o non avverta la presenza del soprannaturale, là dove c’è Dio e la sua casa. Nella casa di Dio, non c’è solamente la convinzione della Sua presenza, c’è anche la consapevolezza che quel luogo è anche la porta del cielo. Con questi rilievi, si possono meglio capire e valutare le parole di Gesù. Egli un giorno affermò che se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo (Giovanni 11:9). Paolo, da parte sua dice che, i credenti sono figli della luce e figli del giorno (1Tessalonicesi 5:5).

Siccome il sole fu creato da Dio non solo per recare luce sulla terra, ma anche per il governo del giorno (Salmo 136:8), e dato che Gesù si definì luce del mondo (Giovanni 8:12), ed esorta le persone a camminare mentre hanno con loro la luce (Giovanni 12:35), i figli di Dio, faranno bene ad imparare da Giacobbe, a fermarsi al calare dell’oscurità, e riprendere il loro viaggio, quando il sole divino, Gesù Cristo, ritornerà a risplendere sul loro sentiero.

Anche se Giacobbe nella sua prima giornata di cammino, era sicuramente stanco, per le quaranta miglia che aveva percorso, la fermata a Bethel, = Casa di Dio, gli serviva per riposarsi e smaltire la stanchezza, in modo che al sorgere di un nuovo giorno, potesse proseguire nel suo viaggio. Le fermate che si compiono nella casa di Dio, sono salutari per l’anima e per il corpo; e, ognuno, ne trarrà sicuramente beneficio.

Una notte a Bethel


Allora prese una delle pietre del luogo, la pose sotto la sua testa e in quel luogo si coricò.

Passare una notte per dormire e riposare nella condizione in cui venne a trovarsi Giacobbe, dopo la fatica di una giornata di cammino, non fu sicuramente una delle migliori notti della sua vita, dal punto di vista umano. Avere poi per cuscino una pietra e per materasso un suolo duro, quale era il terreno, questi non erano sicuramente elementi che favorivano un dolce sonno e una notte di riposo. Eppure, fu in quella condizione che Giacobbe, passò una notte memorabile, per il sogno che fece e per quello che gli venne detto da parte di Dio, che senza dubbio, ha lasciato segni indelebili nella sua vita.

Che cos’altro potrebbe significare quella pietra, se non Gesù Cristo stesso, sul quale i cristiani pellegrini devono posare la loro testa, durante la notte della vita umana? Avendo Gesù come nostro guanciale di riposo, specie se si tengono presenti le sue parole.

Venite a me, voi tutti che siete travagliati e aggravati, ed io vi darò riposo (Matteo 11:28),

le varie situazioni della vita, anche quelle meno desiderabili, appariranno meno fastidiose, perché sarà in mezzo a quelle circostanze che il divino avrà il sopravvento, a tutto beneficio della persona che riposa in Gesù.

Quella ‘scala’ che appoggiata sulla terra, e la cui cima toccava il cielo, è un mezzo di collegamento tra la terra e il cielo. Sappiamo che l’unico mezzo che collega la terra e il cielo, tra il divino e l’umano, è solamente Cristo Gesù, il mediatore tra Dio e gli uomini (1 Tim 2:5). Egli stesso un giorno fornì quest'interpretazione quando parlando con Natanaele, affermò:

«In verità, in verità io vi dico che da ora in poi vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo» (Giovanni 1:51).

Gesù non è solamente il mezzo attraverso il cui dobbiamo essere salvati (Atti 4:12); la ‘porta del cielo’, attraverso la quale si va al Padre (Giovanni 14:6), ma è anche Colui che ci ha aperto il cielo. Se Gesù non fosse venuto sulla terra e non avesse dato la sua vita sulla croce del Calvario, il cielo, per l’uomo peccatore, sarebbe rimasto sempre chiuso, senza nessuna possibilità di accesso. Ma una volta che Egli è venuto e ha compiuto l’opera di redenzione per tutta l’umanità, a mezzo del sacrificio della vita, il cielo si è aperto e aperto per tutti, a condizione che ognuno creda in Cristo Gesù e accetti per fede, quello che Egli ha fatto per l’uomo.

Le promesse divine

Tutte le promesse che sono nella Bibbia, non sono fatte mai per Dio, ma sempre per l’uomo. Che poi l’uomo le creda o no per riceverle, ciò dipenderà esclusivamente da lui e non dalla disponibilità di Dio. Tra le promesse divine, vi sono quelle che riguardano la vita umana, quella materiale che si vive sulla terra e quelle celesti che riguardano la vita dello spirito e l’eternità nella gloria. Tra le promesse materiali, vi sono quelle che riguardano esclusivamente Israele e nessun altro le può reclamare. La promessa che Dio fece a Giacobbe di dare la terra sulla quale era coricato, a lui e alla sua discendenza, oltre ad essere una promessa personale, era anche un giuramento materiale, cioè parlava della terra fisica.

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Domenico34
00venerdì 9 dicembre 2011 00:05
A questo punto si potrebbe fare riferimento alla beatitudine di Gesù: Beati i mansueti, perché essi erediteranno la terra (Matteo 5:5), per sapere come bisogna intendere la Sua parola. Fare la distinzione tra quelli che sono ‘mansueti’ e quelli che non lo sono, specificandone le caratteristiche, non è tanto importante ai fini di determinare come deve essere intesa la parola di Gesù. Circa la promessa contenuta nel testo di Matteo, a parte che rispecchia esattamente quello che viene detto nel Salmo 37:11, c’è sempre da chiedersi se questa promessa di possedere la terra, è una promessa da prendere alla lettera, cioè si riferisce alla terra fisica, o se la si deve interpretare nel senso spirituale, cioè pensando a tutte le benedizioni celesti.

I commentatori non sono concordi. Ci sono quelli che pensano alla terra fisica, però a quella ‘purificata’ e ci sono quelli che pensano alle benedizioni spirituali. Se si tiene presente che l’eredità assegnata ai seguaci di Gesù, oltre ad essere incorruttibile, incontaminata e immarcescibile, è anche conservata nei cieli (1Pietro 1:4), è più coerente interpretare la promessa di Gesù in senso spirituale, anziché letterale e fisico.

La promessa del v. 15 di Genesi 28


La promessa contenuta nel v. 15, non riguarda solamente Giacobbe — anche se non si possono negare i riferimenti personali —, riguarda anche i cristiani. Se si esamina attentamente il suo contenuto, si possono trovare analogie con le parole di Gesù. La frase: Io sono con te, ha il suo parallelo con: Io sono con voi di Matteo 28:20. L’unica differenza che c’è tra i due testi riguarda la forma e non la sostanza. In Genesi 28:15, il pronome personale ‘te’, riguarda la sola persona di Giacobbe, mentre in Matteo 28:20, il pronome personale ‘voi’, riguarda i discepoli di Gesù, non solo di allora, ma anche di oggi.

Valutato in questa maniera il v. 15, si capisce subito quanto sia importante per la vita di ogni seguace di Gesù. Una volta che Gesù assicura di essere con i suoi discepoli tutti i giorni, non c’è da preoccuparsi al sorgere delle giornate burrascose, che facilmente si possono incontrare nel corso della vita umana. Avendo Gesù al proprio fianco, il suo discepolo può contare sul Suo intervento, se ciò dovesse essere necessario. In altre parole si direbbe: se il discepolo di Gesù si dovesse trovare in difficoltà o in pericolo, Egli che è il compagno di viaggio di tutti i giorni, non starebbe lì a fianco solo per guardare le cose o le circostanze; interverrebbe con premura per portare aiuto e liberazione. Con questa certezza, quindi, si può fare riferimento alle parole del Salmo 23:4, in cui è detto:

Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, non temerei alcun male, perché tu (Signore) sei con me...
Più tardi l’apostolo Paolo dirà: se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?
(Romani 8:31).

Il fatto poi che si specifica che Dio avrebbe protetto Giacobbe, dovunque sarebbe andato, non è solamente un elemento personale che sta significando che quest'uomo sarebbe stato un pellegrino e un forestiero nei vari spostamenti che avrebbe fatto, si può anche intravedere una certa somiglianza col cristiano che, sotto l’aspetto spirituale, anch’egli è un forestiero e un pellegrino su questa terra. Tenendo presente che il discepolo di Gesù, non è di questo mondo (Giovanni 15:19), e che gli ‘eletti’ vi risiedono come stranieri (1Pietro 1:1), la promessa di una protezione divina, rientra nella piena logica.

Dio non promette solamente di proteggere, aggiunge anche di non abbandonare la persona a cui ha detto di fare certe cose. Il lavoro che Dio avrebbe dovuto fare nella vita di Giacobbe, lo conosceva solamente Lui. Allo stesso modo il Signore Gesù, conosce il lavoro che dovrà essere fatto nella vita dei suoi seguaci, dal giorno che hanno risposto alla sua chiamata, fino al giorno in cui li porterà con sé nella gloria. L’impegno a lavorare la vita dei figli di Dio, non è quello che un comune uomo di questo mondo potrebbe fare; è invece l’impegno di Dio stesso. Egli, inoltre, non delegherà a nessuno dei suoi migliori angeli a compiere quello che Lui stesso ha detto di fare. Siccome è Lui stesso a portarlo a compimento, non si fermerà fino a quando non l’avrà completato.

Se al termine del capitolo 4 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura


Capitolo 5




INCONTRO DI GIACOBBE CON RACHELE




Nota introduttiva

Il capitolo ventinove della Genesi, ci fornisce tutte le notizie riguardanti l’incontro di Giacobbe con Rachele. Attraverso l’esame del testo non solo veniamo a sapere come si svolsero i fatti, i personaggi che entrano in scena, gli atteggiamenti che ognuno di loro prese, e come agirono le persone più importanti, (che in questo caso sono Giacobbe e Rachele). Inoltre, meditando e riflettendo su quello che il racconto biblico ci fornisce, possiamo trarre insegnamenti pratici che, immancabilmente saranno di aiuto e di stimolo nella nostra vita cristiana di ogni giorno, facendoci vedere quelle verità spirituali, applicabili anche per noi che viviamo in altri tempi e in altri contesti sociali. Siamo certi, infine, che quello che seguirà, in queste nostre riflessioni, contribuirà ad arricchire la nostra esperienza cristiana.

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Domenico34
00sabato 10 dicembre 2011 00:02
Il testo biblico

Poi Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli Orientali (Genesi 29:1).

A Bethel, Giacobbe, aveva fatto una gloriosa esperienza che difficilmente avrebbe dimenticato nel corso degli anni della sua vita. Non solo, ma lì, in quella località, in cui Dio aveva avuto la sua parte predominante, per un messaggio particolare rivoltogli con precise promesse. Anche se egli non avrà probabilmente capito tutto del messaggio divino e come Dio avrebbe portato a compimento tutto quello che gli prometteva, nondimeno, Giacobbe, non si fermò a Bethel, ma proseguì nel suo viaggio alla volta di Paddan-Aram.

Certe esperienze particolari che facilmente si fanno nel corso della vita, soprattutto all’inizio dell'esistenza cristiana, sicuramente lasciano dei segni che difficilmente si cancelleranno dalla memoria, specie quando entriamo a contatto con Dio, ed Egli, per mezzo dello Spirito Santo, si degna farci udire una voce dalla sua bocca (Atti 22:14). Quando la fiamma dello zelo e dell’entusiasmo divampano in maniera inarrestabile e l’interesse per le cose di Dio sono in piena, in queste particolari circostanze dell’esperienza cristiana, credo che sia importante imparare da Giacobbe.

A Bethel, Dio apparve a Giacobbe e gli parlò chiaramente, non solo per ciò che riguardava la sua vita presente, ma anche quella futura (anche se il patriarca non aveva la minima idea delle varie circostanze avverse che avrebbe incontrato). In vista di raggiungere il luogo che gli era stato indicato da suo padre, fin da quando si congedò dalla sua casa, il patriarca si mise in cammino e andò...

Qualche riflessione di carattere spirituale

Stare sulla “montagna della benedizione”, o godere lo splendore della “gloria di Dio”, in un ambiente dove tutto è sereno e calmo; dove non ci sono le varie incomprensioni e la massa di gente inconvertita che potrebbe turbare facilmente la serenità e offuscare la gioia di una divina manifestazione in compagnia con Gesù, e di eccezionali servitori del Signore, quali Mosè ed Elia, (quale fu l’esperienza di Pietro, Giacomo e Giovanni (cfr. Matteo 17:1-7), ciò sarebbe la cosa ideale.

La vita cristiana, senza essere smentiti, è caratterizzata da un susseguirsi di esperienze, in mancanza delle quali non c’è vera vita cristiana. Queste esperienze, inoltre, non si fanno rimanendo fermi in un determinato posto, (anche se è vero che certe esperienze si fanno solamente in certi posti) ma camminando. Camminare soprattutto con Dio e nel sentiero della Sua volontà, muovendo i propri passi da una benedizione all’altra; (anche in mezzo a varie difficoltà che nella vita cristiana non mancano) e, ricordando sempre che Colui che ha cominciato un’opera buona in noi, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù (Filippesi 1:6).

Giacobbe arriva dove c’è un pozzo

Giacobbe non sapeva che nel giorno in cui arrivò in un certo luogo dove c’era un pozzo, (che poi si trovava già nel luogo dove egli era diretto, cioè nelle vicinanze dove abitava Labano, fratello di sua madre) che veniva utilizzato per abbeverare le greggi di pecore, avrebbe incontrato Rachele, quella simpatica fanciulla, che in futuro, sarebbe diventata la sua amata sposa. Siccome lui non aveva mai visto quella donna e non sapeva niente di lei, l’informazione precisa che gli diedero i pastori, facilitò l’incontro e la conoscenza di Rachele. Le buone informazioni che si ricevono da persone sincere, ci possono notevolmente aiutare in certe situazioni della vita, specie quando manca una precisa conoscenza.

«Il fatto che l’incontro fra i due sia avvenuto vicino ad un pozzo ha un profondo significato, poiché spesso il pozzo viene associato alla benedizione di Dio (cfr Genesi 16:13-14; 21:19; 26:19-25,33)» [Allen P. Ross, Investigare le Scritture, Antico Testamento, pag. 79].

Dio che dirigeva il cammino di Giacobbe, (anche se quest’ultimo probabilmente non se ne rendeva conto), non solo lo diresse verso quel pozzo, dove incontrò alcuni pastori, ma lo fece anche arrivare in un orario esatto. Infatti, se Giacobbe fosse arrivato a quel luogo, dopo che i pastori avessero terminato l’azione di abbeverare il gregge, non solo non avrebbe avuto le precise informazioni circa la famiglia di Labano, ma neanche avrebbe incontrato la stessa Rachele. Da questi particolari che il testo biblico ci fornisce, possiamo meglio apprezzare come Dio guida in una maniera infallibile i suoi figli e com'Egli, compie per loro, quello che ha promesso.

Il comportamento di Giacobbe nei confronti dei pastori

L’arrivo in tempo debito di Giacobbe a quel ‘pozzo’, gli permise di avere un buon colloquio con i pastori che si trovavano già sul posto, nell'attesa che arrivasse il momento di rotolare via la pietra dalla bocca del pozzo e abbeverare le pecore. Il fatto che Giacobbe si rivolga a quei pastori chiamandoli fratelli miei, (senza averli mai conosciuti in precedenza) denota un atteggiamento di gentilezza, di cordialità e di stima nei loro confronti.

Davanti ad un simile parlare, per Giacobbe è facile chiedere informazioni sulla famiglia di Labano e per i pastori non c’è nessuna riservatezza a dargliele. La cordialità e la gentilezza, a qualsiasi livello la collochiamo, può abbattere le muraglie delle cosiddette ‘discriminazioni sociali’, e, permettere alle persone di parlare francamente e sinceramente, trattandosi vicendevolmente come se appartenessero alla stessa famiglia.

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Domenico34
00domenica 11 dicembre 2011 00:19
Alla richiesta di Giacobbe se quei pastori conoscessero Labano, figlio di Nahor, visto che avevano chiaramente detto di provenire da Haran, luogo dove abitava il fratello di sua madre, si potrebbe chiedere perché mai Giacobbe non si limita a fare il solo nome di Labano, ma aggiunge anche quello del padre, cioè Nahor. Il none del padre di Labano, non serviva solamente a fare una precisazione, onde evitare di dare notizie di un’altro Labano, (ammesso che ci fosse stato), ma serviva principalmente per individuare la persona che egli cercava. Questo è un’altro elemento di chiarezza.

A volte, quando non si è specifici, si corre il rischio di essere fraintesi e di ricevere informazioni sbagliate, che potrebbero causare danni, anziché essere di giovamento. Visto che la risposta è stata affermativa, e che nel mentre stava arrivando al pozzo, la figlia di Labano con il suo gregge, quei pastori subito si affrettarono a dirgli, che la fanciulla che stava arrivando, era appunto Rachele, la figlia dell’uomo di cui Giacobbe aveva chiesto notizie. Ecco perché Giacobbe, prima che arrivasse Rachele al pozzo, sapeva con certezza chi fosse quella fanciulla e di chi era figlia.

Sarà stata una sorpresa per Rachele, vedersi trattata con tanta premura e cortesia da quello sconosciuto, visto che ella non sapeva chi fosse e che al primo incontro si comportasse in quel modo insolito.

Quando Giacobbe vide Rachele figlia di Labano, fratello di sua madre, e le pecore di Labano, fratello della sua mamma, si avvicinò, rotolò la pietra dalla bocca del pozzo, e abbeverò il gregge di Labano, fratello di sua madre (Genesi 29:10).

Chi legge questo racconto, nella maniera come lo scrittore sacro l’ha redatto e l'ha tramandato, resta attonito, a dir poco, dall’atteggiamento di Giacobbe nei confronti di Rachele, poiché non solo rotolò la pietra dalla bocca del pozzo e diede da bere al suo gregge, ma lo fece senza dire una sola parola. Giacobbe, non aveva davanti a sé un uomo, non stava prestando quel servizio a un suo simile. Aveva piuttosto davanti a sé una donna e a lei stava prestando quel servizio. Secondo l’usanza di quel tempo e di quei popoli, l’agire di Giacobbe, poteva benissimo essere giudicato scortese e inopportuno. Ma Giacobbe che sapeva che quella fanciulla, davanti alla quale stava agendo con premura e risolutezza, era la figlia del fratello di sua madre, ha dovuto farsi forza per compiere quel servizio senza aprir bocca.

In questo agire di Giacobbe notiamo il suo altruismo e il sincero interessamento verso gli altri. Quest’uomo che durante gli anni passati manifestava chiaramente il suo ‘egoismo’, ora lo vediamo impegnato in un’opera che parla chiaramente di ‘altruismo’. Che cosa è successo nella vita di quest'uomo? Un vero cambiamento, naturalmente! Chi ha prodotto questo cambiamento? Dio, sicuramente che gli era apparso a Bethel e gli aveva fatto quella specifica promessa che Egli non l’avrebbe abbandonato prima di aver fatto quello che gli aveva detto (Genesi 28:15).

Quello che Dio compie nel di dentro cuore dell’uomo, ben presto si manifesta nelle azioni che si compiono, talché gli altri lo possono vedere chiaramente.

Allora Giacobbe baciò Rachele, alzò la sua voce e pianse (Genesi 29:11).

«Il fatto che Giacobbe abbia baciato la ragazza senza essersi prima presentato, è considerato da Calvino, come un errore di redazione di Mosè (Calvino Opera 23, 400) [Gerhard Von Rad, Genesi, pag. 387, in cui l’autore riporta la citazione di Calvino].

Compiuto quel gesto, che avrà lasciato sicuramente di stucco Rachele che fino a quel momento non sapeva ancora chi era quell’uomo e da dove veniva, se il sacro testo non parlasse della presentazione che fece Giacobbe a Rachele, non riusciremmo mai a capire questi particolari che lo scritto biblico ci fornisce.

Quindi Giacobbe fese sapere a Rachele che egli era parente di suo padre e che egli era figlio di Rebecca. E lei corse a dirlo a suo padre (Genesi 29:12).

Davanti alla presentazione che Giacobbe fa di se stesso a Rachele, ora la fanciulla può capire perché è stata baciata. Poiché la manifestazione di sincero affetto che Giacobbe le manifesta non possa rimanere celato, senza che in un domani Labano lo verrebbe a sapere tramite i pastori che assistettero a quella scena, Rachele, manifestando una buona dose di saggezza, va a dirlo subito a suo padre.

L’accoglienza che Labano riserva a Giacobbe


Appena Labano udì le notizie di Giacobbe figlio di sua sorella, gli corse incontro, l’abbracciò, lo baciò e lo condusse a casa sua. E Giacobbe raccontò a Labano tutte queste cose.
Allora Labano gli disse: "«Tu sei veramente mia carne e sangue!» Ed egli rimase con lui per un mese
(Genesi 29:13-14)

Ora che Giacobbe è arrivato nella casa di Labano, fratello di sua madre, e che è stato accolto benevolmente nella sua abitazione, può guardare un po’ indietro e vedere chiaramente una parte dell’adempimento della promessa divina. Per Labano che non conosceva niente delle promesse divine fatte a Giacobbe, l’accoglienza di suo nipote in casa sua, rappresentano una manifestazione di simpatia e di affetto, con riferimento al legame di famiglia che intercorreva tra lui e sua sorella, madre di Giacobbe.

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Domenico34
00lunedì 12 dicembre 2011 00:04
Ma per Giacobbe, che Dio gli aveva parlato a Bethel intorno alla sua discendenza, si apriva un nuovo orizzonte, con riferimento anche all’augurio che suo padre Isacco gli aveva fatto, per la futura sposa che avrebbe preso dalla famiglia di Labano, fratello di sua moglie. Tutto era in piena armonia: da una parte c’è stata la calorosa accoglienza di Labano in casa sua; poi la figlia Rachele che si trova nello stesso stabile, dall’altra parte, c’è il chiaro adempimento che Dio lo ha guidato durante il suo viaggio e lo ha fatto arrivare nel luogo giusto.

Se tutto era chiaro nella mente di Giacobbe, egli seppe aspettare un mese, durante il quale rimase in casa di Labano, senza rivelare i suoi sentimenti che già lo legavano a Rachele.

Sapere aspettare il ‘momento giusto’, senza precipitare gli eventi, è segno di credere a quello che Dio ha detto. A volte Dio ci promette di darci delle cose, e noi, per mancanza di discernimento, vorremmo abbreviare i tempi e anticipare l’adempimento delle promesse divine. Sapere aspettare in silenzio la salvezza dell’Eterno, è una cosa buona (Lam. 3.26). Questo è un principio divino per tutti i tempi e per tutti gli uomini.

Se al termine del capitolo 5 ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura



Capitolo 6




PATTEGGIAMENTO PER IL MATRIMONIO DI GIACOBBE


Poi Labano disse a Giacobbe: «Perché sei mio parente dovrai servirmi per nulla? Dimmi quale deve essere il tuo salario».
Ora Labano aveva due figlie: la maggiore si chiamava Lea e la minore Rachele.
Lea aveva gli occhi languidi, ma Rachele era avvenente e di bell’aspetto.
Perciò Giacobbe amava Rachele e disse a Labano: «Io ti servirò sette anni per Rachele, tua figlia minore».
Labano rispose: «È meglio che la dia a te piuttosto che darla ad un altro uomo; rimani con me».
Così Giacobbe servì sette anni per Rachele; e gli parvero pochi giorni, per l’amore che le portava
(Genesi 29:15-20).

Anche se la Bibbia non dice niente come ha trascorso Giacobbe il mese in casa dello zio, dall’offerta di rimunerazione che Labano gli fa, si può giustamente intuire che Giacobbe non è restato, con le mani in mano, cioè senza fare niente. Dalla maniera con cui Giacobbe si impegnava nel servizio di Labano, quest’ultimo avrà riconosciuto le capacità lavorative del nipote, tanto da spingerlo ad offrirgli un salario adeguato. Il fatto stesso che Labano parla con Giacobbe in termini di salario, si intuisce subito che egli non vuole approfittare dello stato bisognoso del nipote. Ecco perché gli chiede: «Perché sei mio parente dovrai tu servirmi per nulla? Dimmi quale deve essere il tuo salario».

Dalla risposta che Giacobbe diede, si manifestano subito quali erano le sue vere intenzioni. D’altra parte, se egli era venuto in Paddan-Aram, presso la casa di Labano suo zio, non era certamente perché in Canaan, gli mancasse il lavoro. Se egli aveva lasciato la casa di suo padre, era stato principalmente per mettersi in salvo dalla furia vendicativa di suo fratello Esaù e poi per trovare moglie tra il parentado di sua madre. Il fatto stesso che Giacobbe non chieda un salario per il servizio che rende a suo zio, dimostra chiaramente che egli pensava principalmente al suo matrimonio. Perciò, risponde: «Io ti servirò sette anni per Rachele, tua figlia minore». Labano che capisce subito che tra sua figlia Rachele e Giacobbe, c’è già un legame di amore, non esita ad accettare la richiesta del nipote, e, per fornire la prova che la richiesta gli sta bene, la suggella subito con la frase: rimani con me. Poiché i termini del patteggiamento per il matrimonio sono stati raggiunti, non c’è nessun problema da parte di Giacobbe di servire Labano sette anni. Infine, visto che veramente Giacobbe amava Rachele, quei sette anni di servizio gli parvero pochi giorni. Davanti a questi particolari che il racconto biblico ci fornisce, si possono ricavare degli utili insegnamenti di vita pratica.

La prima osservazione che facciamo è la seguente: perché Giacobbe offerse sette anni di servizio in cambio di Rachele? «Secondo alcuni calcoli sembra che Giacobbe avesse circa settantasette anni quando servì per una moglie (Osea 12:12)» [M. Henry, Commentario Biblico, (versione italiana), Vol. 1, pag. 236].

È probabile che la stessa Rachele fosse ancora troppo giovane per il matrimonio. Perciò Giacobbe, considerando l’età di Rachele, e tenendo presente anche l’amore che lei aveva per lui, invece di forzare le cose, preferì piuttosto aspettare sette anni in silenzio, tenendosi nello stesso tempo impegnato con il suo lavoro. I sette anni di servizio, infine, possono essere anche interpretati come riferimento alla condizione economica in cui si trovava Giacobbe. Siccome egli non aveva possibilità economiche per dare una dote al padre della ragazza, (come l’usanza di quei tempi imponeva) la volle dare con i suoi sette anni di servizio gratuito [Per conoscere le usanze dei tempi patriarcali in materia di ‘dote’ da versare al padre della sposa, cfr. Ralph Gower, Usi e costumi dei tempi della Bibbia, pagg. 64-69; R. De Valux, O.P. Le Istituzioni dell’Antico Testamento, pag 36].

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Domenico34
00martedì 13 dicembre 2011 00:09
Il vero amore (diverso da quello ‘passionale’), è pronto a tutto. Non forza mai le situazioni, e neanche si approfitta delle circostanze favorevoli. Se si deve affrontare un ‘sacrificio’, lo fa con prontezza; se c’è da soffrire, lo fa con pazienza e bisogna aspettare, lo fa senza ‘sospirare’ e senza ‘mormorare’. Non pensa che è troppo lungo il tempo che sta attendendo; non si lamenta se durante l’attesa passa qualche avversità. Egli ha un preciso scopo davanti a sé, e tutto viene inquadrato con riferimento a quanto si è prefisso.

Anche se i giorni saranno molti e gli anni tanti, in vista di raggiungere lo scopo, non si abbandona alla pigrizia, ma si tiene attivamente impegnato con perseveranza. Un simile atteggiamento non è solamente da lodare per ciò che riguarda la vita terrena, come per esempio: il lavoro, il matrimonio, la casa, gli impegni sociali, ecc., ma anche e soprattutto per il modo di vivere spirituale, come riferimento all’amore per il Signore e al Suo servizio.

Le libere scelte che si fanno, comportano di solito impegni precisi che vanno sempre rispettati con puntualità. La lealtà e la sincerità che si dimostrano nei confronti degli altri, quando si presta il proprio ‘servizio’, rappresenta una valida testimonianza cristiana, che è molto più importante delle migliori parole che si possono pronunciare. Se poi si aggiunge che tutto quello che si fa, dovrebbe avere come fondamento l’amore, ogni azione che si compie, piccola o grande che sia, serve ad autenticare la propria vocazione e la propria missione in mezzo agli uomini. Che questi siano parenti, secondo la carne, o no, tutto deve essere compiuto con attitudine altruista, pensando sempre al detto della Scrittura: stimando gli altri più di se stessi (Filippesi 2:3).

Arriva il giorno del matrimonio


Finiti che furono i sette anni di servizio, Giacobbe si trova in pieno diritto legale di avere Rachele quale legittima moglie. Perciò dice con risolutezza a Labano, suo zio e padre della ragazza: «Dammi mia moglie, poiché il tempo è compiuto e lascia che mi accosti a lei» (Genesi 29:21).

Anche se lo sposalizio tra lui e la sua amata Rachele, non era stato ancora ufficialmente celebrato, Giacobbe la considerava ‘sua moglie’, a tutti gli effetti, pensando soprattutto al patteggiamento che era avvenuto sette anni prima. Poiché in quei sette anni trascorsi, non c’era stata nessuna contestazione da parte di Labano e neanche si erano verificati ripensamenti nelle persone interessate, da potere invalidare quello che era stato pattuito, non esisteva nessun motivo perché Rachele non fosse data a Giacobbe come sua legittima sposa. Se Giacobbe avesse chiesto a Labano di dargli Rachele come sua moglie, prima del compimento dei sette anni, egli non avrebbe avuto nessun diritto di farlo e neanche Labano si sarebbe trovato in obbligo per dargliela.

C’è una buona lezione da imparare: quando si stipula un ‘contratto’, con il consenso d’ambo le parti, naturalmente, i termini dell’accordo, vanno rispettati in pieno. Ma se invece uno dei contraenti ignora l’osservanza dell’accordo, (a parte che il contratto stesso perde il suo valore legale), ma neanche chi non l’ha rispettato, ha diritto di chiedere la parte spettante. La fedeltà di una persona va giudicata se saprà tenere fede alle sue parole, alle sue promesse e ai suoi impegni.

Si indice il banchetto nuziale

Visto che Giacobbe ha rispettato i termini del patteggiamento, Labano non può rimandare la festa nuziale. Allora Labano radunò tutti gli uomini del luogo e fece un convito (Genesi.29:22). Questo è il convito della celebrazione del matrimonio tra Giacobbe e Rachele.

Anche se il testo adopera il termine ‘uomini’, non bisogna pensare che il convito matrimoniale fosse riservato al solo sesso maschile ed escludesse quello femminile. Inoltre, il convito, di cui parla il testo, non deve essere interpretato come se fosse una festa di famiglia; è allargato ad altri parenti, amici e conoscenti, come del resto si addice alla celebrazione di un vero matrimonio.

Quanti furono gli invitati al convito nuziale, tra Giacobbe e Rachele, non ci viene dato di sapere. Del resto non ha tanta importanza pensare al numero dei partecipanti. Se il convito in questione riguardasse il matrimonio di due monarchi, il numero dei partecipanti (di solito rilevante), avrebbe la sua importanza, perché la ricchezza d’ambo le parti, verrebbe messa in evidenza in simili circostanze. Siccome il convito nuziale riguardava due persone comuni, anche se la famiglia di Labano si può considerare benestante, non così era Giacobbe in quel tempo.

Tutto si svolge secondo l’usanza di quei tempi: il cibo accuratamente preparato e servito, soddisfa il palato degli invitati. Il vino, la bevanda preferita e messa abbondantemente a disposizione dei presenti, allieta le persone e rende festante tutta la cerimonia nuziale. La circostanza non è solamente lieta per gli sposi, i loro genitori e tutto il resto delle due famiglie (anche se dei familiari di Giacobbe, non c’è nessun altro che lui), ma anche di tutti quelli che sono stati invitati. Tutti i presenti, contribuiscono a rendere gioiosa la cerimonia. Durante tutto il tempo del trattenimento non si mangia e si beve solamente; si ascolta musica adatta per la circostanza, si esibiscono cantanti all’indirizzo degli sposi, si vedono gruppi di persone di ambo i sessi danzanti e si odono anche auguri che si formulano ai coniugi per un'abbondante prole.

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Domenico34
00mercoledì 14 dicembre 2011 00:14
La prima notte

Ma quando fu sera, egli (Labano) prese Lea, sua figlia, e la condusse da Giacobbe, che entrò da lei (Genesi 29:23).

L’azione che Labano compie, nel prendere sua figlia Lea e condurla da Giacobbe, è detto che fu fatta ‘la sera’, cioè al termine della prima giornata di festino, dato che di solito il convito nuziale durava alcuni giorni. Questo però non significa che quella idea gli spuntò all’improvviso, in quel preciso momento. Senza incorrere in un giudizio di esagerazione, crediamo con ragione che quel piano, sarà stato concepito ed elaborato prima. Durante lo stesso giorno del convito? (o forse nel giorno che venne stabilita la cerimonia nuziale?)

Lea, la figlia maggiore, era stata prevenuta che, al termine della prima giornata di festa nuziale, avrebbe dovuto andare a letto con Giacobbe al posto di sua sorella Rachele? Non ci sembra che Labano abbia elaborato un simile progetto con il consenso della figlia, senza crearle seri problemi nella sua vita. Anche se è vero che in quei tempi erano i genitori a decidere il matrimonio dei propri figli, e che gli stessi, a volte, agivano passivamente nell’accettare la volontà del padre, in modo particolare, nel senso che la loro decisione, non era sempre rispettata.

Dalle poche parole che il testo sacro impiega per descrivere questa scena, a noi sembra abbastanza chiaro che tutta la faccenda debba essere addossata a Labano e che Lea, fu una vittima della volontà assurda del padre. Un simile agire non è certamente da lodare; si deve fermamente biasimare e condannare. Un padre che agisce in questo modo, considerando la figlia come se fosse una prostituta, porta disonore alla famiglia e degrada la dignità del ‘ruolo’ di padre.

Sembra una favola che Giacobbe, durante la prima notte di rapporti sessuali con la donna che egli credeva fosse la sua amata Rachele, non se ne fosse accorto per nulla, e che dovette aspettare la luce di un nuovo giorno per conoscere che, in effetti, la donna che ha avuto tra le sue braccia durante quella notte, non era Rachele ma Lea. Anche se si accetta il fatto che in quei tempi, la camera degli sposi, (che poi era una tenda) dove la coppia si effondeva nel rapporto coniugale non era illuminata da nessuna lampada che permettesse di vedere l’ambiente e le persone, e che il velo che avvolgeva la faccia della sposa venisse tolto dallo sposo nell’oscurità. È impensabile però che non si tenga conto del fattore ‘parlare’. Altresì è impensabile sopporre che durante la prima notte di miele, gli sposi si siano chiusi nel mutismo.

Ammettendo per un'assurda ipotesi che nella prima notte si parlasse poco, le poche parole che venivano dette, da ambo le parti, sarebbero state sufficienti per fare comprendere agli sposi: la voce della donna che sento, è quella di mia moglie e quella dell’uomo, di mio marito. Pensare che Giacobbe non conosceva la voce di Rachele, dopo sette anni trascorsi in continui contatti, è almeno fantasiosa e priva della logica umana.

Allora, perché il racconto biblico ha affermato che Giacobbe conobbe solo al ‘Matteoino’, che la donna che aveva avuto tra le sue braccia tutta la notte, era Lea? Crediamo che alla domanda in questione, si possa dare la seguente risposta. Lo scopo dell’autore del racconto biblico, non è quello di raccontare la prima notte di ‘luna di miele’ di due sposi, come si direbbe in termini moderni. Se questo fosse stato il suo obbiettivo, sicuramente non avrebbe usato le parole che si leggono nel testo, perché appunto non hanno nessun filo di logicità.

Mentre se si tiene presente che il vero scopo del racconto biblico è quello di farci conoscere l’inganno che ha subito Giacobbe da parte di Labano, allora l’ostacolo apparente può essere superato facilmente e la logica umana non si oppone al buon senso.

L’inganno subito da Giacobbe

Allora Giacobbe disse a Labano: «Cosa mi hai fatto? Non è forse per Rachele che ti ho servito? Perché dunque mi hai ingannato?» (Genesi.29:25).

Le parole di Giacobbe rivelano due cose. 1) Lea non viene considerata responsabile dell’accaduto. Questo prova che in quella faccenda, la ragazza è stata usata solamente come ‘strumento’, contro la sua volontà. 2) Il vero responsabile dell’azione, è solamente Labano, perché è stato lui il vero ideatore di quella strategia. Quindi, l’inganno che è stato perpetrato ai danni di Giacobbe, va attribuito totalmente a Labano.

La stessa giustificazione che Labbano adduce: «Non si usa far così nel nostro paese, dare cioè la minore prima della maggiore, (Genesi.29:26) non è valida e neanche ha senso di logicità per il semplice fatto che a rigore, avrebbe dovuto parlar a Giacobbe di questa ‘usanza’, nello stesso giorno che chiede Rachele per moglie, e non aspettare la prima notte, a matrimonio celebrato. Se Giacobbe è molto risentito, e, nello stesso tempo offeso nella sua dignità personale, per quello che aveva subito, non ha tutti i torti per chiedergli, prima di aver sentito la giustificazione: che mi hai fatto? Dal momento che Labano non può contestare a Giacobbe nulla di ‘malfatto’, e che il patteggiamento concordato era esplicitamente per avere Rachele, Giacobbe ha tutte le ragioni per sentirsi ingannato.

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Domenico34
00giovedì 15 dicembre 2011 00:14
A questo punto i commentatori fanno rilevare che, come Giacobbe ingannò Isacco suo padre, quando si fece passare per Esaù, ora viene lui ingannato da Labano. In altre parole, Giacobbe stava raccogliendo quello che aveva seminato, per usare un detto dell’apostolo Paolo (Galati 6:7). Il parallelo è senza dubbio appropriato e rientra soprattutto nella logica divina. Spesso l’uomo dimentica ‘come semina’, credendo che non si verificherà la cosiddetta ‘legge della corrispondenza’. Le cose che Dio ha stabilite come ‘principi universali’, cioè che si adattano per tutti gli uomini e per tutti i tempi, non possono essere cambiate da nessuno.

Il seme che si semina, buono o cattivo che sia, non nasce subito e neanche subito arriva a maturazione per essere raccolto. A volte, passa molto tempo; passano molti anni, prima che arrivi il tempo della raccolta. Però, una cosa è certa: se vogliamo raccogliere, dobbiamo seminare; in mancanza della semina, non si può pretendere di raccogliere.

Ci sono usanze che non hanno niente a che fare con la parola di Dio, anzi a volte sono contro di lei. Il credente, in modo particolare, farà bene a dare più importanza agli insegnamenti divini, anziché seguire le usanze del mondo, di chi non segue l’evangelo di nostro Signor Gesù Cristo. Essere sincero ed onesto con se stesso, significa avere una buona base per manifestarla nei confronti degli altri. Dal punto di vista generale, nessuno può dare agli altri qualcosa che non ha; ognuno dà quello che possiede.

Se non vuoi ricevere torti od offese nella tua vita, studiati a non procurarne a nessuno. Anche se è vero che a volte chi fa il bene riceve male, è meglio però riceverlo anziché farlo. Se una pietra è pesante per portarla sopra le tue spalle, non cercare di scaricarla sugli altri. La ‘regola d’oro’, così definita da molti: tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro, perché questa è la legge ed i profeti (Matteo 7:12).

Le due mogli di Giacobbe


Finisci la settimana di questa (cioè di Lea) e ti daremo anche l’atra, per il servizio che presterai da me per altri sette anni.
Allora Giacobbe fece così, e finì la settimana di Lea; poi Labano gli diede in moglie la figlia Rachele.
Inoltre Labano diede la sua serva Bilhah per serva a Rachele, sua figlia.
E Giacobbe entrò pure da Rachele ed amò Rachele più di Lea; e servì da Labano altri sette anni
(Genesi.29:27-30).

Senza volerlo e senza cercarlo, Giacobbe finì per avere due mogli. Per avere come moglie Rachele, che era la sua prediletta amata, offrì sette anni di servizio gratuito a Labano, mentre per Lea, che poi non aveva scelto, e che neanche rientrava nei suoi piani per averla, ha dovuto pagare altri sette anni di servizio, che egli non offre ma che gli vengono richiesti da Labano. Se Giacobbe si fosse rifiutato di finire la settimana con Lea, sicuramente Labano non gli avrebbe dato Rachele. Così Giacobbe si trova ‘tra l’incudine e il martello’, come si direbbe in termini proverbiali, e, contro la sua volontà, acconsente, per amore di concordia e di pace. Questo ci viene confermato dalla frase: allora Giacobbe fece così, e finì la settimana di Lea.

Passare una settimana in rapporti amorosi con una donna che Giacobbe non aveva la minima intenzione di averla come sua moglie, certamente non sarà stato un evento delizioso per lui. Però, siccome le condizioni erano queste per avere la donna che egli amava, ha dovuto acconsentire alla volontà del padre. Facendo ciò, Giacobbe, non aderisce solamente a quello che gli viene chiesto, salva anche la dignità di Lea. Infatti, completando la settimana, (che era di solito il tempo della durata del convito nuziale) si dimostravano i segni della verginità, così che tutti potevano considerare Lea, come una legittima moglie e non come una prostituta. Sotto quest'aspetto, quello che fece Giacobbe, è ammirevole e merita un plauso.

Se stiamo descrivendo questa scena, non lo facciamo per giustificare una relazione sessuale illecita fuori del matrimonio. Anche se in quei tempi simili relazioni potevano essere tollerate, non possiamo dire lo stesso oggi. Infatti, alla luce degli insegnamenti del N.T. ogni relazione sessuale fuori del matrimonio, è illecita, quindi è considerata peccaminosa.

L’agire di Giacobbe, in questa parte specifica della sua vita, merita una particolare riflessione di carattere generale, in quanto ci permette di affrontare temi di grande attualità. Compiere azioni che hanno di mira la concordia e la pace, cioè, prevenire un qualcosa che arrecherebbe danno ad altri, questo si trova in piena armonia con l’insegnamento di Gesù e la morale cristiana.

Se uno vuol farti causa per toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello (Matteo 5:40) o come dice Luca: Se qualcuno ti percuote su una guancia, porgigli anche l’altra; e a chi ti toglie il mantello, non impedire di prenderti anche la tunica (Luca 6:29).

Portare via qualcosa che ci appartiene, che è di nostra proprietà, significa un’appropriazione indebita, punibile, secondo il codice penale. I figli di Dio sono conosciuti come figli di pace. Beati coloro che si adoperano per la pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio (Matteo 5:9). Adoperarsi per la pace, non significa solamente intervenire là dove c’è un litigio, una contestazione, una rissa, ma anche prevenirle, cioè non farle succedere.

L’apostolo Paolo dal canto suo, rivolge la seguente esortazione ai credenti di Roma: non rendete ad alcuno male per male; cercate di fare il bene davanti a tutti gli uomini. Se è possibile e per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini (Rom 12:17,18).

L’epistola agli Ebrei ammonisce con fermezza: procacciate la pace con tutti e la santificazione, senza la quale nessuno vedrà il Signore (Ebrei 12:14).

Questi pochi versetti a sostegno di quanto abbiamo detto a proposito dell’agire di Giacobbe, sono insegnamenti per tutti e validi per tutti i tempi. Se poi si aggiunge il detto paolino: perché non subite piuttosto un torto? Perché non vi lasciate piuttosto defraudare? (1Corinzi 6:7), allora si capisce subito quale deve essere l’atteggiamento cristiano davanti a certe provocazioni, o davanti a certe manifestazioni che toccano da vicino la nostra vita, la nostra reputazione, il nostro prestigio, la nostra onorabilità. Infine, non farsi vincere dal male ma vincerlo col bene (Romani 12:21), rappresenta la migliore manifestazione di coerenza cristiana, tra professare una verità e viverla.

SP: Se al termine di quanto abbiamo scritto ci sono domande da fare, fatele liberamente e risponderemo con premura. I sei capitoli che abbiamo scritto, l’abbiamo tratto dal nostro libro: “Giacobbe... L’uomo trasformato da Dio”. Infine, per quanti fossero interessati all’acquisto del presente libro per leggere tutti gli altri capitoli, potranno rivolgersi all’Editrice Hilkia, presso la quale è disponibile la presente pubblicazione ad un prezzo modestissimo di 3,00 euro. Grazie!
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