Dalla Divina Misericordia le Domeniche "Dopo Pasqua"

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Caterina63
00lunedì 13 aprile 2009 18:39
     


La vittoria di Cristo sulla morte negli «Inni sacri» di Alessandro Manzoni

Leggera come una foglia la pietra tombale vola via


di mons. Inos Biffi

La Risurrezione è il primo degli Inni sacri di Alessandro Manzoni:  l'abbozzo indica l'aprile 1812 e il 23 giugno rispettivamente come date dell'inizio e della fine. Non senza ragione è stato scritto che vi si avverte l'"ardore del neofita" (Giovanni Getto). La riservata conversione del poeta - che vi accennerà solo se interrogato, attribuendola alla "grazia di Dio" - è fatta risalire all'aprile del 1810, ed è indubbio che gli ottonari, nella loro sonorità, lascino trasparire uno stato d'animo libero e rasserenato.

A partire dal grido che apre l'inno - "È risorto" - "è tutto un susseguirsi di esplosioni di gioia, in una tessitura fonico-ritmica quanto mai ricca di riprese musicali ed effetti allitteranti" (Valter Boggioni).
Manzoni traspone in poesia i riti, le letture bibliche e le suggestioni della veglia pasquale secondo il rito ambrosiano, dove esattamente per tre volte di seguito, in tono crescente, è proclamata la risurrezione di Cristo Signore - Christus Dominus resurrexit.

Anche il poeta lo ripete tre volte a inizio di verso. A partire dalla prima strofa dell'inno, tutta pervasa di stupore.

Cristo è risorto:  allora è segno indubbio che alla morte è stata strappata la sua preda, che le porte tenebrose del suo regno sono state infrante, che Gesù ha vinto la schiavitù che lo legava, che è ritornato alla vita, che Dio lo ha risuscitato:  "È risorto:  or come a morte / La sua preda fu ritolta? / Come ha vinte l'atre porte, / Come è salvo un'altra volta / Quei che giacque in forza altrui? / Io lo giuro per Colui / Che da' morti il suscitò".

Il sudario non ricopre più il "capo santo" di Cristo; il sepolcro è diventato un "avello solitario", una tomba vuota, con "il coperchio rovesciato":  simile a "un forte inebbriato" - al "prode assopito dal vino" del Salmo (77, 65) citato dalla liturgia - il Signore si è risvegliato.

E come il viandante, al suo risveglio dopo il riposo nella foresta, con gesto disinvolto e istintivo rimuove dal proprio capo la foglia avvizzita, che, volteggiando pigramente nell'aria vi si era posata, così Cristo scaglia energicamente lontano la lastra tombale inerte e ormai superflua, quando la sua anima, tornata dagli inferi, si riunisce al suo corpo esanime, ma sempre congiunto con la divina Persona del Figlio - la "diva spoglia" de La Pentecoste.

Ma sentiamo le due ampie e ondeggianti strofe, tutte concentrate sulla potenza che si sprigiona e si diffonde dall'energia o dal vigore del Risorto: 
"Come a mezzo del cammino, / Riposato alla foresta, / Si risente il pellegrino, / E si scote dalla testa / Una foglia inaridita, / Che dal ramo dipartita, / Lenta lenta vi risté:  // Tale il marmo inoperoso, / Che premea l'arca scavata, / Gittò via quel Vigoroso, / Quando l'anima tornata/ Dalla squallida vallea, / Al Divino che tacea:  / Sorgi, disse, io son con Te":  ed è quest'ultimo un testo, a sua volta, della liturgia ambrosiana della Pasqua (Ingressa della Messa), attinto al Salmo 138, 18:  "Sono risorto e sono ancora con te".

I versi che seguono indugiano a tradurre il dogma della discesa del Signore agli inferi e della liberazione dei giusti, che ne avevano preceduto la venuta, portando nel loro cuore il suo desiderio. Gesù è chiamato dal poeta:  "il sospir del tempo antico", ed è una splendida definizione. L'Antico Testamento, anzi, l'intera storia che precede l'apparizione di Cristo è tutta un'aspirazione e un anelito a lui, terrore e vincitore del demonio:  "il terror dell'inimico, / il promesso Vincitor".
Sono, così, strappati "al muto inferno" - al "luogo d'ogni luce muto", come direbbe Dante (Inferno, V, 28) - i "sopiti d'Israele", i "vecchi padri" vissuti "in aspettando":  un'aspettazione tenuta viva da "i mirabili Veggenti".

È, infatti, particolarmente ai profeti che "quel sommo Sole" - il "Sole di giustizia" preannunziato da Malachia (4, 2) - si manifestò nel suo splendore. Essi, come Aggeo, Isaia e Daniele, predicendo il futuro quasi narrassero il passato e ricordandosi "degli anni ancor non nati", assicurarono che l'attesa si sarebbe compiuta:  "che il Bramato un dì verria". Salito dagl'inferi, Gesù risorse il terzo giorno, e agli eventi di quel giorno Manzoni dedica il seguito dell'inno sacro.

"Era l'alba" - "l'alba del primo giorno della settimana", precisa l'evangelista Matteo (28, 1). Col volto rigato di lacrime, "molli in viso", la Maddalena e le altre donne elevavano il loro compianto funebre - "fean lamento sull'Ucciso"; la collina di Gerusalemme sobbalzò e lo spavento tramortì i soldati irridenti messi a custodia, la "scolta insultatrice", ed ecco dall'angelo sfolgorante e garbato l'annuncio della risurrezione:  "Un estranio giovinetto / Si posò sul monumento:  / Era folgore l'aspetto, / Era neve il vestimento:  / Alla mesta che 'l richiese / Diè risposta quel cortese:  / È risorto; non è qui".

È, come sappiamo, lo stesso annunzio che il celebrante, rivestito dai paramenti bianchi, per tre volte diffonde ai tre lati dell'altare, che ha lasciato la malinconica veste della penitenza e della vedovanza, tra i candelabri - "i doppieri" - accesi, prima che incominci l'Eucaristia. I versi del poeta sembrano riflettere la sua personale e intensa partecipazione a questa liturgia del sabato santo - allora celebrata di mattina - o almeno la sua precisa e viva conoscenza del suo svolgimento: 
"Via co' palii disadorni / Lo squallor della viola:  / L'oro usato a splender torni:  / Sacerdote, in bianca stola, / Esci ai grandi ministeri, / Tra la luce de' doppieri, / Il Risorto ad annunziar".

Un annunzio che fa esplodere la gioia con il canto - il "grido" - del Regina caeli, che è un ardente invito alla gioia rivolto alla Madre del Crocifisso risorto:  "Godi, o Donna alma del cielo; / Godi, il Dio cui fosti nido / A vestirsi il nostro velo, / È risorto, come il disse":  "È un delicato tocco di significativa pietà liturgica e popolare - commenta il cardinale Giovanni Colombo - da cui, per esempio, non fu esente, quasi un secolo dopo, Pietro Mascagni per La cavalleria rusticana. Anche nella storia  della  musica  non c'è descrizione di solennità pasquale, che non abbia un gaudioso saluto alla Regina del cielo".

D'altronde, la gioia di questo "giorno fatto dal Signore" - come ripetutamente lo chiama la liturgia - non può restare chiusa nei confini del "santo rito". Essa si riverbera all'esterno, nella giocondità di ogni persona, nel clima festoso della famiglia, nel convito delle case e negli abiti dei bimbi.

Ma non deve trattarsi di una letizia smodata:  il pasto frugale del ricco, la sobrietà delle sue bevande devono far sì che "ogni mensa abbia i suoi doni", che anche il "desco poveretto" di un "umil tetto" sia rallegrato e appaia "più ridente". E qui viene in mente il gesto del sarto de I Promessi Sposi (XXIV), che manda la sua "bimbetta maggiore" a portare a "Maria vedova" "un piatto delle vivande ch'era sulla tavola", perché stesse "un po' allegra co' suoi bambini".

Quella della risurrezione non è l'esultanza dei "tripudi inverecondi", turbolenta e passeggera, ma una contentezza "raccolta e tranquilla", come direbbe padre Cristoforo (Promessi Sposi, XXXVI); un'allegrezza "pacata" e "celeste", che prelude la "gioia che verrà".

Beati quelli, esclama con entusiasmo il poeta, ai quali il sole della risurrezione, che è poi lo stesso Cristo, sorge ancora più bello - "più bello/ Spunta il sol de' giorni santi" -; ma che sarà, egli si chiede, degli stolti che si sono incamminati sulla via della morte - "Nel sentier che a morte guida?" -.

In ogni caso, la risurrezione del Signore è garanzia e speranza di risurrezione per chi a lui si rimette:  "Nel Signor chi si confida/ col Signor risorgerà". E si avverte che è proprio il poeta che vi si abbandona, gustando la sua risurrezione interiore che, insieme con quella di Cristo, ha cantato.



(©L'Osservatore Romano - 12 aprile 2009)
Caterina63
00lunedì 13 aprile 2009 18:41
Come può un artista raffigurare la Risurrezione

Fede nell'invisibile


di Timothy Verdon

Il Nuovo Testamento non descrive la Risurrezione di Cristo, se non nei termini apofatici usati dai sinottici per l'annuncio alle donne recatesi al suo sepolcro, a cui viene detto semplicemente:  "Non è qui. È risorto" (Matteo, 28, 6; cfr. Marco, 16, 6; Luca, 24, 6). Non sorprende perciò che la più antica modalità iconografica del soggetto riproduca il senso di questa "non-descrizione":  è la cosiddetta visitatio sepulchri, la visita delle pie donne al sepolcro vuoto, già standard nel v-vi secolo e ancora in uso alla fine del medioevo.

Un celebre avorio paleocristiano abbina poi la visitatio sepulchri all'ascensione di Cristo, che nel vangelo di Marco viene raccontata come se fosse infatti succeduta poco dopo la Risurrezione; l'avorio include il curioso particolare di Pietro, Giacomo e Giovanni addormentatisi sul pendio del colle che Cristo ascende con l'aiuto del Padre, la cui mano emerge dal cielo. Il senso sembra essere che la gloria rivelata a questi tre nella trasfigurazione si realizza definitivamente solo nella Risurrezione-ascensione del Salvatore. 

Dal Trecento al Cinquecento sarà d'uso raffigurare l'uscita fisica di Cristo dalla tomba, un evento che gli artisti immaginano in modi assai diversi:  come frettolosa fuga, sereno superamento, sofferto arrivo, dolce ascesa o esplosione d'energia vitale. Questa nuova plasticità nell'interpretazione del tema è dovuta, almeno in parte, all'influsso del coevo teatro sacro, che per la scena della Risurrezione prevedeva l'uscita da sotto il palco, per via di una botola o secret, dell'attore che faceva la parte di Cristo. In altre occasioni, altre macchine sceniche venivano usate per l'ascensione di Cristo, e Giovanni Bellini (come Donatello prima e Matthias Grunewald dopo) sembra alludere a questo effetto davvero "speciale", che permetteva al popolo di vedere Cristo salire verso l'alto.

Il rapporto del dramma sacro con l'iconografia della Risurrezione va meditato. La scenografia dello spettacolo medievale a volte sembra plasmata dalle immagini, ma a volte sembra plasmarle essa stessa; ha un'autorità propria, come le immagini nasce dalla Scrittura ma anche, in un certo senso, nella Scrittura, che - nonostante l'accennato aniconismo - circonda il racconto della Risurrezione d'un clima scenico. Dopo aver narrato la morte e sepoltura di Gesù, per esempio, Marco dice che:  "Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù. Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole. Esse dicevano tra loro:  "Chi ci rotolerà via il masso dall'ingresso del sepolcro?" Ma guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande. Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito di una veste bianca, ed ebbero paura.

Ma egli disse loro:  "Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro, che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto". Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura" (Marco, 16, 1-8).

Oltre all'inerente drammaticità, questo testo è anche carico d'elementi teatrali:  ha un elenco dettagliato dei personaggi, specifica il luogo e il tempo precisi, è fornito di movente, dialogo, sviluppo dell'azione. Culmina nell'annuncio inatteso che il Gesù cercato dalle donne "è risorto, non è qui" - è il momento illustrato nella celebre tavola di Duccio di Buoninsegna, parte della Maestà da lui eseguita per il Duomo di Siena tra il 1308 e il 1311 - e si apre poi alla scena seguente, con l'ordine di andare a dire agli altri che Gesù li precede in Galilea e che lo vedranno là. Il testo conclude in un'atmosfera di sacro terrore:  le donne tacciono, tremano, fuggono:  rimane solo il silenzio e la scena  deserta, illuminata dal sole ormai alto del nuovo "giorno dopo il sabato".

A questa più antica e semplice testimonianza della visita al sepolcro, in san Marco, gli altri vangeli sinottici aggiungono dettagli spettacolari. In Matteo la terra è scossa, e il "giovane" diventa un angelo sceso dal cielo, seduto sulla pietra che celava la tomba. "Il suo aspetto era come il folgore - si legge - e il suo vestito bianco come la neve" (Matteo, 28, 1-10). Nel vangelo di Luca, le donne sono due, non tre, ma vedono "due uomini, in vesti sfolgoranti" (Luca, 24, 1-12). In san Giovanni invece, viene descritto un momento intensamente personale:  al sepolcro va solo la Maddalena e, dapprima almeno, sta lì a piangere senza vedere nessuno, soltanto la pietra ribaltata (Giovanni, 20, 1).

In tutte e quattro le versioni, però, questa scena è cruciale. Dopo il lento, quasi rituale racconto della passione, morte e sepoltura - quando già il lettore o uditore è ipnotizzato, rivestito di dolore come chi porta il lutto - a un tratto la veste scura viene strappata, la storia di morte viene interrotta, e "al levar del sole" sfolgora un annuncio incomprensibile, impossibile. La tomba, da triste reliquia di una fine, diventa speranzoso segno di qualcosa che inizia, segno di una morte subita ma sconfitta e della vita che, impercettibile come l'alba, avanza.

L'intera esperienza di fede del cristiano giunge all'apice in questo evento, e non è un caso che il dramma sacro in Occidente nasce come tentativo di visualizzarlo. Nei monasteri del x secolo, al termine della terza lezione del mattino del giorno di Pasqua, mentre nella luce ancor debole i cantori eseguivano il responsorio Cum transisset sabbathum, alcuni sacerdoti parati del piviale cominciavano la breve ma serrata scena drammatica, impersonando le pie donne davanti al sepolcro. Quid revolvet nobis lapidem ad hostio monumenti? chiedevano:  "Chi ci rotolerà via il masso dall'ingresso del monumento?". E un diacono che faceva la parte dell'angelo, stando dietro all'altare (che serviva come sepulchrum), domandava alle "donne":  Quem quaeritis in sepulchro, Christicolae? Esse rispondevano:  Jesum Nazarenum crucifixum, o Coelicola - "Chi cercate nel sepolcro?"; "Gesù il Nazareno crocifisso".

Poi il momento da tutti atteso, l'annuncio:  Non est hic!; l'angelo cioè che proclamava il mistero:  "Non è qui!". Le "donne" allora, tornate sacerdoti, incensavano l'altare-sepolcro, mentre l'angelo comandava:  Ite, nuntiate quia surrexit de sepulchro! - "Andate ad annunciare che è risorto dal sepolcro!". Obbedendo, i sacerdoti si rivolgevano ai monaci nel coro sotto l'altare, intonando trionfalmente l'antifona, Surrexit Dominus de sepulchro, qui pro nobis pependit in ligno. Alleluja! Infine l'abate veniva in mezzo alle "donne" davanti all'altare per cantare il Te Deum mentre le campane squillavano a festa. Si celebrava allora solennemente la liturgia eucaristica.

Perfino la celeberrima Risurrezione di Piero della Francesca, capolavoro assoluto del primo rinascimento, va letta alla luce della liturgia e del dramma sacro che ne promana. Riproduce lo schema di una trecentesca pala ancora visibile sull'altare della chiesa maggiore del paese di Piero, dove il parallelismo tra sarcofago raffigurato e altare reale si rivela carico di significato; i liturgisti medievali infatti vedevano nell'altare una figura del sepulchrum Christi, come nell'ostia consacrata la presenza del Risorto, secondo la già accennata "lettura teatrale" della messa. La versione pierfrancescana di questa pala d'altare - più moderna nella quasi nudità del corpo classicamente bello del Risorto nonché nei particolari paesaggistici - fu eseguita per il palazzo comunale della cittadina, il cui nome, Borgo San Sepolcro, spiega il desiderio di replicare l'immagine allusiva al sepolcro nella sede governativa, dove la dobbiamo immaginare ancora in un contesto liturgico:  probabilmente sopra un altare usato per la messa d'apertura di raduni importanti del consiglio comunale.

Rivalutato nel tardo Ottocento e nel primo Novecento per le sue qualità formali, lo stile di Piero era per molto tempo letto in termini esclusivamente visivi, senza un'adeguata attenzione al suo contenuto cristiano. "L'incanto di un'arte così impersonale, così libera da ogni emotività (...) è indubbiamente grande", scriveva il critico americano Bernard Berenson nel 1897, aggiungendo che "laddove non c'è l'espressione di sentimenti specifici, possiamo cogliere impressioni puramente artistici di valori tattili, di movimento e di chiaroscuro". Analogamente formale è stata la lettura dei contenuti:  commentando la Risurrezione, per esempio, l'inglese Kenneth Clark parlava di un "dio campagnolo (...) adorato fin da quando l'uomo ha appreso che il seme non è morto nel terreno invernale, ma salirà aprendosi a forza una strada nella crosta di ferro".

Oggi simili valutazioni sembrano parziali, insoddisfacenti. Ciò che Berenson vedeva come "impersonalità" si rivela piuttosto una gravitas rituale che non sopprime il sentimento ma lo disciplina; e figure quali il Risorto di Borgo San Sepolcro ormai appaiono come portatori di messaggi precisi, non anonime icone di verità filosofiche - non un "dio campagnolo" genericamente allusivo ai processi di rigenerazione, ma il Gesù che, la mattina di Pasqua, tornò da una morte crudele:  colui la cui vittoria sulla morte sin dall'era paleocristiana viene celebrata con linguaggio allusivo al trionfo di un eroe antico.

L'affresco di Piero sembra infatti "illustrare" l'antico inno liturgico pasquale Aurora lucis rutilat, dove Cristo è descritto come Rex ille fortissimus, mortis confractis viribus, pede conculcans tartara, solvit catena miseros. Ille quem clausum lapide miles custodit acriter, triumphans pompa nobili victor surgit de funere ("Quel potentissimo re che, distruggendo l'umana morte, calpestò l'inferno per spezzare le catene dei miseri:  colui crudelmente rinchiuso dai militi in un sepolcro che ora vittorioso, nella nobile pompa del trionfatore, sorge dalla pira funebre"). 

La straordinaria quiete che Piero spesso infonde nei suoi personaggi - quella calma interiore che sembra estendersi al mondo esterno, avvolgendo tutto di luce e silenzio - è leggibile anche in questo Cristo della Risurrezione, che, tornando a vivere, infatti vivifica l'universo intero:  gli alberi e la terra alla sua destra sono ancora nudi e invernali, mentre dall'altra parte sono verdi, primaverili, così che la normale lettura dell'immagine - da sinistra a destra - obbliga a vedere l'annuale rinascita della natura in rapporto al ritorno alla vita del Salvatore (un rapporto con il cosmo, questo, già evidenziato nel sopraccitato avorio paleocristiano, dove l'albero a sinistra controbilancia il Cristo che ascende il colle, a destra).

Merita attenzione un'ultima versione del tema:  un'opera d'arte sacra contemporanea vista da milioni di pellegrini e da centinaia di milioni di telespettatori, la stupenda Risurrezione di Pericle Fazzini, realizzata su invito di Paolo VI per la Sala Nervi in Vaticano, una "macchina barocca" moderna in cui pulsa la vitalità sovrumana del Risorto presente nella Chiesa postconciliare, partecipe delle gioie e speranze, delle sofferenze e angosce dell'uomo moderno. Con fine penetrazione psicologica, Fazzini infatti concepisce la Risurrezione in rapporto non solo all'agonia fisica della croce ma anche a quella morale dell'Orto di Getsemani. Scrive d'aver creato il Cristo "come se risorgesse dallo scoppio di questo grande uliveto, luogo di pace delle ultime preghiere. Il Cristo risorge da questo cratere apertosi dalla tomba nucleare:  una atroce esplosione, un vortice di violenza e di energia; ulivi divelti, pietre volanti, terra di fuoco, tempesta, formata da nuvole e saette, e un gran vento che soffia da sinistra verso destra".

Confrontando l'opera finita ai disegni preparativi mediante i quali l'artista ha sviluppato il suo pensiero, veniamo assorbiti dal mistero emozionante di un divenire eternamente nuovo:  un dischiudersi di forme luminose tra le tenebre, la rivelazione della gloria dei figli di Dio. Il fatto della Vita - vibrante, irruente eppure stranamente delicata - diventa l'unica realtà in questa Sala dove uomini e donne vengono per vedere e ascoltare il Vicario di Cristo. Questa scultura lunga venti metri, alta sette e profonda tre è "icona di movimento e di stabilità, di realtà e surrealtà, di vita umana e divina", come scrive il critico Giovanni Bonanno. "L'animano la luce e il vento con ritmi turbinosi, più che di trionfo, di festa coinvolgente il cosmo. (...) L'esplosione della materia, la lacerazione della natura, la dissoluzione della forma non atterriscono. Sono segni di un evento sospirato da secoli, che ora si svela nella verità che annunzia la stessa risurrezione dell'uomo".



(©L'Osservatore Romano - 12 aprile 2009)


[SM=g1740733]
Caterina63
00martedì 14 aprile 2009 11:58

In questo periodo ciò che mi affascina maggiormente è il quadro dei Discepoli di Emmaus...[SM=g1740717]

Il particolare è il seguente:

questi due Discepoli incontrano Cristo MA NON LO RICONOSCONO, Egli spiega ad essi le SCRITTURE, ma ancora NON lo riconoscono....[SM=g1740733]
e quando Gesù SPEZZA IL PANE(=Eucarestia) ecco che avviene il RICONOSCIMENTO, anzi, è Cristo che si fa riconoscere, un particolare importantissimo perchè NON sono le catechesi di chicchesia a farci riconoscere Cristo, ma bensì E' IL MISTERO STESSO che accolto nei suoi veli, porta il Cristo stesso a farsi riconoscere...

Chiunque tenti di spiegare il Mistero occulta il Cristo, impedisce la sua visione imponendo la visione di altri...[SM=g1740720]

Basti avere a mente quel Cero Pasquale acceso nella Notte Santa, MADRE DI TUTTE LE VEGLIE, in quella flebile fiammella è simboleggiata la nostra FEDE:

- essa è flebile, non può correre altrimenti si spegne;
- essa rischiara nelle tenebre, ma non si vede se sono accese altre luci....
- essa va riparata DAI VENTI, altrimenti si spegne...
- essa va alimentata, altrimenti si spegne...

Come i Discepoli di Emmaus siamo tentati ad andare sempre dal lato opposto, anche conoscendo le Scritture ci comportiamo da stolti e duri di cuore perchè NON VEDIAMO IL MISTERO anzi, pretendiamo di scoprirlo...ma è proprio restando affascinati, IN SILENZIO E IN ADORAZIONE davanti al Mistero che i nostri occhi si aprono alla Verità...[SM=g1740734]

Auguro a tutti una Domenica della Divina Misericordia alla LUCE DI QUESTA FIAMMELLA del Cero Pasquale che tutti ci rappresenta; auspico di cuore per tutti di lasciarsi affascinare dal MISTERO di Cristo Eucarestia senza pretenderne lo scoprimento...[SM=g1740720]


[SM=g1740739]

Caterina63
00martedì 14 aprile 2009 23:22
Dai «Discorsi» di sant'Anastasio, vescovo di Antiochia

Cristo doveva patire e così entrare nella sua gloria

Cristo, dopo aver mostrato con l'insegnamento e con le sue opere di essere il vero
Dio e il Signore dell'universo, mentre stava per recarsi a Gerusalemme diceva ai
suoi discepoli: Ecco stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo verrà dato
in mano ai pagani, ai sommi sacerdoti e agli scribi per essere flagellato, vilipeso e
crocifisso (cfr. Mt 20, 18-19). Diceva che queste cose erano conformi alle predizioni
dei profeti, i quali avevano preannunziato la sua morte, che doveva avvenire in
Gerusalemme. Avendo pertanto la Sacra Scrittura predetto fin dal principio la morte
di Cristo e la sua passione prima della morte, predice ancora ciò che accadde al suo
corpo dopo la morte. Afferma però anche che, come Dio, era impassibile e
immortale. Osservando la verità dell'incarnazione, ne deduciamo i motivi per
proclamare rettamente e giustamente l'una e l'altra cosa, cioè la passione e
l'impassibilità. Il motivo per cui il Verbo di Dio, impassibile in se stesso, sostenne la
passione era che l'uomo non poteva essere salvato in altro modo. Egli lo sapeva
bene e con lui anche coloro ai quali volle manifestarlo. Il Verbo, infatti, conosce
tutto del Padre, come lo Spirito ne scruta le profondità (cfr. 1 Cor 2, 10) cioè i
misteri impenetrabili. Era davvero necessario che Cristo soffrisse, e non poteva non
farlo, come egli stesso affermò. Per questo chiamò stolti e tardi di mente quanti
ignoravano che Cristo doveva in tal modo soffrire ed entrare nella sua gloria. Egli
venne per la salvezza del suo popolo. Per lui si privò, in un certo senso, di quella
gloria che possedeva presso il Padre prima che il mondo fosse. La salvezza era
l'evento che doveva maturare attraverso la passione dell'autore della vita. Lo
insegna san Paolo: Egli è l'autore della vita, reso perfetto mediante le sofferenze
(cfr. Eb 2, 10). La gloria di Unigenito, poi, che egli aveva abbandonato per noi, gli
venne restituita per mezzo della croce, nella carne che aveva assunta. Dice infatti
san Giovanni nel suo vangelo, quando spiega quale fosse l'acqua di cui parlò il
Salvatore: Scorrerà come fiume dal seno di chi crede. Questo disse riferendosi allo
Spirito che avrebbero ricevuto o credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito,
perché Gesù non era stato ancora glorificato (cfr. Gv 7, 38-39), e chiama gloria la
morte in croce. Perciò il Signore, mentre innalzava preghiere prima di subire la
croce, supplicava il Padre di essere glorificato con quella gloria che aveva presso di
lui, prima che il mondo esistesse.

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 [SM=g1740734] Cristo ci ha insegnato che il patire per la giustizia ...è la nostra vera battaglia che da un senso a tutto e da senso alla nostra esistenza...il Dio che si fa Uomo per andare incontro all'Uomo da Lui creato ma che il peccato ce lo ha fatto dimenticare..ci rammenta non solo chi siamo e dove siamo diretti, ma ci insegna proprio a vivere, il Suo farsi Uomo non è un semplice stile, ma è la Vita vera il vivere con stile!

Non solo non c'era altro modo per salvarci, ma non c'era altro modo per ridestarci dal torpore del peccato perchè ciò che anima l'Uomo è proprio la PASSIONE la quale può essere indirizzata o al Bene(=Dio) o al Male, lontano da Dio. Se Cristo non avesse sofferto questa PASSIONE, non solo non saremo stati salvati, ma non avremo potuto neppure usare la ragione attraverso la quale l'Uomo può compiere atti eroici attraverso una volontà che gli è propria: da Dio fatto Uomo abbiamo avuto così l'aiuto indispensabile per agire liberamente ad accogliere questa salvezza o a rifiutarla.


[SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740717]


Caterina63
00mercoledì 15 aprile 2009 11:25
Solo la Divina Misericordia può salvare questo mondo così corrotto e pagano, lontano da Dio. Santa Faustina Kowalska fu una messaggera di Dio. Le apparizioni private ci invitano a vivere cristianamente[SM=g1740722]

Mercoledì 15 Aprile 2009

“Il mondo di oggi è tanto corrotto, pagano, secolarizzato che solo la Divina Misericordia è in grado di salvarlo e di redimerlo”: lo afferma Monsignor Tadeuz Pieronek, già Presidente della Conferenza episcopale polacca, grande conoscitore del messaggio della Divina Misericordia che la Chiesa cattolica in tutto il mondo celebrerà domenica prossima, seconda di Pasqua, la domenica in Albis.

Fu proprio Giovanni Paolo II a dedicare questa domenica alla Divina Misericordia.

Eccellenza, qual è il messaggio che ci lancia la Divina Misericordia e per essa Santa Faustina?:

“ io non sono un teologo, ma qualche cosa la posso certo dire. Tutto il cristianesimo si basa già sul concetto di misericordia che è l’amore di Dio per l’uomo, una oblazione spontanea e gratuita, che nella Pasqua ha trovato il suo massimo splendore. Non è certamente casuale che la seconda domenica di Pasqua sia dedicata proprio alla misericordia,  che è amore e perdono”.

Si ferma un attimo ed aggiunge:

“ il mondo ha bisogno di amore e di perdono,dunque di misericordia. Viviamo spesso in situazioni di corruzione e di peccato, con le tenebre dietro l’angolo. Sentiamo volgarità, cattiverie, ci affliggono guerre. In molte parti del mondo ancora non si rispettano i diritti fondamentali dell’uomo. La giustizia intesa come carità molte volte è assente. Bene, tutto questo insieme di situazioni ci immergono nel peccato, nella oscurità”.

Qual è la forza che può vincere le tenebre del male?:

“ ecco, appunto, solo la Divina Misericordia. Bisogna comprendere la natura rivoluzionaria del messaggio di Santa Faustina. Lei ,messaggera di Dio, ci fece comprendere che senza la preghiera, senza una vita interamente dedicata all’amore e al perdono, l’uomo non arriva da nessuna parte,anzi è causa della sua stessa rovina. Molte situazioni pericolose e sconvenienti potrebbero serenamente scomparire se si avesse davanti agli occhi il messaggio della Divina Misericordia. Non esiste nulla di tanto antico e allo stesso tempo di così innovativo come quello”.
 
Suor Faustina ,se leggiamo bene la sua biografia, era considerata anche all’interno del suo convento, una persona a dir poco esaltata o comunque poco attendibile:

“ la cosa non la deve sorprendere affatto. Spesso accade così. E’ lo spirito del mondo che si ribella con tutto il suo veleno. Al demonio le persone pure danno fastidio, satana odia la santità, ecco perché si lanciano calunnie, insulti ed offese. Molti santi della Chiesa sono stati poco compresi e accusati di essere poco equilibrati. Consideri che al suo tempo, anche di Gesù dicevano la stessa cosa”.
 
Santa Faustina che era ,tutto sommato, una semplice contadina polacca non dotata di grande istruzione, ha redatto il suo diario in modo quasi perfetto, senza abrasioni o cancellature, come si spiega?:

“ proprio con l’intervento del divino. Lei è stata messaggera di Dio, ha scritto sotto la dettatura di Dio. Ha fatto e  compiuto la sua volontà. Ecco dove risiede la straordinaria modernità del suo messaggio. Dio, che è bontà assoluta, ci indica una strada per la salvezza e questo percorso si chiama misericordia, perdono, saper comprendere e capire gli altri, rispettarsi e rispettare. Certo,in un mondo tanto pagano questo può sembrare anche complicato e difficile, ma alla fine la Misericordia vince sempre”.

Le risulta che Giovanni Paolo II, anche prima di essere Papa e da comune lavoratore della Solvay pregava davanti alla tomba di Faustina?:

“ lo ha detto lui stesso. E’ vero, ma risponde a verità che la fama di santità di Faustina, in Polonia, era presente molto prima che fosse dichiarata tale dalla Chiesa”.

Quella di Faustina è una rivelazione privata, lei che pensa?:

“ il cristiano non è obbligato a credere alle rivelazioni private, ma le assicuro che sono una buona medicina per l’anima. In esse il contenuto è quasi sempre simile, ma rispecchia gli ideali del Vangelo. Dunque , invito ad essere docili e disponibili. La Misericordia salverà il mondo”.

da Bruno Volpe


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Vi invitiamo a questo sito ufficiale:
http://www.festadelladivinamisericordia.com/  [SM=g1740717]

Il quadro di Gesù misericordioso è ora disponibile . Richiedilo ora.


Diffondi la Divina Misericordia :ti invieremo gratuitamente il materiale illustrativo


Propagate questa devozione : chi salva un'anima salva la propria S.Agostino pdf


                               

Gesù conosce benississimo i tuoi problemi,le tue paure, i tuoi bisogni ,la tua malattia e ti vuole aiutare.Ma come fa se tu non lo invochi,non lo preghi ?

E' un Padre misericordjoso che ti aspetta a braccia aperte in qualunque momento.Prendi ora la corona del rosario
e pregalo di esaudire le tue necessità: vedrai continui e silenziosi miracoli nella tua vita.

Affidati a Lui con la coroncina alla Divina Misericordia ,esaudirà tutte le tue richieste ........ti toglierà la tristezza e ti darà la Sua gioia.Non temere .Ti dice : credi forse che Mi manchi l 'onnipotenza per venirti in aiuto ? Fidati fidati fidati di Lui.


Attraverso questa preghiera noi offriamo al Padre Eterno tutta la Persona di Gesù, cioè la Sua divinità e tutta la Sua umanità che comprende corpo, sangue e anima. Offrendo al Padre Eterno il Figlio amatissimo, ci richiamiamo all'amore del Padre per il Figlio che soffre per noi. La preghiera della Coroncina si può recitare in comune o individualmente.

Le parole pronunciate da Gesù a Suor Faustina, dimostrano che il bene della comunità e di tutta l’umanità si trova al primo posto: "Con la recita della Coroncina avvicini a Me il genere umano" (Quaderni…, II, 281)

Alla recita della Coroncina Gesù ha legato la promessa generale: "Per la recita di questa Coroncina Mi piace concedere tutto ciò che Mi chiederanno" (Quaderni…, V, 124 )

Nello scopo per il quale viene recitata la Coroncina Gesù ha posto la condizione dell'efficacia di questa preghiera: "Con la Coroncina otterrai tutto, se quello che chiedi è conforme alla Mia Misericordia"  (Quaderni…, VI, 93).

In altre parole, il bene che chiediamo deve essere assolutamente conforme alla volontà di Dio. Gesù ha promesso chiaramente di concedere grazie eccezionalmente grandi a quelli che reciteranno la Coroncina.


Ascolta la coroncina alla Divina Misericordia [SM=g1740722]


PROMESSA GENERALE :


Per la recita di questa coroncina Mi piace concedere tutto cio' che Mi chiederanno.


PROMESSE PARTICOLARI :


1)
Chiunque reciterà la Coroncina alla Divina Misericordia otterrà tanta misericordia nell'ora della morte - cioè la grazia della conversione e la morte in stato di grazia - anche se si trattasse del peccatore più incallito e la recita una volta sola....(Quaderni…, II, 122)


2)Quando verrà recitata vicino agli agonizzanti, mi metterò fra il Padre e l'anima agonizzante non come giusto Giudice, ma come Salvatore misericordioso.
Gesù ha promesso la grazia della conversione e della remissione dei peccati agli agonizzanti in conseguenza della recita della Coroncina da parte degli stessi agonizzanti o degli altri (Quaderni…, II, 204 - 205)


3)
Tutte le anime che adoreranno la Mia Misericordia e reciteranno la Coroncina nell'ora della morte non avranno paura. La Mia Misericordia li proteggerà in quell'ultima lotta (Quaderni…, V, 124).


Poiché queste tre promesse sono molto grandi e riguardano il momento decisivo del nostro destino, Gesù rivolge proprio ai sacerdoti un appello affinché consiglino ai peccatori la recita della Coroncina alla Divina Misericordia come ultima tavola di salvezza .


Con essa otterrai tutto, se quello che chiedi è conforme alla Mia volontà.

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Caterina63
00mercoledì 15 aprile 2009 19:35
Benedetto XVI durante la catechesi settimanale riafferma la storicità dell'evento pasquale

La risurrezione di Gesù
illumina l'enigma umano del dolore



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Il racconto evangelico non può essere ridotto a un mito "riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche". Lo ha ribadito Benedetto XVI nella catechesi per la settimanale udienza generale svoltasi in piazza San Pietro mercoledì mattina, 15 aprile. Il Papa ha anche ricordato che nessuno può tenere per sé l'annuncio della "Verità che cambia la vita".

Cari fratelli e sorelle,
la consueta Udienza Generale del mercoledì è oggi pervasa di gaudio spirituale, quel gaudio che nessuna sofferenza e pena possono cancellare, perché è gioia che scaturisce dalla certezza che Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha definitivamente trionfato sul male e sulla morte. "Cristo è risorto! Alleluia!", canta la Chiesa in festa. E questo clima festoso, questi sentimenti tipici della Pasqua, si prolungano non soltanto durante questa settimana - l'Ottava di Pasqua - ma si estendono nei cinquanta giorni che vanno fino alla Pentecoste. Anzi, possiamo dire:  il mistero della Pasqua abbraccia l'intero arco della nostra esistenza.

In questo tempo liturgico sono davvero tanti i riferimenti biblici e gli stimoli alla meditazione che ci vengono offerti per approfondire il significato e il valore della Pasqua. La "via crucis", che nel Triduo Santo abbiamo ripercorso con Gesù sino al Calvario rivivendone la dolorosa passione, nella solenne Veglia pasquale è diventata la consolante "via lucis".

Visto dalla risurrezione, possiamo dire che tutta questa via della sofferenza è cammino di luce e di rinascita spirituale, di pace interiore e di salda speranza. Dopo il pianto, dopo lo smarrimento del Venerdì Santo, seguito dal silenzio carico di attesa del Sabato Santo, all'alba del "primo giorno dopo il sabato" è risuonato con vigore l'annuncio della Vita che ha sconfitto la morte:  "Dux vitae mortuus/regnat vivus - il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa!". La novità sconvolgente della risurrezione è così importante che la Chiesa non cessa di proclamarla, prolungandone il ricordo specialmente ogni domenica:  ogni domenica, infatti, è "giorno del Signore" e Pasqua settimanale del popolo di Dio. I nostri fratelli orientali, quasi a evidenziare questo mistero di salvezza che investe la nostra vita quotidiana, chiamano in lingua russa la domenica "giorno della risurrezione" (voskrescénje).

È pertanto fondamentale per la nostra fede e per la nostra testimonianza cristiana proclamare la risurrezione di Gesù di Nazaret come evento reale, storico, attestato da molti e autorevoli testimoni. Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, ad una "visione" degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche. Certamente la risurrezione non è stata per Gesù un semplice ritorno alla vita precedente. In questo caso, infatti, sarebbe stata una cosa del passato:  duemila anni fa uno è risorto, è ritornato alla sua vita precedente, come per esempio Lazzaro.

La risurrezione si pone in un'altra dimensione:  è il passaggio ad una dimensione di vita profondamente nuova, che interessa anche noi, che coinvolge tutta la famiglia umana, la storia e l'universo. Questo evento che ha introdotto una nuova dimensione di vita, un'apertura di questo nostro mondo verso la vita eterna, ha cambiato l'esistenza dei testimoni oculari come dimostrano i racconti evangelici e gli altri scritti neotestamentari; è un annuncio che intere generazioni di uomini e donne lungo i secoli hanno accolto con fede e hanno testimoniato non raramente a prezzo del loro sangue, sapendo che proprio così entravano in questa nuova dimensione della vita.

Anche quest'anno, a Pasqua risuona immutata e sempre nuova, in ogni angolo della terra, questa buona notizia:  Gesù morto in croce è risuscitato, vive glorioso perché ha sconfitto il potere della morte, ha portato l'essere umano in una nuova comunione di vita con Dio e in Dio. Questa è la vittoria della Pasqua, la nostra salvezza! E quindi possiamo con sant'Agostino cantare:  "La risurrezione di Cristo è la nostra speranza", perché ci introduce in un nuovo futuro.

È vero:  la risurrezione di Gesù fonda la nostra salda speranza e illumina l'intero nostro pellegrinaggio terreno, compreso l'enigma umano del dolore e della morte. La fede in Cristo crocifisso e risorto è il cuore dell'intero messaggio evangelico, il nucleo centrale del nostro "Credo". Di tale "Credo" essenziale possiamo trovare una espressione autorevole in un noto passo paolino, contenuto nella Prima Lettera ai Corinzi (15, 3-8) dove, l'Apostolo, per rispondere ad alcuni della comunità di Corinto che paradossalmente proclamavano la risurrezione di Gesù ma negavano quella dei morti - la nostra speranza -, trasmette fedelmente quello che egli - Paolo - aveva ricevuto dalla prima comunità apostolica circa la morte e risurrezione del Signore.

Egli inizia con una affermazione quasi perentoria:  "Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l'ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano!" (vv. 1-2). Aggiunge subito di aver loro trasmesso quello che lui stesso aveva ricevuto. Segue poi la pericope che abbiamo ascoltato all'inizio di questo nostro incontro. San Paolo presenta innanzitutto la morte di Gesù e pone, in un testo così scarno, due aggiunte alla notizia che "Cristo morì".

La prima aggiunta è:  morì "per i nostri peccati"; la seconda è:  "secondo le Scritture" (v. 3). Questa espressione "secondo le Scritture" pone l'evento della morte del Signore in relazione con la storia dell'alleanza veterotestamentaria di Dio con il suo popolo, e ci fa comprendere che la morte del Figlio di Dio appartiene al tessuto della storia della salvezza, ed anzi ci fa capire che tale storia riceve da essa la sua logica ed il suo vero significato. Fino a quel momento la morte di Cristo era rimasta quasi un enigma, il cui esito era ancora insicuro. Nel mistero pasquale si compiono le parole della Scrittura, cioè, questa morte realizzata "secondo le Scritture" è un avvenimento che porta in sé un logos, una logica:  la morte di Cristo testimonia che la Parola di Dio si è fatta sino in fondo "carne", "storia" umana.

Come e perché ciò sia avvenuto lo si comprende dall'altra aggiunta che san Paolo fa:  Cristo morì "per i nostri peccati". Con queste parole il testo paolino pare riprendere la profezia di Isaia contenuta nel Quarto Canto del Servo di Dio (cfr. Is 53, 12). Il Servo di Dio - così dice il Canto - "ha spogliato se stesso fino alla morte", ha portato "il peccato di molti", ed intercedendo per i "colpevoli" ha potuto recare il dono della riconciliazione degli uomini tra loro e degli uomini con Dio:  la sua è dunque una morte che mette fine alla morte; la via della Croce porta alla Risurrezione.

Nei versetti che seguono, l'Apostolo si sofferma poi sulla risurrezione del Signore. Egli dice che Cristo "è risorto il terzo giorno secondo le Scritture". Di nuovo:  "secondo le Scritture"! Non pochi esegeti intravedono nell'espressione:  "È risorto il terzo giorno secondo le Scritture" un significativo richiamo di quanto leggiamo nel Salmo 16, dove il Salmista proclama:  "Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la corruzione" (v.10). È questo uno dei testi dell'Antico Testamento, citati spesso nel cristianesimo primitivo, per provare il carattere messianico di Gesù.

Poiché secondo l'interpretazione giudaica la corruzione cominciava dopo il terzo giorno, la parola della Scrittura si adempie in Gesù che risorge il terzo giorno, prima cioè che cominci la corruzione. San Paolo, tramandando fedelmente l'insegnamento degli Apostoli, sottolinea che la vittoria di Cristo sulla morte avviene attraverso la potenza creatrice della Parola di Dio. Questa potenza divina reca speranza e gioia:  è questo in definitiva il contenuto liberatore della rivelazione pasquale. Nella Pasqua, Dio rivela se stesso e la potenza dell'amore trinitario che annienta le forze distruttrici del male e della morte.

Cari fratelli e sorelle, lasciamoci illuminare dallo splendore del Signore risorto. Accogliamolo con fede e aderiamo generosamente al suo Vangelo, come fecero i testimoni privilegiati della sua risurrezione; come fece, diversi anni dopo, san Paolo che incontrò il divino Maestro in modo straordinario sulla Via di Damasco. Non possiamo tenere solo per noi l'annuncio di questa Verità che cambia la vita di tutti. E con umile fiducia preghiamo:  "Gesù, che risorgendo dai morti hai anticipato la nostra risurrezione, noi crediamo in Te!".

Mi piace concludere con una esclamazione che amava ripetere Silvano del Monte Athos:  "Gioisci, anima mia. È sempre Pasqua, perché Cristo risorto è la nostra risurrezione!". Ci aiuti la Vergine Maria a coltivare in noi, e attorno a noi, questo clima di gioia pasquale, per essere testimoni dell'Amore divino in ogni situazione della nostra esistenza. Ancora una volta, Buona Pasqua a voi tutti!


 

(©L'Osservatore Romano - 16 aprile 2009)

[SM=g1740744]
Caterina63
00giovedì 16 aprile 2009 11:44
Omelia di Padre Raniero Cantalamessa nel Venerdì Santo 2009 alla presenza del Santo Padre...MEDITIAMOLA!!![SM=g1740722]


“Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis”: “Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte. E alla morte di croce”. Nel bi-millenario della nascita dell’apostolo Paolo, riascoltiamo alcune sue fiammeggiati parole sul mistero della morte di Cristo che stiamo celebrando. Nessuno meglio di lui può aiutarci a comprenderne il significato e la portata.

Ai Corinzi scrive a modo di manifesto: “I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1, 22-24). La morte di Cristo ha una portata universale: ”Uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti” (2 Cor 5, 14). La sua morte ha dato un senso nuovo alla morte di ogni uomo e di ogni donna.

Agli occhi di Paolo la croce assume una dimensione cosmica. Su di essa Cristo ha abbattuto il muro di separazione, ha riconciliato gli uomini con Dio e tra di loro, distruggendo l’inimicizia (cf. Ef. 2,14-16). Da qui la primitiva tradizione svilupperà il tema della croce albero cosmico che con il braccio verticale unisce cielo e terra e con il braccio orizzontale riconcilia tra loro i diversi popoli del mondo. Evento cosmico e nello stesso tempo personalissimo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20). Ogni uomo, scrive l’Apostolo, è “uno per cui Cristo è morto” (Rom 14,15).[SM=g1740720]

Da tutto ciò nasce il sentimento della croce, non più come castigo, rimprovero o argomento di afflizione, ma gloria e vanto del cristiano, cioè come una giubilante sicurezza, accompagnata da commossa gratitudine, alla quale l’uomo si innalza nella fede: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo” (Gal 6, 14).

Paolo ha piantato la croce al centro della Chiesa come l’albero maestro al centro della nave; ne ha fatto il fondamento e il baricentro di tutto. Ha fissato per sempre il quadro dell’annuncio cristiano. I vangeli, scritti dopo di lui, ne seguiranno lo schema, facendo del racconto della passione e morte di Cristo il fulcro verso cui tutto è orientato.

Si resta stupiti di fronte all’impresa portata a termine dall’Apostolo. Per noi oggi è relativamente facile vedere le cose in questa luce, dopo che la croce di Cristo, come diceva Agostino, ha riempito la terra e brilla ora sulla corona dei re [1] . Quando Paolo scriveva, essa era ancora sinonimo della più grande ignominia, qualcosa che non si doveva neppure nominare tra persone educate.

* * *

Lo scopo dell’anno paolino non è tanto quello di conoscere meglio il pensiero dell’Apostolo (questo gli studiosi lo fanno da sempre, senza contare che la ricerca scientifica richiede tempi più lunghi di un anno); è piuttosto, come ha ricordato in più occasioni il Santo Padre, quello di imparare da Paolo come rispondere alle sfide attuali della fede.

Una di queste sfide, forse la più aperta mai conosciuta fino ad oggi, si è tradotta in uno slogan pubblicitario scritto sui mezzi di trasporto pubblico di Londra e di altre città europee: “Dio probabilmente non esiste. Dunque smetti di tormentarti e goditi la vita”: There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life.”[SM=g1740729]

L’elemento di maggior presa di questo slogan non è la premessa “Dio non esiste”, ma la conclusione: “Goditi la vita!” [SM=g1740732]

Il messaggio sottinteso è che la fede in Dio impedisce di godere la vita, è nemica della gioia. Senza di essa ci sarebbe più felicità nel mondo! Paolo ci aiuta a dare una risposta a questa sfida, spiegando l’origine e il senso di ogni sofferenza, a partire da quella di Cristo.

Perché “era necessario che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria”? (Lc 24, 26). A questa domanda si dà talvolta una risposta “debole” e, in un certo senso, rassicurante. Cristo, rivelando la verità di Dio, provoca necessariamente l’opposizione delle forze del male e delle tenebre e queste, come era avvenuto nei profeti, porteranno al suo rifiuto e alla sua eliminazione. “Era necessario che il Cristo patisse” andrebbe dunque inteso nel senso di “era inevitabile che il Cristo patisse”.

Paolo da una risposta “forte” a quella domanda. La necessità non è di ordine naturale, ma soprannaturale. Nei paesi di antica fede cristiana si associa quasi sempre l’idea di sofferenza e di croce a quella di sacrificio e di espiazione: la sofferenza, si pensa, è necessaria per espiare il peccato e placare la giustizia di Dio. È questo che ha provocato, in epoca moderna, il rigetto di ogni idea di sacrificio offerto a Dio e, per finire, l’idea stessa di Dio.

Non si può negare che talvolta noi cristiani abbiamo prestato il fianco a questa accusa. Ma si tratta di un equivoco che una migliore conoscenza del pensiero di san Paolo ha ormai definitivamente chiarito. Egli scrive che Dio ha prestabilito Cristo “a servire come strumento di espiazione” (Rom 3,25), ma tale espiazione non opera su Dio per placarlo, ma sul peccato per eliminarlo. “Si può dire che sia Dio stesso, non l’uomo, che espia il peccato... L’immagine è più quella della rimozione di una macchia corrosiva o la neutralizzazione di un virus letale che quella di un’ira placata dalla punizione” [2].

Cristo ha dato un contenuto radicalmente nuovo all’idea di sacrificio. In esso “non è più l’uomo ad esercitare un’influenza su Dio perché questi si plachi. Piuttosto è Dio ad agire affinché l’uomo desista dalla propria inimicizia contro di lui e verso il prossimo. La salvezza non inizia con la richiesta di riconciliazione da parte dell’uomo, bensì con la richiesta di Dio: ‘Lasciatevi riconciliare con Lui” (1 Cor 2,6 ss)” [3].[SM=g1740734]

Il fatto è che Paolo prende sul serio il peccato, non lo banalizza. Il peccato è, per lui, la causa principale dell’infelicità degli uomini, cioè il rifiuto di Dio, non Dio! Esso rinchiude la creatura umana nella “menzogna” e nella “ingiustizia” (Rom 1, 18 ss.; 3, 23), condanna lo stesso cosmo materiale alla “vanità” e alla “corruzione” (Rom 8, 19 ss.) ed è la causa ultima anche dei mali sociali che affliggono l’umanità.

Si fanno analisi a non finire della crisi economica in atto nel mondo e delle sue cause, ma chi osa mettere la scure alla radice e parlare di peccato?

 L’elite finanziaria ed economica mondiale era diventata una locomotiva impazzita che avanzava a corsa sfrenata, senza darsi pensiero del resto del treno rimasto fermo a distanza sui binari. Stavamo andando tutti “contromano”.
L’Apostolo definisce l’avarizia insaziabile una “idolatria” (Col 3,5) e addita nella sfrenata cupidigia di denaro “la radice di tutti i mali” (1 Tim 6,10). Possiamo dargli torto? Perché tante famiglie ridotte al lastrico, masse di operai che rimangono senza lavoro, se non per la sete insaziabile di profitto da parte di alcuni? E perché, nel terremoto degli Abruzzi di questi giorni, sono crollati tanti palazzi costruiti di recente? Cosa aveva indotto a mettere sabbia di mare al posto del cemento?

* * *

Con la sua morte, Cristo però non ha soltanto denunciato e vinto il peccato; ha anche dato un senso nuovo alla sofferenza, anche a quella che non dipende dal peccato di nessuno, come, appunto, il dolore di tante vittime del terremoto che ha sconvolto la vicina regione dell’Abruzzo. Ne ha fatto una via alla risurrezione e alla vita. Il senso nuovo dato da Cristo alla sofferenza non si manifesta tanto nella sua morte, quanto nel superamento della morte, cioè nella risurrezione. “È morto per i nostri peccati, è risorto per la nostra giustificazione” (Rom 4, 25): i due eventi sono inseparabili nel pensiero di Paolo e della Chiesa.[SM=g1740717]

E’ un’esperienza umana universale: in questa vita piacere e dolore si susseguono con la stessa regolarità con cui, al sollevarsi di un’onda nel mare, segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago. “Un so che di amaro - ha scritto il poeta pagano Lucrezio - sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia in mezzo alle delizie” [4]. L’uso della droga, l’abuso del sesso, la violenza omicida, sul momento danno l’ebbrezza del piacere, ma conducono alla dissoluzione morale, e spesso anche fisica, della persona.

Cristo, con la sua passione e morte, ha ribaltato il rapporto tra piacere e dolore. Egli “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottomise alla croce” (Eb 12,2). Non più un piacere che termina in sofferenza, ma una sofferenza che porta alla vita e alla gioia. Non si tratta solo di un diverso susseguirsi delle due cose; è la gioia, in questo modo, ad avere l’ultima parola, non la sofferenza, e una gioia che durerà in eterno. “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rom 6,9).

E non lo avrà neppure su di noi.

Questo nuovo rapporto tra sofferenza e piacere si riflette nel modo di scandire il tempo della Bibbia. Nel calcolo umano, il giorno inizia con la mattina e termina con la notte; per la Bibbia comincia con la notte e termina con il giorno: “E fu sera e fu mattina: primo giorno”, recita il racconto della creazione (Gen 1,5). Non è senza significato che Gesù morì di sera e risorse di mattino. Senza Dio, la vita è un giorno che termina nella notte; con Dio è una notte che termina nel giorno, e un giorno senza tramonto.[SM=g1740721]

Cristo non è venuto dunque ad aumentare la sofferenza umana o a predicare la rassegnazione ad essa; è venuto a darle un senso e ad annunciarne la fine e il superamento. Quello slogan sui bus di Londra e di altre città viene letto anche da genitori che hanno un figlio malato, da persone sole, o rimaste senza lavoro, da esuli fuggiti dagli orrori della guerra, da persone che hanno subito gravi ingiustizie nella vita… Io cerco di immaginare la loro reazione nel leggere le parole: “Probabilmente Dio non c’è: goditi dunque la vita!” E con che?

La sofferenza resta certo un mistero per tutti, specialmente la sofferenza degli innocenti, ma senza la fede in Dio essa diventa immensamente più assurda. Le si toglie anche l’ultima speranza di riscatto. L’ateismo è un lusso che si possono concedere solo i privilegiati della vita, quelli che hanno avuto tutto, compresa la possibilità di darsi agli studi e alla ricerca.

* * *

Non è la sola incongruenza di quella trovata pubblicitaria. “Dio probabilmente non esiste”: dunque, potrebbe anche esistere, non si può escludere del tutto che esista. Ma, caro fratello non credente, se Dio non esiste, io non ho perso niente; se invece esiste, tu hai perso tutto! [SM=g1740721] [SM=g1740722]

Dovremmo quasi ringraziare chi ha promosso quella campagna pubblicitaria; essa ha servito alla causa di Dio più che tanti nostri argomenti apologetici. Ha mostrato la povertà delle sue ragioni ed ha contribuito a scuotere tante coscienze addormentate.

Dio però ha un metro di giudizio diverso dal nostro e se vede la buona fede, o una ignoranza incolpevole, salva anche chi in vita si è affannato a combatterlo. Ci dobbiamo preparare a delle sorprese, a questo riguardo, noi credenti. “Quante pecore ci sono fuori dell’ovile, esclama Agostino, e quanti lupi dentro!”: “Quam multae oves foris, quam multi lupi intus!” [5].[SM=g1740733]

Dio è capace di fare dei suoi negatori più accaniti, i suoi apostoli più appassionati. Paolo ne è la dimostrazione. Che cosa aveva fatto Saulo di Tarso per meritare quell’incontro straordinario con Cristo? Che cosa aveva creduto, sperato, sofferto? A lui si applica ciò che Agostino diceva di ogni elezione divina: “Cerca il merito, cerca la giustizia, rifletti e vedi se trovi altro che grazia” [6] .

È così che egli spiega la propria chiamata: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono” (1 Cor 15, 9-10).

La croce di Cristo è motivo di speranza per tutti e l’anno paolino un’occasione di grazia anche per chi non crede ed è in ricerca. Una cosa parla a loro favore davanti a Dio: la sofferenza! Come il resto dell’umanità, anche gli atei soffrono nella vita, e la sofferenza, da quando il Figlio di Dio l’ha presa su di sé, ha un potere redentivo quasi sacramentale.
È un canale, scriveva Giovanni Paolo II nella “Salvifici doloris”, attraverso cui le energie salvifiche della croce di Cristo sono offerte all’umanità [7].

All’invito a pregare “per coloro che non credono in Dio”, seguirà, tra poco, una toccante preghiera in latino del Santo Padre. Tradotta in italiano, essa dice così: “Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno pace: fa’ che, al di là di ogni ostacolo, tutti riconoscano i segni della tua bontà e, stimolati dalla testimonianza della nostra vita, abbiano la gioia di credere in te, unico vero Dio e Padre di tutti gli uomini. Per Cristo nostro Signore.


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1) S. Agostino, Enarr. in Psalmos, 54, 12 (PL 36, 637).
2) J. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, p. 227.
3) G. Theissen – A. Merz, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 20032, p. 573.
4) Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.
5) S. Agostino, In Ioh. Evang. 45,12.
6) S. Agostino, La predestinazione dei santi 15, 30 (PL 44, 981).
7) Cf. Enc. “Salvifici doloris”, 23.

[SM=g1740738]

Caterina63
00giovedì 16 aprile 2009 12:18






oltre al messaggio INTEGRALE in video sopra postato, segue il testo così da poter essere maggiormente meditato... [SM=g1740734]


MESSAGGIO URBI ET ORBI
DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

PASQUA 2009



Cari fratelli e sorelle di Roma e del mondo intero!

Formulo di cuore a voi tutti l’augurio pasquale con le parole di sant’Agostino: “Resurrectio Domini, spes nostra – la risurrezione del Signore è la nostra speranza” (Agostino, Sermo 261, 1). Con questa affermazione, il grande Vescovo spiegava ai suoi fedeli che Gesù è risorto perché noi, pur destinati alla morte, non disperassimo, pensando che con la morte la vita sia totalmente finita; Cristo è risorto per darci la speranza (cfr ibid.).

In effetti, una delle domande che più angustiano l’esistenza dell’uomo è proprio questa: che cosa c’è dopo la morte? A quest’enigma la solennità odierna ci permette di rispondere che la morte non ha l’ultima parola, perché a trionfare alla fine è la Vita. E questa nostra certezza non si fonda su semplici ragionamenti umani, bensì su uno storico dato di fede: Gesù Cristo, crocifisso e sepolto, è risorto con il suo corpo glorioso. Gesù è risorto perché anche noi, credendo in Lui, possiamo avere la vita eterna. Quest’annuncio sta nel cuore del messaggio evangelico. Lo dichiara con vigore san Paolo: “Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede”. E aggiunge: “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,14.19). Dall’alba di Pasqua una nuova primavera di speranza investe il mondo; da quel giorno la nostra risurrezione è già cominciata, perché la Pasqua non segna semplicemente un momento della storia, ma l’avvio di una nuova condizione: Gesù è risorto non perché la sua memoria resti viva nel cuore dei suoi discepoli, bensì perché Egli stesso viva in noi e in Lui possiamo già gustare la gioia della vita eterna.

La risurrezione pertanto non è una teoria, ma una realtà storica rivelata dall’Uomo Gesù Cristo mediante la sua “pasqua”, il suo “passaggio”, che ha aperto una “nuova via” tra la terra e il Cielo (cfr Eb 10,20). Non è un mito né un sogno, non è una visione né un’utopia, non è una favola, ma un evento unico ed irripetibile: Gesù di Nazaret, figlio di Maria, che al tramonto del Venerdì è stato deposto dalla croce e sepolto, ha lasciato vittorioso la tomba. Infatti all’alba del primo giorno dopo il sabato, Pietro e Giovanni hanno trovato la tomba vuota. Maddalena e le altre donne hanno incontrato Gesù risorto; lo hanno riconosciuto anche i due discepoli di Emmaus allo spezzare il pane; il Risorto è apparso agli Apostoli la sera nel Cenacolo e quindi a molti altri discepoli in Galilea.

L’annuncio della risurrezione del Signore illumina le zone buie del mondo in cui viviamo. Mi riferisco particolarmente al materialismo e al nichilismo, a quella visione del mondo che non sa trascendere ciò che è sperimentalmente constatabile, e ripiega sconsolata in un sentimento del nulla che sarebbe il definitivo approdo dell’esistenza umana. È un fatto che se Cristo non fosse risorto, il “vuoto” sarebbe destinato ad avere il sopravvento. Se togliamo Cristo e la sua risurrezione, non c’è scampo per l’uomo e ogni sua speranza rimane un’illusione. Ma proprio oggi prorompe con vigore l’annuncio della risurrezione del Signore, ed è risposta alla ricorrente domanda degli scettici, riportata anche dal libro di Qoèlet: “C’è forse qualcosa di cui si possa dire: / Ecco, questa è una novità?” (Qo 1,10). Sì, rispondiamo: nel mattino di Pasqua tutto si è rinnovato. “Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello: il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa” (Sequenza pasquale). Questa è la novità! Una novità che cambia l’esistenza di chi l’accoglie, come avvenne nei santi. Così, ad esempio, è accaduto per san Paolo.

Più volte, nel contesto dell’Anno Paolino, abbiamo avuto modo di meditare sull’esperienza del grande Apostolo. Saulo di Tarso, l’accanito persecutore dei cristiani, sulla via di Damasco incontrò Cristo risorto e fu da Lui “conquistato”. Il resto ci è noto. Avvenne in Paolo quel che più tardi egli scriverà ai cristiani di Corinto: “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17). Guardiamo a questo grande evangelizzatore, che con l’entusiasmo audace della sua azione apostolica, ha recato il Vangelo a tante popolazioni del mondo di allora. Il suo insegnamento e il suo esempio ci stimolano a ricercare il Signore Gesù. Ci incoraggiano a fidarci di Lui, perché ormai il senso del nulla, che tende ad intossicare l’umanità, è stato sopraffatto dalla luce e dalla speranza che promanano dalla risurrezione. Ormai sono vere e reali le parole del Salmo: “Nemmeno le tenebre per te sono tenebre / e la notte è luminosa come il giorno” (139[138],12). Non è più il nulla che avvolge ogni cosa, ma la presenza amorosa di Dio. Addirittura il regno stesso della morte è stato liberato, perché anche negli “inferi” è arrivato il Verbo della vita, sospinto dal soffio dello Spirito (v. 8).

Se è vero che la morte non ha più potere sull’uomo e sul mondo, tuttavia rimangono ancora tanti, troppi segni del suo vecchio dominio. Se mediante la Pasqua, Cristo ha estirpato la radice del male, ha però bisogno di uomini e di donne che in ogni tempo e luogo lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi: le armi della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore. E’ questo il messaggio che, in occasione del recente viaggio apostolico in Camerun e in Angola, ho inteso portare a tutto il Continente africano, che mi ha accolto con grande entusiasmo e disponibilità all’ascolto. L’Africa, infatti, soffre in modo smisurato per i crudeli e interminabili conflitti – spesso dimenticati – che lacerano e insanguinano diverse sue Nazioni e per il numero crescente di suoi figli e figlie che finiscono preda della fame, della povertà, della malattia. Il medesimo messaggio ripeterò con forza in Terrasanta, ove avrò la gioia di recarmi fra qualche settimana. La difficile ma indispensabile riconciliazione, che è premessa per un futuro di sicurezza comune e di pacifica convivenza, non potrà diventare realtà che grazie agli sforzi rinnovati, perseveranti e sinceri, per la composizione del conflitto israelo-palestinese. Dalla Terrasanta, poi, lo sguardo si allargherà sui Paesi limitrofi, sul Medio Oriente, sul mondo intero. In un tempo di globale scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di povertà antiche e nuove, di cambiamenti climatici preoccupanti, di violenze e miseria che costringono molti a lasciare la propria terra in cerca di una meno incerta sopravvivenza, di terrorismo sempre minaccioso, di paure crescenti di fronte all’incertezza del domani, è urgente riscoprire prospettive capaci di ridare speranza. Nessuno si tiri indietro in questa pacifica battaglia iniziata dalla Pasqua di Cristo, il Quale – lo ripeto – cerca uomini e donne che lo aiutino ad affermare la sua vittoria con le sue stesse armi, quelle della giustizia e della verità, della misericordia, del perdono e dell’amore.

Resurrectio Domini, spes nostra! La risurrezione di Cristo è la nostra speranza! Questo la Chiesa proclama oggi con gioia: annuncia la speranza, che Dio ha reso salda e invincibile risuscitando Gesù Cristo dai morti; comunica la speranza, che essa porta nel cuore e vuole condividere con tutti, in ogni luogo, specialmente là dove i cristiani soffrono persecuzione a causa della loro fede e del loro impegno per la giustizia e la pace; invoca la speranza capace di suscitare il coraggio del bene anche e soprattutto quando costa. Oggi la Chiesa canta “il giorno che ha fatto il Signore” ed invita alla gioia. Oggi la Chiesa prega, invoca Maria, Stella della Speranza, perché guidi l’umanità verso il porto sicuro della salvezza che è il cuore di Cristo, la Vittima pasquale, l’Agnello che “ha redento il mondo”, l’Innocente che “ha riconciliato noi peccatori col Padre”. A Lui, Re vittorioso, a Lui crocifisso e risorto, noi gridiamo con gioia il nostro Alleluia !



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Caterina63
00lunedì 20 aprile 2009 07:20

Pasqua - Messa del giorno

Noli Me Tangere, Fontana.jpgSe Cristo non è risorto è vana la nostra fede


Iniziamo facendo un passo indietro: siamo sul Calvario. Nella croce del Signore Gesù si è realizzata una cosa che in nessun altro istante e con nessun altra persona poteva realizzarsi. Nel momento in cui Gesù muore sulla croce, avviene qualcosa di inimmaginabile.

Sulla croce c’è il vero uomo e il vero Dio: con la Sua morte si realizza un dono totale e un’accoglienza totale da parte di Dio e da parte dell’uomo. Da una parte infatti, noi contempliamo Gesù, che, come uomo, si dona al Padre e si dona a noi, e dall’altra parte, vedendo in Lui il vero Dio, contempliamo Colui che da sempre si dona al Padre e in modo totalmente nuovo si dona a noi.

La Sua morte sulla croce è il momento di un amore che non è mai stato realizzato in quella forma e che si poteva realizzare solo nell’istante del dare la vita totalmente, solo nell’istante del morire. Solo in quel modo, solo con Lui poteva accadere questo.


Questa riflessione sul significato della morte in croce di Gesù, dobbiamo tenerla presente,  perché è il necessario fondamento di ogni autentico cammino di vita cristiana. Su tale premessa sviluppiamo due considerazioni.


La prima è che qualcuno pensa di poter tranquillamente fare a meno del passaggio successivo. Ritiene cioè che basta pensare a Gesù come a un uomo straordinario - magari qualcuno valuta anche che può darsi che sia il Figlio di Dio, ma neanche capisce bene che cosa significa -, e che è bellissimo vedere che si è donato per noi fino a morire. Basta questo?
Se io non mi baso sul dato certo della Risurrezione, posso davvero parlare in modo autentico di Gesù? Guardate che non è possibile! Se io fermo la mia considerazione di fede sul fatto che Gesù dà la Sua vita per noi e non arrivo alla certezza della Risurrezione, io non sono in grado di capire la croce. Mi limito ad applicare le solite categorie: quella dell’uomo eroico che muore per un ideale, dell’uomo che muore per amore. Sono bei concetti, che però in realtà non dicono per nulla eternità, non dicono per nulla salvezza per tutti. Perché  tanti sono morti per amore, ma la loro morte non ha causato la salvezza dell’umanità intera.


Io invece ho bisogno di sapere che Lui è risorto.
Se non c’è la Risurrezione, tutto ciò che Lui ha detto, tutto ciò che ha preteso di essere, tutto ciò che ci ha comunicato, non è vero. Guardate che questo va tenuto davvero in considerazione. Ci sono tanti presunti cristiani che si accontentano di pensare che Gesù è uno che ha amato tanto, che si è donato per amore, che ha detto cose bellissime. Sì, certo che è vero, ma noi non crediamo in Lui solo per questo.

Noi guardiamo oltre, ad una realtà infinitamente più vasta e profonda.

Se Lui non è risorto, l’ultima parola sulla vita umana non è l’amore, è la morte. Che cosa potremmo dire? Che quando una persona muore in questo modo il suo ricordo rimane per sempre? Non è vero: i ricordi non durano per sempre, rimangono per un po’ nella mente di qualcuno e poi scompaiono con la morte di chi li ricorda. Noi non crediamo in un ricordo, noi crediamo in una persona viva. Se Gesù non è risorto, il Vangelo è una ideologia, al più una proposta di ideali, ma non porta in sé un valore assoluto. Vale quanto le parole dette da qualunque altra persona saggia e intelligente, ma non ha un valore trascendente, perché non dice parole di vita eterna.
 
Se il Signore non è risorto, con chi stiamo parlando noi in questa celebrazione eucaristica? Noi siamo qui a parlare con Gesù, o stiamo parlando con un ricordo, con un’idea? Noi dobbiamo parlare con una persona viva; altrimenti tutta la preghiera di duemila anni di storia si perde in un parlare a vuoto, in un parlare con nessuno.

Fr.Giampaolo da:
http://parrocchiabrunella.myblog.it/

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Caterina63
00sabato 11 settembre 2010 09:06
FESTA DELLA
SANTISSIMA TRINITÀ

Ragioni della festa e della sua tarda istituzione.

Abbiamo visto gli Apostoli nel giorno della Pentecoste ricevere lo Spirito Santo e, fedeli all'ordine del Maestro (Mt 28,19) partire subito per andare ad ammaestrare tutte le genti, e battezzare gli uomini nel nome della Santissima Trinità. Era dunque giusto che la solennità che ha per scopo di onorare il Dio unico in tre persone seguisse immediatamente quella della Pentecoste alla quale è unita da un misterioso legame. Tuttavia, solo dopo lunghi secoli essa è venuta a prender posto nell'Anno liturgico, che si va completando nel corso del tempo.

Tutti gli omaggi che la Liturgia rende a Dio hanno per oggetto la divina Trinità. I tempi sono per essa così come l'eternità; essa è l'ultimo termine di tutta la nostra religione. Ogni giorno ed ogni ora le appartengono. Le feste istituite per commemorare i misteri della nostra salvezza finiscono sempre ad essa. Quelle della Santissima Vergine e dei Santi sono altrettanti mezzi che ci guidano alla glorificazione del Signore unico nell'essenza e triplice nelle persone; quanto all'Ufficio divino della Domenica in particolare, esso offre ogni settimana l'espressione formulata in modo particolare, dell'adorazione e dell'omaggio verso questo mistero, fondamento di tutti gli altri e sorgente di ogni grazia.

Si comprende così perché la Chiesa abbia tardato tanto ad istituire una festa speciale in onore della Santissima Trinità. Mancava del tutto la ragione ordinaria che motiva l'istituzione delle feste. Una festa è la fissazione di un fatto che è avvenuto nel tempo e di cui è giusto perpetuare il ricordo e la risonanza: ora, da tutta l'eternità, prima di qualsiasi creazione, Dio vive e regna, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Questa istituzione non poteva dunque consistere se non nel fissare sul Calendario un giorno particolare in cui i cristiani si sarebbero uniti in un modo per così dire più diretto nella solenne glorificazione del mistero dell'Unità e della Trinità in una stessa natura divina.

Storia della festa.

Il pensiero si presentò dapprima ad alcune di quelle anime pie e raccolte che ricevono dall'alto il presentimento delle cose che lo Spirito Santo compirà più tardi nella Chiesa. Fin dal secolo VIII, il dotto monaco Alcuino, ripieno dello spirito della Liturgia, credette giunto il momento di redigere una Messa votiva in onore del mistero della Santissima Trinità. Sembra pure che vi sia stato spinto da un desiderio dell'apostolo della Germania, san Bonifacio. La Messa costituiva semplicemente un aiuto alla pietà privata, e nulla lasciava prevedere che ne sarebbe derivata un giorno l'istituzione di una festa. Tuttavia la devozione a questa Messa si estese a poco a poco, e la vediamo accettata in Germania dal Concilio di Seligenstadt, nel 1022.

Ma a quell'epoca in una chiesa del Belgio era già in uso una festa propriamente detta della Santissima Trinità. Stefano, vescovo di Liegi, aveva istituito solennemente la festa della Santissima Trinità nella sua Chiesa nel 920, e fatto comporre un Ufficio completo in onore del mistero. A quei tempi non esisteva ancora la disposizione del diritto comune che riserva alla Santa Sede l'istituzione delle nuove feste, e Richiero, successore di Stefano nella sede di Liegi, tenne in piedi l'opera del suo predecessore.

Essa si estese a poco a poco, e pare che l'Ordine monastico le sia stato subito favorevole; vediamo infatti fin dai primi anni del secolo XI, Bernone, abate di Reichenau, occuparsi della sua propagazione. A Cluny, la festa si stabilì abbastanza presto nel corso dello stesso secolo, come si può vedere dall'Ordinario di quel monastero redatto nel 1091, in cui essa si trova menzionata come istituita già da un certo tempo.

Sotto il pontificato di Alessandro II (1061-1073), la Chiesa Romana, che ha spesso sanzionato, adottandoli, gli usi delle chiese particolari, dovette esprimere un giudizio su questa nuova festa. Il Pontefice, in una delle sue decretali, pur costatando che la festa è già diffusa in molti luoghi, dichiara che la Chiesa Romana non l'ha accettata per il fatto che ogni giorno l'adorabile Trinità è senza posa invocata con la ripetizione delle parole: Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto, e in tante altre formule di lode.

Tuttavia la festa continuava a diffondersi, come attesta il Micrologio; e nella prima parte del secolo XII, l'abate Ruperto affermava già la convenienza di quella istituzione, esprimendosi al riguardo come faremmo oggi noi: "Subito dopo aver celebrato la solennità della venuta dello Spirito Santo, cantiamo la gloria della Santissima Trinità nell'Ufficio della Domenica che segue, e questa disposizione è molto appropriata poiché subito dopo la discesa di quel divino Spirito cominciarono la predicazione e la fede e, nel battesimo, la fede, la confessione del nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Dei divini Uffici, l. xii, c. i).

In Inghilterra l'istituzione della festa della Santissima Trinità ebbe come autore principale il martire san Tommaso di Cantorbery. Fu nel 1162 che egli la istituì nella sua Chiesa, in ricordo della sua consacrazione episcopale che aveva avuto luogo la prima Domenica dopo la Pentecoste. Per la Francia troviamo nel 1260 un concilio di Arles presieduto dall'arcivescovo Florentin, che nel suo sesto canone inaugura solennemente la festa aggiungendovi il privilegio d'una Ottava. Fin dal 1230 l'ordine dei Cistercensi, diffuso nell'intera Europa, l'aveva istituita per tutte le sue case; e Durando di Mende, nel suo Razionale, lascia concludere che il maggior numero delle Chiese latine, durante il secolo XIII usava già la celebrazione di questa festa. Fra tali Chiese ve ne erano alcune che la ponevano non alla prima bensì all'ultima Domenica dopo la Pentecoste e altre che la celebravano due volte: una prima all'inizio della serie delle Domeniche che seguono la solennità di Pentecoste, e una seconda volta alla Domenica che precede immediatamente l'Avvento. Questo uso era mantenuto in modo particolare dalle Chiese di Narbona, di Le-Mans e di Auxerre.

Si poteva sin d'allora prevedere che la Santa Sede avrebbe finito per sanzionare una istituzione che la cristianità desiderava di vedere stabilita dappertutto. Giovanni XXII, che occupò la cattedra di san Pietro fino al 1334, completò l'opera con un decreto nel quale la Chiesa Romana accettava la festa della Santissima Trinità e la estendeva a tutte le Chiese.

Se si cerca ora il motivo che ha portato la Chiesa, guidata in tutto dallo Spirito Santo, ad assegnare così un giorno speciale nell'anno per rendere un solenne omaggio alla divina Trinità, quando tutte le nostre adorazioni, tutti i nostri ringraziamenti, tutti i nostri voti salgono in ogni tempo verso di essa, lo si troverà nella modificazione che si andava introducendo allora nel calendario liturgico. Fin verso il 1000, le feste dei santi universalmente onorati erano molto rare. Da quell'epoca appaiono in maggior numero, ed era da prevedere che si sarebbero moltiplicate sempre di più. Sarebbe giunto il tempo - e sarebbe durato per secoli - in cui l'Ufficio della Domenica che è consacrata in modo speciale alla Santissima Trinità, avrebbe ceduto spesso il posto a quello dei Santi riportati dal corso dell'anno. Si rendeva dunque necessario, per legittimare in qualche modo questo culto dei servi nel giorno consacrato alla suprema Maestà, che almeno una volta nell'anno la Domenica offrisse l'espressione piena e diretta di quella religione profonda che l'intero culto della santa Chiesa professa verso il sommo Signore, che si è degnato di rivelarsi agli uomini nella sua unità ineffabile e nella sua eterna Trinità.

L'essenza della fede.

L'essenza della fede cristiana consiste nella conoscenza e nell'adorazione di Dio unico in tre persone. Da questo mistero scaturiscono tutti gli altri, e se la nostra fede se ne nutre quaggiù come del suo supremo alimento, aspettando che la sua visione eterna ci rapisca in una beatitudine senza fine, è perché è piaciuto al sommo Signore di dichiararsi quale egli è al nostro umile intelletto, pur restando nella sua "luce inaccessibile" (1Tm 6,16). La ragione umana può arrivare a conoscere l'esistenza di Dio come creatore di tutti gli esseri, può farsi un'idea delle sue perfezioni contemplando le sue opere, ma la nozione dell'intima essenza di Dio non poteva giungere a noi se non attraverso la rivelazione che egli si è degnato di farcene.

Ora, volendo il Signore manifestarci misericordiosamente la sua essenza onde unirci più strettamente a sé e prepararci in qualche modo alla visione che deve offrirci di se stesso faccia a faccia nell'eternità, ci ha guidati successivamente di luce in luce, fin quando fossimo abbastanza illuminati per adorare l'Unità nella Trinità e la Trinità nell'Unità. Nel corso dei secoli che precedono l'Incarnazione del Verbo eterno, Dio sembra preoccupato soprattutto di inculcare agli uomini l'idea della sua unità, poiché il politeismo diventa sempre più il male del genere umano, e la nozione stessa della causa spirituale e unica di tutte le cose si sarebbe spenta sulla terra se la Somma Bontà non avesse operato costantemente per conservarla.

Il Figlio rivela il Padre.

Bisognava che giungesse la pienezza dei tempi; allora Dio avrebbe mandato in questo mondo il suo Figlio unigenito generato da lui fin dall'eternità. Egli ha realizzato questo disegno della sua munificenza, "e il Verbo fatto carne ha abitato in mezzo a noi" (Gv 1,14). Vedendo la sua gloria, che è quella del Figlio unigenito del Padre (ibidem), abbiamo conosciuto che in Dio vi è Padre e Figlio. La missione del Figlio sulla terra, nel rivelarci se stesso, ci insegnava che Dio è eternamente Padre, poiché tutto ciò che è in Dio è eterno. Senza questa rivelazione che è per noi un anticipo della luce che attendiamo dopo questa vita, la nostra conoscenza di Dio sarebbe rimasta molto imperfetta. Bisognava che vi fosse infine relazione fra la luce della fede e quella della visione che ci è riservata, e non bastava più all'uomo sapere che Dio è uno.

Ora noi conosciamo il Padre, dal quale, come ci dice l'Apostolo, deriva ogni paternità anche sulla terra (Ef 3,15). Per noi il Padre non è più soltanto il potere creatore che produce gli esseri al di fuori di sé; il nostro occhio, guidato dalla fede, penetra fin nel seno della divina essenza, ed ivi contempliamo il Padre che genera un Figlio simile a sé. Ma, per insegnarcelo, il Figlio è disceso fino a noi. Egli lo dice espressamente: "Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale piace al Figlio rivelarlo" (Mt 11,27). Gloria dunque al Figlio che si è degnato di manifestarci il Padre, e gloria al Padre che il Figlio ci ha rivelato!

Così la scienza intima di Dio ci è venuta dal Figlio che il Padre nel suo amore ci ha donato (Gv 3,16); e onde elevare i nostri pensieri fino alla sua natura divina, questo Figlio di Dio che si è rivestito della nostra natura umana nella sua Incarnazione, ci ha insegnato che il Padre e lui sono uno (ivi 17,22), che sono una stessa essenza nella distinzione delle persone. L'uno genera, l'altro è generato; l'uno si afferma potenza, l'altro sapienza e intelletto.

La potenza non può essere senza l'intelletto, né l'intelletto senza la potenza, nell'essere sommamente perfetto; ma l'uno e l'altro richiedono un terzo termine.

Il Padre e il Figlio mandano lo Spirito Santo.

Il Figlio, che è stato mandato dal Padre, è salito al cielo con la natura umana che ha unita a sé per l'eternità, ed ecco che il Padre e il Figlio mandano agli uomini lo Spirito che procede dall'uno e dall'altro. Con questo nuovo dono, l'uomo giunge a conoscere che il Signore Iddio è in tre persone. Lo Spirito, legame eterno dei primi due, è la volontà, l'amore, nella divina essenza. In Dio dunque è la pienezza dell'essere, senza principio, senza successione e senza progressi, poiché nulla gli manca. In questi tre termini eterni della sua sostanza increata egli è l'atto puro e infinito.

La Liturgia, lode della Trinità.

La sacra Liturgia, che ha per oggetto la glorificazione di Dio e la commemorazione delle sue opere, segue ogni anno le fasi di queste manifestazioni nelle quali il sommo Signore si è dichiarato interamente a dei semplici mortali. Sotto i colori scuri dell'Avvento, abbiamo attraversato il periodo di attesa durante il quale il radioso triangolo lasciava appena penetrare alcuni raggi attraverso le nubi. Il mondo implorava il liberatore, un Messia; e lo stesso Figlio di Dio doveva essere questo liberatore, questo Messia. Perché comprendessimo a fondo gli oracoli che ce lo annunciavano, era necessario che egli venisse. Ci è nato un pargolo (Is 9,6) e abbiamo avuto la chiave delle profezie. Adorando il Figlio, abbiamo adorato anche il Padre che ce lo mandava nella carne e al quale è consostanziale. Quel Verbo di vita che abbiamo visto, che abbiamo sentito, che le nostre mani hanno toccato (1Gv 1,1) nell'umanità, che si era degnato di assumere, ci ha convinti che è veramente una persona, che è distinta dal Padre, poiché l'uno manda e l'altro è mandato. Nella seconda persona divina abbiamo trovato il mediatore che ha riunito la creazione al suo autore, il redentore dei nostri peccati, la luce delle nostre anime, lo Sposo che esse sospirano.

Terminata la serie dei misteri che le sono propri, abbiamo celebrato la venuta dello Spirito santificatore, annunciato come Colui che doveva venire a perfezionare l'opera del Figlio di Dio. L'abbiamo adorato e riconosciuto distinto dal Padre e dal Figlio, che ce lo mandavano con la missione di restare con noi (Gv 14,16). Si è manifestato nelle operazioni divine che gli sono proprie, poiché sono l'oggetto della sua venuta. Esso è l'anima della santa Chiesa, e la conserva nella verità che il Figlio le ha insegnata. È il principio della santificazione delle anime nostre, in cui vuoi porre la sua dimora. In una parola, il mistero della Santissima Trinità è diventato per noi non solo un dogma imposto al nostro pensiero dalla rivelazione, ma una verità praticamente conosciuta da noi per la ineffabile munificenza delle tre divine persone, adottati come siamo dal Padre, fratelli e coeredi del Figlio, mossi e abitati dallo Spirito Santo.

MESSA

Per quanto il sacrificio della Messa sia sempre celebrato in onore della Santissima Trinità, oggi la Chiesa, nei suoi canti, nelle sue preghiere e nelle sue letture, glorifica in modo più preciso il grande mistero che costituisce il fondamento della fede cristiana. Si fa tuttavia la commemorazione della prima Domenica dopo la Pentecoste, per non interrompere l'ordine della Liturgia. La Chiesa usa in questa solennità il colore bianco in segno di letizia e per esprimere la semplicità della purezza dell'essenza divina.

EPISTOLA (Rm 11,33-36). - O profondità delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono incomprensibili i suoi giudizi ed imperscrutabili le sue vie! Chi ha conosciuto il pensiero del Signore? E chi gli è stato consigliere? Chi gli ha dato per il primo, per averne da ricevere il contraccambio? Da lui e per lui e in lui son tutte le cose. A lui gloria nei secoli. Così sia.

I disegni di Dio.

Non possiamo fermare il nostro pensiero sui consigli divini senza provare una specie di vertigine. L'eterno e l'infinito confondono la nostra debole ragione, e questa ragione nello stesso tempo li riconosce e li confessa. Ora, se i disegni di Dio sulle creature già sorpassano il nostro intelletto, come potrà esserci nota l'intima natura di quell'essere supremo? Tuttavia noi distinguiamo e glorifichiamo in questa essenza increata il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il Padre ha rivelato se stesso mandandoci il suo Figlio, oggetto della eterna compiacenza; il Figlio ci ha manifestato la sua personalità assumendo la nostra carne che il Padre e lo Spirito Santo non hanno assunta insieme con lui; lo Spirito Santo, mandato dal Padre e dal Figlio, è venuto a compiere in noi la missione da essi ricevuta. Il nostro occhio si immerge in queste sacre profondità e il nostro cuore si intenerisce pensando che, se conosciamo Dio, è appunto con i suoi benefici che egli ha formato in noi la nozione di ciò che è. Custodiamo con amore questa fede, e attendiamo con fiducia il momento in cui essa cesserà per far posto alla visione eterna di quello che avremo creduto quaggiù.

VANGELO (Mt 28,18-20). - In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: Mi è stato dato ogni potere, in cielo e in terra. Andate dunque ad ammaestrare tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo.

La fede nella Trinità.

Il mistero della Santissima Trinità manifestato dalla missione del Figlio di Dio in questo mondo e dalla promessa del prossimo invio dello Spirito Santo, è dichiarato agli uomini nelle solenni parole che Gesù pronuncia prima di salire al cielo. Egli dice: "Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo" (Mc 16,17); ma aggiunge che il battesimo sarà dato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. D'ora in poi è necessario che l'uomo non solo confessi l'unità di Dio abiurando il politeismo, ma che adori la Trinità delle persone nell'unità dell'essenza. Il grande segreto del cielo è una verità divulgata ora per tutta la terra.

Ringraziamento.

Ma se confessiamo umilmente Dio conosciuto quale è in se stesso, dobbiamo anche rendere l'omaggio d'una eterna riconoscenza alla gloriosa Trinità. Essa non si è solo degnata di imprimere le sue divine sembianze sulla nostra anima, facendola a sua immagine; ma, nell'ordine soprannaturale, si è impossessata del nostro essere e l'ha elevato ad una incommensurabile grandezza. Il Padre ci ha adottati nel suo Figlio incarnato; il Verbo illumina il nostro intelletto con la sua luce; lo Spirito Santo ci ha eletti per sua abitazione: e appunto questo esprime la forma del santo battesimo. Con quelle parole pronunciate su di noi insieme con l'infusione dell'acqua, tutta la Trinità ha preso possesso della sua creatura. Noi ricordiamo tale miracolo ogni qualvolta invochiamo le tre divine persone facendoci il segno della croce. Quando le nostre spoglie mortali saranno portate nella casa di Dio per ricevervi le ultime benedizioni e gli addii della Chiesa terrena, il sacerdote supplicherà il Signore di non entrare in giudizio con il suo servo; e per attirare su quel cristiano già entrato nella sua eternità gli sguardi della misericordia divina, egli mostrerà al supremo Giudice che quel membro del genere umano "fu segnato durante la vita con il sigillo della S. Trinità". Veneriamo in noi quell'augusta impronta che sarà eterna. La riprovazione stessa non la cancellerà. Sia dunque essa la nostra speranza, il nostro nobile titolo, e viviamo a gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Lode alla Santissima Trinità.

Unità indivisibile, Trinità distinta in una sola natura, sommo Dio, che ti sei rivelato agli uomini, degnati di sopportare che noi osiamo esprimere alla tua presenza le nostre adorazioni, ed effondere il ringraziamento che trabocca dai nostri cuori, quando ci sentiamo inondati dai tuoi ineffabili lumi. Unità divina, Trinità divina, noi non ti abbiamo ancora contemplata, ma sappiamo che tu sei poiché ti sei degnata di manifestarti. Questa terra che noi abitiamo sente ogni giorno affermare chiaramente l'augusto mistero la cui visione costituisce il principio della beatitudine degli esseri glorificati nel tuo seno. La stirpe umana ha dovuto aspettare per lunghi secoli prima che la divina formula le fosse pienamente rivelata; ma la generazione alla quale apparteniamo ne è in possesso, e confessa con slancio l'Unità e la Trinità nella tua essenza infinita. Una volta la parola dello Scrittore sacro, simile al lampo che solca le nubi e lascia dietro di sé l'oscurità più profonda, attraversava l'orizzonte del pensiero. Egli diceva: "Ignoro la vera Sapienza, non possiedo la scienza di ciò che è santo. Chi mai è salito al cielo e ne è ridisceso? Chi è colui che tiene nelle mani la tempesta? Chi trattiene le acque come in un involucro? Chi ha fissato i confini della terra? Sai tu quale è il suo nome? Conosci il nome del figlio suo?" (Pr 30,2-4).

Signore Iddio, grazie alla tua infinita misericordia noi conosciamo oggi il tuo nome: tu ti chiami il Padre, e colui che eternamente generi si chiama il Verbo, la Sapienza. Sappiamo anche che dal Padre e dal Figlio procede lo Spirito d'amore. Il Figlio, rivestito della nostra carne, ha abitato questa terra ed è vissuto in mezzo agli uomini; quindi è disceso lo Spirito, che rimane con noi fino alla consumazione dei destini della famiglia umana quaggiù. Ecco perché osiamo confessare l'Unità e la Trinità; poiché avendo inteso la testimonianza divina abbiamo creduto; e "poiché abbiamo creduto, parliamo con tutta sicurezza" (Sal 115,10; 2Cor 4,13). I tuoi Serafini, o Dio, sono stati intesi dal Profeta cantare: "Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti" (Is 4,3). Noi non siamo che uomini mortali, ma più fortunati di Isaia, senza essere profeti come lui, possiamo pronunciare le parole angeliche e dire: "Santo è il Padre, Santo è il Figlio, Santo è lo Spirito". Essi si sostenevano in volo con due delle ali che possedevano; con altre due si velavano rispettosamente il volto e le ultime due coprivano loro i piedi. Anche noi, fortificati dallo Spirito divino che ci è stato dato, cerchiamo di sollevare sulle ali del desiderio il peso della nostra mortalità; copriamo con il pentimento la responsabilità delle nostre colpe, e velando sotto la nube della fede il debole occhio del nostro intelletto, riceviamo nell'intimo la luce che ci è infusa. Docili alle parole rivelate, ci conformiamo a ciò che esse ci insegnano; essi ci apportano la nozione, non solo distinta ma luminosa, del mistero che costituisce la sorgente e il centro di tutti gli altri. Gli Angeli e i Santi ti contemplano in cielo, con quella ineffabile timidezza che il profeta ci ha descritta mostrandoci il loro sguardo velato sotto le loro ali. Noi non vediamo ancora, non potremmo vedere, ma sappiamo, e questa scienza illumina i nostri passi e ci stabilisce nella verità. Ci guardiamo dallo "scrutare la maestà", per paura "di essere schiacciati sotto la gloria" (Pr 25,27); ma ripensando umilmente a ciò che il cielo si è degnato di rivelarci dei suoi segreti, osiamo dire:

Lode all'unico Dio.

Gloria a te, ESSENZA unica, atto puro, essere necessario, infinito senza divisione, indipendente, completo da tutta l'eternità, tranquillo e sommamente beato. In te noi riconosciamo insieme con l'inviolabile Unità, fondamento di tutte le grandezze, tre persone che sussistono distintamente ma nella loro produzione e nella loro distinzione hanno in comune la stessa natura, in modo che la sussistenza personale che costituisce ciascuna di esse e le distingue l'una dall'altra non apporta fra loro alcuna disuguaglianza. O beatitudine infinita in questa società delle tre persone che contemplano in se stesse le ineffabili perfezioni dell'essenza che le riunisce, e la proprietà di ciascuna delle tre che anima divinamente quella natura che nulla potrebbe limitare o turbare! O miracolo di quella essenza infinita allorché si degna di agire fuori di se stessa, creando altri esseri nella sua potenza e nella sua bontà, operando le tre persone d'accordo, in modo che quella che interviene in una maniera che le è propria, lo fa in virtù di una volontà comune! Un amore speciale sia dunque mostrato alla divina persona che, nell'azione comune alle tre, si degna di rivelarsi in modo speciale alle creature; e nello stesso tempo siano rese grazie alle altre due che si uniscono in una medesima volontà, quella che si manifesta in nostro favore!

Lode al Padre.

Gloria a te, o PADRE, Antico dei giorni (Dn 7,9), innascibile, senza principio ma che comunichi essenzialmente e necessariamente al Figlio e allo Spirito Santo la divinità che risiede in te! Tu sei Dio e sei Padre. Chi ti conosce come Dio e ti ignora come Padre, non ti conosce quale tu sei. Produci, generi, ma è nel tuo seno che sei generatore, poiché nulla di quanto è fuori di te è Dio. Tu sei l'essere, la potenza; ma non sei stato mai senza un Figlio. Tu dici a te stesso tutto quello che sei, ti traduci, e il frutto della fecondità del tuo pensiero, uguale a te, è una seconda persona che esce da te: è il tuo Figliuolo, il tuo Verbo, la tua parola increata. Una volta hai parlato, e la tua parola è eterna come te, come il tuo pensiero di cui è l'espressione infinita. Così lo splendore che brilla ai nostri occhi non è mai stato senza il suo splendore. Questo splendore è da lui, è con lui; emana da lui senza diminuirlo, così come non si isola da lui. Perdona, o Padre, al nostro debole intelletto di cogliere un paragone dagli esseri che tu hai creati. E se consideriamo noi stessi che siamo stati creati da te a tua immagine, non sentiamo forse che il nostro stesso pensiero, per essere distinto nella nostra mente, ha bisogno del termine che lo fissa e lo determina?

O Padre, noi ti abbiamo conosciuto mediante quel Figlio che tu eternamente generi, e che si è degnato di rivelarsi a noi. Egli ci ha insegnato che tu sei Padre e che egli è Figlio, e nello stesso tempo tu sei con lui una stessa cosa (Gv 10,30). Se un Apostolo esclama: "Signore, mostraci il Padre", egli risponde: "Chi vede me, vede il Padre mio" (Gv 14,8-9). O Unità della natura divina, in cui il Figlio, distinto dal Padre, non è tuttavia da meno del Padre! O compiacenza del Padre nel Figlio, mediante il quale egli ha coscien*za di se stesso; compiacenza d'amore intimo che egli dichiara alle nostre orecchie mortali sulle rive del Giordano e sulla vetta del Tabor (Mt 3,17; 2Pt 1,17).

O Padre, noi ti adoriamo, ma ti amiamo pure: poiché un Padre deve essere amato dai suoi figli, e noi siamo appunto tuoi figli. Un Apostolo non ci insegna forse che ogni paternità procede da te, non solo in cielo, ma anche in terra (Ef 3,15)? Nessuno è padre, nessuno ha l'autorità paterna nella famiglia, nello Stato, nella Chiesa, se non da te, in te e ad imitazione di te. Di più, tu hai voluto che "fossimo non soltanto chiamati tuoi figli, ma che tale qualità fosse reale in noi" (Gv 3,1); non per generazione come è del tuo unico Verbo, ma per una adozione che ci rende suoi "coeredi" (Rm 8,17). Il tuo divin Figlio dice parlando di te: "Io onoro il Padre mio" (Gv 8,49); anche noi ti onoriamo, o sommo Padre, Padre d'immensa maestà, e dal profondo del nostro nulla, nell'attesa dell'eternità, ti glorifichiamo insieme con i santi Angeli e i Beati della nostra stirpe. Che il tuo occhio paterno ci protegga, che si degni di compiacersi anche in quei figli che tu hai previsti, che hai eletti, che hai chiamati alla fede e che osano insieme con l'Apostolo chiamarti "il Padre delle misericordie e il Dio di ogni consolazione" (2Cor 1,3).

Lode al Figlio.

Gloria a te, o FIGLIO, o Verbo, o Sapienza del Padre! Emanato dalla sua essenza divina, il Padre ti ha dato nascita "prima dell'aurora" (Sal 109,3); egli ti ha detto: "Oggi ti ho generato" (Sal 2,7), e quel giorno che non ha né vigilia né domani è l'eternità. Tu sei Figlio e Figlio unigenito, e questo nome esprime una stessa natura con colui che ti produce; esclude la creazione, e ti mostra consustanziale al Padre, dal quale esci con una perfetta somiglianza. Tu esci dal Padre senza uscire dall'essenza divina, essendo coeterno al tuo principio, poiché in Dio nulla vi è di nuovo e nulla di temporale. In te, la filiazione non è una dipendenza, poiché il Padre non può essere senza il Figlio come il Figlio senza il Padre. Se è nobile per il Padre produrre il Figlio, non è meno nobile per il Figlio esaurire e terminare in sé stesso con la sua filiazione la potenza generatrice del Padre.

O Figlio di Dio, tu sei il Verbo del Padre. Parola increata, tu gli sei intimo come il suo pensiero, che è il suo stesso essere. In te quell'essere si traduce interamente nella sua infinità, in te si conosce. Tu sei il frutto immateriale prodotto dall'intelletto divino del Padre, l'espressione di tutto ciò che egli è sia che ti custodisca misteriosamente "nel suo seno" (Gv 1,18), sia che ti produca al di fuori. Quali termini potremo usare per definirti nella tua magnificenza, o Figlio di Dio?! Lo Spirito Santo si degna di venirci in aiuto nei libri che ha ispirato ed osiamo perciò dire col linguaggio che ci suggerisce: "Tu sei lo splendore della gloria del Padre, la forma della sua sostanza (Ebr 1,3). Tu sei lo splendore dell'eterna luce, lo specchio senza imperfezione della maestà di Dio, la rifrazione della sua eterna bontà" (Sap 7,26). Con la santa Chiesa riunita a Nicea, osiamo dirti ancora: "Tu sei Dio da Dio, lume da lume, Dio vero da Dio vero". Con i Padri e i Dottori aggiungiamo: "Tu sei la lampada eternamente accesa alla lampada eterna. La tua luce non diminuisce affatto quella che si comunica a te, e in te essa non ha nulla di inferiore a quella che l'ha prodotta".

Ma quando questa ineffabile fecondità che dà un Figlio eterno al Padre, al Padre e al Figlio un terzo termine, ha voluto manifestarsi al di fuori della divina essenza, e non potendo produrre più nulla che le fosse uguale si è degnata di chiamare dal nulla la natura intellettuale e ragionevole, come quella che più si avvicinava al suo principio, e la natura materiale come la meno lontana dal nulla, la produzione intima della tua persona nel seno del Padre, o Figlio unigenito di Dio, si è rivelata al mondo nell'atto creatore. Il Padre ha fatto tutte le cose, ma "le ha fatte nella sua Sapienza" cioè è in te che "le ha fatte" (Sal 103,24). Questa missione di operare che hai ricevuta dal Padre, deriva dalla generazione eterna con la quale egli ti produce da se stesso. Tu sei stato lanciato dal tuo misterioso riposo, e le creature visibili e invisibili sono uscite dal nulla dietro il tuo comando. Agendo in un intimo accordo con il Padre, hai diffuso sui mondi, creandoli, qualcosa di quella bellezza e di quell'armonia di cui sei il riflesso nell'essenza divina. Ma la tua missione non era esaurita dalla creazione. L'angelo e l'uomo, esseri intelligenti e liberi, erano chiamati a vedere e a possedere Dio in eterno. Per essi, l'ordine naturale non era sufficiente; bisognava che venisse aperta una via soprannaturale per condurli al loro fine. Questa via, eri tu stesso, o Figlio unigenito di Dio. Assumendo in te la natura umana, tu ti univi all'opera tua, risollevavi fino a Dio l'angelo e l'uomo, e nella tua natura finita apparivi come il tipo supremo della creazione che il Padre aveva compiuta per mezzo tuo. O mistero ineffabile! Tu sei il Verbo increato, e insieme "il primogenito di ogni creatura" (Col 1,15) che doveva essere manifestato a suo tempo, ma che avevi preceduto nell'intenzione divina tutti gli esseri che sono stati creati perché fossero i suoi sudditi.

La stirpe umana, chiamata a possederti nel suo seno come il divino intermediario, la ruppe con Dio: il peccato la precipitò nella morte. Chi poteva ormai risollevarla e restituirla al suo sublime destino? Ancora soltanto tu, o Figlio unigenito del Padre! Non avremmo mai osato sperarlo; ma "il Padre ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16), non più soltanto come mediatore, ma come redentore di noi tutti. O nostro fratello maggiore, tu gli chiedevi "che ti restituisse la tua eredità" (Sal 16,5), e questa eredità hai dovuto riscattarla. Il Padre allora ti affidò la missione di Salvatore per la nostra razza perduta. Il tuo sangue sulla croce fu il prezzo del nostro riscatto, e siamo rinati a Dio e ai nostri onori d'un tempo; per questo ci facciamo vanto, noi tuoi redenti, o Figlio di Dio, di chiamarti NOSTRO SIGNORE.

Liberati dalla morte, purificati dal peccato, ti sei degnato di restituirci tutte le nostre grandezze. Tu infatti sei ormai il CAPO, e noi siamo le tue membra. Tu sei il RE, e noi siamo i tuoi fortunati sudditi. Tu sei il PASTORE, e noi siamo le pecore del tuo unico ovile. Tu sei lo SPOSO, e la Chiesa madre nostra è la tua sposa. Tu sei il PANE vivo disceso dal cielo, e noi siamo i tuoi invitati. O Figlio di Dio, o Emmanuele, o figlio dell'uomo, benedetto il Padre che ti ha mandato; ma benedetto con lui anche tu, che hai adempiuto la sua missione, e che ti sei degnato di dirci che "le tue delizie sono nello stare con i figli degli uomini" (Pr 8,31)!

Lode allo Spirito Santo.

Gloria, a te, o SPIRITO SANTO, che emani per sempre dal Padre e dal Figlio nell'unità della divina sostanza! L'atto eterno con il quale il Padre conosce se stesso produce il Figlio che è l'immagine infinita del Padre, e il Padre è preso d'amore per quello splendore uscito da lui da prima dei secoli. Il Figlio, contemplando il principio da cui emana eternamente, concepisce per tale principio un amore uguale a quello di cui è l'oggetto. Chi potrebbe mai descrivere questo ardore, questa mutua aspirazione che è l'attrazione e il moto d'una persona verso l'altra, nell'immobilità eterna dell'essenza?! Tu sei quell'amore, o Spirito divino, che esci dal Padre e dal Figlio come da uno stesso principio, distinto dall'uno e dall'altro, ma che forma il legame che li unisce nelle ineffabili delizie della divinità: Amore vivo, personale, che procede dal Padre attraverso il Figlio, termine estremo che completa la natura divina e definisce eternamente la Trinità. Nel seno impenetrabile del gran Dio, la personalità ti deriva insieme dal Padre di cui sei l'espressione con un nuovo modo di produzione (Gv 15,26) e dal Figlio che, ricevendo dal Padre, ti dà da se stesso (Gv 16,14-15), poiché l'amore infinito che li unisce eternamente è dei due e non di uno solo. Mai il Padre fu senza il Figlio, mai il Figlio fu senza il Padre; ma neppure mai il Padre e il Figlio sono stati senza di te, o Spirito Santo! Eternamente essi si sono amati, e tu sei l'amore infinito che regna in essi, e al quale essi comunicano la loro divinità. La tua processione dall'uno e dall'altro esaurisce la virtù produttiva dell'essenza increata, e così le divine persone realizzano il numero tre; al di fuori di esse, non vi è che il creato.

Era necessario che nella divina essenza vi fosse non solo la potenza e l'intelletto, ma anche il volere dal quale procede l'azione. Il volere e l'amore sono una sola e medesima cosa, e tu sei, o divino Spirito, quel volere e quell'amore. Quando la gloriosa Trinità opera al di fuori di se stessa, l'atto concepito dal Padre, espresso dal Figlio, si compie per tuo mezzo. Pure per tuo mezzo l'amore che il Padre e il Figlio hanno l'uno per l'altro, e che si personifica in te, si estende agli esseri che saranno creati. Mediante il suo Verbo il Padre li conosce; mediante te, o Spirito amore, li ama, sicché tutta la creazione procede dalla bontà divina.

Emanando dal Padre e dal Figlio, senza perdere l'uguaglianza che hai eternamente con essi, sei mandato dall'uno e dall'altro verso la creatura. Il Figlio, mandato dal Padre, riveste per l'eternità la natura umana, e la sua persona, con le operazioni che le sono proprie, ci appare distinta da quella del Padre. Così pure, o Spirito Santo, noi ti riconosciamo distinto dal Padre e dal Figlio, quando discendi per compiere su di noi la missione che ti è stata assegnata dall'uno e dall'altro. Tu ispiri i profeti (2Pt 1,21), intervieni in Maria nella divina Incarnazione (Lc 1,35), ti posi sul fiore di Iesse (Is 9,2), conduci Gesù al deserto (Lc 4,1), lo glorifichi con i miracoli (Mt 12,28). La sua Sposa, la santa Chiesa, ti riceve anch'essa e tu l'ammaestri in ogni verità (Gv 16, 13), e rimani in lei, come suo amico, fino all'ultimo giorno del mondo (Mt 28,20). Le anime nostre sono segnate del tuo sigillo (Ef 1,13; 4,30), tu le animi della vita soprannaturale (Gal 5,25); abiti finanche nei nostri corpi, che diventano il tuo tempio (1Cor 6,19); e infine sei per noi il dono di Dio (Inno della Pentecoste), la fonte che zampilla sino alla vita eterna (Gv 4, 14; 7,39). Ti siano dunque rese distinte grazie, o Spirito divino, per le distinte operazioni che compi in nostro favore!

Ringraziamento alla Santissima Trinità.

Ed ora, dopo aver adorato l'una dopo l'altra le divine persone, passando in rassegna i loro benefici sul mondo, osiamo ancora elevare il nostro occhio mortale verso quella triplice Maestà che risplende nell'unità della tua essenza, o sommo Signore, e confessiamo ancora una volta, insieme con sant'Agostino, quello che abbiamo saputo da te su te stesso. "Tre è il loro numero: uno che ama colui che è da lui, uno che ama colui che è, e infine lo stesso amore" [1]. Ma dobbiamo ancora compiere un dovere di riconoscenza, celebrando l'ineffabile modo con cui ti sei degnato di imprimere in noi l'immagine di te stesso. Avendo risolto fin dall'eternità di farci compartecipi tuoi, (1Gv 1,3), ci hai preparati secondo un'immagine tolta dal tuo essere divino (Gen 1,27). Tre facoltà nella nostra unica anima rendono testimonianza della nostra origine che è da te; ma questo fragile specchio del tuo essere, che è la gloria della nostra natura, non era che un preludio ai disegni del tuo amore. Dopo averci dato l'essere naturale, avevi risolto nel tuo consiglio, o divina Trinità, di comunicarci anche l'essere soprannaturale. Nella pienezza dei tempi, il Padre ci manda il suo Figlio, e questo Verbo increato reca la luce al nostro intelletto; il Padre e il Figlio ci mandano lo Spirito, e lo Spirito reca l'amore alla nostra volontà; e il Padre che non può essere mandato viene da se stesso, e si dà all'anima nostra di cui trasforma la potenza. È nel santo Battesimo, nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo, che si compie nel cristiano questa produzione delle tre divine persone, in corrispondenza ineffabile con le facoltà elargite all'anima nostra, come l'abbozzo del capolavoro che solo l'azione soprannaturale di Dio può portare a termine.

O unione mediante la quale Dio è nell'uomo e l'uomo è in Dio! Unione mediante la quale giungiamo all'adozione del Padre, alla fraternità con il Figlio, all'eredità eterna. Ma questa abitazione di Dio nella creatura è stato l'amore eterno a formarla gratuitamente, e si mantiene fino a quando l'amore di reciprocità non viene a mancare nell'uomo. Il peccato mortale avrebbe la forza di distruggerla; la presenza delle divine persone che avevano fissato la loro dimora nell'anima (Gv 14,23) e che vorrebbero restare unite ad essa, cesserebbe nell'istante stesso in cui si spegnesse la grazia santificante. Dio allora non sarebbe più nell'anima se non per la sua immensità, e l'anima non lo possederebbe più. Allora Satana ristabilirebbe in essa il regno della sua odiosa trinità: "la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita" (1Gv 2,16). Guai a chiunque osasse sfidare Dio con una rottura così sanguinosa, e sostituire in questo modo il male al sommo bene! È la gelosia del Signore disprezzato, espulso, che ha spalancato gli abissi dell'inferno e acceso le fiamme eterne.

Ma questa rottura è dunque senza più possibile riconciliazione? Sì, se si tratta dell'uomo peccatore, incapace di riallacciare con la Santissima Trinità le relazioni che una gratuita previdenza aveva preparate e che una incomprensibile bontà aveva portate a termine. Ma la misericordia di Dio, che è, come ci insegna la Chiesa nella sacra Liturgia (Colletta della X domenica dopo la Pentecoste), l'attributo più alto della sua potenza, può operare un tale prodigio, e lo opera ogni qualvolta un peccatore si converte. A questa operazione della augusta Trinità che si degna così di discendere nuovamente nel cuore del peccatore pentito, un gaudio immenso, ci dice il Vangelo, si impossessa degli Angeli e dei Santi fin nelle altezze dei cieli (Lc 15,10), poiché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno reso manifesto il loro amore e cercato la loro gloria rendendo giusto colui che era stato peccatore, e venendo ad abitare in quella pecorella or ora smarrita, in quel prodigo che il giorno prima faceva il guardiano dei porci, in quel ladrone che poco fa, sulla croce, insultava ancora insieme con il suo compagno l'innocente crocifisso.

Adorazione e amore a voi, dunque, o Padre, Figlio e Spirito Santo, Trinità perfetta che ti sei degnata di rivelarti ai mortali, Unità eterna e incommensurabile che hai liberato i padri nostri dal giogo dei falsi dèi. Gloria a te, come era nel principio, prima di tutti gli esseri creati; come è adesso, in quest'ora in cui attendiamo la vera vita che consiste nel contemplarti faccia a faccia; come sarà nei secoli dei secoli, quando l'eternità beata ci avrà riuniti nel tuo seno infinito. Amen.

PREGHIAMO

O Dio onnipotente ed eterno, che per mezzo della vera fede hai concesso di conoscere la gloria dell'eterna tua Trinità e di adorare la grandezza della tua Unità, fa' che questa fede fermissima ci faccia forti in tutte le avversità della vita.

[1] Non amplius quam tria sunt: unus diligens eum qui de illo est, et unus diligens eum de quo est, et ipsa dilectio (De Trin. l. vi c. vii).



da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 352-368
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