Considerazione su BASTARDO DENTRO di cinemavvenire.it

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Agg-Webmaster
00domenica 22 gennaio 2006 10:01
Le storie che hanno come protagonisti piccole pesti al cinema funzionano sempre; se non altro, escludendo il discorso prettamente artistico, attraggono un pubblico eterogeneo, e soprattutto non eccessivamente pretenzioso, intenerito dalle gesta variopinte delle simpatiche canaglie.
La saga dei Senti chi parla, con il "fantozziano" Mickey alle prese con Kristie Alley e John Travolta, aveva inaugurato positivamente questo trend cinematografico di sicuro interesse, con l’aggiunta preziosa di un ironico doppiaggio per gli altrimenti muti pargoli; così, in Italia abbiamo potuto riconoscere in sequenza l’onnipresente Paolo Villaggio, Anna Mazzamauro e, nell’ulteriore sequel cinofilo, Renato Pozzetto e Monica Vitti; logico attendersi, dunque, da questo Bastardo dentro, la presenza di un’altra voce riconoscibile dal pubblico italiano; la scelta, ricaduta su Aldo Baglio del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, ha così seguito il filone comico che aveva contraddistinto gli altri titoli del genere; ma questo fattore porta l’attenzione critica a una duplice considerazione: in primo luogo, l’utilizzo dei tormentoni dialettici ideati dal trio e riproposti in questo film hanno sì, di primo acchito, una presa sicura sullo spettatore, ma alla lunga rischiano di cadere nel patetismo con irreversibili risultati da "minestra riscaldata"; seconda considerazione: non basta, probabilmente, ricalcare un format di successo per ottenere lo stesso risultato. Così, vada per il classico filmetto con il pupo dotato magicamente di parola, ma attenzione anche al resto degli elementi cardine dell’impalcatura filmica; quindici anni fa (più o meno) avevamo visto Tony Manero trasformato in papà tutto pannolini e biberon. E già questo faceva effetto. Ai più non interessò parlare di fotografia, primi piani o campi lunghi, né di introspezioni psicoanalitiche che pure sarebbero necessarie nell’affrontare una critica sui rapporti intergenerazionali sul grande schermo.
Nel Bastardo Dentro di Patrick Alessandrin, lo stesso credito d’immagine non è attribuibile al cast, composto da nomi quasi esclusivamente noti all’interno dei confini francesi (eccezion fatta, forse, per babbo Thierry Lhermitte), e non dunque di portata mondiale come un Travolta o una Alley di allora.
Per potenziare l’interesse artistico di questo film, dunque, sono stati necessari altri fattori: in prima istanza è da notare un buon lavoro di sceneggiatura, se non altro capace di fornire in maniera chiara l’ intreccio notevole che lega i vari personaggi sullo schermo; una moglie fedifraga, un ladruncolo da quattro soldi, un giovane architetto "dandy" che ruba i progetti ai compagni di università, una suocera insopportabile, una giovane opportunista, una vecchia erotomane: la quantità di personalità "bastarde" si palesa in maniera inconfutabile. Ironia della sorte, dunque, dato che l’unico a dichiararsi tale, bastardo dentro, appunto, è solo il piccolo reincarnato, "un trentacinquenne neonato", citando una battuta pronunciata dall’Aldo nazionale. E non si nasconde nemmeno il senso moraleggiante che aleggia nel finale del film, quando il magnate Porel, demone scatenante dell’odio del povero Simone, mosso da sdolcinati istinti paterni diventa improvvisamente un benefattore, assurgendo a figura modello rispetto alla marmaglia di bastardaggini avvenute fino a quel punto. In secondo luogo, la fotografia a misura di neonato ci ha proposto soggettive puntuali e interessanti.
Ma ciò che viene da chiedersi è: era proprio necessario oltraggiare il pubblico con bassezze sessuali e volgarità, in un film che, proprio dal suo volare basso, all’altezza di un bambino, traeva il suo punto di forza? Personalmente non ho compreso appieno, se mai esista, il senso di tutti gli amplessi (ovviamente non del tutto espliciti, ci mancherebbe) e di tutti quei riferimenti al sesso proposti nel film (la vecchia che si eccita ascoltando la lettura di romanzi a luci rosse è quanto mai un’immagine fuori luogo e assolutamente negativa).
Una nota d’interesse la merita forse l’unico vero coup de théâtre dell’opera: la sequenza in cui il piccolo figlio di Porel, nella cui anima dunque giace Simone, mosso da desideri di vendetta nei confronti del padre, ingaggia un training pugilistico alla Rocky, dove prende a pugni un malcapitato orsacchiotto, mangia omogneizzati a volontà al posto dei frullatoni proteinici e al termine dell’allenamento sale le scale di casa e, esausto, esulta come a suo tempo fece Stallone. Il tutto impreziosito da una canzone di accompagnamento anch’essa azzeccata, una We Will Rock You interpretata qui da una voce fanciullesca, degna sostituta di Freddie Mercury.
A parte questi momenti di ilarità pura, verrebbe da dire che quest’opera soffre in maniera chiara di una assenza di genialità; in altre parole, carino il pupo parlante, simpatica la voce sicula di Aldo, vada pure per i Queen reinterpretati da un bambino. Ma dov’è il cinema?

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