Conferenze, discorsi, scritti e interviste del Cardinal Ratzinger

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Paparatzifan
00giovedì 10 gennaio 2008 22:34
Dal blog di Lella...

L' inferno è solitudine: ecco l' abisso dell' uomo

di JOSEPH RATZINGER PAPA BENEDETTO XVI

L'articolo della discesa agli inferi del Signore ci ricorda che della rivelazione cristiana fa parte non solo il parlare di Dio, bensì anche il suo tacere. Dio non è solo la parola comprensibile, che si avvicina a noi, egli è anche la causa taciuta e inaccessibile, incompresa e incomprensibile che ci sfugge.

Certamente, nel cristianesimo c'è un primato del logos, della parola rispetto al silenzio: Dio ha parlato, Dio è la parola. Ma oltre a ciò noi non dovremmo dimenticare la verità del duraturo nascondimento di Dio. Solo quando lo abbiamo conosciuto come silenzio, possiamo sperare di sentire anche il suo parlare, che emana dal suo silenzio.

La cristologia oltrepassa la croce, il momento della tangibilità dell' amore divino, sin nella morte, nel silenzio e nell' oscuramento. Se si tiene conto di ciò, si risolve da solo il problema della «prova scritta»; perlomeno nel grido di morte di Gesù «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34) il segreto della discesa agli inferi di Gesù diventa visibile come un lampo accecante in una notte buia. A questo riguardo non dimentichiamo che questa frase del Crocifisso è il versetto iniziale di una preghiera di Israele, nella quale si riassume in modo sconvolgente il bisogno e la speranza di questo popolo eletto da Dio, e in apparenza profondamente abbandonato da lui. Questa preghiera che sale come richiesta nel momento dell' oscurità di Dio finisce con una esaltazione della grandezza di Dio. Anche questa è assente nel grido in punto di morte di Gesù, che Ernst Käsemann ha di recente definito una preghiera dagli inferi, come l' istituzione della prima preghiera nel deserto dell' apparente assenza di Dio: «Il Figlio mantiene ancora la fede, quando la fede sembra essere diventata insensata e la realtà terrena rivela il Dio assente, di cui parlano non a caso il primo ladrone e la folla che schernisce. Il suo grido non è indirizzato al vivere e sopravvivere, non a se stesso, bensì al Padre. Il suo grido è contro la realtà del mondo intero».
Tentiamo un' ulteriore riflessione per penetrare in questo complesso mistero, che non può essere chiarito a partire da un solo lato.

Innanzitutto prendiamo atto ancora una volta di un' osservazione esegetica. Ci viene detto che nel nostro articolo di fede il termine «inferno» sarebbe solo una traduzione errata di scheol (in greco: hádes), con il quale l' ebreo definiva quella condizione al di là della morte, che si immaginava in modo molto vago come una specie di esistenza nell' ombra, più un non esserci che un esserci. Perciò la frase avrebbe originariamente significato solo che Gesù è entrato nello scheol, ovvero che è morto.

Ora, questo può senz' altro essere vero. Ma rimane la questione se la cosa con ciò sia diventata più facile e chiara.

Penso che la domanda si ponga ora più che mai: cos'è veramente la morte e cosa accade dopo, quando qualcuno muore ed entra quindi nel destino della morte? Tutti noi dovremo ammettere il nostro imbarazzo di fronte a questa domanda.

Ma forse possiamo tentare un avvicinamento partendo ancora una volta dal grido di Gesù sulla croce, trovando espresso il nucleo di ciò che significa discesa di Gesù, partecipazione al destino di morte dell' uomo. In quest' ultima preghiera di Gesù, come nella scena del monte degli ulivi, sembra che il nucleo più profondo della sua passione non sia un qualsivoglia dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. In questo punto, però, appare infine veramente l' abisso della solitudine dell'uomo come tale, dell' uomo che nell' intimo è solo. Questa solitudine, che certo è perlopiù coperta in vario modo, ma è comunque la vera condizione dell' uomo, significa nel contempo la più profonda contraddizione all' essenza dell' uomo, che non può stare da solo, ma ha bisogno di essere in comunione.

Perciò la solitudine è la sfera della paura, che si basa sul venire a mancare dell' essenza: essenza che deve essere e che tuttavia è stata esiliata in uno spazio che le è impossibile. Cerchiamo di chiarircelo con un esempio. Se un bambino deve camminare da solo attraverso la foresta nella notte buia, ha paura, anche se gli si è dimostrato in maniera convincente che non vi è nulla da temere.

Nel momento in cui è solo nell' oscurità e sente la solitudine in maniera così radicale, sorge la paura, la vera paura dell' uomo, che non è paura di qualcosa, bensì paura in sé. La paura di qualcosa di determinato è in fin dei conti innocua, può essere esorcizzata allontanando l' oggetto in questione. Se qualcuno per esempio ha paura di un cane che morde, la faccenda si può sistemare velocemente legando il cane alla catena. Qui ci imbattiamo in qualcosa di molto più profondo: nel fatto che l' uomo, quando finisce nella solitudine definitiva, non ha paura di qualcosa di determinato, che si potrebbe mostrare lontano; egli prova piuttosto la paura della solitudine, dell' inquietudine e della sospensione della propria essenza, che non può essere superata razionalmente.

Aggiungiamo ancora un esempio: quando qualcuno deve stare sveglio di notte da solo con un morto in una camera, troverà sempre la sua situazione in qualche modo inquietante, anche se non vuole confessarselo ed è in grado di rendere comprensibile razionalmente l' infondatezza della sua sensazione. Egli sa bene che il morto non gli può fare nulla e che la sua situazione sarebbe forse molto più pericolosa se la persona in questione fosse ancora viva. Quello che nasce qui è una paura di tutt' altro tipo, non paura di qualcosa, bensì nell' essere soli con la morte, la sinistra sensazione della solitudine in sé, la sospensione dell' esistenza.

Ma, dobbiamo chiederci ora, come può essere superata una tale paura, se la prova dell' infondatezza cade nel vuoto? Ora, il bambino perderà la sua paura nel momento in cui vi sarà lì una mano che lo prende e lo conduce. E anche colui che è solo con il morto sentirà sparire l' impulso della paura se qualcuno è con lui. In questo superamento della paura si svela nel contempo ancora una volta la sua essenza: che essa è la paura della solitudine, la paura di un essere che può vivere soltanto nell' essere in comunione.

Dobbiamo spingere ancora oltre la nostra domanda. Se esistesse una solitudine nella quale nessuna parola di un altro potesse più arrivare e avere effetto trasformante; se sopraggiungesse una sospensione dell' esistenza tanto grave che in quel luogo non potrebbe più giungere alcun tu, allora sarebbe data quella vera e totale solitudine e terribilità che il teologo chiama «inferno».

Cosa significhi questa parola possiamo definirlo precisamente in base a ciò: essa indica una solitudine nella quale non penetra più la parola dell' amore e significa quindi la vera sospensione dell' esistenza.

In questo contesto, è immediato ricordare che i poeti e i filosofi della nostra epoca sono convinti che tutti gli incontri tra gli uomini rimangano in sostanza alla superficie; nessun uomo avrebbe accesso alla vera profondità dell' altro. Nessuno perciò può giungere alla vera profondità dell'altro; ogni incontro, per quanto possa sembrare bello, in fin dei conti non fa altro che narcotizzare l' insanabile ferita della solitudine. Nell' intimo più profondo dell'esistenza di noi tutti abiterebbe quindi l' inferno, la disperazione - la solitudine, che è tanto indefinibile quanto terribile. Sartre ha notoriamente costruito la sua antropologia su quest'idea. Infatti, una cosa è certa: c' è una notte nel cui abbandono non arriva alcuna voce; vi è una porta attraverso la quale noi possiamo passare solamente in solitudine: la porta della morte. Tutta la paura del mondo è in ultima analisi paura di questa solitudine. Da questo si può capire perché l' Antico Testamento abbia solo una parola per l' inferno e la morte, il termine scheol: in fin dei conti le due cose sono identiche. La morte è la solitudine per antonomasia. Ma quella solitudine nella quale l' amore non può più penetrare è l' inferno. Con questo siamo giunti di nuovo al nostro punto di partenza.

In base a ciò, questa frase significa che Cristo ha attraversato la porta della nostra ultima solitudine, che egli nella sua passione è entrato in questo abisso del nostro essere abbandonati. Dove nessuna voce può raggiungerci, egli è lì. In questo modo l' inferno è superato, o meglio: la morte, che prima era l' inferno, non lo è più. Entrambe le cose non sono più le stesse, poiché nel cuore della morte c' è la vita, poiché l' amore abita nel cuore di essa. L' inferno è ora solo una chiusura volontaria di sé o, come afferma la Bibbia, la seconda morte.


Il brano

Le lezioni da Ratzinger

Il testo che pubblichiamo oggi, tratto dal libro di Joseph Ratzinger Perché siamo ancora nella Chiesa (Rizzoli, 299 pagine, 19 euro), è un ampio stralcio di un intervento pronunciato nel marzo 1968 dall'allora teologo al convegno «Professione di fede passata di moda?» tenuto a Monaco di Baviera

L' Accademia

Il volume che arriva oggi in libreria raccoglie discorsi e lezioni di Ratzinger svolti in quarant' anni all'Accademia cattolica di Baviera.
Ieri abbiamo pubblicato un intervento su missione cristiana, universalità della fede e tolleranza.

© Copyright Corriere della sera, 9 gennaio 2008


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00sabato 19 gennaio 2008 00:44
BILANCI DEL '900
Dal 1968 al 1989 un'epoca segnata da utopie che volevano imporsi e sostituirsi al cristianesimo. Una riflessione di Ratzinger

I gulag dimenticati
di Joseph Ratzinger


Protesta giovanile e comunismo, due forme di un'unica idea: l'appartenenza a questo mondo

A ben guardare, due anni sembrano aver segnato gli ultimi decenni del secolo appena trascorso: il 1968 e il 1989. Il 1968 è legato all'emergere di una nuova generazione, che non solo giudicò inadeguata, piena di ingiustizia, piena di egoismo e di brama di possesso, l'opera di ricostruzione del dopoguerra, ma che guardò all'intero svolgimento della storia, a partire dall'epoca del trionfo del cristianesimo, come a un errore e a un insuccesso. Desiderosi di migliorare la storia, di creare un mondo di libertà, di uguaglianza e di giustizia, questi giovani si convinsero di aver trovato la strada migliore nella grande corrente del pensiero marxista. L'anno 1989 segnò il sorprendente crollo dei regimi socialisti in Europa, che lasciarono dietro di sè un triste strascico di terre distrutte e di anime distrutte. E, tuttavia chi pensava che l'ora del messaggio cristiano sarebbe nuovamente scoccata si è illuso: sebbene il numero dei cristiani credenti nel mondo non sia modesto, in questo momento storico il cristianesimo non è riuscito a porsi distintamente come un'alternativa epocale. La «dottrina di salvezza» marxista, in sostanza, era nata, nelle sue numerose versioni variamente strumentate, come unica visione del mondo scientifica corredata di motivazione etica e adatta ad accompagnare l'umanità nel futuro. Di qui il suo difficile congedo, anche dopo il trauma del 1989.
Basti pensare a quanto contenuta è stata la discussione sugli orrori dei gulag comunisti, a quanto inascoltata è rimasta la voce di Solzenicyn: di tutto questo non si parla. A imporre il silenzio è una sorta di pudore. Persino al sanguinario regime di Pol Pot si accenna soltanto occasionalmente, en passant. Ma è rimasto il disinganno, accanto a una profonda confusione. Nessuno oggi crede più alle grandi promesse morali. E proprio in questi termini era stato inteso, il marxismo: una corrente che auspicava giustizia per tutti, l'avvento della pace, l'abolizione degli ingiustificati rappo rti di predominio dell'uomo sull'uomo e via dicendo. Per questi nobili scopi si pensò di dover rinunciare ai principi etici e di poter utilizzare il terrore come strumento del bene. Da quando, anche solo per un momento, sono affiorate in superficie, visibili a tutti, le rovine dell'umanità prodotte da quest'idea, la gente preferisce rifugiarsi nella pragmatica o professare pubblicamente il dispregio per l'etica. Un tragico esempio è quello della Colombia, dove all'insegna del marxismo è stata intrapresa in passato una lotta per la liberazione dei piccoli agricoltori, soffocati dai grandi capitalisti. Al suo posto oggi è rimasta una repubblica di ribelli sottratti al potere statale, che vive apertamente del traffico illecito di droga e non cerca per questo giustificazioni morali, soprattutto perché, soddisfacendo la domanda dei paesi ricchi, riesce a sfamare un popolo che altrimenti faticherebbe a trovare un suo posto nell'ordine economico mondiale. In situazioni confuse come questa non è forse compito del cristianesimo tentare sul serio di ritrovare la propria voce per «introdurre» il nuovo millennio al suo messaggio, per proporlo come segnavia, comprensibile e universale del futuro? (...)
Dov'è stata, in tutti questi anni, la voce della fede cristiana? Il 1967, anno della nascita di quest'opera, ribolliva ancora dei fermenti del primo periodo post-conciliare. Il concilio Vaticano II si era proposto di rinnovare il ruolo del cristianesimo come motore della storia. Nel XIX secolo, infatti, si era diffusa l'opinione che la religione appartenesse alla sfera soggettiva e privata, e che a questi ambiti dovesse limitare la propria influenza. Proprio perché relegata alla sfera soggettiva, la religione non poteva porsi come forza determinante per il grande corso della storia e per le decisioni da assumere in essa. Terminati i lavori del concilio, quindi, doveva essere di nuovo chiaro che la fede dei cristiani abbraccia l'intera esistenza, è un punto cardine della storia e del tempo e non è destinata a limitare la propria sfera di influenza alla sola soggettività.
Il cristianesimo tentò - perlomeno nell'ottica della chiesa cattolica - di uscire dal ghetto in cui si trovava recluso dal XIX secolo e di tornare a coinvolgersi pienamente nel mondo. Parlare in questa sede dei dissidi e dei contrasti interni alla chiesa derivanti dall'interpretazione e dall'adozione del concilio sarebbe superfluo. Nella determinazione del ruolo del cristianesimo nella storia ha influito soprattutto l'idea di un nuovo rapporto tra chiesa e mondo. Se negli anni Trenta Romano Guardini aveva coniato (giustamente) l'espressione «distinzione di ciò che è cristiano» (Unterscheidung des Christlichen), oggi tale distinzione sembrerebbe aver perso la sua importanza in favore, piuttosto, del superamento delle distinzioni, dell'avvicinarsi al mondo, del coinvolgersi nel mondo. Quanto rapidamente queste idee potessero uscire dalla cerchia dei discorsi ecclesiastici accademici e acquisire un taglio più pratico cominciò a essere evidente già nel 1968, all'epoca delle barricate parigine, quando si celebrava un'eucaristia della rivoluzione e, con essa, si sperimentava un nuovo connubio tra chiesa e mondo all'insegna della rivoluzione, in attesa di tempi migliori. La partecipazione in prima linea di comunità studentesche cattoliche ed evangeliche ai movimenti rivoluzionari nelle università europee ed extraeuropee non fece che confermare tale tendenza. (...)
Sembrava, a quell'epoca, che l'unica strada percorribile fosse il marxismo. Sembrava che Marx avesse assunto il ruolo che nel XIII secolo aveva ricoperto il pensiero aristotelico, una filosofia precristiana (ossia «pagana») da battezzare per riavvicinare l'una all'altra fede e ragione e per porle in un rapporto corretto. (...)
Chi si aspettava che il cristianesimo si sarebbe trasformato in un movimento di massa ha capito di essersi sbagliato: non sono i movimenti di massa e racchiudere in sè promesse per il futuro. Il futuro nasce quando delle persone si incontrano su convinzioni comuni, capaci di dar forma all'esistenza. E il futuro cresce positivo se queste convinzioni scaturiscono dalla verità e alla verità conducono.

Avvenire, 04 febbraio 2004

Paparatzifan
00domenica 3 febbraio 2008 19:10
Dal blog di Lella...

Da: Cercate le cose di lassù (Riflessioni per tutto l’anno)

Carnevale

Il fondamento della nostra libertà

Il carnevale non è certo una festa religiosa. Tuttavia non è concepibile senza il calendario delle festività liturgiche. Perciò una riflessione sulla sua origine e sul suo significato può essere utile anche per capire la fede.

Le radici del carnevale sono molteplici: ebree, pagane, cristiane, e ci rimandano ad aspetti comuni dell’uomo di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Nel calendario delle festività ebraiche al carnevale corrisponde grosso modo la festa dei Purim, che ricorda la salvezza di Israele dall’incombente persecuzione degli ebrei nel regno di Persia, salvezza conseguita, secondo il racconto biblico, dalla regina Ester.
La gioia scatenata con cui la festa viene celebrata vuol essere espressione del senso di liberazione che, in questo giorno, non è solo memoria , ma promessa: chi è nelle mani del Dio di Israele, è libero in partenza dalle insidie dei suoi nemici.
Al tempo stesso, dietro questa festa scatenata e profana, che aveva e ha tuttavia il suo posto nel calendario religioso, c’è quella conoscenza del ritmo del tempo, validamente espressa nel libro di Qoèlet.
“Tutto ha la sua ora e c’è un tempo per ogni cosa sotto il sole: un tempo per la nascita e un tempo per la morte, un tempo per piantare e un tempo per cogliere ciò che si è piantato…un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per lamentarsi e un tempo per ballare” (Qo 3,1ss.).
Ogni momento non è il momento giusto per ogni cosa: l’uomo ha bisogno di un ritmo, e l’anno gli dà questo ritmo, nel creato e nella storia che la fede presenta nel corso dell’anno.

Siamo così giunti all’anno liturgico, che fa percorrere all’uomo l’intera storia della salvezza nel ritmo del creato, ordinando e purificando così il caos e la molteplicità del nostro essere. In questo ciclo di creazione e storia non è tralasciato nessun aspetto umano, e solo così viene salvato tutto ciò che è umano, i lati oscuri come quelli luminosi, la sensorialità come la spiritualità. Tutto riceve il proprio posto nell’insieme che gli dà un senso e lo libera dall’isolamento.

Perciò è sciocco voler prolungare il carnevale come vorrebbero affari e scadenzari: questo tempo arbitrario diventa noia, perché in esso l’uomo diviene soltanto creatore di se stesso, è lasciato solo e si trova davvero abbandonato. Il tempo non è più il molteplice dono del creato e della storia, ma il mostro che divora se stesso, l’ingranaggio vuoto dell’eternamente uguale, che ci fa girare in un cerchio insensato e che distrugge infine anche noi.

Ma torniamo alle radici del carnevale. Accanto ai precedenti ebraici ci sono quelli pagani, il cui volto truce e minaccioso ci fissa ancora dalle maschere dei paesi alpini e svevo-germanici. Qui si celebravano i riti della cacciata dell’inverno, dell’esorcismo delle potenze demoniache: nel mutare del tempo si avvertiva la minaccia del mondo, la nuova creazione della terra e della sua fertilità doveva essere protetta contro il nulla a cui si avvicinava il mondo nel sonno dell’inverno.
A questo punto possiamo notare qualcosa di molto significativo : la maschera demoniaca si trasforma, nel mondo cristiano, in una divertente mascherata; la lotta pericolosissima con i demoni si cambia in gaudio prima della gravità della Quaresima. In questa mascherata avviene ciò che riscontriamo spesso nei salmi e nei profeti: essa diviene scherno di quegli dei che chi conosce il vero Dio non deve più temere.
Le maschere degli dei sono divenute uno spettacolo divertente, esprimono la gioia sfrenata di coloro che possono trovare motivi di comicità in ciò che prima faceva paura. In questo senso è presente nel carnevale la liberazione cristiana, la libertà dell’unico Dio, che rende perfetta quella libertà ricordata dalla festa ebraica dei Purim.
Si pone però un interrogativo: possediamo ancora questa libertà? Non è che ci siamo voluti liberare anche di Dio stesso, del creato e della fede, per essere completamente liberi? E la conseguenza non è forse che siamo di nuovo in balìa degli dei, delle potenze del denaro, dell’avidità, dell’opinione pubblica? Dio non è il nemico della nostra libertà, ma il suo fondamento; è questo che dovremmo imparare di nuovo oggi. Solo l’amore che è onnipotente può essere il fondamento di una gioia senza paura.

© Copyright 1986-2008 - Libreria Editrice Vaticana


Paparatzifan
00lunedì 22 settembre 2008 22:08
Dal blog di Lella...

Discorso del cardinale Joseph Ratzinger per il 60° anniversario dello sbarco alleato in Normandia

ROMA, giovedì, 14 luglio 2005 (ZENIT.org).

Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato in Normandia dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 4 giugno 2004 in occasione delle celebrazioni per il 60° anniversario dello sbarco alleato.

Quando, il 5 giugno 1944, iniziò lo sbarco delle truppe alleate nella Francia occupata dalla Wermacht, l’evento rappresentò per il mondo intero, compresa una gran parte dei tedeschi, un segnale di speranza: la speranza che in Europa presto sarebbero arrivate la pace e la libertà.

Che cos’era accaduto? Un criminale con i suoi accoliti era riuscito a impadronirsi del potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l’ingiustizia si erano intricati tra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso l’uno nell’altra e viceversa.

Questo perché un regime diretto da un criminale esercitava anche le funzioni classiche dello Stato e dei suoi ordinamenti, così che aveva facoltà, in un certo senso, di esigere di diritto l’obbedienza dei cittadini e il loro rispetto nei confronti dell’autorità dello Stato (Rm 12, 1 e seg.) ma nello stesso tempo utilizzava gli strumenti del diritto come mezzi per i suoi scopi criminali.
Lo stesso Stato di diritto, che in parte continuava a funzionare nelle sue forme abituali all’interno della vita quotidiana, era diventato una potenza che distruggeva il diritto: la perversione degli ordinamenti, che dovevano servire la giustizia e contemporaneamente consolidavano e rendevano impenetrabile il dominio dell’iniquità, si traduceva in un dominio esteso e profondo della menzogna, tale da oscurare le coscienze.
Al servizio di questo dominio della menzogna stava un regime di paura, nel quale nessuno poteva fidarsi dell’altro perché tutti in qualche modo dovevano proteggersi sotto la maschera della menzogna. Così fu di fatto necessario che il mondo intero intervenisse a spezzare il cerchio dell’azione criminale, perché fossero ristabiliti la libertà e il diritto. Oggi noi siamo grati al fatto che questo sia avvenuto, e a esser grati non sono soltanto i Paesi occupati dalle truppe tedesche. Noi stessi, i tedeschi, siamo grati perché, con l’aiuto di quell’impegno, abbiamo recuperato la libertà e il diritto.

Se mai si è verificato nella storia un bellum justum è qui che lo troviamo, nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche per il bene di coloro contro il cui Paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare importante perché mostra, sulla base di un evento storico, l’insostenibilità di un pacifismo assoluto. Il che non ci esenta in alcun modo dal porci con molto rigore la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa di simile a una guerra giusta, vale a dire un intervento militare, posto al servizio della pace e guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti.

Soprattutto, si spera che quel che abbiamo fin qui detto aiuti a comprendere meglio che la pace e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. Quando il diritto è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa.

Ex Jugoslavia e Ruanda: l’arsenale dell’inimicizia

In Europa, a partire dalla fine delle ostilità, nel maggio 1945, ci è stato dato di vivere un periodo di pace lungo come non mai in tutto il corso della storia del continente. Questo in gran parte per merito della prima generazione di politici che hanno operato nel dopoguerra Churchill, Adenauer, Schumann, De Gasperi.

A loro dobbiamo ancor oggi gratitudine, e dobbiamo essere grati che a guidare in maniera determinante la loro politica non fu un’idea di rivalsa, o di vendetta, o di umiliazione dei vinti ma il dovere di garantire a tutti un diritto; che in luogo della concorrenza fu introdotta la collaborazione, lo scambio di doni offerti e accettati, la mutua conoscenza e l’amicizia nel cuore di una diversità nella quale ciascuna nazione conserva la sua identità e la conserva nella comune responsabilità nei confronti del diritto, in luogo della precedente perversione del diritto.

Il centro motore di quella politica di pace fu il legame fra l’agire politico e la morale. Il discrimine interno a qualsiasi politica è costituito dai valori morali che noi non inventiamo: essi esistono e sono gli stessi per tutti gli uomini. Diciamolo apertamente: quegli uomini politici hanno fondato la loro idea morale dello Stato, della pace e della responsabilità sulla loro fede cristiana, che aveva superato la prova dell’illuminismo e si era ampiamente purificata nel confronto con la distorsione del diritto e della morale operata dal Partito.

Essi non volevano costruire uno Stato confessionale bensì uno Stato che prendesse forma attraverso l’etica. A ciò si aggiunge in verità il fatto che l’Europa era divisa da una frontiera che non attraversava soltanto il nostro continente bensì il mondo intero. Una grande parte dell’Europa centrale e dell’Europa orientale si trovava sotto il dominio di un’ideologia che passava attraverso il Partito e sottometteva lo Stato al Partito, trasformandolo esso stesso in partito.

Anche qui ne derivava un dominio della menzogna. Dopo il crollo di queste dittature, sono emersi con chiarezza i disastri economici, ideologici e spirituali da esse generati. Nei Balcani si è arrivati a conflitti armati nei quali senza alcun dubbio tutto il peso storico del passato produceva per parte sua ulteriori esplosioni di violenza. Ma sottolineare il carattere criminale di quei regimi ed essere felici che siano stati rovesciati non ci esime dal chiederci perché, alla maggior parte dei popoli africani e asiatici, a quei Paesi che erano detti “non allineati”, il regime dell’Est appariva più morale e più realizzabile come modello rispetto all’ordinamento politico e giuridico dell’Occidente. E’ un sintomo, questo, di alcune deficienze nella nostra struttura, deficienze sulle quali dobbiamo riflettere.
Se è vero che l’Europa ha conosciuto dopo il 1945 un periodo di pace, a parte l’eccezione costituita dai conflitti nei Balcani, tuttavia la situazione del mondo nel suo insieme è stata tutt’altro che pacifica. Dalla Corea al Vietnam, all’India, al Pakistan, dal Bangladesh all’Algeria, al Congo, al Biafra e alla Nigeria fino agli antagonismi del Sudan, del Ruanda e del Burundi, dell’Etiopia, della Somalia, del Mozambico, dell’Angola, della Liberia, fino all’Afghanistan e alla Cecenia, sotto i nostri occhi si dispiega un arco ampio e sanguinoso di conflitti bellici ai quali vanno aggiunti i combattimenti in Terra santa e in Iraq.
Non c’è modo qui di precisare più in profondità la natura di ciascuna di queste guerre le cui ferite continuano a sanguinare. Ma vorrei chiarire un po’ meglio due fenomeni in qualche modo nuovi, nei quali prende evidenza la minaccia specifica del nostro tempo, e dunque anche i compiti specifici di una ricerca della pace.
Il primo fenomeno consiste nel fatto che l’ordine giuridico sembra esplodere, e con esso la capacità di coabitazione tra comunità differenti. Un esempio tipico di tracollo della forza del diritto e di conseguente trionfo del caos e dell’anarchia mi sembra essere evidente in Somalia, ma anche la Liberia offre un esempio di come una società si disgreghi dall’interno quando l’autorità dello Stato non è in grado di presentarsi come istanza credibile di pace e di libertà e ciascuno è indotto a difendere il suo diritto da sé e con la forza.
Abbiamo assistito a qualcosa di simile anche in Europa, in seguito alla deflagrazione dello Stato jugoslavo unitario. Popolazioni che, nonostante le forti tensioni interne, per generazioni hanno vissuto insieme pacificamente si sono improvvisamente levate le une contro le altre con una crudeltà inaudita. Si è trattato di un crollo spirituale: le barriere protettive preesistenti non hanno retto al crearsi di una nuova situazione e l’arsenale di inimicizia e di violenza che era annidato nel profondo delle anime, trattenuto fino a quel momento dalla forza del diritto e dalla storia comune, è esploso senza freni. Come è stato possibile? E come è stato possibile che, improvvisamente, in Ruanda, la coabitazione tra hutu e tutsi precipitasse in un’ostilità sanguinosa da ambo le parti?
Le cause di questo crollo del diritto e della capacità di riconciliazione sono certamente molteplici. Possiamo evocarne diverse: il cinismo dell’ideologia aveva oscurato le coscienze, le promesse di quell’ideologia giustificavano ogni mezzo apparentemente idoneo a realizzarle e così avevano abolito la nozione stessa del diritto, quando non la distinzione tra bene e male.

Accanto al cinismo delle ideologie, e spesso in stretta connessione, opera poi il cinismo degli interessi e dei grandi mercati, lo sfruttamento senza limiti delle risorse della terra. Anche così, in nome del profitto, il bene viene messo da parte e il potere sostituisce il diritto. Anche così la forza dell’ethos si dissolve dall’interno, con la conseguenza finale che lo stesso profitto ne risulta distrutto.

E’ a questo punto che un grande compito si impone ai cristiani della nostra epoca: noi dobbiamo per primi imparare a volerci riconciliare gli uni con gli altri e a fare di tutto perché sia la coscienza a dominare, invece di lasciarsi schiacciare dall’ideologia e dall’interesse.

Nei Balcani soprattutto (ma lo stesso vale per l’Irlanda) il compito dell’autentico ecumenismo dovrebbe consistere nel ricercare insieme la pace di Cristo, nell’offrirla gli uni agli altri e anche nel considerare la capacità di fare la pace come un autentico criterio di verità.

La nuova guerra mondiale: il terrorismo

L’altro fenomeno che oggi sommamente ci opprime è il terrorismo. E’ diventato col tempo una sorta di nuova guerra mondiale: una guerra senza un fronte fisso, che può colpire ovunque e non conosce distinzione tra combattenti e popolazione civile, tra colpevoli e innocenti.
Dato che il terrorismo, ma anche la criminalità organizzata ordinaria - la cui rete si rafforza e si estende ogni giorno di più - possono trovare l’accesso alle armi nucleari e a quelle biologiche, il pericolo che ci minaccia è smisurato: finché questo potenziale distruttivo era sotto il controllo esclusivo delle grandi potenze si poteva sempre sperare che la ragione e la consapevolezza della minaccia che il loro uso rappresentava per la popolazione e per lo Stato ne escludessero l’utilizzo. In effetti, nonostante tutte le tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra l’Est e l’Ovest, una guerra su larga scala grazie a Dio ci è stata risparmiata.
Ma le organizzazioni terroriste e quelle criminali non hanno niente a che vedere con quel tipo di ragione, dato che uno dei pilastri del terrore poggia sulla disponibilità all’autodistruzione, un’autodistruzione trasfigurata in martirio e tradotta in promessa.

Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione? Prima di tutto è bene soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza.

Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti.
Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza.
Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’ “occhio per occhio”, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo.

E’ urgente l’avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno, come si suol dire, dall’altra parte della barricata.

Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò, infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a impedire la nascita di nuove strutture egemoniche.
Ma nell’attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme molto diverse di potenza e di orientamento morale: l’Occidente e l’Islam.

E tuttavia, che cos’è l’Occidente? E che cos’è l’Islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo senso è dunque un errore opporre globalmente Occidente e Islam. C’è chi tuttavia tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione.

Il fanatismo non è solo quello religioso

E’ vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di un’importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un’affermazione di Hans Kung, direi che nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono.
Per chiarire il senso di questa affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave negativa: esistono le patologie della religione - sono sotto i nostri occhi ed esistono le patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera.
Guardiamo le cose più da vicino: Dio, o la divinità, possono essere trasformati nell’assolutizzazione di una determinata potenza, di un determinato interesse. Se l’immagine di Dio diventa talmente faziosa da identificare l’assolutezza di Dio con una comunità particolare o con certe sue aree di interesse, ciò distrugge il diritto e la morale: il bene, in questo quadro, è ciò che sta al servizio della mia potenza, e la differenza tra bene e male svanisce.
La morale e il diritto diventano di parte. E tutto questo peggiora ulteriormente quando la volontà di impegnarsi per fini particolaristici si carica di tutto il peso del fanatismo religioso, e diventa così totalmente cieca e brutale. Assistiamo a qualcosa del genere nel caso dei terroristi e della loro ideologia del martirio, un’ideologia che per la verità in certi casi particolari può essere semplicemente un’espressione di disperazione di fronte all’ingiustizia del mondo.
Del resto anche fra noi, nelle sette presenti nel mondo occidentale, troviamo esempi di un irrazionalismo e di una deviazione della dimensione religiosa che mostrano come possa diventare pericolosa una religione quando perde il suo centro d’orientamento.
Ma esiste anche la patologia della ragione interamente separata da Dio. L’abbiamo vista nelle ideologie totalitarie che avevano negato ogni legame con Dio e intendevano così costruire l’uomo nuovo, il mondo nuovo. Hitler merita indubbiamente la qualifica di irrazionalista. I grandi profeti e i realizzatori del marxismo non sono meno segnati dalla pretesa di costruire il mondo animati unicamente dalla ragione. Forse l’espressione più drammatica di questa patologia della ragione si incarna in Pol Pot: è in lui che si è manifestata con un’evidenza totale la crudeltà di una simile “ricostruzione” del mondo.
Ma è lo stesso sviluppo spirituale dell’Occidente a tendere sempre di più verso patologie distruttive della ragione. In fondo la bomba atomica - con la quale la ragione, invece di essere forza costruttiva, intendeva rafforzarsi attraverso la capacità di distruzione - non era già un superamento dei limiti?
E quando, attraverso la ricerca del codice genetico, la ragione si impossessa delle radici della vita, essa tende sempre più a non vedere nell’uomo un dono del Creatore (o della “natura”) e a trasformarlo in un prodotto. L’uomo viene “fatto”, e ciò che si può fare si può anche disfare. La dignità umana scompare. E dove mai troveranno più un fondamento i diritti dell’uomo? Come potrà ancora sussistere il rispetto per l’uomo anche quando è vinto, debole, sofferente, handicappato? In questo quadro la nozione di ragione si appiattisce sempre di più. E’ ovvio che, se la realtà è unicamente il prodotto di processi meccanici, come tale non comporta nessuna morale.
Il bene in sé, che stava tanto a cuore ancora a Kant, non esiste più. Ed è proprio su queste basi che hanno agito di fatto le dittature ideologiche: in una determinata situazione può darsi che sia bene uccidere degli innocenti, se questo serve alla costruzione del futuro mondo della ragione. In ogni modo la loro dignità assoluta non esiste più.

Sull’etica un invito ai non credenti

La ragione malata e la religione manipolata finiscono con l’incontrarsi nel medesimo esito. Ogni riconoscimento di valori ultimativi, ogni asserzione di verità da parte della ragione finisce con l’apparire alla ragione malata come fondamentalismo. E non resta altro che la dissoluzione, la decostruzione, come da tempo ci insegna Jacques Derrida, che ha “decostruito” l’ospitalità, la democrazia, lo Stato e infine anche la nozione di terrorismo, per ritrovarsi poi atterrito dagli avvenimenti dell’11 settembre. Una ragione che sappia riconoscere solo se stessa e ciò che è empiricamente certo si paralizza e si autodistrugge.

Se l’Illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi “etsi Deus non daretur”, oggi noi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici ad aprirsi a una morale “si Deus daretur”. Il filosofo polacco Leszek Kolakowski, partendo dall’esperienza di una società agnostica atea, ha mostrato in maniera convincente che, in assenza di un punto di riferimento assoluto, l’agire dell’uomo si perde nell’indeterminatezza ed è ineluttabilmente in balia delle forze del male.

Come cristiani siamo oggi chiamati non certo a porre limiti alla ragione o ad opporci ad essa, ma a rifiutarci di ridurla a una ragione del fare e a lottare a sostegno della sua capacità di cogliere il bene e il buono, il sacro e il santo.

Solo una ragione che si mantenga aperta a Dio una ragione che non esilia la morale nella sfera soggettiva e non la riduce a puro calcolo - può evitare la manipolazione della nozione di Dio e le malattie della religione, e può offrire qualche terapia.

E’ qui che si evidenzia la grande sfida che i cristiani d’oggi dovrebbero accettare. Il loro compito, il nostro compito consiste nel condurre la ragione a funzionare integralmente, non solo nel campo della tecnica e dello sviluppo materiale del mondo ma anche e prima di tutto in quanto facoltà di verità, promovendone la capacità di riconoscere il bene, il quale è condizione del diritto e con ciò anche presupposto della pace nel mondo.

E’ specifico compito nostro, di cristiani del tempo presente, quello di inserire la nozione di Dio nella lotta per la difesa dell’uomo. Un elemento della tradizione cristiana vorrei ancora ricordare, di fondamentale importanza nelle avversità del nostro tempo. La fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica.

Per dirla in termini moderni, essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell’uomo e nella natura della giustizia.
La fede cristiana fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste e non può esistere in quanto tale su questa terra, ma vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo dall’interno. Le tentazioni di Gesù hanno come tema di fondo proprio questa distinzione, il rifiuto della teocrazia politica, la relatività dello Stato e il diritto della ragione, e anche la libertà di scelta, garantita a tutti gli uomini.

In questo senso, lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne tutte le conseguenze. Questo carattere secolare, “laico” dello Stato include nella sua essenza quell’equilibrio tra ragione e religione che ho cercato di illustrare in precedenza.

Ed è per questa sua natura che si oppone anche a quel laicismo ideologico che vorrebbe stabilire qualcosa come uno “Stato della pura ragione”, uno Stato separato dalle sue radici storiche e perciò incapace di riconoscere i fondamenti morali che alla ragione si impongono. Altro non resta allo Stato, su queste basi, che il positivismo del principio di maggioranza e la decadenza del diritto, con la conseguenza che quest’ultimo risulta essere retto in fin dei conti da criteri statistici.

Se gli Stati d’Occidente si caratterizzassero integralmente in questo senso, alla lunga non potrebbero resistere alla pressione delle ideologie e delle teocrazie politiche. Uno Stato, anche se laico, ha il diritto e persino l’obbligo di trovare sostegno nelle radici morali che lo hanno segnato nel suo sorgere; esso può e deve riconoscere quei valori fondamentali in assenza dei quali non sarebbe diventato quello che è e non potrebbe sopravvivere. Uno Stato della ragione astratta, antistorica, non potrebbe sussistere.

Sul piano pratico tutto ciò significa che noi cristiani dobbiamo sforzarci, insieme ai nostri concittadini tutti, di dare al diritto e alla giustizia un fondamento morale che si ispiri alle idee cristiane fondamentali, qualunque sia il modo in cui ciascuno ne interpreta le origini e le armonizza con l’insieme della sua vita. Ma per far sì che simili convinzioni razionali comuni siano possibili, è necessario che noi stessi viviamo con energia e purezza la nostra eredità, in modo che diventi visibile ed efficace e eserciti la sua forza interiore di persuasione nell’insieme della società.

Vorrei concludere con le parole del filosofo di Kiel, Kurt Hübner, che illustrano limpidamente questo intento: “Potremo evitare il conflitto con le culture che oggi ci sono ostili solo se riusciremo a smentire il veemente rimprovero di aver dimenticato Dio, tornando ad essere pienamente coscienti del radicamento profondo della nostra cultura nel cristianesimo. Certamente questo non basterà a cancellare il risentimento prodotto dalla superiorità occidentale che in molti campi connota la vita del nostro tempo, ma potrà contribuire in misura significativa a spegnere il fuoco religioso che, a ben vedere, si alimenta naturalmente”. E’ un fatto: se non siamo fedeli alla memoria del Dio della Bibbia, del Dio che si è fatto prossimo in Gesù Cristo, non troveremo la strada della pace.

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[La traduzione dal francese, non rivista dall’autore, è stata pubblicata su “Vita e Pensiero” n. 5 (settembre-ottobre) 2004]

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