Con i lefebvriani fare ecumenismo costa caro

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S_Daniele
00mercoledì 9 giugno 2010 16:15

Con i lefebvriani fare ecumenismo costa caro

Chi dialoga con loro rischia l'accusa di tradire il Concilio Vaticano II. Il papa ci prova e un teologo tedesco torna a criticarlo. Ma intanto, molti gruppi tradizionalisti hanno già fatto pace con la Chiesa

di Sandro Magister




ROMA, 2 giugno 2010 – Tra due giorni Benedetto XVI viaggerà alla volta di Cipro. Sarà la prima volta che un papa visiterà l'isola, invitato e accolto dalla locale Chiesa ortodossa. Nemmeno Giovanni Paolo II vi era riuscito.

Questa visita sarà l'ennesima prova dei progressi senza precedenti che l'ecumenismo di papa Joseph Ratzinger ha prodotto in pochi anni ad Oriente, col vasto mondo dell'ortodossia.

Ma c'è anche un altro versante ecumenico sul quale Benedetto XVI è impegnato.

È quello con i seguaci dell'arcivescovo Marcel Lefebvre, tuttora in stato di scisma con la Chiesa di Roma a motivo del loro rifiuto dell'integralità del Concilio Vaticano II.

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All'inizio del 2009, la decisione del papa di cancellare la scomunica ai quattro vescovi ordinati illecitamente da Lefebvre (vedi foto) – decisione mal comunicata e mal compresa dentro e fuori la Chiesa – provocò un uragano di fraintendimenti e di polemiche.

Per chiarire il senso del suo gesto, il 10 marzo dell'anno scorso Benedetto XVI scrisse una lettera ai vescovi. Nella quale spiegò che la revoca della scomunica era un richiamo "al pentimento e al ritorno all'unità". E ribadì che il cammino di riconciliazione restava ancora tutto da compiere, poiché il dissidio era di natura dottrinale e riguardava l'accettazione del Concilio Vaticano II e il magistero post-conciliare dei papi.

A conferma di questa natura dottrinale del dissidio, il papa collegò strettamente la pontificia commissione "Ecclesia Dei" – incaricata di dialogare con i lefebvriani e con altri gruppi affini – con la congregazione per la dottrina della fede.

Nella stessa lettera ai vescovi, Benedetto XVI spiegò che il richiamo all'unità di fede deve valere con tutti i cristiani. E che quindi non ha senso "lasciare andare alla deriva lontani dalla Chiesa" i 491 sacerdoti, i 215 seminaristi, i 6 seminari, le 88 scuole, i 2 istituti universitari, i 117 frati, le 164 suore e le migliaia di fedeli che compongono la comunità lefebvriana.

Ma il papa fece anche notare, con rammarico, che nella Chiesa scatta contro i lefebvriani un'intolleranza che colpisce sia loro sia quelli che "osano avvicinarglisi".

Lo stesso Benedetto XVI è bersaglio di questa intolleranza. Ai vescovi ha scritto che a motivo dei suoi sforzi di riconciliare i lefebvriani alla Chiesa "alcuni hanno accusato apertamente il papa di voler tornare indietro a prima del Concilio Vaticano II".

Queste critiche sono tornate ad affiorare di recente anche in forme teologicamente sofisticate. Ad esempio in un dotto commento scritto da Eberhard Schockenhoff, professore di teologia morale all'università di Friburgo, sul numero di aprile del 2010 della rivista dei gesuiti tedeschi "Stimmen der Zeit", riprodotto integralmente in italiano sull'ultimo numero di "Il Regno".

Schockenhoff è professore di teologia morale all'università di Friburgo ed è stato discepolo ed assistente di Walter Kasper, oggi cardinale e presidente del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani.

Nel suo commento, giustamente Schockenhoff scrive che il vero dissidio tra la Chiesa di Roma e i lefebvriani non riguarda la messa in latino ma la dottrina del Vaticano II, specie sull'ecclesiologia e sulla libertà di coscienza e di religione.

Ma scrive anche che Roma sbaglia a escogitare interpretazioni restrittive dei testi conciliari da offrire ai lefebvriani nella speranza che siano accettate da loro. Perché a giudizio di Schockenhoff è proprio questo che starebbe accadendo, negli incontri a porte chiuse promossi dalla "Ecclesia Dei".

Roma – scrive Schockenhoff – vorrebbe strappare un riconoscimento verbale della libertà di coscienza e di religione, cioè dei capisaldi cella cultura moderna, proprio da gente come i lefebvriani che sono i nemici più irriducibili della modernità. Ma fare ciò è come tentare "la quadratura del cerchio", cioè l'impossibile. Nessuno crederà mai alla sincerità di una simile riconciliazione, anche qualora fosse sottoscritta.

Nel denunciare il "funambolismo ermeneutico" con cui la Chiesa di Roma vorrebbe riconciliare a sé i lefebvriani con grave danno della giusta interpretazione del Concilio, Schockenhoff cita ripetutamente il teologo Ratzinger e la sua "concezione platonico-agostiniana della coscienza": una concezione "troppo diversa" – scrive – da quella della dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" sulla libertà religiosa.

Il saggio di Ratzinger citato è del 1992. Inspiegabilmente, però, Schockenhoff non cita un testo molto più pertinente e recente dello stesso Ratzinger, nel frattempo divenuto papa.

Questo testo capitale è la parte conclusiva del memorabile discorso tenuto da Benedetto XVI alla curia romana il 22 dicembre 2005, sull'interpretazione del Concilio Vaticano II.

Nello spiegare come interpretare correttamente il Concilio, Benedetto XVI mostra come esso abbia segnato sì delle novità rispetto al passato, ma sempre in continuità con "il patrimonio più profondo della Chiesa".

E come esempio riuscito di questo intreccio fra novità e continuità il papa illustra proprio le tesi conciliari sulla libertà di religione: cioè il punto principale di rottura tra la Chiesa e i lefebvriani.

Da questo suo discorso in poi, risulta evidente che per Benedetto XVI i lefebvriani potranno riconciliarsi con la Chiesa solo se accetteranno in tutto ciò che scrive la "Dignitatis humanae" nell'interpretazione che ne ha dato lo stesso papa, e non in un'altra interpretazione più restrittiva, o "platonico-agostiniana".

Qui di seguito, l'ampio passaggio conclusivo del discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005.

E a seguire, una dettagliata nota di padre Giancarlo Rocca, direttore del "Dizionario degli istituti di perfezione", sui gruppi tradizionalisti finora riportati all'obbedienza dalla pontificia commissione "Ecclesia Dei", la stessa che si occupa dei lefebvriani. La nota è uscita su "L'Osservatore Romano" dell'11 maggio 2010.

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"IN QUESTO PROCESSO DI NOVITÀ NELLA CONTINUITÀ..."

di Benedetto XVI



[...] Il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la pura ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’”ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna.

Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà.

Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che senza riserva facevano professione di un proprio metodo in cui Dio non aveva accesso, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare.

Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande, che ora, nell'ora del Vaticano II, attendevano una risposta.

Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato.

In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione.

Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.

Sono tutti temi di grande portata – erano i grandi temi della seconda parte del Concilio – su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione.

È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma.

In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole.

Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare.

Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza.

Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento.

Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa.

Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza.

Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve necessariamente impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.

Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8).

Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’”apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente.

Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un “segno di contraddizione” (Lc 2,34) – non senza motivo papa Giovanni Paolo II, ancora da cardinale, aveva dato questo titolo agli esercizi spirituali predicati nel 1976 a papa Paolo VI e alla curia romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza.

Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme.

La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio.

Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo.

La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento.

Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa. [...]

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VENTIDUE ANNI DI "ECCLESIA DEI". UN BILANCIO

di Giancarlo Rocca



Il 2 luglio 1988 veniva istituita la pontificia commissione "Ecclesia Dei" con l'omonimo motu proprio di Giovanni Paolo II. L'obiettivo iniziale era quello di facilitare il rientro nella piena comunione della Chiesa di sacerdoti, seminaristi, religiosi, religiose, gruppi e singoli che, non condividendo la riforma liturgica del concilio Vaticano II, si erano legati alla fraternità sacerdotale San Pio X fondata da monsignor Marcel Lefebvre, ma non avevano condiviso il gesto, da lui compiuto nel 1988, di consacrare alcuni vescovi.

In seguito, la "Ecclesia Dei" ha ampliato le proprie competenze, ponendosi al servizio di tutti coloro che, anche senza legami con i gruppi di monsignor Lefebvre, desiderano conservare la liturgia latina anteriore nella celebrazione dei sacramenti, in particolar modo dell'eucarestia. In pratica, alla "Ecclesia Dei" è stato attribuito il compito di conservare e preservare il valore della liturgia latina della Chiesa fissata nella riforma del 1962 da Giovanni XXIII.

Il cammino percorso dalla "Ecclesia Dei" in questi quasi ventidue anni è stato notevole.

Nel 1988, anno della sua fondazione, ha concesso l'approvazione pontificia alla fraternità sacerdotale San Pietro e alla fraternità san Vincenzo Ferreri.

La prima era stata fondata subito dopo lo scisma del 1988 e aveva avuto come primo superiore don Joseph Bisig, già assistente generale della fraternità San Pio X con monsignor Lefebvre.

La seconda era nata nel 1979 per opera di padre Louis-Marie de Blignières, che aveva ritenuto la dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" sulla libertà religiosa contraria all'insegnamento tradizionale della Chiesa, e poi, dopo uno studio più accurato, si era convinto che il Vaticano II non rappresentava una rottura.

Sono seguite altre approvazioni pontificie di istituti:

– l'abbazia Santa Maddalena, fondata nel 1970 dal padre Gerardo Calvet, un monaco della congregazione benedettina sublacense (1989);

– l'abbazia Nostra Signora Annunciazione, con sede a Le Barroux, in Francia, fondata nel 1979 come ramo femminile dell'abbazia Santa Maddalena, fondata dal padre Calvet (1989);

– le madri della Santa Croce, con casa generalizia in Tanzania, fondate nel 1976 da suor Maria Stieren, delle benedettine missionarie di Tutzing, e da padre Cornelio Del Zotto, dei frati minori (1991);

– i servi di Gesù e Maria, fondati nel 1988 dal sacerdote ex gesuita padre Andrea Hönisch e attualmente con sede in Austria (1994);

– le canonichesse regolari della Madre di Dio, fondate in Francia nel 1971 e collegate con i canonici regolari della Madre di Dio (2000);

– i missionari della Santa Croce, con casa generalizia in Tanzania, fondati nel 1976, che costituiscono il parallelo maschile delle madri della Santa Croce (2004);

– l'istituto San Filippo Neri, fondato nel 2003 da don Gerald Goesche, con sede a Berlino, in Germania (2004);

– l'istituto del Buon Pastore, fondato nello stesso anno in Francia da don Philippe Laguérie insieme con alcuni sacerdoti usciti dalla fraternità sacerdotale san Pio X (2006);

– l'oasi di Gesù Sacerdote, fondata nel 1965 da padre Pedro Muñoz Iranzo e con sede ad Argentona, in Spagna (2007);

– l'istituto Cristo Re sommo sacerdote, fondato da monsignor Gilles Wach nel 1988, con sede a Sieci, Firenze (2008);

– le adoratrici del Cuore regale di Gesù Cristo sommo sacerdote, fondate nel 2000, con sede a Sieci, Firenze, che costituiscono il ramo femminile dell'istituto Cristo Re sommo sacerdote (2008).

Sono attualmente in corso le approvazioni di diritto diocesano dei figli del Santissimo Redentore, fondati nel 1988 e con sede in Scozia, e della fraternità di Cristo sacerdote e Santa Maria Regina, con sede a Toledo, in Spagna.

Molte altre sono le fondazioni  – singoli monasteri e conventi di suore –  che celebrano la liturgia secondo il rito del 1962 ed è impossibile elencarli. Qui però è necessario ricordare il cammino percorso dalla diocesi di Campos in Brasile, il cui vescovo, vicino alle posizioni di monsignor Lefebvre, nel 1981 ha rassegnato le dimissioni per raggiunti limiti di età  e in seguito ha fatto parte della società sacerdotale di San Giovanni Battista Maria Vianney. Nel 2002 la società è rientrata nella comunione della Chiesa ed è stata costituita come amministrazione apostolica personale – limitata al territorio della diocesi di Campos –  per i fedeli legati alla tradizione tridentina. In questa nuova amministrazione apostolica nel 2008 ha ricevuto l'approvazione di diritto diocesano l'istituto del Cuore Immacolato di Maria, che era stato fondato nel 1976.

Come si vede, sono già un discreto numero gli istituti che hanno ottenuto l'approvazione pontificia, con la possibilità di seguire il rito tradizionale nella Chiesa. Presi singolarmente, si tratta di piccoli istituti, attorno ai quali, però, ruota un certo numero di fedeli.

Il gruppo più numeroso sembra essere quello della fraternità sacerdotale di San Pietro, che conta una trentina di case negli Stati Uniti d'America, una ventina in Francia, poi alcune altre in Austria, Germania, Canada, Svizzera, Belgio. A Roma nel 2008 è stata affidata alla fraternità una parrocchia personale per i fedeli che preferiscono il rito di Pio V: come loro centro è stata designata la chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini. Gli altri istituti sono di entità molto minore, a eccezione dell'istituto Cristo Re sommo sacerdote, presente in una cinquantina di diocesi con circa 70 sacerdoti.

In ogni caso, è difficile quantificare il numero di coloro che in vario modo sono sottoposti alla "Ecclesia Dei". Si parla di circa 370 sacerdoti, 200 religiose, un centinaio di religiosi non sacerdoti, circa 300 seminaristi e alcune centinaia di migliaia di fedeli.

Come risulta da questi dati, la "Ecclesia Dei" è stata a volte molto rapida nel concedere l'approvazione pontificia a istituti che desideravano rientrare nella Chiesa. E questo modo di operare appare chiaramente se raffrontato con la prassi della congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che attende parecchi anni prima di concedere l'approvazione pontificia a un istituto.

Il modo con cui queste istituzioni sono state approvate è altrettanto significativo ed è chiaramente espresso nei documenti relativi.

Erigendo l'amministrazione apostolica personale San Giovanni Maria Vianney, nel 2002, la congregazione per i vescovi concedeva la facoltà di celebrare l'eucarestia, gli altri sacramenti e la liturgia delle ore secondo il rito codificato da Pio V e con gli adattamenti introdotti sino al 1963 col pontificato di Giovanni XXIII.

Approvando nel 2008 l'istituto Cristo Re sommo sacerdote, la "Ecclesia Dei" lo presentava come una società di preti che si proponevano di celebrare "decore ac sanctitate cultus liturgici secundum formam extraordinariam Ritus Romani".

E sempre nel 2008 la commissione concedeva all'abbazia trappista di Mariawald, in Germania, un ritorno completo alla liturgia in uso nell'ordine trappista sino al 1963-1964.

Il diverso regime appare ancor più evidente se si tiene conto che questi istituti, elencati nell'Annuario Pontificio, dipendono unicamente dalla "Ecclesia Dei", anche se per la loro erezione di diritto pontificio si richiede di sentire il prefetto della congregazione per gli istituti di vita consacrata e per le società di vita apostolica.

Due documenti di Benedetto XVI hanno precisato l'ambito di azione della "Ecclesia Dei" e la vita di coloro che si sentono legati all'antico rito della Chiesa.

Nel motu proprio "Summorum Pontificum", del 7 luglio 2007, il papa afferma che il messale di Paolo VI è espressione ordinaria della preghiera della Chiesa cattolica di rito latino, mentre quello edito da Giovanni XXIII ne è espressione straordinaria. Le due forme dell'unico rito latino, cioè, non sono più considerate l'una in sostituzione dell'altra. Di conseguenza, l'uso del messale romano nella edizione del 1962 viene liberalizzato e regolamentato secondo le disposizioni normative del "Summorum Pontificum". Tutti i sacerdoti che lo desiderano possono celebrare secondo l'antico rito senza bisogno di alcun permesso. E anche gli istituti religiosi possono celebrare seguendo il messale romano anteriore, con il consenso dei loro superiori maggiori se si tratta di una celebrazione abituale o permanente. L'effetto di queste misure, certamente voluto, è di non contrapporre il messale risalente a Pio V a quello di Paolo VI o viceversa – facendone un elemento di frizione – ma di considerarli due forme dell'unico rito.

Il secondo documento è la lettera apostolica motu proprio "Ecclesiae unitatem", del 2 luglio 2009, con la quale il pontefice ha collegato strettamente la "Ecclesia Dei" alla congregazione per la dottrina della fede. Questo aggiornamento della sua struttura è finalizzato ad adattare la pontificia commissione alla nuova situazione creatasi con la remissione della scomunica  – avvenuta il 21 gennaio 2009 – ai quattro vescovi consacrati da monsignor Lefebvre. Poiché i problemi in vista della ricomposizione della divisione della fraternità sacerdotale San Pio X sono di natura essenzialmente dottrinale, Benedetto XVI ha deciso di ampliare le competenze della "Ecclesia Dei", subordinandola direttamente alla congregazione per la dottrina della fede.

(Da "L'Osservatore Romano" dell'11 maggio 2010).

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Il testo integrale del discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 sull'interpretazione del Concilio Vaticano II:

> "Signori cardinali..."


E la lettera del papa ai vescovi del 10 marzo 2009 dopo la revoca della scomunica ai lefebvriani:

> "Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi gli uni gli altri"

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L'articolo di Eberhard Schockenhoff sul numero di aprile del 2010 della rivista dei gesuiti tedeschi "Stimmen der Zeit":

> Versöhnung mit der Piusbruderschaft? Der Streit um die authentische Interpretation des Konzils

E la sua traduzione italiana su "Il Regno" numero 10 del 2010:

> Lefebvriani. Riconciliazione? Il conflitto sull'interpretazione autentica del Vaticano II

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Il sito web dei lefebvriani:

> Fraternité Sacerdotale Saint-Pie X

Fonte
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