Catechesi sulla Chiesa di Benedetto XVI

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Cattolico_Romano
00venerdì 24 luglio 2009 15:54

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 15 febbraio 2006

Prima della catechesi, il Santo Padre Benedetto XVI incontra gruppi di studenti italiani e i partecipanti al pellegrinaggio promosso dalla Famiglia religiosa "Frères de Saint-Jean" nella Basilica Vaticana:

Cari fratelli e sorelle,

Saluto con affetto tutti voi, cari studenti provenienti da varie parti d'Italia. In particolare, saluto gli alunni e gli insegnanti delle Scuole di Ostia Lido, dell'Istituto Sacro Cuore di Caserta e dell'Istituto Santa Dorotea di Roma.

Cari amici, avrete certo saputo che è stata pubblicata di recente la mia prima enciclica dal titolo "Deus caritas est", nella quale ho voluto ricordare che è l'amore di Dio la sorgente e il motivo della nostra vera gioia. Invito ciascuno di voi a comprendere e accogliere sempre più questo Amore che cambia la vita e vi rende testimoni credibili del Vangelo. Diventerete così autentici amici di Gesù e suoi fedeli apostoli.

Soprattutto alle persone più deboli e bisognose dobbiamo far sentire la tenerezza del Cuore di Dio e non dimenticate che ognuno di noi, diffondendo la carità divina, contribuisce a costruire un mondo più giusto e solidale.
 

Chers frères et soeurs,

Je suis heureux d'accueillir ce matin les membres et les proches de la Congrégation Saint-Jean, à l'occasion de son trentième anniversaire, accompagnés des Prieurs généraux et du Père Marie-Dominique Philippe. Que votre pèlerinage soit un temps de renouveau, prenant soin de vérifier ce qui a été vécu pour en tirer tous les enseignements et pour opérer un discernement toujours plus profond des vocations qui se présentent et des missions auxquelles vous êtes appelés, dans une collaboration confiante avec les pasteurs des Eglises locales.

Que le Seigneur vous fasse grandir en sainteté, avec l'aide de Marie et du disciple bien-aimé!

Concludiamo questo nostro incontro recitando la preghiera del Padre Nostro.

***

Magnificat

Cantico della Beata Vergine

1. Siamo giunti ormai all'approdo finale del lungo itinerario cominciato proprio cinque anni fa, nella primavera del 2001, dal mio amato Predecessore, l'indimenticabile Papa Giovanni Paolo II. Il grande Papa aveva voluto percorrere nelle sue catechesi l'intera sequenza dei Salmi e dei Cantici che costituiscono il tessuto orante fondamentale della Liturgia delle Lodi e dei Vespri. Pervenuti ormai alla fine di questo pellegrinaggio testuale, simile a un viaggio nel giardino fiorito della lode, dell'invocazione, della preghiera e della contemplazione, lasciamo ora spazio a quel Cantico che idealmente suggella ogni celebrazione dei Vespri, il Magnificat (Lc 1, 46-55).

È un canto che rivela in filigrana la spiritualità degli anawim biblici, ossia di quei fedeli che si riconoscevano "poveri" non solo nel distacco da ogni idolatria della ricchezza e del potere, ma anche nell'umiltà profonda del cuore, spoglio dalla tentazione dell'orgoglio, aperto all'irruzione della grazia divina salvatrice. Tutto il Magnificat, che abbiamo sentito adesso dalla Cappella Sistina, è, infatti, marcato da questa "umiltà", in greco tapeinosis, che indica una situazione di concreta umiltà e povertà.

2. Il primo movimento del cantico mariano (cfr Lc 1, 46-50) è una sorta di voce solista che si leva verso il cielo per raggiungere il Signore. Sentiamo proprio la voce della Madonna che parla così del suo Salvatore, che ha fatto grandi cose nella sua anima e nel suo corpo. Si noti, infatti, il risuonare costante della prima persona: "L'anima mia... il mio spirito... mio salvatore... mi chiameranno beata... grandi cose ha fatto in me...". L'anima della preghiera è, quindi, la celebrazione della grazia divina che ha fatto irruzione nel cuore e nell'esistenza di Maria, rendendola la Madre del Signore.

L'intima struttura del suo canto orante è, allora, la lode, il ringraziamento, la gioia riconoscente. Ma questa testimonianza personale non è solitaria e intimistica, puramente individualistica, perché la Vergine Madre è consapevole di avere una missione da compiere per l'umanità e la sua vicenda si inserisce all'interno della storia della salvezza. E così può dire: "Di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono" (v. 50). La Madonna con questa lode del Signore dà voce a tutte le creature redente che nel suo "Fiat", e così nella figura di Gesù nato dalla Vergine, trovano la misericordia di Dio.

3. È a questo punto che si svolge il secondo movimento poetico e spirituale del Magnificat (cfr vv. 51-55). Esso ha una tonalità più corale, quasi che alla voce di Maria si associ quella dell'intera comunità dei fedeli che celebrano le scelte sorprendenti di Dio. Nell'originale greco del Vangelo di Luca abbiamo sette verbi all'aoristo, che indicano altrettante azioni che il Signore compie in modo permanente nella storia: "Ha spiegato la potenza... ha disperso i superbi... ha rovesciato i potenti... ha innalzato gli umili... ha ricolmato di beni gli affamati... ha rimandato i ricchi... ha soccorso Israele".

In questo settenario di opere divine è evidente lo "stile" a cui il Signore della storia ispira il suo comportamento: egli si schiera dalla parte degli ultimi. Il suo è un progetto che è spesso nascosto sotto il terreno opaco delle vicende umane, che vedono trionfare "i superbi, i potenti e i ricchi". Eppure la sua forza segreta è destinata alla fine a svelarsi, per mostrare chi sono i veri prediletti di Dio: "Coloro che lo temono", fedeli alla sua parola; "gli umili, gli affamati, Israele suo servo", ossia la comunità del popolo di Dio che, come Maria, è costituita da coloro che sono "poveri", puri e semplici di cuore. È quel "piccolo gregge" che è invitato a non temere perché al Padre è piaciuto dare ad esso il suo regno (cfr Lc 12, 32). E così questo canto ci invita ad associarci a questo piccolo gregge, ad essere realmente membri del Popolo di Dio nella purezza e nella semplicità del cuore, nell'amore di Dio.

4. Raccogliamo, allora, l'invito che nel suo commento al testo del Magnificat ci rivolge sant'Ambrogio, dice il grande Dottore della Chiesa: "Sia in ciascuno l'anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio; se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio... L'anima di Maria magnifica il Signore, e il suo spirito esulta in Dio, perché, consacrata con l'anima e con lo spirito al Padre e al Figlio, essa adora con devoto affetto un solo Dio, dal quale tutto proviene, e un solo Signore, in virtù del quale esistono tutte le cose" (Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2, 26-27: SAEMO, XI, Milano-Roma 1978, p. 169).
 

In questo meraviglioso commento del Magnificat di sant'Ambrogio mi tocca sempre particolarmente la parola sorprendente: "Se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio". Così il santo Dottore, interpretando le parole della Madonna stessa, ci invita a far sì che nella nostra anima e nella nostra vita il Signore trovi una dimora. Non dobbiamo solo portarlo nel cuore, ma dobbiamo portarlo al mondo, cosicché anche noi possiamo generare Cristo per i nostri tempi. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a magnificarlo con lo spirito e l'anima di Maria e a portare di nuovo Cristo al nostro mondo.

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Cattolico_Romano
00venerdì 24 luglio 2009 15:56

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 22 febbraio 2006

Meditazione sul tema:

"La Cattedra di Pietro, dono di Cristo alla sua Chiesa"

Incontro con gli studenti italiani e gruppi di pellegrini nella Basilica Vaticana:

Cari amici,

desidero rivolgere un cordiale benvenuto a tutti voi presenti in Basilica, la cui abside oggi è particolarmente ornata e illuminata in occasione della festa della Cattedra dell'apostolo Pietro. In particolare, saluto voi, cari studenti e docenti del Collegio S. Francesco di Lodi, che commemorate il quarto centenario della vostra scuola, fondata dai Padri Barnabiti; come pure voi, cari alunni e professori dell'Istituto Maria Immacolata di Roma.

L'odierna festa, invitandoci a guardare alla Cattedra di San Pietro, ci stimola a nutrire la vita personale e comunitaria di quella fede fondata sulla testimonianza di Pietro e degli altri Apostoli. Imitando il loro esempio, anche voi, cari amici, potrete essere testimoni di Cristo nella Chiesa e nel mondo.

Concludiamo questo incontro recitando insieme la preghiera del Signore: il Padre nostro.

***

Cari fratelli e sorelle!

La Liturgia latina celebra oggi la festa della Cattedra di San Pietro. Si tratta di una tradizione molto antica, attestata a Roma fin dal secolo IV, con la quale si rende grazie a Dio per la missione affidata all'apostolo Pietro e ai suoi successori. La "cattedra", letteralmente, è il seggio fisso del Vescovo, posto nella chiesa madre di una Diocesi, che per questo viene detta "cattedrale", ed è il simbolo dell'autorità del Vescovo e, in particolare, del suo "magistero", cioè dell'insegnamento evangelico che egli, in quanto successore degli Apostoli, è chiamato a custodire e trasmettere alla Comunità cristiana. Quando il Vescovo prende possesso della Chiesa particolare che gli è stata affidata, egli, portando la mitra e il bastone pastorale, si siede sulla cattedra. Da quella sede guiderà, quale maestro e pastore, il cammino dei fedeli, nella fede, nella speranza e nella carità.

Quale fu, dunque, la "cattedra" di san Pietro? Egli, scelto da Cristo come "roccia" su cui edificare la Chiesa (cfr Mt 16, 18), iniziò il suo ministero a Gerusalemme, dopo l'Ascensione del Signore e la Pentecoste. La prima "sede" della Chiesa fu il Cenacolo, ed è probabile che in quella sala, dove anche Maria, la Madre di Gesù, pregò insieme ai discepoli, un posto speciale fosse riservato a Simon Pietro. Successivamente, la sede di Pietro divenne Antiochia, città situata sul fiume Oronte, in Siria, oggi in Turchia, a quei tempi terza metropoli dell'impero romano dopo Roma e Alessandria d'Egitto. Di quella città, evangelizzata da Barnaba e Paolo, dove "per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani" (At 11, 26), dove quindi è nato il nome cristiani per noi, Pietro fu il primo vescovo, tanto che il Martirologio Romano, prima della riforma del calendario, prevedeva anche una specifica celebrazione della Cattedra di Pietro ad Antiochia. Da lì, la Provvidenza condusse Pietro a Roma.

Quindi abbiamo il cammino da Gerusalemme, Chiesa nascente, ad Antiochia, primo centro della Chiesa raccolta dai pagani e ancora unita con la Chiesa proveniente dagli Ebrei. Poi Pietro si recò a Roma, centro dell'Impero, simbolo dell'"Orbis" - l'"Urbs" che esprime l'"Orbis" la terra - dove concluse con il martirio la sua corsa al servizio del Vangelo. Per questo la sede di Roma, che aveva ricevuto il maggior onore, raccolse anche l'onere affidato da Cristo a Pietro di essere al servizio di tutte le Chiese particolari per l'edificazione e l'unità dell'intero Popolo di Dio.
 

La sede di Roma, dopo queste migrazioni di San Pietro, venne così riconosciuta come quella del successore di Pietro, e la "cattedra" del suo Vescovo rappresentò quella dell'Apostolo incaricato da Cristo di pascere tutto il suo gregge. Lo attestano i più antichi Padri della Chiesa, come ad esempio sant'Ireneo, Vescovo di Lione, ma che veniva dall'Asia Minore, il quale, nel suo trattato Contro le eresie, descrive la Chiesa di Roma come "più grande e più antica, conosciuta da tutti; ... fondata e costituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo"; e aggiunge: "Con questa Chiesa, per la sua esimia superiorità, deve accordarsi la Chiesa universale, cioè i fedeli che sono ovunque" (III, 3, 2-3). Tertulliano, poco più tardi, da parte sua, afferma: "Questa Chiesa di Roma, quanto è beata! Furono gli Apostoli stessi a versare a lei, col loro sangue, la dottrina tutta quanta" (La prescrizione degli eretici, 36). La cattedra del Vescovo di Roma rappresenta, pertanto, non solo il suo servizio alla comunità romana, ma la sua missione di guida dell'intero Popolo di Dio.

Celebrare la "Cattedra" di Pietro, come facciamo oggi, significa, perciò, attribuire ad essa un forte significato spirituale e riconoscervi un segno privilegiato dell'amore di Dio, Pastore buono ed eterno, che vuole radunare l'intera sua Chiesa e guidarla sulla via della salvezza. Tra le tante testimonianze dei Padri, mi piace riportare quella di san Girolamo, tratta da una sua lettera scritta al Vescovo di Roma, particolarmente interessante perché fa esplicito riferimento proprio alla "cattedra" di Pietro, presentandola come sicuro approdo di verità e di pace. Così scrive Girolamo: "Ho deciso di consultare la cattedra di Pietro, dove si trova quella fede che la bocca di un Apostolo ha esaltato; vengo ora a chiedere un nutrimento per la mia anima lì, dove un tempo ricevetti il vestito di Cristo. Io non seguo altro primato se non quello di Cristo; per questo mi metto in comunione con la tua beatitudine, cioè con la cattedra di Pietro. So che su questa pietra è edificata la Chiesa" (Le lettere I, 15, 1-2).

Cari fratelli e sorelle, nell'abside della Basilica di san Pietro, come sapete, si trova il monumento alla Cattedra dell'Apostolo, opera matura del Bernini, realizzata in forma di grande trono bronzeo, sorretto dalle statue di quattro Dottori della Chiesa, due d'occidente, sant'Agostino e sant'Ambrogio, e due d'oriente, san Giovanni Crisostomo e sant'Atanasio. Vi invito a sostare di fronte a tale opera suggestiva, che oggi è possibile ammirare decorata da tante candele, e pregare in modo particolare per il ministero che Iddio mi ha affidato. Alzando lo sguardo alla vetrata di alabastro che si apre proprio sopra la Cattedra, invocate lo Spirito Santo, affinché sostenga sempre con la sua luce e la sua forza il mio quotidiano servizio a tutta la Chiesa. Di questo, come della vostra devota attenzione, vi ringrazio di cuore.

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00venerdì 24 luglio 2009 15:57

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì delle Ceneri, 1° marzo 2006

Meditazione sul significato del tempo quaresimale

Cari Fratelli e Sorelle,

Inizia oggi, con la Liturgia del Mercoledì delle Ceneri, l'itinerario quaresimale di quaranta giorni che ci condurrà al Triduo pasquale, memoria della passione, morte e risurrezione del Signore, cuore del mistero della nostra salvezza. Questo è un tempo favorevole in cui la Chiesa invita i cristiani a prendere più viva consapevolezza dell'opera redentrice di Cristo e a vivere con più profondità il proprio Battesimo. In effetti, in questo periodo liturgico il Popolo di Dio fin dai primi tempi si nutre con abbondanza della Parola di Dio per rafforzarsi nella fede, ripercorrendo l'intera storia della creazione e della redenzione.

Nella sua durata di quaranta giorni, la Quaresima possiede un'indubbia forza evocativa. Essa intende infatti richiamare alcuni tra gli eventi che hanno scandito la vita e la storia dell'Antico Israele, riproponendone anche a noi il valore paradigmatico: pensiamo, ad esempio, ai quaranta giorni del diluvio universale, che sfociarono nel patto di alleanza sancito da Dio con Noè, e così con l'umanità, e ai quaranta giorni di permanenza di Mosè sul Monte Sinai, cui fece seguito il dono delle tavole della Legge. Il periodo quaresimale vuole invitarci soprattutto a rivivere con Gesù i quaranta giorni da Lui trascorsi nel deserto, pregando e digiunando, prima di intraprendere la sua missione pubblica. Anche noi quest'oggi intraprendiamo un cammino di riflessione e di preghiera con tutti i cristiani del mondo per dirigerci spiritualmente verso il Calvario, meditando i misteri centrali della fede. Ci prepareremo così a sperimentare, dopo il mistero della Croce, la gioia della Pasqua di risurrezione.

Si compie oggi, in tutte le comunità parrocchiali, un gesto austero e simbolico: l'imposizione delle ceneri, e questo rito viene accompagnato da due pregnanti formule, che costituiscono un pressante appello a riconoscersi peccatori e a ritornare a Dio. La prima formula dice: "Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai" (cfr Gn 3,19). Queste parole, tratte dal libro della Genesi, evocano la condizione umana posta sotto il segno della caducità e del limite, e intendono spingerci a riporre ogni speranza soltanto in Dio. La seconda formula si rifà alle parole pronunciate da Gesù all'inizio del suo ministero itinerante: "Convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15). È un invito a porre come fondamento del rinnovamento personale e comunitario l'adesione ferma e fiduciosa al Vangelo.

La vita del cristiano è vita di fede, fondata sulla Parola di Dio e da essa nutrita. Nelle prove della vita e in ogni tentazione il segreto della vittoria sta nel dare ascolto alla Parola di verità e nel rifiutare con decisione la menzogna e il male. Questo è il vero e centrale programma del tempo della Quaresima: ascoltare la parola di verità, vivere, parlare e fare la verità, rifiutare la menzogna che avvelena l'umanità ed è la porta di tutti i mali. Urge pertanto riascoltare, in questi quaranta giorni, il Vangelo, la parola del Signore, parola di verità, perché in ogni cristiano, in ognuno di noi, si rafforzi la coscienza della verità a lui donata, a noi donata, perché la viva e se ne faccia testimone. La Quaresima a questo ci stimola, a lasciar penetrare la nostra vita dalla Parola di Dio e a conoscere così la verità fondamentale: chi siamo, da dove veniamo, dove dobbiamo andare, qual è la strada da prendere nella vita. E così il periodo della Quaresima ci offre un percorso ascetico e liturgico che, mentre ci aiuta ad aprire gli occhi sulla nostra debolezza, ci fa aprire il cuore all'amore misericordioso di Cristo.

Il cammino quaresimale, avvicinandoci a Dio, ci permette di guardare con occhi nuovi ai fratelli ed alle loro necessità. Chi comincia a vedere Dio, a guardare il volto di Cristo, vede con altri occhi anche il fratello, scopre il fratello, il suo bene, il suo male, le sue necessità. Per questo la Quaresima, come ascolto della verità, è momento favorevole per convertirsi all'amore, perché la verità profonda, la verità di Dio è nello stesso tempo amore. Convertendoci alla verità di Dio, ci dobbiamo necessariamente convertire all'amore.

Un amore che sappia fare proprio l'atteggiamento di compassione e di misericordia del Signore, come ho voluto ricordare nel Messaggio per la Quaresima, che ha per tema le parole evangeliche: "Gesù, vedendo le folle, ne provò compassione" (
Mt 9,36). Consapevole della propria missione nel mondo, la Chiesa non cessa di proclamare l'amore misericordioso di Cristo, che continua a volgere lo sguardo commosso sugli uomini e sui popoli d'ogni tempo. "Dinanzi alle terribili sfide della povertà di tanta parte dell'umanità - ho scritto nel citato Messaggio quaresimale -, l'indifferenza e la chiusura nel proprio egoismo si pongono in un contrasto intollerabile con lo "sguardo di Cristo". Il digiuno e l'elemosina, che, insieme con la preghiera, la Chiesa propone in modo speciale nel periodo della Quaresima, sono occasione propizia per conformarci a quello "sguardo"" (L'Oss. Rom. 1 febbraio 2006, p. 5), allo sguardo di Cristo, e vedere noi stessi, l'umanità, gli altri con questo suo sguardo. Con questo spirito entriamo nel clima austero ed orante della Quaresima, che è proprio un clima di amore per il fratello.
 

Siano giorni di riflessione e di intensa preghiera, in cui ci lasciamo guidare dalla Parola di Dio, che abbondantemente la liturgia ci propone. La Quaresima sia, inoltre, un tempo di digiuno, di penitenza e di vigilanza su noi stessi, persuasi che la lotta al peccato non termina mai, poiché la tentazione è realtà d'ogni giorno e la fragilità e l'illusione sono esperienze di tutti. La Quaresima sia, infine, attraverso l'elemosina, il fare del bene agli altri, occasione di sincera condivisione dei doni ricevuti con i fratelli e di attenzione ai bisogni dei più poveri e abbandonati. In questo itinerario penitenziale ci accompagni Maria, la Madre del Redentore, che è maestra di ascolto e di fedele adesione a Dio. La Vergine Santissima ci aiuti ad arrivare, purificati e rinnovati nella mente e nello spirito, a celebrare il grande mistero della Pasqua di Cristo. Con questi sentimenti, auguro a tutti una buona e fruttuosa Quaresima.

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00venerdì 24 luglio 2009 15:58

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 15 marzo 2006

La volontà di Gesù sulla Chiesa e la scelta dei Dodici

Cari fratelli e sorelle,

dopo le catechesi sui Salmi e sui Cantici delle Lodi e dei Vespri, vorrei dedicare i prossimi incontri del mercoledì al mistero del rapporto tra Cristo e la Chiesa, considerandolo a partire dall'esperienza degli Apostoli, alla luce del compito ad essi affidato. La Chiesa è stata costituita sul fondamento degli Apostoli come comunità di fede, di speranza e di carità. Attraverso gli Apostoli, risaliamo a Gesù stesso. La Chiesa cominciò a costituirsi quando alcuni pescatori di Galilea incontrarono Gesù, si lasciarono conquistare dal suo sguardo, dalla sua voce, dal suo invito caldo e forte: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini!" (Mc 1, 17; Mt 4, 19). Il mio amato Predecessore, Giovanni Paolo II, ha proposto alla Chiesa, all'inizio del terzo millennio, di contemplare il volto di Cristo (cfr Novo millennio ineunte, 16 ss). Muovendomi nella stessa direzione, nelle catechesi che oggi comincio vorrei mostrare come proprio la luce di quel Volto si rifletta sul volto della Chiesa (cfr Lumen gentium, 1), nonostante i limiti e le ombre della nostra umanità fragile e peccatrice. Dopo Maria, riflesso puro della luce di Cristo, sono gli Apostoli, con la loro parola e la loro testimonianza, a consegnarci la verità di Cristo. La loro missione non è tuttavia isolata, ma si colloca dentro un mistero di comunione, che coinvolge l'intero Popolo di Dio e si realizza a tappe, dall'antica alla nuova Alleanza.

Va detto in proposito che si fraintende del tutto il messaggio di Gesù se lo si separa dal contesto della fede e della speranza del popolo eletto: come il Battista, suo immediato precursore, Gesù si rivolge anzitutto a Israele (cfr Mt 15, 24), per farne la "raccolta" nel tempo escatologico giunto con lui. E come quella di Giovanni, così la predicazione di Gesù è al tempo stesso chiamata di grazia e segno di contraddizione e di giudizio per l'intero popolo di Dio. Pertanto, sin dal primo momento della sua attività salvifica Gesù di Nazaret tende a radunare il Popolo di Dio. Anche se la sua predicazione è sempre un appello alla conversione personale, egli in realtà mira continuamente alla costituzione del Popolo di Dio che è venuto a radunare, a purificare ed a salvare.

Risulta perciò unilaterale e priva di fondamento l'interpretazione individualistica, proposta dalla teologia liberale, dell'annuncio che Cristo fa del Regno. Essa è così riassunta nell'anno 1900 dal grande teologo liberale Adolf von Harnack nelle sue lezioni su L'essenza del cristianesimo: "Il regno di Dio viene, in quanto viene in singoli uomini, trova accesso alla loro anima ed essi lo accolgono. Il regno di Dio è la signoria di Dio, certo, ma è la signoria del Dio santo nei singoli cuori" (Lezione Terza, 100s). In realtà, questo individualismo della teologia liberale è un'accentuazione tipicamente moderna: nella prospettiva della tradizione biblica e nell'orizzonte dell'ebraismo, in cui l'opera di Gesù si colloca pur con tutta la sua novità, risulta chiaro che tutta la missione del Figlio fatto carne ha una finalità comunitaria: Egli è venuto proprio per unire l'umanità dispersa, è venuto proprio per raccogliere, per unire il popolo di Dio.

Un segno evidente dell'intenzione del Nazareno di radunare la comunità dell'alleanza, per manifestare in essa il compimento delle promesse fatte ai Padri, che parlano sempre di convocazione, di unificazione, di unità, è l'istituzione dei Dodici. Abbiamo sentito il Vangelo su questa istituzione dei Dodici. Ne leggo ancora una volta la parte centrale: "Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni. Costituì dunque i Dodici..." (Mc 3, 13-16; cfr Mt 10, 1-4; Lc 6, 12-16). Nel luogo della rivelazione, "il monte", Gesù, con iniziativa che manifesta assoluta consapevolezza e determinazione, costituisce i Dodici perché siano con lui testimoni e annunciatori dell'avvento del Regno di Dio. Sulla storicità di questa chiamata non ci sono dubbi, non solo in ragione dell'antichità e della molteplicità delle attestazioni, ma anche per il semplice motivo che vi compare il nome di Giuda, l'apostolo traditore, nonostante le difficoltà che questa presenza poteva comportare per la comunità nascente. Il numero Dodici, che richiama evidentemente le dodici tribù d'Israele, rivela già il significato di azione profetico-simbolica implicito nella nuova iniziativa di rifondare il popolo santo. Tramontato da tempo il sistema delle dodici tribù, la speranza d'Israele ne attendeva la ricostituzione come segno dell'avvento del tempo escatologico (si pensi alla conclusione del libro di Ezechiele: 37, 15-19; 39, 23-29; 40-48).

Scegliendo i Dodici, introducendoli ad una comunione di vita con sé e rendendoli partecipi della sua missione di annuncio del Regno in parole ed opere (cfr Mc 6, 7-13; Mt 10, 5-8; Lc 9, 1-6; Lc 6, 13), Gesù vuol dire che è arrivato il tempo definitivo in cui si costituisce di nuovo il popolo di Dio, il popolo delle dodici tribù, che diventa adesso un popolo universale, la sua Chiesa.

Con la loro stessa esistenza i Dodici - chiamati da provenienze diverse - diventano un appello a tutto Israele perché si converta e si lasci raccogliere nell'alleanza nuova, pieno e perfetto compimento di quella antica. L'aver affidato ad essi nella Cena, prima della sua Passione, il compito di celebrare il suo memoriale, mostra come Gesù volesse trasferire all'intera comunità nella persona dei suoi capi il mandato di essere, nella storia, segno e strumento del raduno escatologico, in lui iniziato. In un certo senso possiamo dire che proprio l'Ultima Cena è l'atto della fondazione della Chiesa, perché Egli dà se stesso e crea così una nuova comunità, una comunità unita nella comunione con Lui stesso. In questa luce, si comprende come il Risorto conferisca loro - con l'effusione dello Spirito - il potere di rimettere i peccati (cfr Gv 20, 23). I dodici Apostoli sono così il segno più evidente della volontà di Gesù riguardo all'esistenza e alla missione della sua Chiesa, la garanzia che fra Cristo e la Chiesa non c'è alcuna contrapposizione: sono inseparabili, nonostante i peccati degli uomini che compongono la Chiesa. È pertanto del tutto inconciliabile con l'intenzione di Cristo uno slogan di moda alcuni anni fa: "Gesù sì, Chiesa no".

Questo Gesù individualistico scelto è un Gesù di fantasia. Non possiamo avere Gesù senza la realtà che Egli ha creato e nella quale si comunica. Tra il Figlio di Dio fatto carne e la sua Chiesa v'è una profonda, inscindibile e misteriosa continuità, in forza della quale Cristo è presente oggi nel suo popolo. È sempre contemporaneo a noi, è sempre contemporaneo nella Chiesa costruita sul fondamento degli Apostoli, è vivo nella successione degli Apostoli. E questa sua presenza nella comunità, nella quale Egli stesso si dà sempre a noi, è motivo della nostra gioia. Sì, Cristo è con noi, il Regno di Dio viene.

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00venerdì 24 luglio 2009 15:59

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 22 marzo 2006

Gli Apostoli, testimoni e inviati di Cristo

Cari fratelli e sorelle,

la Lettera agli Efesini ci presenta la Chiesa come una costruzione edificata "sul fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù" (2, 29). Nell'Apocalisse il ruolo degli Apostoli, e più specificamente dei Dodici, è chiarito nella prospettiva escatologica della Gerusalemme celeste, presentata come una città le cui mura "poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell'Agnello" (21, 14). I Vangeli concordano nel riferire che la chiamata degli Apostoli segnò i primi passi del ministero di Gesù, dopo il battesimo ricevuto dal Battista nelle acque del Giordano.

Stando al racconto di Marco (1, 16-20) e di Matteo (4, 18-22), lo scenario della chiamata dei primi Apostoli è il lago di Galilea. Gesù ha da poco cominciato la predicazione del Regno di Dio, quando il suo sguardo si posa su due coppie di fratelli: Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Sono pescatori, impegnati nel loro lavoro quotidiano. Gettano le reti, le riassettano. Ma un'altra pesca li attende. Gesù li chiama con decisione ed essi con prontezza lo seguono: ormai saranno "pescatori di uomini" (cfr Mc 1, 17; Mt 4, 19). Luca, pur seguendo la medesima tradizione, ha un racconto più elaborato (5, 1-11). Esso mostra il cammino di fede dei primi discepoli, precisando che l'invito alla sequela giunge loro dopo aver ascoltato la prima predicazione di Gesù e sperimentato i primi segni prodigiosi da lui compiuti. In particolare, la pesca miracolosa costituisce il contesto immediato e offre il simbolo della missione di pescatori di uomini, ad essi affidata. Il destino di questi "chiamati", d'ora in poi, sarà intimamente legato a quello di Gesù. L'apostolo è un inviato, ma, prima ancora, un "esperto" di Gesù.

Proprio questo aspetto è messo in evidenza dall'evangelista Giovanni fin dal primo incontro di Gesù con i futuri Apostoli. Qui lo scenario è diverso. L'incontro si svolge sulle rive del Giordano. La presenza dei futuri discepoli, venuti anch'essi, come Gesù, dalla Galilea per vivere l'esperienza del battesimo amministrato da Giovanni, fa luce sul loro mondo spirituale. Erano uomini in attesa del Regno di Dio, desiderosi di conoscere il Messia, la cui venuta era annunciata come imminente. Basta ad essi l'indicazione di Giovanni Battista che addita in Gesù l'Agnello di Dio (cfr Gv 1, 36), perché sorga in loro il desiderio di un incontro personale con il Maestro. Le battute del dialogo di Gesù con i primi due futuri Apostoli sono molto espressive. Alla domanda: "Che cercate?", essi rispondono con un'altra domanda: "Rabbì (che significa Maestro), dove abiti?". La risposta di Gesù è un invito: "Venite e vedrete" (cfr Gv 1, 38-39). Venite per poter vedere. L'avventura degli Apostoli comincia così, come un incontro di persone che si aprono reciprocamente. Comincia per i discepoli una conoscenza diretta del Maestro. Vedono dove abita e cominciano a conoscerlo. Essi infatti non dovranno essere annun-ciatori di un'idea, ma testimoni di una persona. Prima di essere mandati ad evangelizzare, dovranno "stare" con Gesù (cfr Mc 3, 14), stabilendo con lui un rapporto personale. Su questa base, l'evangelizzazione altro non sarà che un annuncio di ciò che si è sperimentato e un invito ad entrare nel mistero della comunione con Cristo (cfr 1 Gv 1,3).

A chi saranno inviati gli Apostoli? Nel Vangelo Gesù sembra restringere al solo Israele la sua missione: "Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 15, 24). In maniera analoga egli sembra circoscrivere la missione affidata ai Dodici: "Questi Dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: "Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele"" (Mt 10, 5s.). Una certa critica moderna di ispirazione razionalistica aveva visto in queste espressioni la mancanza di una coscienza universalistica del Nazareno. In realtà, esse vanno comprese alla luce del suo rapporto speciale con Israele, comunità dell'alleanza, nella continuità della storia della salvezza. Secondo l'attesa messianica le promesse divine, immediatamente indirizzate ad Israele, sarebbero giunte a compimento quando Dio stesso, attraverso il suo Eletto, avrebbe raccolto il suo popolo come fa un pastore con il gregge: "Io salverò le mie pecore e non saranno più oggetto di preda... Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore; io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro" (Ez 34, 22-24). Gesù è il pastore escatologico, che raduna le pecore perdute della casa d'Israele e va in cerca di esse, perché le conosce e le ama (cfr Lc 15, 4-7 e Mt 18, 12-14; cfr anche la figura del buon pastore in Gv 10, 11ss.). Attraverso questa "raccolta" il Regno di Dio si annuncia a tutte le genti: "Fra le genti manifesterò la mia gloria e tutte le genti vedranno la giustizia che avrò fatta e la mano che avrò posta su di voi" (Ez 39, 21).

E Gesù segue proprio questo filo profetico. Il primo passo è la "raccolta" del popolo di Israele, perché così tutte le genti chiamate a radunarsi nella comunione col Signore, possano vedere e credere. Così, i Dodici, assunti a partecipare alla stessa missione di Gesù, cooperano col Pastore degli ultimi tempi, andando anzitutto anche loro dalle pecore perdute della casa d'Israele, rivolgendosi cioè al popolo della promessa, il cui raduno è il segno di salvezza per tutti i popoli, l'inizio dell'universalizzazione dell'Alleanza. Lungi dal contraddire l'apertura universalistica dell'azione messianica del Nazareno, l'iniziale restringimento ad Israele della missione sua e dei Dodici ne diventa così il segno profetico più efficace. Dopo la passione e la risurrezione di Cristo tale segno sarà chiarito: il carattere universale della missione degli Apostoli diventerà esplicito. Cristo invierà gli Apostoli "in tutto il mondo" (Mc 16, 15), a "tutte le nazioni" (Mt 28, 19; Lc 24, 47, "fino agli estremi confini della terra" (At 1, 8). E questa missione continua. Continua sempre il mandato del Signore di riunire i popoli nell'unità del suo amore. Questa è la nostra speranza e questo è anche il nostro mandato: contribuire a questa universalità, a questa vera unità nella ricchezza delle culture, in comunione con il nostro vero Signore Gesù Cristo.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:35

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 29 marzo 2006

Il dono della "Comunione"

Cari fratelli e sorelle,

attraverso il ministero apostolico la Chiesa, comunità radunata dal Figlio di Dio venuto nella carne, vivrà nel succedersi dei tempi edificando e nutrendo la comunione in Cristo e nello Spirito, alla quale tutti sono chiamati e nella quale possono fare esperienza della salvezza donata dal Padre. I Dodici – come dice il Papa Clemente, terzo Successore di Pietro, alla fine del I° secolo - ebbero cura, infatti, di costituirsi dei successori (cfr 1 Clem 42,4), affinché la missione loro affidata continuasse dopo la loro morte. Nel corso dei secoli la Chiesa, organicamente strutturata sotto la guida dei legittimi Pastori, ha così continuato a vivere nel mondo come mistero di comunione, nel quale si rispecchia in qualche misura la stessa comunione trinitaria, il mistero di Dio stesso.

Già l’apostolo Paolo accenna a questa suprema sorgente trinitaria, quando augura ai suoi cristiani: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2 Cor 13,13). Queste parole, probabile eco del culto della Chiesa nascente, evidenziano come il dono gratuito dell'amore del Padre in Gesù Cristo si realizzi e si esprima nella comunione attuata dallo Spirito Santo. Questa interpretazione, basata sullo stretto parallelismo che il testo stabilisce fra i tre genitivi (“la grazia del Signore Gesù Cristo … l’amore di Dio … e la comunione dello Spirito Santo”), presenta la “comunione” come dono specifico dello Spirito, frutto dell'amore donato da Dio Padre e della grazia offerta dal Signore Gesù.

Peraltro, il contesto immediato, caratterizzato dall'insistenza sulla comunione fraterna, ci orienta a vedere nella “koinonía” dello Spirito Santo non solo la “partecipazione” alla vita divina quasi singolarmente, ognuno per sé, ma anche logicamente la “comunione” tra i credenti che lo Spirito stesso suscita come suo artefice e principale agente (cfr Fil 2,1). Si potrebbe affermare che grazia, amore e comunione, riferiti rispettivamente al Cristo, al Padre e allo Spirito, sono aspetti diversi dell'unica azione divina per la nostra salvezza, azione che crea la Chiesa e fa della Chiesa – come dice san Cipriano nel III° secolo - "un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (De Orat. Dom., 23: PL 4,536, cit. in Lumen gentium, 4).

L’idea della comunione come partecipazione alla vita trinitaria è illuminata con particolare intensità nel Vangelo di Giovanni, dove la comunione d'amore che lega il Figlio al Padre e agli uomini è al tempo stesso il modello e la sorgente della comunione fraterna, che deve unire i discepoli fra loro: “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12; cfr 13,34). “Che essi siano uno, come noi siamo uno” (Gv 17,21.22). Quindi, comunione degli uomini col Dio Trinitario e comunione degli uomini tra loro. Nel tempo del pellegrinaggio terreno il discepolo, mediante la comunione col Figlio, può già partecipare della vita divina di Lui e del Padre: “La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo” (1 Gv 1,3). Questa vita di comunione con Dio e fra noi è la finalità propria dell'annuncio del Vangelo, la finalità della conversione al cristianesimo: “Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1 Gv 1,2).

Quindi, questa duplice comunione con Dio e tra di noi è inseparabile. Dove si distrugge la comunione con Dio, che è comunione col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, si distrugge anche la radice e la sorgente della comunione fra di noi. E dove non viene vissuta la comunione fra di noi, anche la comunione col Dio Trinitario non è viva e vera, come abbiamo sentito.

Adesso facciamo un ulteriore passo. La comunione - frutto dello Spirito Santo - è nutrita dal Pane eucaristico (cfr 1 Cor,10,16-17) e si esprime nelle relazioni fraterne, in una sorta di anticipazione del mondo futuro. Nell’Eucaristia Gesù ci nutre, ci unisce con Sé, con il Padre, con lo Spirito Santo e tra di noi, e questa rete di unità che abbraccia il mondo è un’anticipazione del mondo futuro in questo nostro tempo. Proprio così, essendo anticipazione del mondo futuro, la comunione è un dono anche con conseguenze molto reali, ci fa uscire dalle nostre solitudini, dalle chiusure in noi stessi, e ci rende partecipi dell’amore che ci unisce a Dio e fra di noi.

E’ facile comprendere quanto grande sia questo dono, se solo pensiamo alle frammentazioni e ai conflitti che affliggono le relazioni fra i singoli, i gruppi e i popoli interi. E se non c’è il dono dell’unità nello Spirito Santo, la frammentazione dell’umanità è inevitabile. La “comunione” è veramente la buona novella, il rimedio donatoci dal Signore contro la solitudine che oggi minaccia tutti, il dono prezioso che ci fa sentire accolti e amati in Dio, nell’unità del suo Popolo radunato nel nome della Trinità; è la luce che fa risplendere la Chiesa come segno innalzato fra i popoli: “Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri” (1 Gv 1,6s). La Chiesa si rivela così, nonostante tutte le fragilità umane che appartengono alla sua fisionomia storica, una meravigliosa creazione d’amore, fatta per rendere Cristo vicino a ogni uomo e a ogni donna che voglia veramente incontrarlo, fino alla fine dei tempi. E nella Chiesa il Signore rimane sempre contemporaneo con noi. La Scrittura non è una cosa del passato. Il Signore non parla nel passato ma parla nel presente, parla oggi con noi, ci dà luce, ci mostra la strada della vita, ci dà comunione e così ci prepara e ci apre alla pace.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:36

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 5 aprile 2006

"Il servizio alla comunione"

Cari fratelli e sorelle,

nella nuova serie di catechesi, iniziata poche settimane fa, vogliamo considerare le origini della Chiesa, per capire il disegno originario di Gesù, e così comprendere l’essenziale della Chiesa, che permane nel variare dei tempi. Vogliamo così capire anche il perché del nostro essere nella Chiesa e come dobbiamo impegnarci a viverlo all’inizio di un nuovo millennio cristiano.

Considerando la Chiesa nascente, possiamo scoprirne due aspetti: un primo aspetto viene fortemente messo in luce da sant’Ireneo di Lione, martire e grande teologo della fine del II° secolo, il primo ad averci dato una teologia in qualche modo sistematica. Sant’Ireneo scrive: “Dove c'è la Chiesa, lì c'è anche lo Spirito di Dio; e dove c’è lo Spirito di Dio, lì c’è la Chiesa ed ogni grazia; poiché lo Spirito è verità” (Adversus haereses, III, 24, 1: PG 7,966). Quindi esiste un intimo legame tra lo Spirito Santo e la Chiesa. Lo Spirito Santo costruisce la Chiesa e dona ad essa la verità, effonde – come dice san Paolo – nei cuori dei credenti l’amore (cfr Rm 5,5). Ma c’è poi un secondo aspetto. Questo intimo legame con lo Spirito non annulla la nostra umanità con tutta la sua debolezza, e così la comunità dei discepoli conosce fin dagli inizi non solo la gioia dello Spirito Santo, la grazia della verità e dell’amore, ma anche la prova, costituita soprattutto dai contrasti circa le verità di fede, con le conseguenti lacerazioni della comunione.

Come la comunione dell’amore esiste sin dall'inizio e vi sarà fino alla fine (cfr 1 Gv 1,1ss), così purtroppo fin dall'inizio subentra anche la divisione. Non dobbiamo meravigliarci che essa esista anche oggi: “Sono usciti di mezzo a noi – dice la Prima Lettera di Giovanni -, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri” (2,19). Quindi c’è sempre il pericolo, nelle vicende del mondo e anche nelle debolezze della Chiesa, di perdere la fede, e così anche di perdere l’amore e la fraternità. E’ quindi un preciso dovere di chi crede alla Chiesa dell'amore e vuol vivere in essa, riconoscere anche questo pericolo e accettare che non è possibile poi la comunione con chi si è allontanato dalla dottrina della salvezza (cfr 2 Gv 9-11).

Che la Chiesa nascente fosse ben consapevole di queste tensioni possibili nell’esperienza della comunione lo mostra bene la Prima Lettera di Giovanni: non c'è voce nel Nuovo Testamento che si levi con più forza per evidenziare la realtà e il dovere dell'amore fraterno fra i cristiani; ma la stessa voce si indirizza con drastica severità agli avversari, che sono stati membri della comunità e ora non lo sono più. La Chiesa dell'amore è anche la Chiesa della verità, intesa anzitutto come fedeltà al Vangelo affidato dal Signore Gesù ai suoi. La fraternità cristiana nasce dall'essere costituiti figli dello stesso Padre dallo Spirito di verità: “Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rm 8,14). Ma la famiglia dei figli di Dio, per vivere nell’unità e nella pace, ha bisogno di chi la custodisca nella verità e la guidi con discernimento sapiente e autorevole: è ciò che è chiamato a fare il ministero degli Apostoli. E qui arriviamo ad un punto importante. La Chiesa è tutta dello Spirito, ma ha una struttura, la successione apostolica, cui spetta la responsabilità di garantire il permanere della Chiesa nella verità donata da Cristo, dalla quale viene anche la capacità dell’amore.

Il primo sommario degli Atti esprime con grande efficacia la convergenza di questi valori nella vita della Chiesa nascente: “Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna (koinonìa), nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42). La comunione nasce dalla fede suscitata dalla predicazione apostolica, si nutre dello spezzare il pane e della preghiera, e si esprime nella carità fraterna e nel servizio. Siamo di fronte alla descrizione della comunione della Chiesa nascente nella ricchezza dei suoi dinamismi interni e delle sue espressioni visibili: il dono della comunione è custodito e promosso in particolare dal ministero apostolico, che a sua volta è dono per tutta la comunità.

Gli Apostoli e i loro successori sono pertanto i custodi e i testimoni autorevoli del deposito della verità consegnato alla Chiesa, come sono anche i ministri della carità: due aspetti che vanno insieme. Essi devono sempre pensare alla inseparabilità di questo duplice servizio, che in realtà è uno solo: verità e carità, rivelate e donate dal Signore Gesù. Il loro è, in tal senso, anzitutto un servizio di amore: la carità che essi devono vivere e promuovere è inseparabile dalla verità che custodiscono e trasmettono. La verità e l’amore sono due volti dello stesso dono, che viene da Dio e che grazie al ministero apostolico è custodito nella Chiesa e ci raggiunge fino al nostro presente! Anche attraverso il servizio degli Apostoli e dei loro successori l’amore di Dio Trinità ci raggiunge per comunicarci la verità che ci fa liberi (cfr Gv 8,32)! Tutto questo che vediamo nella Chiesa nascente ci spinge a pregare per i Successori degli Apostoli, per tutti i Vescovi e per i Successori di Pietro, affinché siano realmente insieme custodi della verità e della carità; affinché siano, in questo senso, realmente apostoli di Cristo, perché la sua luce, la luce della verità e della carità, non si spenga mai nella Chiesa e nel mondo.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:38

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 12 aprile 2006

  

Meditazione sul significato del Triduo Pasquale

Cari fratelli e sorelle,

inizia domani il Triduo pasquale, che è il fulcro dell'intero anno liturgico. Aiutati dai sacri riti del Giovedì Santo, del Venerdì Santo e della solenne Veglia Pasquale, rivivremo il mistero della passione, della morte e della risurrezione del Signore. Questi sono giorni atti a ridestare in noi un più vivo desiderio di aderire a Cristo e di seguirlo generosamente, consapevoli del fatto che Egli ci ha amati sino a dare la sua vita per noi. Cosa sono, in effetti, gli eventi che il Triduo santo ci ripropone, se non la manifestazione sublime di questo amore di Dio per l’uomo? Apprestiamoci, pertanto, a celebrare il Triduo pasquale accogliendo l’esortazione di sant’Agostino: “Ora considera attentamente i tre giorni santi della crocifissione, della sepoltura e della risurrezione del Signore. Di questi tre misteri compiamo nella vita presente ciò di cui è simbolo la croce, mentre compiamo per mezzo della fede e della speranza ciò di cui è simbolo la sepoltura e la risurrezione” (Epistola 55, 14, 24: Nuova Biblioteca Agostiniana (NBA), XXI/II, Roma 1969, p. 477).   

Il Triduo pasquale si apre domani, Giovedì Santo, con la Messa vespertina “in Cena Domini”, anche se al mattino normalmente si tiene un’altra significativa celebrazione liturgica, la Messa del Crisma, durante la quale, raccolto attorno al Vescovo, l’intero presbiterio di ogni Diocesi rinnova le promesse sacerdotali, e partecipa alla benedizione degli oli dei catecumeni, dei malati e del Crisma, e così faremo domani mattina anche qui, in San Pietro. Oltre all’istituzione del Sacerdozio, in questo giorno santo si commemora l’offerta totale che Cristo ha fatto di Sé all’umanità nel sacramento dell’Eucaristia. In quella stessa notte in cui fu tradito, Egli ci ha lasciato, come ricorda la Sacra Scrittura, il “comandamento nuovo” - “mandatum novum” - dell'amore fraterno compiendo il gesto toccante della lavanda dei piedi, che richiama l’umile servizio degli schiavi. Questa singolare giornata, evocatrice di grandi misteri, si chiude con l’Adorazione eucaristica, nel ricordo dell’agonia del Signore nell’orto del Getsemani. Preso da grande angoscia, narra il Vangelo, Gesù chiese ai suoi di vegliare con Lui rimanendo in preghiera: “Restate qui e vegliate con me" (Mt 26,38), ma i discepoli si addormentarono. Ancora oggi il Signore dice a noi: “Restate e vegliate con me”. E vediamo come anche noi, discepoli di oggi, spesso dormiamo. Quella fu per Gesù l’ora dell’abbandono e della solitudine, a cui seguì, nel cuore della notte, l’arresto e l’inizio del doloroso cammino verso il Calvario. 

Centrato sul mistero della Passione è il Venerdì Santo, giorno di digiuno e di penitenza, tutto orientato alla contemplazione di Cristo sulla Croce. Nelle chiese viene proclamato il racconto della Passione e risuonano le parole del profeta Zaccaria: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37). E il Venerdì Santo anche noi vogliamo realmente volgere lo sguardo al cuore trafitto del Redentore, nel quale - scrive san Paolo - sono “nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2,3), anzi “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9), per questo l’Apostolo può affermare con decisione di non voler sapere altro “se non Gesù Cristo e questi crocifisso” (1 Cor 2,2). E’ vero: la Croce rivela “l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” – le dimensioni cosmiche, questo è il senso - di un amore che sorpassa ogni conoscenza – l’amore va oltre quanto si conosce - e ci ricolma “di tutta la pienezza di Dio” (cfr Ef 3,18-19).Nel mistero del Crocifisso “si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma più radicale” (Deus caritas est, 12).La Croce di Cristo, scrive nel V° secolo il Papa san Leone Magno, “è sorgente di tutte le benedizioni, e causa di tutte le grazie” (Disc. 8 sulla passione del Signore, 6-8; PL 54, 340-342). 

Nel Sabato Santo la Chiesa, unendosi spiritualmente a Maria, resta in preghiera presso il sepolcro, dove il corpo del Figlio di Dio giace inerte come in una condizione di riposo dopo l’opera creativa della redenzione, realizzata con la sua morte (cfr Eb 4,1-13). A notte inoltrata inizierà la solenne Veglia pasquale, durante la quale in ogni Chiesa il canto gioioso del Gloria e dell’Alleluia pasquale si leverà dal cuore dei nuovi battezzati e dall’intera comunità cristiana, lieta perché Cristo è risorto e ha vinto la morte.  

Cari fratelli e sorelle, per una proficua celebrazione della Pasqua, la Chiesa chiede ai fedeli di accostarsi in questi giorni al sacramento della Penitenza, che è come una specie di morte e di risurrezione per ognuno di noi. Nell’antica comunità cristiana, il Giovedì Santo si teneva il rito della Riconciliazione dei Penitenti presieduto dal Vescovo. Le condizioni storiche sono certamente mutate, ma prepararsi alla Pasqua con una buona confessione resta un adempimento da valorizzare appieno, perché ci offre la possibilità di ricominciare di nuovo la nostra vita e di avere realmente un nuovo inizio nella gioia del Risorto e nella comunione del perdono datoci da Lui. Consapevoli di essere peccatori, ma fiduciosi nella misericordia divina, lasciamoci riconciliare da Cristo per gustare più intensamente la gioia che Egli ci comunica con la sua risurrezione.

Il perdono, che ci viene donato da Cristo nel sacramento della Penitenza, è sorgente di pace interiore ed esteriore e ci rende apostoli di pace in un mondo dove continuano purtroppo le divisioni, le sofferenze e i drammi dell’ingiustizia, dell’odio e della violenza, dell’incapacità di riconciliarsi per ricominciare di nuovo con un perdono sincero. Noi sappiamo però che il male non ha l'ultima parola, perché a vincere è Cristo crocifisso e risorto e il suo trionfo si manifesta con la forza dell’amore misericordioso. La sua risurrezione ci dà questa certezza: nonostante tutta l’oscurità che vi è nel mondo, il male non ha l’ultima parola. Sorretti da questa certezza potremo con più coraggio ed entusiasmo impegnarci perché nasca un mondo più giusto. 

Questo auspicio formulo di cuore per tutti voi, cari fratelli e sorelle, augurandovi di prepararvi con fede e devozione alle ormai prossime feste pasquali. Vi accompagniMaria Santissima che, dopo aver seguito il Figlio divino nell’ora della passione e della croce, ha condiviso il gaudio della sua risurrezione.   

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:39

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 aprile 2006

Meditazione sul significato della Pasqua

Cari fratelli e sorelle!

All’inizio dell’odierna Udienza generale, che si svolge nel clima gioioso della Pasqua, vorrei insieme a voi ringraziare il Signore, che dopo avermi chiamato esattamente un anno fa a servire la Chiesa come Successore dell’apostolo Pietro - grazie per la vostra gioia, grazie per la vostra acclamazione -, non manca di assistermi con il suo indispensabile aiuto. Come passa in fretta il tempo! È già trascorso un anno da quando, in maniera per me assolutamente inaspettata e sorprendente, i Cardinali riuniti in Conclave hanno voluto scegliere la mia persona per succedere al compianto e amato Servo di Dio, il grande Papa, Giovanni Paolo II. Ricordo con emozione il primo impatto che dalla Loggia centrale della Basilica ho avuto, subito dopo la mia povera elezione, con i fedeli raccolti in questa stessa Piazza.

Mi resta impresso nella mente e nel cuore quell’incontro al quale ne sono seguiti tanti altri, che mi hanno dato modo di sperimentare quanto sia vero ciò che ebbi a dire nel corso della solenne concelebrazione con la quale ho iniziato solennemente l’esercizio del ministero petrino: "Sento viva la consapevolezza di non dover portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo". E sempre più sento che da solo non potrei portare questo compito, questa missione. Ma sento anche come voi lo portiate con me: così sono in una grande comunione e insieme possiamo portare avanti la missione del Signore. Mi è di insostituibile sostegno la celeste protezione di Dio e dei santi, e mi conforta la vicinanza vostra, cari amici, che non mi fate mancare il dono della vostra indulgenza e del vostro amore. Grazie di vero cuore a tutti coloro che in vario modo mi affiancano da vicino o mi seguono da lontano spiritualmente con il loro affetto e la loro preghiera. A ciascuno chiedo di continuare a sostenermi pregando Iddio perché mi conceda di essere pastore mite e fermo della sua Chiesa.

Narra l’evangelista Giovanni che Gesù proprio dopo la sua resurrezione chiamò Pietro a prendersi cura del suo gregge (cfr Gv 21, 15 .23). Chi avrebbe potuto allora umanamente immaginare lo sviluppo che avrebbe contrassegnato nel corso dei secoli quel piccolo gruppo di discepoli del Signore? Pietro insieme agli apostoli e poi i loro successori, dapprima a Gerusalemme e in seguito sino agli ultimi confini della terra, hanno diffuso con coraggio il messaggio evangelico il cui nucleo fondamentale e imprescindibile è costituito dal Mistero pasquale: la passione, la morte, la risurrezione di Cristo. Questo mistero la Chiesa celebra a Pasqua, prolungandone la gioiosa risonanza nei giorni successivi; canta l’alleluja per il trionfo di Cristo sul male e sulla morte. "La celebrazione della Pasqua secondo una data del calendario – nota il Papa san Leone Magno – ci ricorda la festa eterna che supera ogni tempo umano". "La Pasqua attuale – egli nota ancora – è l’ombra della Pasqua futura. E’ per questo che la celebriamo per passare da una festa annuale a una festa che sarà eterna". La gioia di questi giorni si estende all’intero anno liturgico e si rinnova particolarmente la domenica, giorno dedicato al ricordo della resurrezione del Signore.

In essa, che è come la "piccola Pasqua" di ogni settimana, l’assemblea liturgica riunita per la Santa Messa proclama nel Credo che Gesù è risuscitato il terzo giorno, aggiungendo che noi aspettiamo "la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà". Si indica in tal modo che l’evento della morte e risurrezione di Gesù costituisce il centro della nostra fede ed è su quest’annuncio che si fonda e cresce la Chiesa. Ricorda in maniera incisiva sant’Agostino: «Consideriamo, carissimi, la Risurrezione di Cristo: infatti, come la sua Passione ha significato la nostra vita vecchia, così la sua risurrezione è sacramento di vita nuova…Hai creduto, sei stato battezzato: la vecchia vita è morta, uccisa nella croce, sepolta nel Battesimo. E’ stata sepolta la vecchia nella quale hai vissuto: risorga la nuova. Vivi bene: vivi così che tu viva, affinché quando sarai morto, tu non muoia» (Sermo Guelferb. 9, 3).

I racconti evangelici, che riferiscono le apparizioni del Risorto, si concludono abitualmente con l’invito a superare ogni incertezza, a confrontare l’evento con le Scritture, ad annunciare che Gesù, al di là della morte, è l’eterno vivente, fonte di vita nuova per tutti coloro che credono. Così avviene, ad esempio, nel caso di Maria Maddalena (cfr Gv 20,11-18), che scopre il sepolcro aperto e vuoto, e subito teme che il corpo del Signore sia stato portato via. Il Signore allora la chiama per nome, e a quel punto avviene in lei un profondo cambiamento: lo sconforto e il disorientamento si convertono in gioia ed entusiasmo. Con sollecitudine ella si reca dagli Apostoli e annunzia: «Ho visto il Signore» (Gv 20,18). Ecco: chi incontra Gesù risuscitato viene interiormente trasformato; non si può "vedere" il Risorto senza "credere" in lui. Preghiamolo affinché chiami ognuno di noi per nome e così ci converta, aprendoci alla "visione" della fede. La fede nasce dall’incontro personale con Cristo risorto, e diventa slancio di coraggio e di libertà che fa gridare al mondo: Gesù è risorto e vive per sempre. E’ questa la missione dei discepoli del Signore di ogni epoca e anche di questo nostro tempo: "Se siete risorti con Cristo – esorta san Paolo – cercate le cose di lassù… pensate alle cose di lassù, e non a quelle della terra" (Col 3,1-2).

Questo non vuol dire estraniarsi dagli impegni quotidiani, disinteressarsi delle realtà terrene; significa piuttosto ravvivare ogni umana attività come un respiro soprannaturale, significa farsi gioiosi annunciatori e testimoni della risurrezione di Cristo, vivente in eterno (cfr Gv 20,25; Lc 24,33-34).

Cari fratelli e sorelle, nella Pasqua del suo Figlio unigenito Dio rivela pienamente se stesso, la sua forza vittoriosa sulle forze della morte, la forza dell’Amore trinitario. La Vergine Maria, che è stata intimamente associata alla passione, morte e risurrezione del Figlio e ai piedi della Croce è diventata Madre di tutti i credenti, ci aiuti a comprendere questo mistero di amore che cambia i cuori e ci faccia pienamente gustare la gioia pasquale, per poter poi comunicarla a nostra volta agli uomini e alle donne del terzo millennio. 

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:41

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 26 aprile 2006

La comunione nel tempo: la Tradizione

Cari fratelli e sorelle,

grazie per il vostro affetto! Nella nuova serie di catechesi, iniziata poco tempo fa, cerchiamo di capire il disegno originario della Chiesa voluta dal Signore, per comprendere così meglio anche la nostra collocazione, la nostra vita cristiana, nella grande comunione della Chiesa. Finora abbiamo capito che la comunione ecclesiale è suscitata e sostenuta dallo Spirito Santo, custodita e promossa dal ministero apostolico. E questa comunione, che noi chiamiamo Chiesa, non si estende solo a tutti i credenti di un certo momento storico, ma abbraccia anche tutti i tempi e tutte le generazioni.

Quindi abbiamo una duplice universalità: l’universalità sincronica – siamo uniti con i credenti in tutte le parti del mondo – e anche una universalità cosiddetta diacronica, cioè: tutti i tempi appartengono a noi, anche i credenti del passato e i credenti del futuro formano con noi un’unica grande comunione. Lo Spirito appare come il garante della presenza attiva del mistero nella storia, Colui che ne assicura la realizzazione nel corso dei secoli.

Grazie al Paraclito l'esperienza del Risorto, fatta dalla comunità apostolica alle origini della Chiesa, potrà sempre essere vissuta dalle generazioni successive, in quanto trasmessa e attualizzata nella fede, nel culto e nella comunione del Popolo di Dio, pellegrino nel tempo. E così noi adesso, nel tempo pasquale, viviamo l’incontro con il Risorto, non solo come una cosa del passato, ma nella comunione presente della fede, della liturgia, della vita della Chiesa. In questa trasmissione dei beni della salvezza, che fa della comunità cristiana l'attualizzazione permanente, nella forza dello Spirito, della comunione originaria, consiste la Tradizione apostolica della Chiesa. Essa è detta così perché è nata dalla testimonianza degli Apostoli e della comunità dei discepoli al tempo delle origini, è stata consegnata sotto la guida dello Spirito Santo negli scritti del Nuovo Testamento e nella vita sacramentale, nella vita della fede, e ad essa – a questa Tradizione, che è tutta la realtà sempre attuale del dono di Gesù -  la Chiesa continuamente si riferisce come al suo fondamento e alla sua norma attraverso la successione ininterrotta del ministero apostolico.

Gesù, ancora nella sua vita storica, limitava la sua missione alla casa d'Israele, ma faceva già capire che il dono era destinato non solo al popolo d’Israele, ma a tutto il mondo e a tutti i tempi. Il Risorto affida, poi, esplicitamente agli Apostoli (cfr Lc 6,13) il compito di fare discepole tutte le nazioni, garantendo la sua presenza e il suo aiuto fino alla fine dei tempi (cfr Mt 28,19s). L'universalismo della salvezza richiede, peraltro, che il memoriale della Pasqua sia celebrato senza interruzione nella storia fino al ritorno glorioso del Cristo (cfr 1 Cor 11,26). Chi attualizzerà la presenza salvifica del Signore Gesù mediante il ministero degli apostoli - capi dell'Israele escatologico (cfr Mt 19,28) - e attraverso l'intera vita del popolo della nuova alleanza? La risposta è chiara: lo Spirito Santo. Gli Atti degli Apostoli - in continuità col disegno del Vangelo di Luca - presentano dal vivo la compenetrazione fra lo Spirito, gli inviati di Cristo e la comunità da essi radunata. Grazie all’azione del Paraclito gli Apostoli e i loro successori possono realizzare nel tempo la missione ricevuta dal Risorto: “Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso...” (Lc 24,48s.).

“Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). E questa promessa, all’inizio incredibile, si è realizzata già nel tempo degli Apostoli: “Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui” (At 5,32).

E’ dunque lo Spirito stesso che, mediante l'imposizione delle mani e la preghiera degli Apostoli, consacra e invia i nuovi missionari del Vangelo (così, ad esempio, in At 13,3s. e 1 Tm 4,14). E’ interessante osservare che, mentre in alcuni passi si dice che Paolo stabilisce i presbiteri nelle Chiese (cfr At 14,23), altrove si afferma che è lo Spirito a costituire i pastori del gregge (cfr At 20,28). L'azione dello Spirito e quella di Paolo risultano così profondamente compenetrate. Nell'ora delle decisioni solenni per la vita della Chiesa, lo Spirito è presente per guidarla. Questa presenza-guida dello Spirito Santo si sente particolarmente nel Concilio di Gerusalemme, nelle cui parole conclusive risuona l’affermazione:  “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi...” (At 15,28); la Chiesa cresce e cammina “nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo” (At 9,31).

Questa permanente attualizzazione della presenza attiva di Gesù Signore nel suo popolo, operata dallo Spirito Santo ed espressa nella Chiesa attraverso il ministero apostolico e la comunione fraterna, è ciò che in senso teologico s'intende col termine Tradizione: essa non è la semplice trasmissione materiale di quanto fu donato all'inizio agli Apostoli, ma la presenza efficace del Signore Gesù, crocefisso e risorto, che accompagna e guida nello Spirito la comunità da lui radunata.

La Tradizione è la comunione dei fedeli intorno ai legittimi Pastori nel corso della storia, una comunione che lo Spirito Santo alimenta assicurando il collegamento fra l'esperienza della fede apostolica, vissuta nell'originaria comunità dei discepoli, e l'esperienza attuale del Cristo nella sua Chiesa. In altre parole, la Tradizione è la continuità organica della Chiesa, Tempio santo di Dio Padre, eretto sul fondamento degli Apostoli e tenuto insieme dalla pietra angolare, Cristo, mediante l’azione vivificante dello Spirito: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,19-22). Grazie alla Tradizione, garantita dal ministero degli Apostoli e dei loro successori, l’acqua della vita scaturita dal costato di Cristo e il suo sangue salutare raggiungono le donne e gli uomini di tutti i tempi. Così, la Tradizione è la presenza permanente del Salvatore che viene a incontrarci, redimerci e santificarci nello Spirito mediante il ministero della sua Chiesa, a gloria del Padre.

Concludendo e riassumendo, possiamo dunque dire che la Tradizione non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. Il grande fiume che ci conduce al porto dell’eternità. Ed essendo così, in questo fiume vivo si realizza sempre di nuovo la parola del Signore, che abbiamo sentito all’inizio dalle labbra del lettore: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:46

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 3 maggio 2006

La Tradizione Apostolica

Cari fratelli e sorelle,

in queste Catechesi vogliamo un po’ capire che cosa sia la Chiesa. L’ultima volta abbiamo meditato sul tema della Tradizione apostolica. Abbiamo visto che essa non è una collezione di cose, di parole, come una scatola di cose morte; la Tradizione è il fiume della vita nuova che viene dalle origini, da Cristo fino a noi, e ci coinvolge nella storia di Dio con l’umanità. Questo tema della Tradizione è così importante che vorrei ancora oggi soffermarmi su di esso: è infatti di grande rilievo per la vita della Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha rilevato, al riguardo, che la Tradizione è apostolica anzitutto nelle sue origini: “Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni.
 
Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta la rivelazione del sommo Dio (cfr 2 Cor 1,20 e 3,16-4,6), ordinò agli Apostoli di predicare a tutti, comunicando loro i doni divini, il Vangelo come fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale” (Cost. dogm. Dei Verbum, 7). Il Concilio prosegue annotando come tale impegno sia stato fedelmente eseguito “dagli Apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalle labbra di Cristo, dal vivere insieme con Lui e dalle sue opere, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo” (ibid.). Con gli Apostoli, aggiunge il Concilio, collaborarono anche “uomini della loro cerchia, i quali, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, misero in iscritto l'annunzio della salvezza” (ibid.).

Capi dell'Israele escatologico, anch’essi dodici quante erano le tribù del popolo eletto, gli Apostoli continuano la “raccolta” iniziata dal Signore, e lo fanno anzitutto trasmettendo fedelmente il dono ricevuto, la buona novella del Regno venuto agli uomini in Gesù Cristo. Il loro numero esprime non solo la continuità con la santa radice, l’Israele delle dodici tribù, ma anche la destinazione universale del loro ministero, apportatore di salvezza fino agli estremi confini della terra. Lo si può cogliere dal valore simbolico che hanno i numeri nel mondo semitico: dodici risulta dalla moltiplicazione di tre, numero perfetto, e quattro, numero che rinvia ai quattro punti cardinali, e dunque al mondo intero.

La comunità, nata dall’annuncio evangelico, si riconosce convocata dalla parola di coloro che per primi hanno fatto esperienza del Signore e da Lui sono stati inviati. Essa sa di poter contare sulla guida dei Dodici, come anche su quella di coloro che essi via via si associano come successori nel ministero della Parola e nel servizio alla comunione. Di conseguenza, la comunità si sente impegnata a trasmettere ad altri la “lieta notizia” della presenza attuale del Signore e del suo mistero pasquale, operante nello Spirito. Lo si vede ben evidenziato in alcuni passi dell’epistolario paolino: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto” (1 Cor 15,3). E questo è importante. San Paolo, si sa, originariamente chiamato da Cristo con una vocazione personale, è un vero Apostolo e tuttavia anche per lui conta fondamentalmente la fedeltà a quanto ha ricevuto. Egli non voleva “inventare” un nuovo cristianesimo, per così dire, “paolino”. Insiste perciò: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto”.

Ha trasmesso il dono iniziale che viene dal Signore ed è la verità che salva. Poi, verso la fine della vita, scrive a Timoteo: “Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi” (2 Tm 1,14). Lo mostra con efficacia anche questa antica testimonianza della fede cristiana, scritta da Tertulliano verso l’anno 200: “(Gli Apostoli) sul principio affermarono la fede in Gesù Cristo e stabilirono Chiese per la Giudea e subito dopo, sparsi per il mondo, annunziarono la medesima dottrina e una medesima fede alle nazioni e quindi fondarono Chiese presso ogni città. Da queste poi le altre Chiese mutuarono la propaggine della loro fede e i semi della dottrina, e continuamente la mutuano per essere appunto Chiese. In questa maniera anche esse sono ritenute apostoliche come discendenza delle Chiese degli apostoli” (De praescriptione haereticorum, 20: PL 2,32).

Il Concilio Vaticano II commenta: “Ciò che fu trasmesso dagli Apostoli comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa e all'incremento della fede del Popolo di Dio. Così la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede” (Cost. Dei Verbum, 8). La Chiesa trasmette tutto ciò che è e che crede, lo trasmette nel culto, nella vita, nella dottrina. La Tradizione è dunque il Vangelo vivo, annunciato dagli Apostoli nella sua integrità, in base alla pienezza della loro esperienza unica e irripetibile: per opera loro la fede viene comunicata agli altri, fino a noi, fino alla fine del mondo. La Tradizione, pertanto, è la storia dello Spirito che agisce nella storia della Chiesa attraverso la mediazione degli Apostoli e dei loro successori, in fedele continuità con l’esperienza delle origini. E’ quanto precisa il Papa san Clemente Romano verso la fine del I secolo: “Gli Apostoli - egli scrive - ci annunziarono il Vangelo inviati dal Signore Gesù Cristo, Gesù Cristo fu mandato da Dio. Cristo viene dunque da Dio, gli Apostoli da Cristo: entrambi procedono ordinatamente dalla volontà di Dio… I nostri Apostoli vennero a conoscenza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo che sarebbero sorte contese intorno alla funzione episcopale. Perciò, prevedendo perfettamente l'avvenire, stabilirono gli eletti e diedero quindi loro l'ordine, affinché alla loro morte altri uomini provati assumessero il loro servizio” (Ad Corinthios, 42.44: PG 1,292.296).

Questa catena del servizio continua fino ad oggi, continuerà fino alla fine del mondo. Infatti il mandato conferito da Gesù agli Apostoli è stato da essi trasmesso ai loro successori. Al di là dell'esperienza del contatto personale col Cristo, esperienza unica e irripetibile, gli Apostoli hanno trasmesso ai successori l’invio solenne nel mondo ricevuto dal Maestro. Apostolo viene precisamente dal termine greco “apostéllein”, che vuol dire inviare. L’invio apostolico - come mostra il testo di Mt 28,19s - implica un servizio pastorale (“fate discepole tutte le nazioni...”), liturgico (“battezzandole...”) e profetico (“insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato”), garantito dalla vicinanza del Signore fino alla consumazione del tempo (“ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”). Così, in un modo diverso dagli Apostoli, abbiamo anche noi una vera e personale esperienza della presenza del Signore risorto. Attraverso il ministero apostolico è così Cristo stesso a raggiungere chi è chiamato alla fede. La distanza dei secoli è superata e il Risorto si offre vivo e operante per noi, nell’oggi della Chiesa e del mondo. Questa è la nostra grande gioia.

Nel fiume vivo della Tradizione Cristo non è distante duemila anni, ma è realmente presente tra noi e ci dona la Verità, ci dona la luce che ci fa vivere e trovare la strada verso il futuro.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:48

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 10 maggio 2006

La successione apostolica

Cari fratelli e sorelle,

nelle ultime due udienze abbiamo meditato su che cosa sia la Tradizione nella Chiesa e abbiamo visto che essa è la presenza permanente della parola e della vita di Gesù nel suo popolo. Ma la parola, per essere presente, ha bisogno di una persona, di un testimone. E così nasce questa reciprocità: da una parte, la parola ha bisogno della persona, ma, dall’altra, la persona, il testimone, è legato alla parola che a lui è affidata e non da lui inventata.  Questa reciprocità tra contenuto – parola di Dio, vita del Signore – e persona che la porta avanti è caratteristica della struttura della Chiesa, e oggi vogliamo meditare questo aspetto personale della Chiesa.

Il Signore lo aveva iniziato convocando, come abbiamo visto, i Dodici, nei quali era rappresentato il futuro Popolo di Dio. Nella fedeltà al mandato ricevuto dal Signore, i Dodici dapprima, dopo la sua Ascensione, integrano il loro numero con l'elezione di Mattia al posto di Giuda (cfr At 1,15-26), quindi associano progressivamente altri nelle funzioni loro affidate, perché continuino il loro ministero. Il Risorto stesso chiama Paolo (cfr Gal 1,1), ma Paolo, pur chiamato dal Signore come Apostolo, confronta il suo Vangelo con il Vangelo dei Dodici (cfr ivi 1,18), si preoccupa di trasmettere ciò che ha ricevuto (cfr 1 Cor 11,23; 15,3-4) e nella distribuzione dei compiti missionari viene associato agli Apostoli, insieme con altri, per esempio con Barnaba (cfr Gal 2,9). Come all'inizio della condizione di apostolo c'è una chiamata ed un invio del Risorto, così la successiva chiamata ed invio di altri avverrà, nella forza dello Spirito, ad opera di chi è già costituito nel ministero apostolico. E’ questa la via per la quale continuerà tale ministero, che poi, cominciando dalla seconda generazione, si chiamerà ministero episcopale, “episcopé”.

Forse è utile spiegare brevemente che cosa vuol dire vescovo. E’ la forma italiana della parola greca “epíscopos”. Questa parola indica uno che ha una visione dall’alto, uno che guarda con il cuore. Così san Pietro stesso, nella sua prima Lettera, chiama il Signore Gesù “pastore e guardiano delle vostre anime” (2,25).

E secondo questo modello del Signore, che è il primo vescovo, guardiano e pastore delle anime, i successori degli Apostoli si sono poi chiamati vescovi, “epíscopoi”. E’ loro affidata la funzione dell’“episcopé”. Questa precisa funzione del vescovo si evolverà progressivamente, rispetto agli inizi, fino ad assumere la forma - già chiaramente attestata in Ignazio di Antiochia agli inizi del II secolo (cfr Ad Magnesios, 6,1: PG 5,668) - del triplice ufficio di vescovo, presbitero e diacono. E' uno sviluppo guidato dallo Spirito di Dio, che assiste la Chiesa nel discernimento delle forme autentiche della successione apostolica, sempre meglio definite tra una pluralità di esperienze e di forme carismatiche e ministeriali, presenti nelle comunità delle origini.

Così, la successione nella funzione episcopale si presenta come continuità del ministero apostolico, garanzia della perseveranza nella Tradizione apostolica,  parola e vita, affidataci dal Signore. Il legame fra il Collegio dei Vescovi e la comunità originaria degli Apostoli è inteso innanzitutto nella linea della continuità storica. Come abbiamo visto, ai Dodici viene associato prima Mattia, poi Paolo, poi Barnaba, poi altri, fino alla formazione, nella seconda e terza generazione, del ministero del vescovo. Quindi la continuità si esprime in questa catena storica. E nella continuità della successione sta la garanzia del perseverare, nella comunità ecclesiale, del Collegio apostolico raccolto intorno a sé da Cristo. Ma questa continuità, che vediamo prima nella continuità storica dei ministri, è da intendere anche in senso spirituale, perché la successione apostolica nel ministero viene considerata come luogo privilegiato dell'azione e della trasmissione dello Spirito Santo.

Una chiara eco di queste convinzioni la si ha, ad esempio, nel seguente testo di Ireneo di Lione (seconda metà del II sec.): “La tradizione degli Apostoli, manifesta in tutto quanto il mondo, si mostra in ogni Chiesa a tutti coloro che vogliono vedere la verità e noi possiamo enumerare i vescovi stabiliti dagli Apostoli nelle Chiese e i loro successori fino a noi…  (Gli Apostoli) vollero infatti che fossero assolutamente perfetti e irreprensibili in tutto coloro che lasciavano come successori, trasmettendo loro la propria missione di insegnamento. Se essi avessero capito correttamente, ne avrebbero ricavato grande profitto; se invece fossero falliti, ne avrebbero ricavato un danno grandissimo” (Adversus haereses, III, 3,1: PG 7,848).

Ireneo, poi, indicando qui questa rete della successione apostolica come garanzia del perseverare nella parola del Signore, si concentra su quella Chiesa “somma ed antichissima ed a tutti nota” che è stata “fondata e costituita in Roma dai gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo”, dando rilievo alla Tradizione della fede, che in essa giunge fino a noi dagli Apostoli mediante le successioni dei vescovi. In tal modo, per Ireneo e per la Chiesa universale, la successione episcopale della Chiesa di Roma diviene il segno, il criterio e la garanzia della trasmissione ininterrotta della fede apostolica: “A questa Chiesa, per la sua peculiare principalità (propter potiorem principalitatem), è necessario che convenga ogni Chiesa, cioè i fedeli dovunque sparsi, poiché in essa la tradizione degli Apostoli è stata sempre conservata...” (Adversus haereses, III, 3, 2: PG 7,848).

La successione apostolica - verificata sulla base della comunione con quella della Chiesa di Roma - è dunque il criterio della permanenza delle singole Chiese nella Tradizione della comune fede apostolica, che attraverso questo canale è potuta giungere fino a noi dalle origini: “Con questo ordine e con questa successione è giunta fino a noi la tradizione che è nella Chiesa a partire dagli Apostoli e la predicazione della verità. E questa è la prova più completa che una e medesima è la fede vivificante degli Apostoli, che è stata conservata e trasmessa nella verità” (ib., III, 3, 3: PG 7,851).

Secondo queste testimonianze della Chiesa antica, l'apostolicità della comunione ecclesiale consiste nella fedeltà all’insegnamento e alla prassi degli Apostoli, attraverso i quali viene assicurato il legame storico e spirituale della Chiesa con Cristo. La successione apostolica del ministero episcopale è la via che garantisce la fedele trasmissione della testimonianza apostolica. Quello che rappresentano gli Apostoli nel rapporto fra il Signore Gesù e la Chiesa delle origini, lo rappresenta analogamente la successione ministeriale nel rapporto fra la Chiesa delle origini e la Chiesa attuale.

Non è una semplice concatenazione materiale; è piuttosto lo strumento storico di cui si serve lo Spirito per rendere presente il Signore Gesù, Capo del suo popolo, attraverso quanti sono ordinati per il ministero attraverso l'imposizione delle mani e la preghiera dei vescovi. Mediante la successione apostolica è allora Cristo che ci raggiunge: nella parola degli Apostoli e dei loro successori è Lui a parlarci; mediante le loro mani è Lui che agisce nei sacramenti; nel loro sguardo è il suo sguardo che ci avvolge e ci fa sentire amati, accolti nel cuore di Dio. E anche oggi, come all’inizio, Cristo stesso è il vero pastore e guardiano delle nostre anime, che noi seguiamo con grande fiducia, gratitudine e gioia.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:53

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 17 maggio 2006

Pietro, il pescatore

Cari fratelli e sorelle,

nella nuova serie di catechesi abbiamo innanzitutto cercato di capire meglio che cosa sia la Chiesa, quale sia l’idea del Signore circa questa sua nuova famiglia. Poi abbiamo detto che la Chiesa esiste nelle persone. E abbiamo visto che il Signore ha affidato questa nuova realtà, la Chiesa, ai dodici Apostoli. Adesso vogliamo vederli uno ad uno, per capire nelle persone che cosa sia vivere la Chiesa, che cosa sia seguire Gesù. Cominciamo con san Pietro.

Dopo Gesù, Pietro è il personaggio più noto e citato negli scritti neotestamentari: viene menzionato 154 volte con il soprannome di Pétros, “pietra”, “roccia”, che è traduzione greca del nome aramaico datogli direttamente da Gesù Kefa, attestato 9 volte soprattutto nelle lettere di Paolo; si deve poi aggiungere il frequente nome Simòn (75 volte), che è forma grecizzata del suo originale nome ebraico Simeòn (2 volte: At 15,14; 2 Pt 1,1).

Figlio di Giovanni (cfr Gv 1,42) o, nella forma aramaica, bar-Jona, figlio di Giona (cfr Mt 16,17), Simone era di Betsaida (cfr Gv 1,44), una cittadina a oriente del mare di Galilea, da cui veniva anche Filippo e naturalmente Andrea, fratello di Simone. La sua parlata tradiva l’accento galilaico. Anch’egli, come il fratello, era pescatore: con la famiglia di Zebedeo, padre di Giacomo e Giovanni, conduceva una piccola azienda di pesca sul lago di Genezaret (cfr Lc 5,10). Doveva perciò godere di una certa agiatezza economica ed era animato da un sincero interesse religioso, da un desiderio di Dio – egli desiderava che Dio intervenisse nel mondo – un desiderio che lo spinse a recarsi col fratello fino in Giudea per seguire la predicazione di Giovanni il Battista (Gv 1,35-42).

Era un ebreo credente e osservante, fiducioso nella presenza operante di Dio nella storia del suo popolo, e addolorato per non vederne l’azione potente nelle vicende di cui egli era, al presente, testimone. Era sposato e la suocera, guarita un giorno da Gesù, viveva nella città di Cafarnao, nella casa in cui anche Simone alloggiava quando era in quella città (cfr Mt 8,14s; Mc 1,29ss; Lc 4,38s). Recenti scavi archeologici hanno consentito di portare alla luce, sotto il pavimento a mosaico ottagonale di una piccola Chiesa bizantina, le tracce di una chiesa più antica sistemata in quella casa, come attestano i graffiti con invocazioni a Pietro. I Vangeli ci informano che Pietro è tra i primi quattro discepoli del Nazareno (cfr Lc 5,1-11), ai quali se ne aggiunge un quinto, secondo il costume di ogni Rabbi di avere cinque discepoli (cfr Lc 5,27: chiamata di Levi). Quando Gesù passerà da cinque a dodici discepoli (cfr Lc 9,1-6), sarà chiara la novità della sua missione: Egli non è uno dei tanti rabbini, ma è venuto a radunare l’Israele escatologico, simboleggiato dal numero dodici, quante erano le tribù d’Israele.

Simone appare nei Vangeli con un carattere deciso e impulsivo; egli è disposto a far valere le proprie ragioni anche con la forza (si pensi all’uso della spada nell’Orto degli Ulivi: cfr Gv 18,10s). Al tempo stesso, è a volte anche ingenuo e pauroso, e tuttavia onesto, fino al pentimento più sincero (cfr Mt 26,75). I Vangeli consentono di seguirne passo passo l’itinerario spirituale. Il punto di partenza è la chiamata da parte di Gesù.

Avviene in un giorno qualsiasi, mentre Pietro è impegnato nel suo lavoro di pescatore. Gesù si trova presso il lago di Genèsaret e la folla gli fa ressa intorno per ascoltarlo. Il numero degli ascoltatori crea un certo disagio. Il Maestro vede due barche ormeggiate alla sponda; i pescatori sono scesi e lavano le reti. Egli chiede allora di salire sulla barca, quella di Simone, e lo prega di scostarsi da terra. Sedutosi su quella cattedra improvvisata, si mette ad ammaestrare le folle dalla barca (cfr Lc 5,1-3). E così la barca di Pietro diventa la cattedra di Gesù. Quando ha finito di parlare, dice a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca». Simone risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,4-5). Gesù, che era un falegname, non era un esperto di pesca: eppure Simone il pescatore si fida di questo Rabbi, che non gli dà risposte ma lo chiama ad affidarsi. La sua reazione davanti alla pesca miracolosa è quella dello stupore e della trepidazione: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore» (Lc 5,8). Gesù risponde invitandolo alla fiducia e ad aprirsi ad un progetto che oltrepassa ogni sua prospettiva: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10).
 
Pietro non poteva ancora immaginare che un giorno sarebbe arrivato a Roma e sarebbe stato qui “pescatore di uomini” per il Signore. Egli accetta questa chiamata sorprendente, di lasciarsi coinvolgere in questa grande avventura: è generoso, si riconosce limitato, ma crede in colui che lo chiama e insegue il sogno del suo cuore. Dice di sì – un sì coraggioso e generoso -, e diventa discepolo di Gesù.

Un altro momento significativo nel suo cammino spirituale Pietro lo vivrà nei pressi di Cesarea di Filippo, quando Gesù pone ai discepoli una precisa domanda: «Chi dice la gente che io sia?» (Mc 8,27). A Gesù però non basta la risposta del sentito dire. Da chi ha accettato di coinvolgersi personalmente con Lui vuole una presa di posizione personale. Perciò incalza: «E voi chi dite che io sia?» (Mc 8,29). E’ Pietro a rispondere per conto anche degli altri: «Tu sei il Cristo» (ibid.), cioè il Messia. Questa risposta di Pietro, che non venne “dalla carne e dal sangue” di lui, ma gli fu donata dal Padre che sta nei cieli (cfr Mt 16,17), porta in sé come in germe la futura confessione di fede della Chiesa. Tuttavia Pietro non aveva ancora capito il profondo contenuto della missione messianica di Gesù, il nuovo senso di questa parola: Messia. Lo dimostra poco dopo, lasciando capire che il Messia che sta inseguendo nei suoi sogni è molto diverso dal vero progetto di Dio. Davanti all’annuncio della passione si scandalizza e protesta, suscitando la vivace reazione di Gesù (cfr Mc 8, 32-33).

Pietro vuole un Messia “uomo divino”, che compia le attese della gente imponendo a tutti la sua potenza: è anche il desiderio nostro che il Signore imponga la sua potenza e trasformi subito il mondo; Gesù si presenta come il “Dio umano”, il servo di Dio, che sconvolge le aspettative della folla prendendo un cammino di umiltà e di sofferenza. È la grande alternativa, che anche noi dobbiamo sempre imparare di nuovo: privilegiare le proprie attese respingendo Gesù o accogliere Gesù nella verità della sua missione e accantonare le attese troppo umane. Pietro - impulsivo com’è - non esita a prendere Gesù in disparte e a rimproverarlo.

La risposta di Gesù fa crollare tutte le sue false attese, mentre lo richiama alla conversione e alla sequela: «Rimettiti dietro di me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Non indicarmi tu la strada, io prendo la mia strada e tu rimettiti dietro di me.

Pietro impara così che cosa significa veramente seguire Gesù. È la sua seconda chiamata, analoga a quella di Abramo in Gn 22, dopo quella di Gn 12: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8,34-35). È la legge esigente della sequela: bisogna saper rinunciare, se necessario, al mondo intero per salvare i veri valori, per salvare l’anima, per salvare la presenza di Dio nel mondo (cfr Mc 8,36-37). Anche se con fatica, Pietro accoglie l’invito e prosegue il suo cammino sulle orme del Maestro.

E mi sembra che queste diverse conversioni di san Pietro e tutta la sua figura siano una grande consolazione e un grande insegnamento per noi. Anche noi abbiamo desiderio di Dio, anche noi vogliamo essere generosi, ma anche noi ci aspettiamo che Dio sia forte nel mondo e trasformi subito il mondo secondo le nostre idee, secondo i bisogni che noi vediamo. Dio sceglie un’altra strada. Dio sceglie la via della trasformazione dei cuori nella sofferenza e nell’umiltà. E noi, come Pietro, sempre di nuovo dobbiamo convertirci.

Dobbiamo seguire Gesù e non precederlo: è Lui che ci mostra la via. Così Pietro ci dice: Tu pensi di avere la ricetta e di dover trasformare il cristianesimo, ma è il Signore che conosce la strada. E’ il Signore che dice a me, che dice a te: seguimi! E dobbiamo avere il coraggio e l’umiltà di seguire Gesù, perché Egli è la Via, la Verità e la Vita.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:56

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 24 maggio 2006

Pietro, l’apostolo

Cari fratelli e sorelle,

in queste catechesi stiamo meditando sulla Chiesa. Abbiamo detto che la Chiesa vive nelle persone e perciò, nell’ultima catechesi, abbiamo cominciato a meditare sulle figure dei singoli Apostoli, iniziando da san Pietro. Abbiamo visto due tappe decisive della sua vita: la chiamata presso il lago di Galilea e poi la confessione di fede: “Tu sei il Cristo, il Messia”. Una confessione, abbiamo detto, ancora insufficiente, iniziale e tuttavia aperta. San Pietro si pone in un cammino di sequela. E così questa confessione iniziale porta in sé, come in germe, già la futura fede della Chiesa. Oggi vogliamo considerare altri due avvenimenti importanti nella vita di san Pietro: la moltiplicazione dei pani – abbiamo sentito nel brano ora letto  la domanda del Signore e la risposta di Pietro – e poi il Signore che chiama Pietro ad essere pastore della Chiesa universale. 

Cominciamo con la vicenda della moltiplicazione dei pani. Voi sapete che il popolo aveva ascoltato il Signore per ore. Alla fine Gesù dice: Sono stanchi, hanno fame, dobbiamo dare da mangiare a questa gente. Gli Apostoli domandano: Ma come? E Andrea, il fratello di Pietro, attira l’attenzione di Gesù su di un ragazzo che portava con sé cinque pani e due pesci. Ma che sono per tante persone, si chiedono gli Apostoli. Ma il Signore fa sedere la gente e distribuire questi cinque pani e due pesci. E tutti si saziano. Anzi, il Signore incarica gli Apostoli, e tra loro Pietro, di raccogliere gli abbondanti avanzi: dodici canestri di pane (cfr Gv 6,12-13).

Successivamente la gente, vedendo questo miracolo – che sembra essere il rinnovamento, così atteso, di una nuova “manna”, del dono del pane dal cielo – vuole farne il proprio re. Ma Gesù non accetta e si ritira sulla montagna a pregare tutto solo. Il giorno dopo, Gesù sull’altra riva del lago, nella sinagoga di Cafarnao, interpretò il miracolo – non nel senso di una regalità su Israele con un potere di questo mondo nel modo sperato dalla folla, ma nel senso del dono di sé: “Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Gesù annuncia la croce e con la croce la vera moltiplicazione dei pani, il pane eucaristico – il suo modo assolutamente nuovo di essere re, un modo totalmente contrario alle aspettative della gente.

Noi possiamo capire che queste parole del Maestro – che non vuol compiere ogni giorno una moltiplicazione dei pani, che non vuol offrire ad Israele un potere di questo mondo - risultassero veramente difficili, anzi inaccettabili, per la gente. “Dà la sua carne”: che cosa vuol dire questo? E anche per i discepoli appare inaccettabile quanto Gesù dice in questo momento. Era ed è per il nostro cuore, per la nostra mentalità, un discorso “duro” che mette alla prova la fede (cfr Gv 6,60). Molti dei discepoli si tirarono indietro. Volevano uno che rinnovasse realmente lo Stato di Israele, del suo popolo, e non uno che diceva: “Io do la mia carne”.  Possiamo immaginare che le parole di Gesù fossero difficili anche per Pietro, che a Cesarea di Filippo si era opposto alla profezia della croce. E tuttavia quando Gesù chiese ai Dodici: “Volete andarvene anche voi?”, Pietro reagì con lo slancio del suo cuore generoso, guidato dallo Spirito Santo. A nome di tutti rispose con parole immortali, che sono anche le nostre parole: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (cfr Gv 6,66-69).

Qui, come a Cesarea, con le sue parole Pietro inizia la confessione della fede cristologica della Chiesa e diventa la bocca anche degli altri Apostoli e di noi credenti di tutti i tempi. Ciò non vuol dire che avesse già capito il mistero di Cristo in tutta la sua profondità. La sua era ancora una fede iniziale, una fede in cammino; sarebbe arrivato alla vera pienezza solo mediante l’esperienza degli avvenimenti pasquali. Ma tuttavia era già fede, aperta alla realtà più grande – aperta soprattutto perché non era fede in qualcosa, era fede in Qualcuno: in Lui, Cristo. Così anche la nostra fede è sempre una fede iniziale e dobbiamo compiere ancora un grande cammino. Ma è essenziale che sia una fede aperta e che ci lasciamo guidare da Gesù, perché Egli non soltanto conosce la Via, ma è la Via.

La generosità irruente di Pietro non lo salvaguarda, tuttavia, dai rischi connessi con l’umana debolezza. E’ quanto, del resto, anche noi possiamo riconoscere sulla base della nostra vita. Pietro ha seguito Gesù con slancio, ha superato la prova della fede, abbandonandosi a Lui. Viene tuttavia il momento in cui anche lui cede alla paura e cade: tradisce il Maestro (cfr Mc 14,66-72). La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.

In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. E’ l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone... mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô-se) incondizionatamente”. Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (filô-se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”.
Il Cristo insiste: “Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?”. E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: “Kyrie, filô-se”, “Signore, ti voglio bene come so voler bene”. Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: “Fileîs-me?”, “mi vuoi bene?”. Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)”. Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Gv 21,19).

Da quel giorno Pietro ha “seguito” il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta. E’ stato per Pietro un lungo cammino che lo ha reso un testimone affidabile, “pietra” della Chiesa, perché costantemente aperto all’azione dello Spirito di Gesù. Pietro stesso si qualificherà come “testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi” (1 Pt 5,1).

Quando scriverà queste parole sarà ormai anziano, avviato verso la conclusione della sua vita che sigillerà con il martirio. Sarà in grado, allora, di descrivere la gioia vera e di indicare dove essa può essere attinta: la sorgente è Cristo creduto e amato con la nostra debole ma sincera fede, nonostante la nostra fragilità. Perciò scriverà ai cristiani della sua comunità, e lo dice anche a noi: “Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime” (1 Pt 1,8-9).

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:58

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 31 maggio 2006

Viaggio apostolico in Polonia

Cari fratelli e sorelle,

desidero quest’oggi ripercorrere, insieme con voi, le tappe del viaggio apostolico che ho potuto compiere nei giorni scorsi in Polonia. Ringrazio l’Episcopato polacco, in particolare gli Arcivescovi Metropoliti di Varsavia e di Cracovia, per lo zelo e la cura con cui hanno preparato questa visita. Rinnovo l’espressione della mia riconoscenza al Presidente della Repubblica e alle diverse Autorità del Paese, come pure a tutti coloro che hanno cooperato alla riuscita di questo evento. Soprattutto voglio dire un grande “grazie” ai cattolici e all’intero popolo polacco, che ho sentito stringersi a me in un abbraccio ricco di calore umano e spirituale. E molti di voi lo hanno visto in televisione. Esso era una vera espressione della cattolicità, dell’amore alla Chiesa, che si esprime nell’amore per il Successore di Pietro.

Dopo l’arrivo all’aeroporto di Varsavia, è stata la Cattedrale di questa importante metropoli il luogo del mio primo appuntamento riservato ai sacerdoti nel giorno stesso in cui ricorreva il 50° di Ordinazione presbiterale del Cardinale Józef Glemp, Pastore di quella Arcidiocesi. Così il mio pellegrinaggio è iniziato nel segno del sacerdozio ed è poi proseguito con una testimonianza di sollecitudine ecumenica, resa nella chiesa luterana della Santissima Trinità. Nell’occasione, unito con i rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali che vivono in Polonia, ho ribadito il fermo proposito di considerare l’impegno per la ricostituzione della piena e visibile unità tra i cristiani una vera priorità del mio ministero. Vi è stata poi la solenne Eucaristia in Piazza Piłsudski, gremita di gente, nel centro di Varsavia. Questo luogo, dove abbiamo celebrato solennemente e con gioia l’Eucaristia, ha acquistato ormai un valore simbolico, avendo ospitato eventi storici come le Sante Messe celebrate da Giovanni Paolo II e quella per i funerali del Cardinale Primate Stefan Wyszyński, nonché alcune affollatissime celebrazioni di suffragio nei giorni dopo la morte del mio venerato Predecessore.

Nel programma non poteva mancare la visita ai Santuari che hanno segnato la vita del sacerdote e vescovo Karol Wojtyła; soprattutto tre: quelli di Częstochowa, di Kalwaria Zebrzidowska e della Divina Misericordia. Non potrò dimenticare la sosta nel celebre Santuario mariano di Jasna Góra. Su quel Chiaro Monte, cuore della Nazione polacca, come in un ideale cenacolo, numerosissimi fedeli e specialmente religiosi, religiose, seminaristi e rappresentanti dei Movimenti ecclesiali si sono raccolti attorno al Successore di Pietro per mettersi, insieme con me, in ascolto di Maria. Traendo spunto dalla stupenda meditazione mariana che Giovanni Paolo II ha donato alla Chiesa nell’Enciclica Redemptoris Mater, ho voluto riproporre la fede come atteggiamento fondamentale dello spirito - che non è una cosa solo intellettuale o sentimentale -, la fede vera coinvolge l’intera persona: pensieri, affetti, intenzioni, relazioni, corporeità, attività, lavoro quotidiano. Alla Vergine Addolorata, visitando poi il meraviglioso Santuario di Kalwaria Zebrzydowska poco distante da Cracovia, ho chiesto di sostenere la fede della Comunità ecclesiale nei momenti di difficoltà e di prova; la successiva tappa nel Santuario della Divina Misericordia, a Łagiewniki, mi ha dato modo di sottolineare che solo la Divina Misericordia illumina il mistero dell’uomo. Nel convento vicino a questo Santuario, contemplando le piaghe luminose di Cristo risorto, Suor Faustina Kowalska ricevette un messaggio di fiducia per l’umanità, il messaggio della Misericordia Divina, di cui Giovanni Paolo II si è fatto eco ed interprete, e che è realmente un messaggio centrale proprio per il nostro tempo: la Misericordia come forza di Dio, come limite divino contro il male del mondo.

Altri simbolici “santuari” ho voluto visitare: mi riferisco a Wadowice, località diventata famosa perché là Karol Wojtyła è nato ed è stato battezzato. Visitarla mi ha offerto l’opportunità di ringraziare il Signore per il dono di questo infaticabile servitore del Vangelo. Le radici della sua fede robusta, della sua umanità così sensibile e aperta, del suo amore per la bellezza e la verità, della sua devozione alla Madonna, del suo amore per la Chiesa e soprattutto della sua vocazione alla santità sono in questa cittadina dove egli ha ricevuto la prima educazione e formazione. Altro luogo caro a Giovanni Paolo II è la Cattedrale di Wawel, a Cracovia, luogo simbolo per la Nazione polacca: nella cripta di quella Cattedrale Karol Wojtyła celebrò la sua Prima Messa.

Un’altra bellissima esperienza è stata l’incontro con i giovani, che ha avuto luogo a Cracovia, nel grande Parco di Błonie. Ai giovani venuti in grande numero ho consegnato simbolicamente la “Fiamma della misericordia”, perché siano nel mondo araldi dell’Amore e della Misericordia divina. Con loro ho meditato sulla parola evangelica della casa costruita sulla roccia (cfr Mt 7,24-27), letta anche oggi, all’inizio di questa udienza. Sulla Parola di Dio mi sono soffermato a riflettere anche domenica mattina, solennità dell’Ascensione, nel corso della Celebrazione conclusiva della mia visita. E’ stato un incontro liturgico animato da una straordinaria partecipazione di fedeli, nello stesso Parco in cui la sera prima si era svolto l’appuntamento con i giovani. Ho colto l’occasione per rinnovare in mezzo al popolo polacco l’annuncio stupendo della verità cristiana sull’uomo, creato e redento in Cristo; quella verità che tante volte Giovanni Paolo II ha proclamato con vigore per spronare tutti ad essere forti nella fede, nella speranza e nell’amore. Rimanete saldi nella fede! E’ questa la consegna che ho lasciato ai figli dell’amata Polonia, incoraggiandoli a perseverare nella fedeltà a Cristo e alla Chiesa, perché non manchi all’Europa e al mondo l’apporto della loro testimonianza evangelica. Tutti i cristiani devono sentirsi impegnati a rendere questa testimonianza, per evitare che l’umanità del terzo millennio possa conoscere ancora orrori simili a quelli tragicamente evocati dal campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

Proprio in quel luogo tristemente noto in tutto il mondo ho voluto sostare prima di far ritorno a Roma. Nel campo di Auschwitz-Birkenau, come in altri simili campi, Hitler fece sterminare oltre sei milioni di ebrei. Ad Auschwitz-Birkenau morirono anche circa 150.000 polacchi e decine di migliaia di uomini e donne di altre nazionalità. Di fronte all’orrore di Auschwitz non c’è altra risposta che la Croce di Cristo: l’Amore sceso fino in fondo all’abisso del male, per salvare l’uomo alla radice, dove la sua libertà può ribellarsi a Dio. Non dimentichi l’odierna umanità Auschwitz e le altre “fabbriche di morte” nelle quali il regime nazista ha tentato di eliminare Dio per prendere il suo posto! Non ceda alla tentazione dell’odio razziale, che è all’origine delle peggiori forme di antisemitismo! Tornino gli uomini a riconoscere che Dio è Padre di tutti e tutti ci chiama in Cristo a costruire insieme un mondo di giustizia, di verità e di pace! Questo vogliamo chiedere al Signore per intercessione di Maria che quest’oggi, concludendo il mese di maggio, contempliamo solerte e amorevole nel visitare la sua anziana parente Elisabetta.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 08:59

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 7 giugno 2006

Pietro, la roccia su cui Cristo ha fondato la Chiesa

Cari fratelli e sorelle,

riprendiamo le catechesi settimanali che abbiamo iniziato in questa primavera. Nell’ultima di quindici giorni fa, avevo parlato di Pietro come del primo degli Apostoli; vogliamo oggi tornare ancora una volta su questa grande e importante figura della Chiesa. L'evangelista Giovanni, raccontando del primo incontro di Gesù con Simone, fratello di Andrea, registra un fatto singolare: Gesù, "fissando lo sguardo su di lui, disse: Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Kefa (che vuol dire Pietro)" (Gv 1,42). Gesù non era solito cambiare il nome ai suoi discepoli. Se si eccettua l'appellativo di "figli del tuono", rivolto in una precisa circostanza ai figli di Zebedeo (cfr Mc 3,17) e non più usato in seguito, Egli non ha mai attribuito un nuovo nome ad un suo discepolo. Lo ha fatto invece con Simone, chiamandolo Kefa, nome che fu poi tradotto in greco Petros, in latino Petrus. E fu tradotto proprio perché non era solo un nome; era un “mandato” che Petrus riceveva in quel modo dal Signore. Il nuovo nome Petrus ritornerà più volte nei Vangeli e finirà per soppiantare il nome originario Simone.

Il dato acquista particolare rilievo se si tiene conto che, nell'Antico Testamento, il cambiamento del nome preludeva in genere all'affidamento di una missione (cfr Gn 17,5; 32,28 ss. ecc.). Di fatto, la volontà di Cristo di attribuire a Pietro uno speciale rilievo all'interno del Collegio apostolico risulta da numerosi indizi: a Cafarnao il Maestro va ad alloggiare nella casa di Pietro (Mc 1,29); quando la folla gli si accalca intorno sulla riva del lago di Genesaret, tra le due barche lì ormeggiate, Gesù sceglie quella di Simone (Lc 5,3); quando in circostanze particolari Gesù si fa accompagnare da tre discepoli soltanto, Pietro è sempre ricordato come primo del gruppo: così nella risurrezione della figlia di Giairo (cfr Mc 5,37; Lc 8,51), nella Trasfigurazione (cfr Mc 9,2; Mt 17,1; Lc 9,28), e infine durante l'agonia nell'Orto del Getsemani (cfr Mc 14,33; Mt 16,37). E ancora: a Pietro si rivolgono gli esattori della tassa per il Tempio ed il Maestro paga per sé e per lui soltanto (cfr Mt 17, 24-27); a Pietro per primo Egli lava i piedi nell'ultima Cena (cfr Gv 13,6) ed è per lui soltanto che prega affinché non venga meno nella fede e possa confermare poi in essa gli altri discepoli (cfr Lc 22, 30-31).

Pietro stesso è, del resto, consapevole di questa sua posizione particolare: è lui che spesso, a nome anche degli altri, parla chiedendo la spiegazione di una parabola difficile (Mt 15,15), o il senso esatto di un precetto (Mt 18,21) o la promessa formale di una ricompensa (Mt 19,27). In particolare, è lui che risolve l'imbarazzo di certe situazioni intervenendo a nome di tutti. Così quando Gesù, addolorato per l'incomprensione della folla dopo il discorso sul "pane di vita", domanda: "Volete andarvene anche voi?", la risposta di Pietro è perentoria: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (cfr Gv 6, 67-69). Ugualmente decisa è la professione di fede che, ancora a nome dei Dodici, egli fa nei pressi di Cesarea di Filippo. A Gesù che chiede: "Voi chi dite che io sia?", Pietro risponde: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16, 15-16).

Di rimando Gesù pronuncia allora la dichiarazione solenne che definisce, una volta per tutte, il ruolo di Pietro nella Chiesa: "E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa... A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli" (Mt 16, 18-19). Le tre metafore a cui Gesù ricorre sono in se stesse molto chiare: Pietro sarà il fondamento roccioso su cui poggerà l'edificio della Chiesa; egli avrà le chiavi del Regno dei cieli per aprire o chiudere a chi gli sembrerà giusto; infine, egli potrà legare o sciogliere nel senso che potrà stabilire o proibire ciò che riterrà necessario per la vita della Chiesa, che è e resta di Cristo. E’ sempre Chiesa di Cristo e non di Pietro. E' così descritto con immagini di plastica evidenza quello che la riflessione successiva qualificherà con il termine di "primato di giurisdizione".

Questa posizione di preminenza che Gesù ha inteso conferire a Pietro si riscontra anche dopo la risurrezione: Gesù incarica le donne di portarne l'annunzio a Pietro, distintamente dagli altri Apostoli (cfr Mc 16,7); da lui e da Giovanni corre la Maddalena per informare della pietra ribaltata dall'ingresso del sepolcro (cfr Gv 20,2) e Giovanni cederà a lui il passo quando i due arriveranno davanti alla tomba vuota (cfr Gv 20,4-6); sarà poi Pietro, tra gli Apostoli, il primo testimone di un'apparizione del Risorto (cfr Lc 24,34; 1 Cor 15,5). Questo suo ruolo,  sottolineato con decisione (cfr Gv 20,3-10), segna la continuità fra la preminenza avuta nel gruppo apostolico e la preminenza che continuerà ad avere nella comunità nata con gli eventi pasquali, come attesta il Libro degli Atti (cfr 1,15-26; 2,14-40; 3,12-26; 4,8-12; 5,1-11.29; 8,14-17; 10; ecc.). Il suo comportamento è considerato così decisivo, da essere al centro di osservazioni ed anche di critiche (cfr At 11,1-18; Gal 2,11-14). Al cosiddetto Concilio di Gerusalemme Pietro svolge una funzione direttiva (cfr At 15 e Gal 2,1-10), e proprio per questo suo essere il testimone della fede autentica Paolo stesso riconoscerà in lui una certa qualità di “primo” (cfr 1 Cor 15,5; Gal 1,18; 2,7s.; ecc.). Il fatto, poi, che diversi dei testi chiave riferiti a Pietro possano essere ricondotti al contesto dell'Ultima Cena, in cui Cristo conferisce a Pietro il ministero di confermare i fratelli (cfr Lc 22,31 s.), mostra come la Chiesa che nasce dal memoriale pasquale celebrato nell'Eucaristia abbia nel ministero affidato a Pietro uno dei suoi elementi costitutivi.

Questa contestualizzazione del Primato di Pietro nell’Ultima Cena, nel momento istitutivo dell’Eucaristia, Pasqua del Signore, indica anche il senso ultimo di questo Primato: Pietro, per tutti i tempi, dev’essere il custode della comunione con Cristo; deve guidare alla comunione con Cristo; deve preoccuparsi che la rete non si rompa e possa così perdurare la comunione universale. Solo insieme possiamo essere con Cristo, che è il Signore di tutti.

Responsabilità di Pietro è di garantire così la comunione con Cristo con la carità di Cristo, guidando alla realizzazione di questa carità nella vita di ogni giorno. Preghiamo che il Primato di Pietro, affidato a povere persone umane, possa sempre essere esercitato in questo senso originario voluto dal Signore e possa così essere sempre più riconosciuto nel suo vero significato dai fratelli ancora non in piena comunione con noi.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 09:00

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 14 giugno 2006

Andrea, il Protoclito

Cari fratelli e sorelle,

nelle ultime due catechesi abbiamo parlato della figura di san Pietro. Adesso vogliamo, per quanto le fonti permettono, conoscere un po’ più da vicino anche gli altri undici Apostoli.

Pertanto parliamo oggi del fratello di Simon Pietro, sant’Andrea, anch'egli uno dei Dodici. La prima caratteristica che colpisce in Andrea è il nome: non è ebraico, come ci si sarebbe aspettato, ma greco, segno non trascurabile di una certa apertura culturale della sua famiglia. Siamo in Galilea, dove la lingua e la cultura greche sono abbastanza presenti. Nelle liste dei Dodici, Andrea occupa il secondo posto, come in Matteo (10,1-4) e in Luca (6,13-16), oppure il quarto posto come in Marco (3,13-18) e negli Atti (1,13-14). In ogni caso, egli godeva sicuramente di grande prestigio all'interno delle prime comunità cristiane.

Il legame di sangue tra Pietro e Andrea, come anche la comune chiamata rivolta loro da Gesù, emergono esplicitamente nei Vangeli. Vi si legge: “Mentre Gesù camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini»” (Mt 4,18-19; Mc 1,16-17). Dal Quarto Vangelo raccogliamo un altro particolare importante: in un primo momento, Andrea era discepolo di Giovanni Battista; e questo ci mostra che era un uomo che cercava, che condivideva la speranza d’Israele, che voleva conoscere più da vicino la parola del Signore, la realtà del Signore presente. Era veramente un uomo di fede e di speranza; e da Giovanni Battista un giorno sentì proclamare Gesù come “l’agnello di Dio” (Gv 1,36); egli allora si mosse e, insieme a un altro discepolo innominato, seguì Gesù, Colui che era chiamato da Giovanni “agnello di Dio”. L’evangelista riferisce: essi “videro dove dimorava e quel giorno dimorarono presso di lui” (Gv 1,37-39). Andrea quindi godette di preziosi momenti d’intimità con Gesù. Il racconto prosegue con un’annotazione significativa: “Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro.

Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo», e lo condusse a Gesù” (Gv 1,40-43), dimostrando subito un non comune spirito apostolico. Andrea, dunque, fu il primo degli Apostoli ad essere chiamato a seguire Gesù. Proprio su questa base la liturgia della Chiesa Bizantina lo onora con l'appellativo di Protóklitos, che significa appunto “primo chiamato”. Ed è certo che anche per il rapporto fraterno tra Pietro e Andrea la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli si sentono tra loro in modo speciale Chiese sorelle. Per sottolineare questo rapporto, il mio predecessore Papa Paolo VI, nel 1964, restituì l’insigne reliquia di sant’Andrea, fino ad allora custodita nella Basilica Vaticana, al Vescovo metropolita ortodosso della città di Patrasso in Grecia, dove secondo la tradizione l'Apostolo fu crocifisso.

Le tradizioni evangeliche rammentano particolarmente il nome di Andrea in altre tre occasioni che ci fanno conoscere un po’ di più quest’uomo. La prima è quella della moltiplicazione dei pani in Galilea. In quel frangente, fu Andrea a segnalare a Gesù la presenza di un ragazzo che aveva con sé cinque pani d'orzo e due pesci: ben poca cosa - egli rilevò - per tutta la gente convenuta in quel luogo (cfr Gv 6,8-9). Merita di essere sottolineato, nel caso, il realismo di Andrea: egli notò il ragazzo – quindi aveva già posto la domanda: “Ma che cos’è questo per tanta gente?” (ivi) - e si rese conto della insufficienza delle sue poche risorse. Gesù tuttavia seppe farle bastare per la moltitudine di persone venute ad ascoltarlo. La seconda occasione fu a Gerusalemme. Uscendo dalla città, un discepolo fece notare a Gesù lo spettacolo delle poderose mura che sorreggevano il Tempio.

La risposta del Maestro fu sorprendente: disse che di quelle mura non sarebbe rimasta pietra su pietra. Andrea allora, insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni, lo interrogò: “Dicci quando accadrà questo e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi” (Mc 13,1-4). Per rispondere a questa domanda Gesù pronunciò un importante discorso sulla distruzione di Gerusalemme e sulla fine del mondo, invitando i suoi discepoli a leggere con accortezza i segni del tempo e a restare sempre vigilanti. Dalla vicenda possiamo dedurre che non dobbiamo temere di porre domande a Gesù, ma al tempo stesso dobbiamo essere pronti ad accogliere gli insegnamenti, anche sorprendenti e difficili, che Egli ci offre.

Nei Vangeli è, infine, registrata una terza iniziativa di Andrea. Lo scenario è ancora Gerusalemme, poco prima della Passione. Per la festa di Pasqua - racconta Giovanni - erano venuti nella città santa anche alcuni Greci, probabilmente proseliti o timorati di Dio, venuti per adorare il Dio di Israele nella festa della Pasqua.

Andrea e Filippo, i due apostoli con nomi greci, servono come interpreti e mediatori di questo piccolo gruppo di Greci presso Gesù. La risposta del Signore alla loro domanda appare – come spesso nel Vangelo di Giovanni – enigmatica, ma proprio così si rivela ricca di significato. Gesù dice ai due discepoli e, per loro tramite, al mondo greco: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (12,23-24). Che cosa significano queste parole in questo contesto? Gesù vuole dire: Sì, l’incontro tra me ed i Greci avrà luogo, ma non come semplice e breve colloquio tra me ed alcune persone, spinte soprattutto dalla curiosità. Con la mia morte, paragonabile alla caduta in terra di un chicco di grano, giungerà l’ora della mia glorificazione. Dalla mia morte sulla croce verrà la grande fecondità: il “chicco di grano morto” – simbolo di me crocifisso – diventerà nella risurrezione pane di vita per il mondo; sarà luce per i popoli e le culture. Sì, l’incontro con l’anima greca, col mondo greco, si realizzerà a quella profondità a cui allude la vicenda del chicco di grano che attira a sé le forze della terra e del cielo e diventa pane. In altre parole, Gesù profetizza la Chiesa dei greci, la Chiesa dei pagani, la Chiesa del mondo come frutto della sua Pasqua.

Tradizioni molto antiche vedono in Andrea, il quale ha trasmesso ai greci questa parola, non solo l’interprete di alcuni Greci nell’incontro con Gesù ora ricordato, ma lo considerano come apostolo dei Greci negli anni che succedettero alla Pentecoste; ci fanno sapere che nel resto della sua vita egli fu annunciatore e interprete di Gesù  per il mondo greco. Pietro, suo fratello, da Gerusalemme attraverso Antiochia giunse a Roma per esercitarvi la sua missione universale; Andrea fu invece l’apostolo del mondo greco: essi appaiono così in vita e in morte come veri fratelli – una fratellanza che si esprime simbolicamente nello speciale rapporto delle Sedi di Roma e di Costantinopoli, Chiese veramente sorelle.

Una tradizione successiva, come si è accennato, racconta della morte di Andrea a Patrasso, ove anch’egli subì il supplizio della crocifissione. In quel momento supremo, però, in modo analogo al fratello Pietro, egli chiese di essere posto sopra una croce diversa da quella di Gesù. Nel suo caso si trattò di una croce decussata, cioè a incrocio trasversale inclinato, che perciò venne detta “croce di sant'Andrea”. Ecco ciò che l’Apostolo avrebbe detto in quell’occasione, secondo un antico racconto (inizi del secolo VI) intitolato Passione di Andrea: “Salve, o Croce, inaugurata per mezzo del corpo di Cristo e divenuta adorna delle sue membra, come fossero perle preziose. Prima che il Signore salisse su di te, tu incutevi un timore terreno. Ora invece, dotata di un amore celeste, sei ricevuta come un dono. I credenti sanno, a tuo riguardo, quanta gioia tu possiedi, quanti regali tu tieni preparati.

Sicuro dunque e pieno di gioia io vengo a te, perché anche tu mi riceva esultante come discepolo di colui che fu sospeso a te ... O Croce beata, che ricevesti la maestà e la bellezza delle membra del Signore! ... Prendimi e portami lontano dagli uomini e rendimi al mio Maestro, affinché per mezzo tuo mi riceva chi per te mi ha redento. Salve, o Croce; sì, salve davvero!”. Come si vede, c'è qui una profondissima spiritualità cristiana, che vede nella Croce non tanto uno strumento di tortura quanto piuttosto il mezzo incomparabile di una piena assimilazione al Redentore, al Chicco di grano caduto in terra. Noi dobbiamo imparare di qui una lezione molto importante: le nostre croci acquistano valore se considerate e accolte come parte della croce di Cristo, se raggiunte dal riverbero della sua luce. Soltanto da quella Croce anche le nostre sofferenze vengono nobilitate e acquistano il loro vero senso.

L'apostolo Andrea, dunque, ci insegni a seguire Gesù con prontezza (cfr Mt 4,20; Mc 1,18), a parlare con entusiasmo di Lui a quanti incontriamo, e soprattutto a coltivare con Lui un rapporto di vera familiarità, ben coscienti che solo in Lui possiamo trovare il senso ultimo della nostra vita e della nostra morte.

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00sabato 5 settembre 2009 09:02

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 21 giugno 2006

  

Giacomo, il Maggiore

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie di ritratti degli Apostoli scelti direttamente da Gesù durante la sua vita terrena. Abbiamo parlato di san Pietro, di suo fratello Andrea. Oggi incontriamo la figura di Giacomo. Gli elenchi biblici dei Dodici menzionano due persone con questo nome: Giacomo figlio di Zebedeo e Giacomo figlio di Alfeo (cfr Mc 3,17.18; Mt 10,2-3), che vengono comunemente distinti con gli appellativi di Giacomo il Maggiore e Giacomo il Minore. Queste designazioni non vogliono certo misurare la loro santità, ma soltanto prendere atto del diverso rilievo che essi ricevono negli scritti del Nuovo Testamento e, in particolare, nel quadro della vita terrena di Gesù. Oggi dedichiamo la nostra attenzione al primo di questi due personaggi omonimi.

Il nome Giacomo è la traduzione di Iákobos, forma grecizzata del nome del celebre patriarca Giacobbe. L’apostolo così chiamato è fratello di Giovanni, e negli elenchi suddetti occupa il secondo posto subito dopo Pietro, come in Marco (3,17), o il terzo posto dopo Pietro e Andrea nel Vangeli di Matteo (10,2) e di Luca (6,14), mentre negli Atti viene dopo Pietro e Giovanni (1,13). Questo Giacomo appartiene, insieme con Pietro e Giovanni, al gruppo dei tre discepoli privilegiati che sono stati ammessi da Gesù a momenti importanti della sua vita.

Poiché fa molto caldo, vorrei abbreviare e menzionare qui solo due di queste occasioni. Egli ha potuto partecipare, insieme con Pietro e Giovanni, al momento dell’agonia di Gesù nell’orto del Getsemani e all’evento della Trasfigurazione di Gesù. Si tratta quindi di situazioni molto diverse e l’una dall’altra: in un caso, Giacomo con gli altri due Apostoli sperimenta la gloria del Signore, lo vede nel colloquio con Mosé ed Elia, vede trasparire lo splendore divino in Gesù; nell’altro si trova di fronte alla sofferenza e all’umiliazione, vede con i propri occhi come il Figlio di Dio si umilia facendosi obbediente fino alla morte. Certamente la seconda esperienza costituì per lui l’occasione di una maturazione nella fede, per correggere l’interpretazione unilaterale, trionfalista della prima: egli dovette intravedere che il Messia, atteso dal popolo giudaico come un trionfatore, in realtà  non era soltanto circonfuso di onore e di gloria, ma anche di patimenti e di debolezza. La gloria di Cristo si realizza proprio nella Croce, nella partecipazione alle nostre sofferenze.

Questa maturazione della fede fu portata a compimento dallo Spirito Santo nella Pentecoste, così che Giacomo, quando venne il momento della suprema testimonianza, non si tirò indietro. All’inizio degli anni 40 del I secolo il re Erode Agrippa, nipote di Erode il Grande, come ci informa Luca, “cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa, e fece uccidere di spada Giacomo fratello di Giovanni” (At 12,1-2). La stringatezza della notizia, priva di ogni dettaglio narrativo, rivela, da una parte, quanto fosse normale per i cristiani testimoniare il Signore con la propria vita e, dall’altra, quanto Giacomo avesse una posizione di spicco nella Chiesa di Gerusalemme, anche a motivo del ruolo svolto durante l’esistenza terrena di Gesù. Una tradizione successiva, risalente almeno a Isidoro di Siviglia, racconta di un suo soggiorno in Spagna per evangelizzare quella importante regione dell'impero romano. Secondo un’altra tradizione, sarebbe invece stato il suo corpo ad essere trasportato in Spagna, nella città di Santiago di Compostella. Come tutti sappiamo, quel luogo divenne oggetto di grande venerazione ed è tuttora mèta di numerosi pellegrinaggi, non solo dall’Europa ma da tutto il mondo. E’ così che si spiega la rappresentazione iconografica di san Giacomo con in mano il bastone del pellegrino e il rotolo del Vangelo, caratteristiche dell’apostolo itinerante e dedito all’annuncio della “buona notizia”, caratteristiche del pellegrinaggio della vita cristiana.

Da san Giacomo, dunque, possiamo imparare molte cose: la prontezza ad accogliere la chiamata del Signore anche quando ci chiede di lasciare la “barca” delle nostre sicurezze umane, l’entusiasmo nel seguirlo sulle strade che Egli ci indica al di là di ogni nostra illusoria presunzione, la disponibilità a testimoniarlo con coraggio, se necessario, fino al sacrificio supremo della vita. Così Giacomo il Maggiore si pone davanti a noi come esempio eloquente di generosa adesione a Cristo. Egli, che inizialmente aveva chiesto, tramite sua madre, di sedere con il fratello accanto al Maestro nel suo Regno, fu proprio il primo a bere il calice della passione, a condividere con gli Apostoli il martirio.

E alla fine, riassumendo tutto, possiamo dire che il cammino non solo esteriore ma soprattutto interiore, dal monte della Trasfigurazione al monte dell’agonia, simbolizza tutto il pellegrinaggio della vita cristiana, fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, come dice il Concilio Vaticano II.  Seguendo Gesù come san Giacomo, sappiamo, anche nelle difficoltà, che andiamo sulla strada giusta.

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00sabato 5 settembre 2009 09:03

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 28 giugno 2006

Giacomo, il Minore

Cari fratelli e sorelle,

accanto alla figura di Giacomo “il Maggiore”, figlio di Zebedeo, del quale abbiamo parlato mercoledì scorso, nei Vangeli compare un altro Giacomo, che viene detto “il Minore”. Anch’egli fa parte delle liste dei dodici Apostoli scelti personalmente da Gesù, e viene sempre specificato come “figlio di Alfeo” (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 5; At 1,13).

E’ stato spesso identificato con un altro Giacomo, detto “il Piccolo” (cfr Mc 15,40), figlio di una Maria (cfr ibid.) che potrebbe essere la “Maria di Cleofa” presente, secondo il Quarto Vangelo, ai piedi della Croce insieme alla Madre di Gesù (cfr Gv 19,25). Anche lui era originario di Nazaret e probabile parente di Gesù (cfr Mt 13,55; Mc 6,3), del quale alla maniera semitica viene detto “fratello” (cfr Mc 6,3; Gal 1,19). Di quest'ultimo Giacomo, il libro degli Atti sottolinea il ruolo preminente svolto nella Chiesa di Gerusalemme. Nel Concilio apostolico là celebrato dopo la morte di Giacomo il Maggiore, affermò insieme con gli altri che i pagani potevano essere accolti nella Chiesa senza doversi prima sottoporre alla circoncisione (cfr At 15,13). San Paolo, che gli attribuisce una specifica apparizione del Risorto (cfr 1 Cor 15,7), nell’occasione della sua andata a Gerusalemme lo nomina addirittura prima di Cefa-Pietro, qualificandolo “colonna” di quella Chiesa al pari di lui (cfr Gal 2,9). In seguito, i giudeo-cristiani lo considerarono loro principale punto di riferimento. A lui viene pure attribuita la Lettera che porta il nome di Giacomo ed è compresa nel canone neotestamentario. Egli non vi si presenta come “fratello del Signore”, ma come “servo di Dio e del Signore Gesù Cristo” (Gc 1,1).

Tra gli studiosi si dibatte la questione dell’identificazione di questi due personaggi dallo stesso nome, Giacomo figlio di Alfeo e Giacomo “fratello del Signore”. Le tradizioni evangeliche non ci hanno conservato alcun racconto né sull’uno né sull’altro in riferimento al periodo della vita terrena di Gesù. Gli Atti degli Apostoli, invece, ci mostrano che un “Giacomo” ha svolto un ruolo molto importante, come abbiamo già accennato, dopo la risurrezione di Gesù, all’interno della Chiesa primitiva (cfr At 12,17; 15,13-21; 21,18). L’atto più rilevante da lui compiuto fu l’intervento nella questione del difficile rapporto tra i cristiani di origine ebraica e quelli di origine pagana: in esso egli contribuì insieme a Pietro a superare, o meglio, a integrare l'originaria dimensione giudaica del cristianesimo con l'esigenza di non imporre ai pagani convertiti l’obbligo di sottostare a tutte le norme della legge di Mosè. Il libro degli Atti ci ha conservato la soluzione di compromesso, proposta proprio da Giacomo e accettata da tutti gli Apostoli presenti, secondo cui ai pagani che avessero creduto in Gesù Cristo si doveva soltanto chiedere di astenersi dall’usanza idolatrica di mangiare la carne degli animali offerti in sacrificio agli dèi, e dall’“impudicizia”, termine che probabilmente alludeva alle unioni matrimoniali non consentite. In pratica, si trattava di aderire solo a poche proibizioni, ritenute piuttosto importanti, della legislazione mosaica.

In questo modo, si ottennero due risultati significativi e complementari, entrambi validi tuttora: da una parte, si riconobbe il rapporto inscindibile che collega il cristianesimo alla religione ebraica come a sua matrice perennemente viva e valida; dall’altra, si concesse ai cristiani di origine pagana di conservare la propria identità sociologica, che essi avrebbero perduto se fossero stati costretti a osservare i cosiddetti “precetti cerimoniali” mosaici: questi ormai non dovevano più considerarsi obbliganti per i pagani convertiti. In sostanza, si dava inizio a una prassi di reciproca stima e rispetto, che, nonostante incresciose incomprensioni posteriori, mirava per natura sua a salvaguardare quanto era caratteristico di ciascuna delle due parti.

La più antica informazione sulla morte di questo Giacomo ci è offerta dallo storico ebreo Flavio Giuseppe. Nelle sue Antichità Giudaiche (20,201s), redatte a Roma verso la fine del I° secolo, egli ci racconta che la fine di Giacomo fu decisa con iniziativa illegittima dal Sommo Sacerdote Anano, figlio dell’Annas attestato nei Vangeli, il quale approfittò dell'intervallo tra la deposizione di un Procuratore romano (Festo) e l'arrivo del successore (Albino) per decretare la sua lapidazione nell’anno 62.

Al nome di questo Giacomo, oltre all’apocrifo Protovangelo di Giacomo, che esalta la santità e la verginità di Maria Madre di Gesù, è particolarmente legata la Lettera che reca il suo nome. Nel canone del Nuovo Testamento essa occupa il primo posto tra le cosiddette ‘Lettere cattoliche’,  destinate cioè non a una sola Chiesa particolare – come Roma, Efeso, ecc. -, ma a molte Chiese. Si tratta di uno scritto assai importante, che insiste molto sulla necessità di non ridurre la propria fede a una pura dichiarazione verbale o astratta, ma di esprimerla concretamente in opere di bene. Tra l'altro, egli ci invita alla costanza nelle prove gioiosamente accettate e alla preghiera fiduciosa per ottenere da Dio il dono della sapienza, grazie alla quale giungiamo a comprendere che i veri valori della vita non stanno nelle ricchezze transitorie, ma piuttosto nel saper condividere le proprie sostanze con i poveri e i bisognosi (cfr Gc 1,27).

Così la lettera di san Giacomo ci mostra un cristianesimo molto concreto e pratico. La fede deve realizzarsi nella vita, soprattutto nell’amore del prossimo e particolarmente nell’impegno per i poveri. E’ su questo sfondo che dev’essere letta anche la frase famosa: “Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26). A volte questa dichiarazione di Giacomo è stata contrapposta alle affermazioni di Paolo, secondo cui noi veniamo resi giusti da Dio non in virtù delle nostre opere, ma grazie alla nostra fede (cfr Gal 2,16; Rm 3,28). Tuttavia, le due frasi, apparentemente contraddittorie con le loro prospettive diverse, in realtà, se bene interpretate, si completano. San Paolo si oppone all’orgoglio dell’uomo che pensa di non aver bisogno dell’amore di Dio che ci previene, si oppone all’orgoglio dell’autogiustificazione senza la grazia semplicemente donata e non meritata. San Giacomo parla invece delle opere come frutto normale della fede: “L’albero buono produce frutti buoni”, dice il Signore (Mt 7,17). E san Giacomo lo ripete e lo dice a noi.

Da ultimo, la lettera di Giacomo ci esorta ad abbandonarci alle mani di Dio in tutto ciò che facciamo, pronunciando sempre le parole: “Se il Signore vorrà” (Gc 4,15). Così egli ci insegna a non presumere di pianificare la nostra vita in maniera autonoma e interessata, ma a fare spazio all’imperscrutabile volontà di Dio, che conosce il vero bene per noi. In questo modo san Giacomo resta un sempre attuale maestro di vita per ciascuno di noi.

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00sabato 5 settembre 2009 09:05

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 5 luglio 2006

Giovanni, figlio di Zebedeo

Cari fratelli e sorelle,

dedichiamo l'incontro di oggi al ricordo di un altro membro molto importante del collegio apostolico: Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo. Il suo nome, tipicamente ebraico, significa “il Signore ha fatto grazia”. Stava riassettando le reti sulla sponda del lago di Tiberìade, quando Gesù lo chiamò insieme con il fratello (cfr Mt 4,21; Mc 1,19). Giovanni fa sempre parte del gruppo ristretto, che Gesù prende con sé in determinate occasioni. E’ insieme a Pietro e a Giacomo quando Gesù, a Cafarnao, entra in casa di Pietro per guarirgli la suocera (cfr Mc 1,29); con gli altri due segue il Maestro nella casa dell'archisinagògo Giàiro, la cui figlia sarà richiamata in vita (cfr Mc 5,37); lo segue quando sale sul monte per essere trasfigurato (cfr Mc 9,2); gli è accanto sul Monte degli Olivi quando davanti all’imponenza del Tempio di Gerusalemme pronuncia il discorso sulla fine della città e del mondo (cfr Mc 13,3); e, finalmente, gli è vicino quando nell'Orto del Getsémani si ritira in disparte per pregare il Padre prima della Passione (cfr Mc 14,33). Poco prima della Pasqua, quando Gesù sceglie due discepoli per mandarli a preparare la sala per la Cena, a lui ed a Pietro affida tale compito (cfr Lc 22,8).

Questa sua posizione di spicco nel gruppo dei Dodici rende in qualche modo comprensibile l’iniziativa presa un giorno dalla madre: ella si avvicinò a Gesù per chiedergli che i due figli, Giovanni appunto e Giacomo, potessero sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel Regno (cfr Mt 20,20-21). Come sappiamo, Gesù rispose facendo a sua volta una domanda: chiese se essi fossero disposti a bere il calice che egli stesso stava per bere (cfr Mt 20,22). L’intenzione che stava dietro a quelle parole era di aprire gli occhi dei due discepoli, di introdurli alla conoscenza del mistero della sua persona e di adombrare loro la futura chiamata ad essergli testimoni fino alla prova suprema del sangue. Poco dopo infatti Gesù precisò di non essere venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per la moltitudine (cfr Mt 20,28). Nei giorni successivi alla risurrezione, ritroviamo “i figli di Zebedeo” impegnati con Pietro ed alcuni altri discepoli in una notte infruttuosa, a cui segue per intervento del Risorto la pesca miracolosa: sarà “il discepolo che Gesù amava” a riconoscere per primo “il Signore” e a indicarlo a Pietro (cfr Gv 21,1-13).

All'interno della Chiesa di Gerusalemme, Giovanni occupò un posto di rilievo nella conduzione del primo raggruppamento di cristiani. Paolo infatti lo annovera tra quelli che chiama le “colonne” di quella comunità (cfr Gal 2,9). In realtà, Luca negli Atti lo presenta insieme con Pietro mentre vanno a pregare nel Tempio (cfr At 3,1-4.11) o compaiono davanti al Sinedrio a testimoniare la propria fede in Gesù Cristo (cfr At 4,13.19). Insieme con Pietro viene inviato dalla Chiesa di Gerusalemme a confermare coloro che in Samaria hanno accolto il Vangelo, pregando su di loro perché ricevano lo Spirito Santo (cfr At 8,14-15). In particolare, va ricordato ciò che afferma, insieme con Pietro, davanti al Sinedrio che li sta processando: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,20). Proprio questa franchezza nel confessare la propria fede resta un esempio e un monito per tutti noi ad essere sempre pronti a dichiarare con decisione la nostra incrollabile adesione a Cristo, anteponendo la fede a ogni calcolo o umano interesse.

Secondo la tradizione, Giovanni è “il discepolo prediletto”, che nel Quarto Vangelo poggia il capo sul petto del Maestro durante l'Ultima Cena (cfr Gv 13,21), si trova ai piedi della Croce insieme alla Madre di Gesù (cfr Gv 19, 25) ed è infine testimone sia della Tomba vuota che della stessa presenza del Risorto (cfr Gv 20,2; 21,7). Sappiamo che questa identificazione è oggi discussa dagli studiosi, alcuni dei quali vedono in lui semplicemente il prototipo del discepolo di Gesù. Lasciando agli esegeti di dirimere la questione, ci contentiamo qui di raccogliere una lezione importante per la nostra vita: il Signore desidera fare di ciascuno di noi un discepolo che vive una personale amicizia con Lui. Per realizzare questo non basta seguirlo e ascoltarlo esteriormente; bisogna anche vivere con Lui e come Lui. Ciò è possibile soltanto nel contesto di un rapporto di grande familiarità, pervaso dal calore di una totale fiducia. E’ ciò che avviene tra amici; per questo Gesù ebbe a dire un giorno: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici ... Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,13.15).

Negli apocrifi Atti di Giovanni l'Apostolo viene presentato non come fondatore di Chiese e neppure alla guida di comunità già costituite, ma in continua itineranza come comunicatore della fede nell'incontro con “anime capaci di sperare e di essere salvate” (18,10; 23,8). Tutto è mosso dal paradossale intento di far vedere l'invisibile. E infatti dalla Chiesa orientale egli è chiamato semplicemente “il Teologo”, cioè colui che è capace di parlare in termini accessibili delle cose divine, svelando un arcano accesso a Dio mediante l'adesione a Gesù.

Il culto di Giovanni apostolo si affermò a partire dalla città di Efeso, dove, secondo un’antica tradizione, avrebbe a lungo operato, morendovi infine in età straordinariamente avanzata, sotto l'imperatore Traiano. Ad Efeso l'imperatore Giustiniano, nel secolo VI, fece costruire in suo onore una grande basilica, di cui restano tuttora imponenti rovine. Proprio in Oriente egli godette e gode tuttora di grande venerazione. Nell’iconografia bizantina viene spesso raffigurato molto anziano – secondo la tradizione morì sotto l’imperatore Traiano - e in atto di intensa contemplazione, quasi nell’atteggiamento di chi invita al silenzio.

In effetti, senza adeguato raccoglimento non è possibile avvicinarsi al mistero supremo di Dio e alla sua rivelazione. Ciò spiega perché, anni fa, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, colui che il Papa Paolo VI abbracciò in un memorabile incontro, ebbe ad affermare: “Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma” (O. Clément, Dialoghi con Atenagora, Torino 1972, p. 159). Il Signore ci aiuti a metterci alla scuola di Giovanni per imparare la grande lezione dell’amore così da sentirci amati da Cristo “fino alla fine” (Gv 13,1) e spendere la nostra vita per Lui.

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00sabato 5 settembre 2009 09:10

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 2 agosto 2006

Catechesi speciale per i partecipanti
al Pellegrinaggio europeo dei Ministranti

Cari fratelli e sorelle!

Grazie per la vostra accoglienza! Vi saluto tutti con grande affetto. Dopo la pausa dovuta al soggiorno in Valle d'Aosta, oggi riprendo le Udienze generali. E riprendo con un'Udienza davvero speciale, perché ho la gioia di accogliere il grande Pellegrinaggio Europeo dei Ministranti. Cari ragazzi e giovani, benvenuti! Poiché la maggior parte dei ministranti oggi convenuti in questa Piazza sono di lingua tedesca, mi rivolgerò prima di tutto a loro nella mia lingua materna.

Cari ministranti,

Sono felice che la mia prima Udienza dopo la vacanza nelle Alpi sia con voi ministranti e saluto con affetto ciascuno di voi. Ringrazio il Vescovo ausiliare di Basel, Mons. Martin Gächter per le parole con cui, in qualità di Presidente del Coetus Internationalis Ministrantium, ha introdotto l'Udienza, e ringrazio per il foulard, grazie al quale sono tornato ad essere ministrante. Più di 70 anni fa, nel 1935, ho incominciato come ministrante, ho compiuto quindi un lungo tratto su questo cammino. Saluto cordialmente il Cardinale Christoph Schönborn, che ieri ha celebrato per voi la Santa Messa, e i numerosi Vescovi e Sacerdoti provenienti dalla Germania, dall'Austria, dalla Svizzera e dall'Ungheria. A voi, cari ministranti, desidero offrire, brevemente, visto che fa caldo, un messaggio che possa accompagnarvi nella vita e nel servizio alla Chiesa. Desidero per questo riprendere l'argomento che sto trattando nelle catechesi di questi mesi. Forse alcuni di voi sanno che nelle Udienze generali del mercoledì sto presentando le figure dei singoli Apostoli: per primo Simone, al quale il Signore ha dato il nome di Pietro; suo fratello Andrea; poi altri due fratelli, san Giacomo detto «il maggiore», primo martire tra gli Apostoli, e Giovanni il teologo, l'evangelista; e poi Giacomo detto «il minore». Conto di continuare a presentare i singoli Apostoli nelle prossime Udienze; in essi, nei quali, per così dire, la Chiesa si personalizza. Oggi però ci soffermiamo su un tema comune: che genere di persone erano gli Apostoli? In breve, potremmo dire che erano «amici» di Gesù. Lui stesso li ha chiamati così nell'ultima Cena, dicendo loro: «Non vi chiamo più servi, ma amici» (Gv 15, 15).

Sono stati apostoli e testimoni di Cristo potevano esserlo perché erano suoi amici, perché lo conoscevano a partire dall'amicizia, perché gli erano vicini. Erano uniti da un legame di amore vivificato dallo Spirito Santo. La fiamma che vediamo sul nostro foulard ardeva realmente nel loro cuore. Vorrei quindi intendere in questa prospettiva il tema del vostro pellegrinaggio: «Spiritus vivificat». È lo Spirito, lo Spirito Santo che vivifica. È lui che vivifica il vostro rapporto con Gesù, di modo che non sia solo esteriore - «sappiamo che è esistito e che è presente nel Sacramento» - ma diventi un rapporto intimo, profondo, di amicizia davvero personale, capace di dare senso alla vita di ognuno di voi. E poiché lo conoscete, se lo conoscete nell'amicizia, potrete dargli testimonianza e portarlo alle altre persone. Oggi, vedendovi qui davanti a me in Piazza San Pietro, penso agli Apostoli e sento dentro di me la voce di Gesù che vi dice: «Non vi chiamo servi, ma amici: rimanete nel mio amore, e porterete molto frutto» (cfr. Gv 15, 9.15s). Vi invito: ascoltate questa voce! Cristo non ha detto questo solo 2000 anni fa; egli è vivo e lo dice a voi adesso. Ascoltate questa voce con grande disponibilità; ha da dire ad ognuno qualcosa di personale.

Forse a qualcuno di voi dice: «Voglio che mi serva in modo speciale come sacerdote diventando così mio testimone, essendo mio amico e introducendo altri in questa amicizia». Ascoltate ciascuno comunque con fiducia la voce di Gesù. La vocazione di ciascuno è diversa, ma Cristo desidera fare amicizia con tutti, così come ha fatto con Simone, che chiamò Pietro, con Andrea, Giacomo, Giovanni e con gli altri Apostoli. Vi ha donato la sua parola e continua a donarvela, perché conosciate la verità, perché sappiate come stanno veramente le cose per l'uomo, e perché quindi sappiate come si deve vivere in modo giusto, come si deve affrontare la vita affinché diventi vera. Potrete così essere, ognuno a modo suo, suoi discepoli e apostoli.

Cari ministranti, voi in realtà siete già apostoli di Gesù! Quando partecipate alla Liturgia svolgendo il vostro servizio all'altare, voi offrite a tutti una testimonianza. Il vostro atteggiamento raccolto, la vostra devozione che parte dal cuore e si esprime nei gesti liturgiche, nel canto, nelle risposte: se lo fate nella maniera giusta e non distrattamente, in modo qualunque, allora la vostra è una testimonianza che tocca gli uomini. Il vincolo di amicizia con Gesù ha la sua fonte e il suo culmine nell'Eucaristia. Voi siete molto vicini a Gesù nell’Eucaristia, nella celebrazione della Santa Messa ed essa è il più grande segno della sua amicizia per ciascuno di noi. Non dimenticatelo! E per questo vi chiedo: non abituatevi a questo dono, affinché non diventi una sorta di abitudine, sapendo come tutto funziona e facendolo automaticamente, ma scoprite ogni giorno di nuovo che lì avviene qualcosa di molto grande, che il Dio vivente è in mezzo a noi, e che potete essergli molto vicini e recare il vostro contributo affinché il suo mistero venga celebrato e raggiunga le persone.

Se non cederete all'abitudine e svolgerete il vostro servizio a partire dal vostro intimo, allora sarete veramente suoi apostoli e porterete frutti di bontà e di servizio in ogni ambito della vostra vita: in famiglia, nella scuola, nel tempo libero. Quell'amore che ricevete nella Liturgia, portatelo a tutte le persone, specialmente dove vi accorgete che manca loro è amore, che non ricevono bontà, che soffrono e sono sole. Con la forza dello Spirito Santo, cercate di portare Gesù proprio a quelle persone che vengono emarginate, che non sono molto amate, che hanno problemi. Proprio lì, con la forza dello Spirito Santo, dovete portare Gesù. Così quel Pane, che vedete spezzare sull'altare, verrà ancora condiviso e moltiplicato. E voi, come allora i dodici Apostoli, aiuterete Gesù oggi a distribuire il Pane della vita tra la gente del nostro tempo, nelle diverse situazioni della vita.

Essi hanno bisogno di questo pane! Così, cari ministranti, le mie ultime parole a voi sono: siate sempre amici e apostoli di Gesù Cristo!

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 09:11

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 9 agosto 2006

Giovanni, il teologo

Cari fratelli e sorelle,

prima delle vacanze avevo cominciato con piccoli ritratti dei dodici Apostoli. Gli Apostoli erano compagni di via di Gesù, amici di Gesù e questo loro cammino con Gesù non era solo un cammino esteriore, dalla Galilea a Gerusalemme, ma un cammino interiore nel quale hanno imparato la fede in Gesù Cristo, non senza difficoltà perché erano uomini come noi. Ma proprio per ciò perché erano compagni di via di Gesù, amici di Gesù che in un cammino non facile hanno imparato la fede, sono anche guide per noi, che ci aiutano a conoscere Gesù Cristo, ad amarLo e ad avere fede in Lui. Avevo già parlato su quattro dei dodici Apostoli: su Simon Pietro, sul fratello Andrea, su Giacomo, il fratello di San Giovanni, e l’altro Giacomo, detto “il Minore”, che ha scritto una Lettera che troviamo nel Nuovo Testamento. Ed avevo cominciato a parlare di Giovanni l’evangelista, raccogliendo nell’ultima catechesi prima delle vacanze i dati essenziali che delineano la fisionomia di questo Apostolo. Vorrei adesso concentrare l’attenzione sul contenuto del suo insegnamento. Gli scritti di cui oggi, quindi, ci vogliamo occupare sono il Vangelo e le Lettere che vanno sotto il suo nome.

Se c'è un argomento caratteristico che emerge negli scritti di Giovanni, questo è l'amore. Non a caso ho voluto iniziare la mia prima Lettera enciclica con le parole di questo Apostolo: “Dio è amore (Deus caritas est); chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,16). E’ molto difficile trovare testi del genere in altre religioni. E dunque tali espressioni ci mettono di fronte ad un dato davvero peculiare del cristianesimo. Certamente Giovanni non è l'unico autore delle origini cristiane a parlare dell'amore. Essendo questo un costitutivo essenziale del cristianesimo, tutti gli scrittori del Nuovo Testamento ne parlano, sia pur con accentuazioni diverse. Se ora ci soffermiamo a riflettere su questo tema in Giovanni, è perché egli ce ne ha tracciato con insistenza e in maniera incisiva le linee principali. Alle sue parole, dunque, ci affidiamo. Una cosa è certa: egli non ne fa una trattazione astratta, filosofica, o anche teologica, su che cosa sia l’amore. No, lui non è un teorico. Il vero amore infatti, per natura sua, non è mai puramente speculativo, ma dice riferimento diretto, concreto e verificabile a persone reali. Ebbene, Giovanni come apostolo e amico di Gesù ci fa vedere quali siano le componenti o meglio le fasi dell'amore cristiano, un movimento caratterizzato da tre momenti.

Il primo riguarda la Fonte stessa dell’amore, che l’Apostolo colloca in Dio, arrivando, come abbiamo sentito, ad affermare che “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16). Giovanni è l'unico autore del Nuovo Testamento a darci quasi una specie di definizione di Dio. Egli dice, ad esempio, che “Dio è Spirito” (Gv 4,24) o che “Dio è luce” (1 Gv 1,5). Qui proclama con folgorante intuizione che “Dio è amore”. Si noti bene: non viene affermato semplicemente che “Dio ama” e tanto meno che “l'amore è Dio”! In altre parole: Giovanni non si limita a descrivere l'agire divino, ma procede fino alle sue radici. Inoltre, non intende attribuire una qualità divina a un amore generico e magari impersonale; non sale dall’amore a Dio, ma si volge direttamente a Dio per definire la sua natura con la dimensione infinita dell'amore. Con ciò Giovanni vuol dire che il costitutivo essenziale di Dio è l’amore e quindi tutta l'attività di Dio nasce dall’amore ed è improntata all'amore: tutto ciò che Dio fa, lo fa per amore e con amore, anche se non sempre possiamo subito capire che questo è amore, il vero amore.

A questo punto, però, è indispensabile fare un passo avanti e precisare che Dio ha dimostrato concretamente il suo amore entrando nella storia umana mediante la persona di Gesù Cristo, incarnato, morto e risorto per noi. Questo è il secondo momento costitutivo dell'amore di Dio. Egli non si è limitato alle dichiarazioni verbali, ma, possiamo dire, si è impegnato davvero e ha “pagato” in prima persona. Come appunto scrive Giovanni, “Dio ha tanto amato il mondo (cioè: tutti noi) da donare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Ormai, l'amore di Dio per gli uomini si concretizza e manifesta nell'amore di Gesù stesso. Ancora Giovanni scrive: Gesù “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1). In virtù di questo amore oblativo e totale noi siamo radicalmente riscattati dal peccato, come ancora scrive San Giovanni: “Figlioli miei, ... se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è propiziazione per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,1-2; cfr 1 Gv 1,7). Ecco fin dove è giunto l'amore di Gesù per noi: fino all'effusione del proprio sangue per la nostra salvezza! Il cristiano, sostando in contemplazione dinanzi a questo “eccesso” di amore, non può non domandarsi quale sia la doverosa risposta. E penso che sempre e di nuovo ciascuno di noi debba domandarselo.

Questa domanda ci introduce al terzo momento della dinamica dell’amore: da destinatari recettivi di un amore che ci precede e sovrasta, siamo chiamati all’impegno di una risposta attiva, che per essere adeguata non può essere che una risposta d’amore. Giovanni parla di un “comandamento”. Egli riferisce infatti queste parole di Gesù: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Dove sta la novità a cui Gesù si riferisce? Sta nel fatto che egli non si accontenta di ripetere ciò che era già richiesto nell'Antico Testamento e che leggiamo anche negli altri Vangeli: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18; cfr Mt 22,37-39; Mc 12,29-31; Lc 10,27). Nell’antico precetto il criterio normativo era desunto dall’uomo (“come te stesso”), mentre nel precetto riferito da Giovanni Gesù presenta come motivo e norma del nostro amore la sua stessa persona: “Come io vi ho amati”. E’ così che l'amore diventa davvero cristiano, portando in sé la novità del cristianesimo: sia nel senso che esso deve essere indirizzato verso tutti senza distinzioni, sia soprattutto in quanto deve pervenire fino alle estreme conseguenze, non avendo altra misura che l’essere senza misura. Quelle parole di Gesù, “come io vi ho amati”, ci invitano e insieme ci inquietano; sono una meta cristologica che può apparire irraggiungibile, ma al tempo stesso sono uno stimolo che non ci permette di adagiarci su quanto abbiamo potuto realizzare. Non ci consente di essere contenti di come siamo, ma ci spinge a rimanere in cammino verso questa meta.

Quell'aureo testo di spiritualità che è il piccolo libro del tardo medioevo intitolato Imitazione di Cristo  scrive in proposito: “Il nobile amore di Gesù ci spinge a operare cose grandi e ci incita a desiderare cose sempre più perfette. L'amore vuole stare in alto e non essere trattenuto da nessuna bassezza. L'amore vuole essere libero e disgiunto da ogni affetto mondano... l'amore infatti è nato da Dio, e non può riposare se non in Dio al di là di tutte le cose create. Colui che ama vola, corre e gioisce, è libero, e non è trattenuto da nulla. Dona tutto per tutti e ha tutto in ogni cosa, poiché trova riposo nel Solo grande che è sopra tutte le cose, dal quale scaturisce e proviene ogni bene” (libro III, cap. 5). Quale miglior commento del “comandamento nuovo”, enunciato da Giovanni? Preghiamo il Padre di poterlo vivere, anche se sempre in modo imperfetto, così intensamente da contagiarne quanti incontriamo sul nostro cammino.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 09:12

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Castel Gandolfo
Mercoledì, 16 agosto 2006

Meditazione sulla solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

Cari fratelli e sorelle,

il nostro consueto appuntamento settimanale del mercoledì si svolge quest’oggi ancora nel clima della solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria. Vorrei pertanto invitarvi a volgere lo sguardo, ancora una volta, alla nostra Madre celeste, che ieri la liturgia ci ha fatto contemplare trionfante con Cristo in Cielo. Questa festa è stata sempre molto sentita dal popolo cristiano, fin dai primi secoli del cristianesimo; essa, com’è noto, celebra la glorificazione anche corporale di quella creatura che Dio si è scelto come Madre e che Gesù sulla Croce ha dato per Madre a tutta l’umanità. L’Assunzione evoca un mistero che interessa ciascuno di noi perché, come afferma il Concilio Vaticano II, Maria "brilla quaggiù come segno di sicura speranza e consolazione per il popolo di Dio che è in cammino" (Lumen gentium, 68). Si è però talmente presi dalle vicende di ogni giorno da dimenticare talora questa consolante realtà spirituale, che costituisce un’importante verità di fede.

Come far sì allora che questo segno luminoso di speranza sia percepito sempre più dall’odierna società? C’è oggi chi vive come se non dovesse mai morire o come se tutto dovesse finire con la morte; alcuni si comportano ritenendo che l’uomo sia l’unico artefice del proprio destino, come se Dio non esistesse, giungendo qualche volta persino a negare che ci sia spazio per Lui nel nostro mondo. I grandi successi della tecnica e della scienza, che hanno notevolmente migliorato la condizione dell’umanità, lasciano però senza soluzione i quesiti più profondi dell’animo umano. Solo l’apertura al mistero di Dio, che è Amore, può colmare la sete di verità e di felicità del nostro cuore; solo la prospettiva dell’eternità può dare valore autentico agli eventi storici e soprattutto al mistero della fragilità umana, della sofferenza e della morte.

Contemplando Maria nella gloria celeste, comprendiamo che anche per noi la terra non è la patria definitiva e che, se viviamo rivolti ai beni eterni, un giorno condivideremo la sua stessa gloria e diventa più bella anche la terra. Per questo, pur tra le mille difficoltà quotidiane non dobbiamo perdere la serenità e la pace. Il segno luminoso dell’Assunta in cielo rifulge ancor più da noi tutti e quando sembrano accumularsi all’orizzonte ombre tristi di dolore e di violenza. Ne siamo certi: dall’alto Maria segue i nostri passi con dolce trepidazione, ci rasserena nell’ora del buio e della tempesta, ci rassicura con la sua mano materna. Sorretti da questa consapevolezza, proseguiamo fiduciosi nel nostro cammino di impegno cristiano là dove la Provvidenza ci conduce. Andiamo avanti, sotto la guida di Maria, nella nostra vita. Grazie.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 09:14

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 23 agosto 2006

Giovanni, il veggente di Patmos

Cari fratelli e sorelle,

nell'ultima catechesi eravamo arrivati alla meditazione sulla figura dell'apostolo Giovanni. Avevamo dapprima cercato di vedere quanto si può sapere della sua vita. Poi, in una seconda catechesi, avevamo meditato il contenuto centrale del suo Vangelo, delle sue Lettere:  la carità, l'amore. E oggi siamo ancora impegnati con la figura di Giovanni, questa volta per considerare il Veggente dell'Apocalisse. E facciamo subito un'osservazione:  mentre né il Quarto Vangelo né le Lettere attribuite all'Apostolo recano mai il suo nome, l'Apocalisse fa riferimento al nome di Giovanni ben quattro volte (cfr 1, 1.4.9; 22, 8).

È evidente che l'Autore, da una parte, non aveva alcun motivo per tacere il proprio nome e, dall'altra, sapeva che i suoi primi lettori potevano identificarlo con precisione. Sappiamo peraltro che, già nel III secolo, gli studiosi discutevano sulla vera identità anagrafica del Giovanni dell'Apocalisse. Ad ogni buon fine, lo potremmo anche chiamare "il Veggente di Patmos", perché la sua figura è legata al nome di questa isola del Mar Egeo, dove, secondo la sua stessa testimonianza autobiografica, egli si trovava come deportato "a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù" (Ap 1, 9). Proprio a Patmos, "rapito in estasi nel giorno del Signore" (Ap 1, 10), Giovanni ebbe delle visioni grandiose e udì messaggi straordinari, che influiranno non poco sulla storia della Chiesa e sull'intera cultura cristiana. Per esempio, dal titolo del suo libro - Apocalisse, Rivelazione - furono introdotte nel nostro linguaggio le parole "apocalisse, apocalittico", che evocano, anche se in modo improprio, l'idea di una catastrofe incombente.

Il libro va compreso sullo sfondo della drammatica esperienza delle sette Chiese d'Asia (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiàtira, Sardi, Filadelfia, Laodicéa), che sul finire del I secolo dovettero affrontare difficoltà non lievi - persecuzioni e tensioni anche interne - nella loro testimonianza a Cristo. Ad esse Giovanni si rivolge mostrando viva sensibilità pastorale nei confronti dei cristiani perseguitati, che egli esorta a rimanere saldi nella fede e a non identificarsi con il mondo pagano, così forte. Il suo oggetto è costituito in definitiva dal disvelamento, a partire dalla morte e risurrezione di Cristo, del senso della storia umana. La prima e fondamentale visione di Giovanni, infatti, riguarda la figura dell'Agnello, che è sgozzato eppure sta ritto in piedi (cfr Ap 5, 6), collocato in mezzo al trono dove già è assiso Dio stesso. Con ciò, Giovanni vuol dirci innanzitutto due cose:  la prima è che Gesù, benché ucciso con un atto di violenza, invece di stramazzare a terra sta paradossalmente ben fermo sui suoi piedi, perché con la risurrezione ha definitivamente vinto la morte; l'altra è che lo stesso Gesù, proprio in quanto morto e risorto, è ormai pienamente partecipe del potere regale e salvifico del Padre.

Questa è la visione fondamentale. Gesù, il Figlio di Dio, in questa terra è un Agnello indifeso, ferito, morto. E tuttavia sta dritto, sta in piedi, sta davanti al trono di Dio ed è partecipe del potere divino. Egli ha nelle sue mani la storia del mondo. E così il Veggente vuol dirci:  abbiate fiducia in Gesù, non abbiate paura dei poteri contrastanti, della persecuzione! L'Agnello ferito e morto vince! Seguite l'Agnello Gesù, affidatevi a Gesù, prendete la sua strada! Anche se in questo mondo è solo un Agnello che appare debole, è Lui il vincitore!

Una delle principali visioni dell'Apocalisse ha per oggetto questo Agnello nell'atto di aprire un libro, prima chiuso con sette sigilli che nessuno era in grado di sciogliere. Giovanni è addirittura presentato nell'atto di piangere, perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo (cfr Ap 5, 4). La storia rimane indecifrabile, incomprensibile. Nessuno può leggerla. Forse questo pianto di Giovanni davanti al mistero della storia così oscuro esprime lo sconcerto delle Chiese asiatiche per il silenzio di Dio di fronte alle persecuzioni a cui erano esposte in quel momento. È uno sconcerto nel quale può ben riflettersi il nostro sbigottimento di fronte alle gravi difficoltà, incomprensioni e ostilità che pure oggi la Chiesa soffre in varie parti del mondo. Sono sofferenze che la Chiesa certo non si merita, così come Gesù stesso non meritò il suo supplizio. Esse però rivelano sia la malvagità dell'uomo, quando si abbandona alle suggestioni del male, sia la superiore conduzione degli avvenimenti da parte di Dio. Ebbene, solo l'Agnello immolato è in grado di aprire il libro sigillato e di rivelarne il contenuto, di dare senso a questa storia apparentemente così spesso assurda. Egli solo può trarne indicazioni e ammaestramenti per la vita dei cristiani, ai quali la sua vittoria sulla morte reca l'annuncio e la garanzia della vittoria che anch'essi senza dubbio otterranno. A offrire questo conforto mira tutto il linguaggio fortemente immaginoso di cui Giovanni si serve.

Al centro delle visioni che l'Apocalisse espone ci sono anche quelle molto significative della Donna che partorisce un Figlio maschio, e quella complementare del Drago ormai precipitato dai cieli, ma ancora molto potente. Questa Donna rappresenta Maria, la Madre del Redentore, ma rappresenta allo stesso tempo tutta la Chiesa, il Popolo di Dio di tutti i tempi, la Chiesa che in tutti i tempi, con grande dolore, partorisce Cristo sempre di nuovo. Ed è sempre minacciata dal potere del Drago. Appare indifesa, debole. Ma mentre è minacciata, perseguitata dal Drago è anche protetta dalla consolazione di Dio. E questa Donna alla fine vince. Non vince il Drago. Ecco la grande profezia di questo libro, che ci dà fiducia! La Donna che soffre nella storia, la Chiesa che è perseguitata alla fine appare come Sposa splendida, figura della nuova Gerusalemme dove non ci sono più lacrime né pianto, immagine del mondo trasformato, del nuovo mondo la cui luce è Dio stesso, la cui lampada è l'Agnello.

Per questo motivo l'Apocalisse di Giovanni, benché pervasa da continui riferimenti a sofferenze, tribolazioni e pianto - la faccia oscura della storia -, è altrettanto permeata da frequenti canti di lode, che rappresentano quasi la faccia luminosa della storia. Così, per esempio, vi si legge di una folla immensa, che canta quasi gridando: "Alleluia! Ha preso possesso del suo Regno il Signore, il nostro Dio, l'Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché son giunte le nozze dell'Agnello, e la sua sposa è pronta" (Ap 19, 6-7). Siamo qui di fronte al tipico paradosso cristiano, secondo cui la sofferenza non è mai percepita come l'ultima parola, ma è vista come punto di passaggio verso la felicità e, anzi, essa stessa è già misteriosamente intrisa della gioia che scaturisce dalla speranza. Proprio per questo Giovanni, il Veggente di Patmos, può chiudere il suo libro con un'ultima aspirazione, palpitante di trepida attesa.

Egli invoca la venuta definitiva del Signore: "Vieni, Signore Gesù!" (Ap 22, 20). È una delle preghiere centrali della cristianità nascente, tradotta anche da san Paolo nella forma aramaica: "Marana tha". E questa preghiera "Signore nostro, vieni!" (1 Cor 16, 22) ha diverse dimensioni. Naturalmente è anzitutto attesa della vittoria definitiva del Signore, della nuova Gerusalemme, del Signore che viene e trasforma il mondo. Ma, nello stesso tempo, è anche preghiera eucaristica: "Vieni Gesù, adesso!". E Gesù viene, anticipa questo suo arrivo definitivo. Così con gioia diciamo nello stesso tempo: "Vieni adesso e vieni in modo definitivo!". Questa preghiera ha anche un terzo significato: "Sei già venuto, Signore! Siamo sicuri della tua presenza tra di noi. È una nostra esperienza gioiosa.

Ma vieni in modo definitivo!". E così, con san Paolo, con il Veggente di Patmos, con la cristianità nascente, preghiamo anche noi: "Vieni, Gesù! Vieni e trasforma il mondo! Vieni già oggi e vinca la pace!". Amen!

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 09:15

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 30 agosto 2006

Matteo

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie dei ritratti dei dodici Apostoli, che abbiamo cominciato alcune settimane fa, oggi ci soffermiamo su Matteo. Per la verità, delineare compiutamente la sua figura è quasi impossibile, perché le notizie che lo riguardano sono poche e frammentarie. Ciò che possiamo fare, però, è tratteggiare non tanto la sua biografia quanto piuttosto il profilo che ne trasmette il Vangelo.

Intanto, egli risulta sempre presente negli elenchi dei Dodici scelti da Gesù (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13). Il suo nome ebraico significa “dono di Dio”. Il primo Vangelo canonico, che va sotto il suo nome, ce lo presenta nell’elenco dei Dodici con una qualifica ben precisa: “il pubblicano” (Mt 10,3). In questo modo egli viene identificato con l’uomo seduto al banco delle imposte, che Gesù chiama alla propria sequela: “Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt 9,9). Anche Marco (cfr 2,13-17) e Luca (cfr 5,27-30) raccontano la chiamata dell’uomo seduto al banco delle imposte, ma lo chiamano “Levi”. Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata qui a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi.

Dai Vangeli emerge un ulteriore particolare biografico: nel passo che precede immediatamente il racconto della chiamata viene riferito un miracolo compiuto da Gesù a Cafarnao (cfr Mt 9,1-8; Mc 2,1-12) e si accenna alla prossimità del Mare di Galilea, cioè del Lago di Tiberiade (cfr Mc 2,13-14). Si può da ciò dedurre che Matteo esercitasse la funzione di esattore a Cafarnao, posta appunto “presso il mare” (Mt 4,13), dove Gesù era ospite fisso nella casa di Pietro.

Sulla base di queste semplici constatazioni che risultano dal Vangelo possiamo avanzare un paio di riflessioni. La prima è che Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l'opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11).

Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l'importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).

Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, “il pubblicano ... non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”. E Gesù commenta: “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza.

A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo -  “poiché non c'è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.

Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all'istante: “egli si alzò e lo seguì”. La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l'adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.

Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: “Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva” (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: “Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza” (ibid., III, 24,6).

Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, séguita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 09:17

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 6 settembre 2006

Filippo

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nel tratteggiare le fisionomie dei vari Apostoli, come facciamo da alcune settimane, incontriamo oggi Filippo. Nelle liste dei Dodici, egli è sempre collocato al quinto posto (così in Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,14; At 1,13), quindi sostanzialmente tra i primi. Benché Filippo fosse di origine ebraica, il suo nome è greco, come quello di Andrea, e questo è un piccolo segno di apertura culturale da non sottovalutare. Le notizie che abbiamo di lui ci vengono fornite dal Vangelo di Giovanni. Egli proveniva dallo stesso luogo d’origine di Pietro e di Andrea, cioè Betsaida (cfr Gv 1,44), una cittadina appartenente alla tetrarchìa di uno dei figli di Erode il Grande, anch’egli chiamato Filippo (cfr Lc 3,1).

Il Quarto Vangelo racconta che, dopo essere stato chiamato da Gesù, Filippo incontra Natanaele e gli dice: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe, di Nazaret” (Gv 1,45). Alla risposta piuttosto scettica di Natanaele (“Da Nazaret può forse venire qualcosa di buono?”), Filippo non si arrende e controbatte con decisione: “Vieni e vedi!” (Gv 1,46). In questa risposta, asciutta ma chiara, Filippo manifesta le caratteristiche del vero testimone: non si accontenta di proporre l’annuncio, come una teoria, ma interpella direttamente l’interlocutore suggerendogli di fare lui stesso un’esperienza personale di quanto annunciato. I medesimi due verbi sono usati da Gesù stesso quando due discepoli di Giovanni Battista lo avvicinano per chiedergli dove abita. Gesù rispose: “Venite e vedrete” (cfr Gv 1,38-39).

Possiamo pensare che Filippo si rivolga pure a noi con quei due verbi che suppongono un personale coinvolgimento. Anche a noi dice quanto disse a Natanaele: “Vieni e vedi”. L’Apostolo ci impegna a conoscere Gesù da vicino. In effetti, l’amicizia, il vero conoscere l’altro, ha bisogno della vicinanza, anzi in parte vive di essa. Del resto, non bisogna dimenticare che, secondo quanto scrive Marco, Gesù scelse i Dodici con lo scopo primario che “stessero con lui” (Mc 3,14), cioè condividessero la sua vita e imparassero direttamente da lui non solo lo stile del suo comportamento, ma soprattutto chi davvero Lui fosse. Solo così infatti, partecipando alla sua vita, essi potevano conoscerlo e poi annunciarlo. Più tardi, nella Lettera di Paolo agli Efesini, si leggerà che l’importante è “imparare il Cristo” (4,20), quindi non solo e non tanto ascoltare i suoi insegnamenti, le sue parole, quanto ancor più conoscere Lui in persona, cioè la sua umanità e divinità, il suo mistero, la sua bellezza. Egli infatti non è solo un Maestro, ma un Amico, anzi un Fratello. Come potremmo conoscerlo a fondo restando lontani? L’intimità, la familiarità, la consuetudine ci fanno scoprire la vera identità di Gesù Cristo. Ecco: è proprio questo che ci ricorda l’apostolo Filippo. E così ci invita a “venire”, a “vedere”, cioè ad entrare in un contatto di ascolto, di risposta e di comunione di vita con Gesù giorno per giorno.

Egli, poi, in occasione della moltiplicazione dei pani, ricevette da Gesù una precisa richiesta, alquanto sorprendente: dove, cioè, fosse possibile comprare il pane per sfamare tutta la gente che lo seguiva (cfr Gv 6,5).

Allora Filippo rispose con molto realismo: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno di loro possa riceverne anche solo un pezzo” (Gv 6,7). Si vedono qui la concretezza e il realismo dell’Apostolo, che sa giudicare gli effettivi risvolti di una situazione. Come poi siano andate le cose, lo sappiamo. Sappiamo che Gesù prese i pani e, dopo aver pregato, li distribuì. Così si realizzò la moltiplicazione dei pani. Ma è interessante che Gesù si sia rivolto proprio a Filippo per avere una prima indicazione su come risolvere il problema: segno evidente che egli faceva parte del gruppo ristretto che lo circondava. In un altro momento, molto importante per la storia futura, prima della Passione, alcuni Greci che si trovavano a Gerusalemme per la Pasqua “si avvicinarono a Filippo ... e gli chiesero: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù” (Gv 12,20-22). Ancora una volta, abbiamo l’indizio di un suo particolare prestigio all’interno del collegio apostolico. Soprattutto, in questo caso, egli fa da intermediario tra la richiesta di alcuni Greci – probabilmente parlava il greco e potè prestarsi come interprete – e Gesù; anche se egli si unisce ad Andrea, l’altro Apostolo con un nome greco, è comunque a lui che quegli estranei si rivolgono. Questo ci insegna ad essere anche noi sempre pronti, sia ad accogliere domande e invocazioni da qualunque parte giungano, sia a orientarle verso il Signore, l'unico che le può soddisfare in pienezza. E’ importante, infatti, sapere che non siamo noi i destinatari ultimi delle preghiere di chi ci avvicina, ma è il Signore: a lui dobbiamo indirizzare chiunque si trovi nella necessità. Ecco: ciascuno di noi dev'essere una strada aperta verso di lui!

C'è poi un'altra occasione tutta particolare, in cui entra in scena Filippo. Durante l’Ultima Cena, avendo Gesù affermato che conoscere Lui significava anche conoscere il Padre (cfr Gv 14,7), Filippo quasi ingenuamente gli chiese: “Signore, mostraci il Padre, e ci basta» (Gv 14,8). Gesù gli rispose con un tono di benevolo rimprovero: “Filippo, da tanto tempo sono con voi e ancora non mi conosci? Colui che vede me, vede il Padre! Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? ... Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,9-11). Queste parole sono tra le più alte del Vangelo di Giovanni. Esse contengono una rivelazione vera e propria. Al termine del Prologo del suo Vangelo, Giovanni afferma: “Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Ebbene, quella dichiarazione, che è dell’evangelista, è ripresa e confermata da Gesù stesso. Ma con una nuova sfumatura. Infatti, mentre il Prologo giovanneo parla di un intervento esplicativo di Gesù mediante le parole del suo insegnamento, nella risposta a Filippo Gesù fa riferimento alla propria persona come tale, lasciando intendere che è possibile comprenderlo non solo mediante ciò che dice, ma ancora di più mediante ciò che egli semplicemente è. Per esprimerci secondo il paradosso dell’Incarnazione, possiamo ben dire che Dio si è dato un volto umano, quello di Gesù, e per conseguenza d’ora in poi, se davvero vogliamo conoscere il volto di Dio, non abbiamo che da contemplare il volto di Gesù! Nel suo volto vediamo realmente chi è Dio e come è Dio!

L’evangelista non ci dice se Filippo capì pienamente la frase di Gesù. Certo è che egli dedicò interamente a lui la propria vita. Secondo alcuni racconti posteriori (Atti di Filippo e altri), il nostro Apostolo avrebbe evangelizzato prima la Grecia e poi la Frigia e là avrebbe affrontato la morte, a Gerapoli, con un supplizio variamente descritto come crocifissione o lapidazione. Vogliamo concludere la nostra riflessione richiamando lo scopo cui deve tendere la nostra vita: incontrare Gesù come lo incontrò Filippo, cercando di vedere in lui Dio stesso, il Padre celeste. Se questo impegno mancasse, verremmo rimandati sempre solo a noi come in uno specchio, e saremmo sempre più soli! Filippo invece ci insegna a lasciarci conquistare da Gesù, a stare con lui, e a invitare anche altri a condividere questa indispensabile compagnia. E vedendo, trovando Dio, trovare la vera vita.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 09:19

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 20 settembre 2006

Viaggio Apostolico a München, Altötting e Regensburg

Cari fratelli e sorelle,

vorrei quest’oggi ritornare con il pensiero ai vari momenti del viaggio pastorale che il Signore mi ha concesso di compiere, la scorsa settimana, in Baviera. Nel condividere con voi le emozioni e i sentimenti provati rivedendo i luoghi a me cari, sento innanzitutto il bisogno di ringraziare Iddio per aver reso possibile questa seconda visita in Germania e per la prima volta in Baviera, mia terra d’origine. Sono sinceramente grato anche a quanti – Pastori, sacerdoti, operatori pastorali, autorità pubbliche, organizzatori, forze dell’ordine e volontari – hanno lavorato con dedizione e pazienza perché ogni evento si svolgesse nel migliore dei modi. Come ho detto all’arrivo all’aeroporto di Monaco, sabato 9 settembre, lo scopo del mio viaggio era, nel ricordo di quanti hanno contribuito a formare la mia personalità, di riaffermare e confermare, come Successore dell’apostolo Pietro, gli stretti legami che uniscono la Sede di Roma con la Chiesa in Germania. Il viaggio dunque non è stato un semplice “ritorno” al passato, ma anche un’occasione provvidenziale per guardare con speranza al futuro. “Chi crede non è mai solo”: il motto della visita voleva essere un invito a riflettere sull’appartenenza di ogni battezzato all’unica Chiesa di Cristo, all’interno della quale non si è mai soli, ma in costante comunione con Dio e con tutti i fratelli.

La prima tappa è stata la città di Monaco, detta “la Metropoli con il cuore” (Weltstadt mit Herz). Nel suo centro storico si trova la Marienplatz, la piazza di Maria, dove sorge la “Mariensäule”, la Colonna della Madonna, con in cima una statua della Vergine Maria, in bronzo dorato. Ho voluto iniziare il mio soggiorno bavarese con l’omaggio alla Patrona della Baviera, che riveste per me un valore altamente significativo: là, in quella piazza e dinanzi a quell’effigie mariana, circa trent’anni fa fui accolto come Arcivescovo ed iniziai la mia missione episcopale con una preghiera a Maria; là tornai al termine del mio mandato, prima di partire per Roma. Questa volta ho voluto sostare ancora ai piedi della Mariensäule per implorare l’intercessione e la benedizione della Madre di Dio non soltanto per la città di Monaco e la Baviera, ma per tutta Chiesa e per il mondo intero. Il giorno appresso, domenica, ho celebrato l’Eucaristia sulla spianata della “Neue Messe (Nuova Fiera) di Monaco, tra i fedeli convenuti numerosi da varie parti: sulla scorta del brano evangelico del giorno, ho ricordato a tutti che esiste una “debolezza d’udito” nei confronti di Dio di cui si soffre specialmente oggi. E’ compito di noi, cristiani in un mondo secolarizzato, proclamare e testimoniare a tutti il messaggio di speranza che la fede ci offre: in Gesù crocifisso Iddio, Padre misericordioso, ci chiama ad essere suoi figli e a superare ogni forma di odio e di violenza per contribuire al definitivo trionfo dell’amore.

Facci forti nella fede”: è stato il tema dell’appuntamento del pomeriggio di domenica con i bambini della prima comunione e con le loro giovani famiglie, con i catechisti, gli altri operatori pastorali e quanti cooperano all’evangelizzazione nella diocesi di Monaco. Insieme abbiamo celebrato i Vespri nella storica Cattedrale, nota come “Cattedrale di Nostra Signora”, dove sono custodite le reliquie di san Benno, patrono della Città, e dove nel 1977 io venni ordinato Vescovo. Ai piccoli e agli adulti ho ricordato che Dio non è lontano da noi, in qualche luogo irraggiungibile dell’universo; al contrario, in Gesù, Egli ci si è avvicinato per stabilire con ciascuno un rapporto d’amicizia. Ogni comunità cristiana, ed in particolare la parrocchia, grazie all’impegno costante di ogni suo membro, è chiamata a diventare una grande famiglia, capace di procedere unita sul sentiero della vita vera.

La giornata di lunedì, 11 settembre, è stata in gran parte occupata dalla sosta ad Altötting, nella diocesi di Passau. Questa cittadina è conosciuta come “Herz Bayerns” (cuore della Baviera), e là è custodita la “Madonna nera”, venerata nella Gnadenkapelle (Cappella delle Grazie), meta di numerosi pellegrini provenienti dalla Germania e dalle nazioni dell’Europa centrale. Nelle vicinanze c’è il convento cappuccino di sant’Anna, dove visse san Konrad Birndorfer, canonizzato dal mio venerato predecessore, Papa Pio XI, nell’anno 1934.

Con i numerosi fedeli presenti alla
Santa Messa, celebrata nella piazza antistante il Santuario, abbiamo insieme riflettuto sul ruolo di Maria nell’opera della salvezza, per imparare da lei la bontà servizievole, l’umiltà e la generosa accettazione della volontà divina. Maria ci conduce a Gesù: questa verità è stata resa ancor più visibile, al termine del divin Sacrificio, dalla devota processione in cui, portando con noi la statua della Madonna, ci siamo recati nella nuova cappella dell’Adorazione eucaristica (Anbetungskapelle), inaugurata per l’occasione. La giornata si è chiusa con i solenni Vespri mariani nella Basilica di Sant’Anna di Altötting, essendo presenti i religiosi e i seminaristi della Baviera insieme ai membri dell’Opera per le Vocazioni.

Il giorno dopo, martedì, a Regensburg, diocesi eretta da san Bonifacio nel 739 e che ha come patrono il Vescovo san Wolfgang, si sono avuti tre importanti appuntamenti. Al mattino la Santa Messa nell’Islinger Feld, durante la quale, riprendendo il tema della visita pastorale “Chi crede non è mai solo”, abbiamo riflettuto sul contenuto del Simbolo della fede. Iddio, che è Padre, vuole raccogliere, mediante Gesù Cristo, tutta l’umanità in un’unica famiglia, la Chiesa. Per questo chi crede non è mai solo; chi crede non deve temere di finire in un vicolo cieco. Nel pomeriggio sono poi stato nel Duomo di Regensburg, noto anche per il suo coro di voci bianche, i “Domspatzen” (passerotti del Duomo), che vanta mille anni di attività e che per un trentennio è stato diretto da mio fratello Georg. Là si è tenuta la celebrazione ecumenica dei Vespri, a cui hanno preso parte numerosi rappresentanti di varie Chiese e Comunità ecclesiali in Baviera e i membri della Commissione ecumenica della Conferenza Episcopale Tedesca. E’ stata una provvidenziale occasione per pregare insieme, perché si affretti la piena unità fra tutti i discepoli di Cristo e per ribadire il dovere di proclamare la nostra fede in Gesù Cristo senza attenuazioni, ma in modo integrale e chiaro, e soprattutto per il nostro comportamento di amore sincero.

Un'esperienza particolarmente bella è stata per me in quel giorno tenere una prolusione davanti a un grande uditorio di professori e di studenti nell'Università di Regensburg, dove per molti anni ho insegnato come professore. Con gioia ho potuto incontrare ancora una volta il mondo universitario che, durante un lungo periodo della mia vita, è stato la mia patria spirituale. Come tema avevo scelto la questione del rapporto tra fede e ragione.

Per introdurre l'uditorio nella drammaticità e nell'attualità dell'argomento, ho citato alcune parole di un dialogo cristiano-islamico del XIV secolo, con le quali l'interlocutore cristiano - l'imperatore bizantino Manuele II Paleologo - in modo per noi incomprensibilmente brusco - presentò all’interlocutore islamico il problema del rapporto tra religione e violenza. Questa citazione, purtroppo, ha potuto prestarsi ad essere fraintesa. Per il lettore attento del mio testo, però, risulta chiaro che non volevo in nessun modo far mie le parole negative pronunciate dall'imperatore medievale in questo dialogo e che il loro contenuto polemico non esprime la mia convinzione personale. La mia intenzione era ben diversa: partendo da ciò che Manuele II successivamente dice in modo positivo, con una parola molto bella, circa la ragionevolezza che deve guidare nella trasmissione della fede, volevo spiegare che non religione e violenza, ma religione e ragione vanno insieme. Il tema della mia conferenza – rispondendo alla missione dell’Università – fu quindi la relazione tra fede e ragione: volevo invitare al dialogo della fede cristiana col mondo moderno ed al dialogo di tutte le culture e religioni. Spero che in diverse occasioni della mia visita - per esempio, quando a Monaco ho sottolineato quanto sia importante rispettare ciò che per gli altri è sacro - sia apparso con chiarezza il mio rispetto profondo per le grandi religioni e, in particolare, per i musulmani, che “adorano l’unico Dio” e con i quali siamo impegnati a “difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (Nostra Aetate, 3). Confido quindi che, dopo le reazioni del primo momento, le mie parole nell'Università di Regensburg possano costituire una spinta e un incoraggiamento a un dialogo positivo, anche autocritico, sia tra le religioni come tra la ragione moderna e la fede dei cristiani.
 

La mattina seguente, mercoledì 13 settembre, nella “Alte Kapelle” (Vecchia Cappella) di Regensburg, in cui è custodita un’immagine miracolosa di Maria, dipinta secondo la tradizione locale dall’evangelista Luca, ho presieduto una breve liturgia per la benedizione del nuovo organo. Prendendo spunto dalla struttura di questo strumento musicale formato da molte canne di diversa dimensione, tutte però tra loro bene armonizzate, ho ricordato ai presenti la necessità che i vari ministeri, doni e carismi operanti nella Comunità ecclesiale convergano tutti, sotto la guida dello Spirito Santo, a formare l’unica armonia della lode a Dio e dell’amore per i fratelli.

Ultima tappa, giovedì 14 settembre, è stata la città di Freising. Ad essa mi sento particolarmente legato perché venni ordinato sacerdote proprio nella sua Cattedrale, dedicata a Maria Santissima e a san Corbiniano, l’evangelizzatore nella Baviera. E proprio nel Duomo si è tenuto l’ultimo incontro in programma, quello con i sacerdoti e i diaconi permanenti. Rivivendo le emozioni della mia Ordinazione sacerdotale, ho ricordato ai presenti il dovere di collaborare col Signore nel suscitare nuove vocazioni a servizio della “messe” che anche oggi è “molta”, e li ho esortati a coltivare la vita interiore come priorità pastorale, per non perdere il contatto con Cristo, fonte di gioia nella quotidiana fatica del ministero.

Nella cerimonia di congedo, ringraziando ancora una volta quanti avevano collaborato alla realizzazione della visita, ne ho ribadito nuovamente la finalità principale: riproporre ai miei concittadini le eterne verità del Vangelo e confermare i credenti nell’adesione a Cristo, Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per noi. Ci aiuti Maria, Madre della Chiesa, ad aprire il cuore e la mente a Colui che è “la Via, la Verità e la Vita” (Gv 14,16). Per questo ho pregato e per questo invito tutti voi, cari fratelli e sorelle, a continuare a pregare, ringraziandovi cordialmente per l’affetto con cui mi accompagnate nel quotidiano mio ministero pastorale. Grazie a voi tutti.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 09:20

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 27 settembre 2006

Tommaso

Cari fratelli e sorelle,

Cari fratelli e sorelle, proseguendo i nostri incontri con i dodici Apostoli scelti direttamente da Gesù, oggi dedichiamo la nostra attenzione a Tommaso. Sempre presente nelle quattro liste compilate dal Nuovo Testamento, egli nei primi tre Vangeli è collocato accanto a Matteo (cfr Mt 10, 3; Mc 3, 18; Lc 6, 15), mentre negli Atti si trova vicino a Filippo (cfr At 1, 13). Il suo nome deriva da una radice ebraica, ta'am, che significa "appaiato, gemello". In effetti, il Vangelo di Giovanni più volte lo chiama con il soprannome di "Didimo" (cfr Gv 11, 16; 20, 24; 21, 2), che in greco vuol dire appunto "gemello". Non è chiaro il perché di questo appellativo.

Soprattutto il Quarto Vangelo ci offre alcune notizie che ritraggono qualche lineamento significativo della sua personalità. La prima riguarda l'esortazione, che egli fece agli altri Apostoli, quando Gesù, in un momento critico della sua vita, decise di andare a Betania per risuscitare Lazzaro, avvicinandosi così pericolosamente a Gerusalemme (cfr Mc 10, 32). In quell'occasione Tommaso disse ai suoi condiscepoli: "Andiamo anche noi e moriamo con lui" (Gv 11, 16). Questa sua determinazione nel seguire il Maestro è davvero esemplare e ci offre un prezioso insegnamento: rivela la totale disponibilità ad aderire a Gesù, fino ad identificare la propria sorte con quella di Lui ed a voler condividere con Lui la prova suprema della morte. In effetti, la cosa più importante è non distaccarsi mai da Gesù. D'altronde, quando i Vangeli usano il verbo "seguire" è per significare che dove si dirige Lui, là deve andare anche il suo discepolo. In questo modo, la vita cristiana si definisce come una vita con Gesù Cristo, una vita da trascorrere insieme con Lui. San Paolo scrive qualcosa di analogo, quando così rassicura i cristiani di Corinto: "Voi siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere" (2 Cor 7, 3). Ciò che si verifica tra l'Apostolo e i suoi cristiani deve, ovviamente, valere prima di tutto per il rapporto tra i cristiani e Gesù stesso: morire insieme, vivere insieme, stare nel suo cuore come Lui sta nel nostro.

Un secondo intervento di Tommaso è registrato nell'Ultima Cena. In quell'occasione Gesù, predicendo la propria imminente dipartita, annuncia di andare a preparare un posto ai discepoli perché siano anch'essi dove si trova lui; e precisa loro: "Del luogo dove io vado, voi conoscete la via" (Gv 14, 4). È allora che Tommaso interviene dicendo: "Signore, non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via?" (Gv 14, 5). In realtà, con questa uscita egli si pone ad un livello di comprensione piuttosto basso; ma queste sue parole forniscono a Gesù l'occasione per pronunciare la celebre definizione: "Io sono la via, la verità e la vita" (Gv 14, 6).

È dunque primariamente a Tommaso che viene fatta questa rivelazione, ma essa vale per tutti noi e per tutti i tempi. Ogni volta che noi sentiamo o leggiamo queste parole, possiamo metterci col pensiero al fianco di Tommaso ed immaginare che il Signore parli anche con noi così come parlò con lui. Nello stesso tempo, la sua domanda conferisce anche a noi il diritto, per così dire, di chiedere spiegazioni a Gesù. Noi spesso non lo comprendiamo. Abbiamo il coraggio di dire: non ti comprendo, Signore, ascoltami, aiutami a capire. In tal modo, con questa franchezza che è il vero modo di pregare, di parlare con Gesù, esprimiamo la pochezza della nostra capacità di comprendere, al tempo stesso ci poniamo nell'atteggiamento fiducioso di chi si attende luce e forza da chi è in grado di donarle.

Notissima, poi, e persino proverbiale è la scena di Tommaso incredulo, avvenuta otto giorni dopo la Pasqua. In un primo tempo, egli non aveva creduto a Gesù apparso in sua assenza, e aveva detto: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò!" (Gv 20, 25). In fondo, da queste parole emerge la convinzione che Gesù sia ormai riconoscibile non tanto dal viso quanto dalle piaghe. Tommaso ritiene che segni qualificanti dell'identità di Gesù siano ora soprattutto le piaghe, nelle quali si rivela fino a che punto Egli ci ha amati. In questo l'Apostolo non si sbaglia.

Come sappiamo, otto giorni dopo Gesù ricompare in mezzo ai suoi discepoli, e questa volta Tommaso è presente. E Gesù lo interpella: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente" (Gv 20, 27). Tommaso reagisce con la più splendida professione di fede di tutto il Nuovo Testamento: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20, 28). A questo proposito commenta Sant'Agostino: Tommaso "vedeva e toccava l'uomo, ma confessava la sua fede in Dio, che non vedeva né toccava. Ma quanto vedeva e toccava lo induceva a credere in ciò di cui sino ad allora aveva dubitato" (In Iohann. 121, 5).

L'evangelista prosegue con un'ultima parola di Gesù a Tommaso: "Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno" (Gv 20, 29). Questa frase si può anche mettere al presente: "Beati quelli che non vedono eppure credono". In ogni caso, qui Gesù enuncia un principio fondamentale per i cristiani che verranno dopo Tommaso, quindi per tutti noi. È interessante osservare come un altro Tommaso, il grande teologo medioevale di Aquino, accosti a questa formula di beatitudine quella apparentemente opposta riportata da Luca: "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete" (Lc 10, 23). Ma l'Aquinate commenta: "Merita molto di più chi crede senza vedere che non chi crede vedendo" (In Johann. XX lectio VI 2566).

In effetti, la Lettera agli Ebrei, richiamando tutta la serie degli antichi Patriarchi biblici, che credettero in Dio senza vedere il compimento delle sue promesse, definisce la fede come "fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" (11, 1). Il caso dell'apostolo Tommaso è importante per noi per almeno tre motivi: primo, perché ci conforta nelle nostre insicurezze; secondo, perché ci dimostra che ogni dubbio può approdare a un esito luminoso oltre ogni incertezza; e, infine, perché le parole rivolte a lui da Gesù ci ricordano il vero senso della fede matura e ci incoraggiano a proseguire, nonostante la difficoltà, sul nostro cammino di adesione a Lui.

Un'ultima annotazione su Tommaso ci è conservata dal Quarto Vangelo, che lo presenta come testimone del Risorto nel successivo momento della pesca miracolosa sul Lago di Tiberiade (cfr Gv 21, 2). In quell'occasione egli è menzionato addirittura subito dopo Simon Pietro: segno evidente della notevole importanza di cui godeva nell'ambito delle prime comunità cristiane. In effetti, nel suo nome vennero poi scritti gli Atti e il Vangelo di Tommaso, ambedue apocrifi ma comunque importanti per lo studio delle origini cristiane. Ricordiamo infine che, secondo un'antica tradizione, Tommaso evangelizzò prima la Siria e la Persia (così riferisce già Origene, riportato da Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. 3, 1) poi si spinse fino all'India occidentale (cfr Atti di Tommaso 1-2 e 17ss), da dove infine raggiunse anche l'India meridionale. In questa prospettiva missionaria terminiamo la nostra riflessione, esprimendo l'auspicio che l'esempio di Tommaso corrobori sempre più la nostra fede in Gesù Cristo, nostro Signore e nostro Dio.

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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 09:21

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 4 ottobre 2006

Bartolomeo

Cari fratelli e sorelle,

nella serie degli Apostoli chiamati da Gesù durante la sua vita terrena, oggi è l'apostolo Bartolomeo ad attrarre la nostra attenzione. Negli antichi elenchi dei Dodici egli viene sempre collocato prima di Matteo, mentre varia il nome di quello che lo precede e che può essere Filippo (cfr Mt 10, 3; Mc 3, 18; Lc 6, 14) oppure Tommaso (cfr At 1, 13). Il suo nome è chiaramente un patronimico, perché formulato con esplicito riferimento al nome del padre. Infatti, si tratta di un nome di probabile impronta aramaica, bar Talmay, che significa appunto "figlio di Talmay".

Di Bartolomeo non abbiamo notizie di rilievo; infatti, il suo nome ricorre sempre e soltanto all'interno delle liste dei Dodici citate sopra e, quindi, non si trova mai al centro di nessuna narrazione. Tradizionalmente, però, egli viene identificato con Natanaele: un nome che significa "Dio ha dato". Questo Natanaele proveniva da Cana (cfr Gv 21, 2) ed è quindi possibile che sia stato testimone del grande "segno" compiuto da Gesù in quel luogo (cfr Gv 2, 1-11). L'identificazione dei due personaggi è probabilmente motivata dal fatto che questo Natanaele, nella scena di vocazione raccontata dal Vangelo di Giovanni, è posto accanto a Filippo, cioè nel posto che ha Bartolomeo nelle liste degli Apostoli riportate dagli altri Vangeli. A questo Natanaele, Filippo aveva comunicato di aver trovato "colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazaret" (Gv 1, 45).

Come sappiamo, Natanaele gli oppose un pregiudizio piuttosto pesante: "Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?" (Gv 1, 46a). Questa sorta di contestazione è, a suo modo, importante per noi. Essa, infatti, ci fa vedere che, secondo le attese giudaiche, il Messia non poteva provenire da un villaggio tanto oscuro come era appunto Nazaret (vedi anche Gv 7, 42). Al tempo stesso, però, pone in evidenza la libertà di Dio, che sorprende le nostre attese facendosi trovare proprio là dove non ce lo aspetteremmo. D'altra parte, sappiamo che Gesù in realtà non era esclusivamente "da Nazaret", ma che era nato a Betlemme (cfr Mt 2, 1; Lc 2, 4) e che ultimamente veniva dal cielo, dal Padre che è nei cieli.

Un'altra riflessione ci suggerisce la vicenda di Natanaele: nel nostro rapporto con Gesù non dobbiamo accontentarci delle sole parole. Filippo, nella sua replica, fa a Natanaele un invito significativo: "Vieni e vedi!" (Gv 1, 46b). La nostra conoscenza di Gesù ha bisogno soprattutto di un'esperienza viva: la testimonianza altrui è certamente importante, poiché di norma tutta la nostra vita cristiana comincia con l'annuncio che giunge fino a noi ad opera di uno o più testimoni. Ma poi dobbiamo essere noi stessi a venir coinvolti personalmente in una relazione intima e profonda con Gesù; in modo analogo i Samaritani, dopo aver sentito la testimonianza della loro concittadina che Gesù aveva incontrato presso il pozzo di Giacobbe, vollero parlare direttamente con Lui e, dopo questo colloquio, dissero alla donna: "Non è più per la tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo" (Gv 4, 42).

Tornando alla scena di vocazione, l'evangelista ci riferisce che, quando Gesù vede Natanaele avvicinarsi esclama: "Ecco davvero un Israelita, in cui non c'è falsità" (Gv 1, 47). Si tratta di un elogio che richiama il testo di un Salmo: "Beato l'uomo ... nel cui spirito non c'è inganno" (Sal 32, 2), ma che suscita la curiosità di Natanaele, il quale replica con stupore: "Come mi conosci?" (Gv 1, 48a). La risposta di Gesù non è immediatamente comprensibile. Egli dice: "Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico" (Gv 1, 48b). Non sappiamo che cosa fosse successo sotto questo fico. È evidente che si tratta di un momento decisivo nella vita di Natanaele.

Da queste parole di Gesù egli si sente toccato nel cuore, si sente compreso e capisce: quest'uomo sa tutto di me, Lui sa e conosce la strada della vita, a quest'uomo posso realmente affidarmi. E così risponde con una confessione di fede limpida e bella, dicendo: "Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele" (Gv 1, 49). In essa è consegnato un primo, importante passo nell'itinerario di adesione a Gesù. Le parole di Natanaele pongono in luce un doppio complementare aspetto dell'identità di Gesù: Egli è riconosciuto sia nel suo rapporto speciale con Dio Padre, di cui è Figlio unigenito, sia in quello con il popolo d'Israele, di cui è dichiarato re, qualifica propria del Messia atteso. Non dobbiamo mai perdere di vista né l'una né l'altra di queste due componenti, poiché se proclamiamo di Gesù soltanto la dimensione celeste, rischiamo di farne un essere etereo ed evanescente, e se al contrario riconosciamo soltanto la sua concreta collocazione nella storia, finiamo per trascurare la dimensione divina che propriamente lo qualifica.

Sulla successiva attività apostolica di Bartolomeo-Natanaele non abbiamo notizie precise. Secondo un'informazione riferita dallo storico Eusebio del secolo IV, un certo Panteno avrebbe trovato addirittura in India i segni di una presenza di Bartolomeo (cfr Hist. eccl. V, 10, 3). Nella tradizione posteriore, a partire dal Medioevo, si impose il racconto della sua morte per scuoiamento, che divenne poi molto popolare. Si pensi alla notissima scena del Giudizio Universale nella Cappella Sistina, in cui Michelangelo dipinse san Bartolomeo che regge con la mano sinistra la propria pelle, sulla quale l'artista lasciò il suo autoritratto. Sue reliquie sono venerate qui a Roma nella Chiesa a lui dedicata sull'Isola Tiberina, dove sarebbero state portate dall'imperatore tedesco Ottone III nell'anno 983.

Concludendo, possiamo dire che la figura di san Bartolomeo, pur nella scarsità delle informazioni che lo riguardano, resta comunque davanti a noi per dirci che l'adesione a Gesù può essere vissuta e testimoniata anche senza il compimento di opere sensazionali. Straordinario è e resta Gesù stesso, a cui ciascuno di noi è chiamato a consacrare la propria vita e la propria morte.


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Cattolico_Romano
00sabato 5 settembre 2009 09:22

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 11 ottobre 2006

Simone il Cananeo e Giuda Taddeo

Cari fratelli e sorelle,

oggi prendiamo in considerazione due dei dodici Apostoli: Simone il Cananeo e Giuda Taddeo (da non confondere con Giuda Iscariota). Li consideriamo insieme, non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo.

Simone riceve un epiteto che varia nelle quattro liste: mentre Matteo e Marco lo qualificano “cananeo”, Luca invece lo definisce “zelota”. In realtà, le due qualifiche si equivalgono, poiché significano la stessa cosa: nella lingua ebraica, infatti, il verbo qanà’ significa “essere geloso, appassionato” e può essere detto sia di Dio, in quanto è geloso del popolo da lui scelto (cfr Es 20,5), sia di uomini che ardono di zelo nel servire il Dio unico con piena dedizione, come Elia (cfr 1 Re 19,10). E’ ben possibile, dunque, che questo Simone, se non appartenne propriamente al movimento nazionalista degli Zeloti, fosse almeno caratterizzato da un ardente zelo per l’identità giudaica, quindi per Dio, per il suo popolo e per la Legge divina. Se le cose stanno così, Simone si pone agli antipodi di Matteo, che al contrario, in quanto pubblicano, proveniva da un’attività considerata del tutto impura.

Segno evidente che Gesù chiama i suoi discepoli e collaboratori dagli strati sociali e religiosi più diversi, senza alcuna preclusione. A Lui interessano le persone, non le categorie sociali o le etichette! E la cosa bella è che nel gruppo dei suoi seguaci, tutti, benché diversi, coesistevano insieme, superando le immaginabili difficoltà: era Gesù stesso, infatti, il motivo di coesione, nel quale tutti si ritrovavano uniti. Questo costituisce chiaramente una lezione per noi, spesso inclini a sottolineare le differenze e magari le contrapposizioni, dimenticando che in Gesù Cristo ci è data la forza per comporre le nostre conflittualità. Teniamo anche presente che il gruppo dei Dodici è la prefigurazione della Chiesa, nella quale devono avere spazio tutti i carismi, i popoli, le razze, tutte le qualità umane, che trovano la loro composizione e la loro unità nella comunione con Gesù.

Per quanto riguarda poi Giuda Taddeo, egli è così denominato dalla tradizione, unendo insieme due nomi diversi: infatti, mentre Matteo e Marco lo chiamano semplicemente “Taddeo” (Mt 10,3; Mc 3,18), Luca lo chiama “Giuda di Giacomo” (Lc 6,16; At 1,13). Il soprannome Taddeo è di derivazione incerta e viene spiegato o come proveniente dall’aramaico taddà’, che vuol dire “petto” e quindi significherebbe “magnanimo”, oppure come abbreviazione di un nome greco come “Teodòro, Teòdoto”. Di lui si tramandano poche cose. Solo Giovanni segnala una sua richiesta fatta a Gesù durante l'Ultima Cena. Dice Taddeo al Signore: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?»”. E’ una questione di grande attualità, che anche noi poniamo al Signore: perché il Risorto non si è manifestato in tutta la sua gloria ai suoi avversari per mostrare che il vincitore è Dio? Perché si è manifestato solo ai suoi Discepoli? La risposta di Gesù è misteriosa e profonda. Il Signore dice: “Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,22-23). Questo vuol dire che il Risorto dev’essere visto, percepito anche con il cuore, in modo che Dio possa prendere dimora in noi. Il Signore non appare come una cosa. Egli vuole entrare nella nostra vita e perciò la sua manifestazione è una manifestazione che implica e presuppone il cuore aperto. Solo così vediamo il Risorto.

A  Giuda Taddeo è stata attribuita la paternità di una delle Lettere del Nuovo Testamento che vengono dette 'cattoliche' in quanto indirizzate non ad una determinata Chiesa locale, ma ad una cerchia molto ampia di destinatari. Essa infatti è diretta “agli eletti che vivono nell'amore di Dio Padre e sono stati preservati per Gesù Cristo” (v. 1). Preoccupazione centrale di questo scritto è di mettere in guardia i cristiani da tutti coloro che prendono pretesto dalla grazia di Dio per scusare la propria dissolutezza e per traviare altri fratelli con insegnamenti inaccettabili, introducendo divisioni all'interno della Chiesa “sotto la spinta dei loro sogni” (v. 8), così definisce Giuda queste loro dottrine e idee speciali. Egli li paragona addirittura agli angeli decaduti, e con termini forti dice che “si sono incamminati per la strada di Caino” (v .11). Inoltre li bolla senza reticenze “come nuvole senza pioggia portate via dai venti o alberi di fine stagione senza frutti, due volte morti, sradicati; come onde selvagge del mare, che schiumano le loro brutture; come astri erranti, ai quali è riservata la caligine della tenebra in eterno” (vv. 12-13).

Oggi noi non siamo forse più abituati a usare un linguaggio così polemico, che tuttavia ci dice una cosa importante. In mezzo a tutte le tentazioni che ci sono, con tutte le correnti della vita moderna, dobbiamo conservare l’identità della nostra fede. Certo, la via dell'indulgenza e del dialogo, che il Concilio Vaticano II ha felicemente intrapreso, va sicuramente proseguita con ferma costanza. Ma questa via del dialogo, così necessaria, non deve far dimenticare il dovere di ripensare e di evidenziare sempre con altrettanta forza le linee maestre e irrinunciabili della nostra identità cristiana. D'altra parte, occorre avere ben presente che questa nostra identità richiede forza, chiarezza e coraggio davanti alle contraddizioni del mondo in cui viviamo.

Perciò il testo epistolare continua così: “Ma voi, carissimi – parla a tutti noi -, costruite il vostro edificio spirituale sopra la vostra santissima fede, pregate mediante lo Spirito Santo, conservatevi nell'amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo per la vita eterna; convincete quelli che sono vacillanti...” (vv. 20-22). La Lettera si conclude con queste bellissime parole: “A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e nella letizia, all'unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore: gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e sempre. Amen” (vv. 24-25).

Si vede bene che l'autore di queste righe vive in pienezza la propria fede, alla quale appartengono realtà grandi come l'integrità morale e la gioia, la fiducia e infine la lode, essendo il tutto motivato soltanto dalla bontà del nostro unico Dio e dalla misericordia del nostro Signore Gesù Cristo. Perciò, tanto Simone il Cananeo quanto Giuda Taddeo ci aiutino a riscoprire sempre di nuovo e a vivere instancabilmente la bellezza della fede cristiana, sapendone dare testimonianza forte e insieme serena.

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