Cardinale John Henry Newman

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Cattolico_Romano
00giovedì 4 giugno 2009 12:56
Dopo le polemiche seguite alla decisione di traslare le spoglie del cardinale Newman in vista di una sua  beatificazione, inseriremo qui articoli e scritti di questo grande Apostolo della Chiesa dell'800

John Henry Newman
e il sacrificio del celibato


                        
                              John Henry Newman—in una foto del 1890

La decisione di traslare il corpo di John Henry Newman ha sollevato polemiche. Su queste interviene il massimo studioso del pensatore inglese, docente di teologia all'università di Oxford e autore, tra l'altro, della più completa e documentata biografia del cardinale (John Henry Newman. A Biography, Oxford, Oxford University Press, 1990, pagine 764, sterline 30).



di Ian Ker

La decisione di riesumare il corpo del venerabile John Henry Newman ha provocato reazioni, in particolare da parte della lobby omosessuale, secondo cui egli non dovrebbe essere separato dal suo grande amico e collaboratore, padre Ambrose St John, nella cui tomba Newman è stato sepolto, in accordo con le sue specifiche volontà. L'implicazione di tali proteste è chiara:  Newman avrebbe voluto essere seppellito con il suo amico perché, sebbene indubbiamente casto e celibe, sarebbe stato legato a lui da qualcosa di più di una semplice amicizia.

Al riguardo, se il desiderio di essere seppellito nella stessa tomba di un altro fosse la prova di un qualche amore sessuale per quella persona, il fratello di Clive Staples Lewis, Warnie, seppellito nella stessa tomba secondo la volontà di ambedue i fratelli, avrebbe dovuto nutrire sentimenti incestuosi per il fratello. 
 
O ancora, la devota segretaria di Gilbert Keith Chesterton, Dorothy Collins, trattata da lui e da sua moglie come una figlia, pensando che sarebbe stato presuntuoso chiedere di essere seppellita insieme ai Chesterton, volle essere cremata e dispose comunque che le sue ceneri fossero inumate nella stessa tomba. Questo significa forse che provava qualcosa di più che un sentimento filiale per uno o per entrambi i suoi datori di lavoro?

Ambrose St John era molto amico di Newman. Per trent'anni è stato al suo servizio, desiderando persino, il giorno della sua cresima, di potersi impegnare nei confronti dell'amico con un voto di obbedienza, una richiesta che, ovviamente, fu respinta.

Newman si riteneva responsabile per la sua morte, perché gli aveva chiesto di tradurre l'importante opera del teologo tedesco Joseph Fessler sull'infallibilità nella scia del concilio Vaticano I, un ultimo impegno svolto con amore che risultò eccessivamente pesante per lui, già sovraccarico di lavoro.

Negli oscuri ultimi giorni da anglicano, Newman disse che Ambrose St John era venuto da lui "come Rut a Noemi". Dopo essere entrato nella comunità quasi monastica di Newman a Littlemore nei pressi di Oxford, St John restò il suo collaboratore più stretto durante il difficile periodo della fondazione dell'Oratorio di san Filippo Neri in Inghilterra e in tutte le successive prove e tribolazioni di Newman come cattolico.

Nella sua Apologia pro vita sua Newman "con grande riluttanza" ricorda come al tempo della sua prima conversione all'età di quindici anni fosse giunto alla convinzione che "fosse volontà di Dio che rimanessi celibe". Durante i quattordici anni successivi, con l'interruzione di qualche mese e poi con continuità, ritenne che la sua vocazione "avrebbe richiesto tale sacrificio". Non c'è bisogno di ricordare che allora non esistevano "unioni civili" tra uomini in un Paese che ancora era cristiano, dove l'attività omosessuale era punibile con la prigione e da tutti considerata immorale.

Newman, naturalmente, parlava del matrimonio con una donna e del "sacrificio" che il celibato comportava. L'unica ragione per cui il celibato poteva essere un sacrificio era perché Newman, come ogni uomo normale, desiderava sposarsi. Ma, sebbene non ancora appartenente a una Chiesa dove il celibato era la regola o addirittura l'ideale, Newman, profondamente immerso nelle Scritture, conosceva le parole del Signore:  alcuni "si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli".

Venticinque anni dopo la sua scelta giovanile del celibato troviamo Newman che ancora si interroga sui suoi costi, alla fine dello straordinario racconto in cui descrive la malattia quasi mortale che lo colpì nel 1833 mentre si trovava in Sicilia:  "Mentre scrivo mi assilla un pensiero:  perché scrivo tutto questo? (...) Chi ho, chi posso avere, in chi questo potrebbe suscitare attenzione? (...) Serve il tipo di attenzione che può avere una moglie e nessun altro - questa è l'attenzione di una donna - e questa attenzione, così sia, non mi sarà mai data (...) Lascio liberamente il possesso di questo affetto che, lo sento, non mi è e non mi può essere dato. Ma ciononostante sento di averne bisogno".

In queste frasi commoventi, scritte quando era ancora ministro della Chiesa di Inghilterra e pienamente libero di sposarsi, vediamo l'impegno totale di Newman nella vita di verginità alla quale si sentiva chiamato in modo inequivocabile, ma possiamo anche avvertire la profonda sofferenza che sentiva nel rinunciare all'amore di una donna nel matrimonio.

In conclusione, cosa si potrebbe dire a chi pensa che la volontà di Newman dovrebbe essere rispettata e che i resti di Ambrose St John dovrebbero essere traslati insieme ai suoi? Durante la sua vita da cattolico Newman insisteva sempre che tutti i suoi scritti potevano essere corretti dalla santa madre Chiesa. Questo era il suo costante ritornello. Se l'autorità ecclesiastica decide di traslare il suo corpo in una chiesa, la risposta di Newman sarebbe senza dubbio che il suo ultimo testamento, come tutto quanto aveva scritto, lo aveva scritto sotto la correzione di una autorità più alta. Se questa autorità decide che il suo corpo venga traslato, mentre quello del suo amico no, Newman avrebbe detto senza esitazione:  "Così sia".



(©L'Osservatore Romano - 3 settembre 2008)


Un articolo che parla del forse beato John Henry Newman della sua presenza a Milano:

Sulle orme di Ambrogio e Carlo  fu trafitto da fra Cristoforo
"John Henry Newman oggi: logos e dialogo" è il tema del convegno internazionale che si tiene a Milano all'Università Cattolica del Sacro Cuore nei giorni 26 e 27 marzo. Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni.

di Inos Biffi

Newman soggiornò a Milano, insieme con Ambrose St. John, durante il suo viaggio verso Roma. Arrivò il 20 settembre del 1846 dal passo del Sempione, in tempo per la messa in duomo: più volte egli registra nel suo diario di aver sentito messa in duomo o presso la tomba di san Carlo. Il 18 ottobre, festa della Dedicazione della Cattedrale, annoterà d'aver preso parte alla "Messa solenne in Duomo, dove si tiene una grande funzione con indulgenza plenaria" e di aver visitato "alla sera l'oratorio di san Carlo"; lo stesso giorno farà sapere: "Siamo appena tornati dal Duomo dove c'è stata una grande funzione, compresa la solenne Messa pontificale nella celebrazione della dedicazione della chiesa di san Carlo. La giornata è molto piovosa, ma l'area della chiesa era gremita da cima a fondo".

Subito il 21 settembre Newman visita la basilica di sant'Ambrogio. Il 23 settembre, dopo una prima disagiata sistemazione presso un non confortevole hotel Garni, si trasferirà presso san Fedele, e vivrà in cordiale fraternità con due sacerdoti milanesi: don Giacomo Vitali e don Giovanni Ghianda, e sarà anche commensale del prevosto di San Fedele, Giulio Ratti.

Per i suoi ospiti avrà parole di grande ammirazione, specialmente per don Ghianda, che sarà anche suo confessore. Scriverà: "Il nostro amico, l'abate Ghianda, è molto gentile e premuroso. Non avremmo potuto imbatterci in persona più amica. Egli fa tutto per noi"; e il 22 ottobre, alla vigilia di ripartire da Milano: "Siamo stati assai fortunati di trovare qui il cappellano di Manzoni, che ci è stato sempre vicino ed è stato un amico estremamente gentile".

La prima lettera scritta da Milano, il 24 settembre, contiene un grande elogio per la chiesa di San Fedele: "È in stile greco o palladiano. Temo che lo stile architettonico mi piaccia più di quanto alcuni dei nostri amici di Oscott e di Birmingham approverebbero. La luminosità, la grazia e la semplicità dello stile classico sembra si addica meglio a rappresentare Santa Maria o San Gabriele che non qualsiasi realtà in stile gotico. È sempre un sollievo dello spirito, e una sua elevazione, entrare in una chiesa come San Fedele. Essa ha un aspetto così dolce, sorridente, aperto - e l'altare è così grazioso e attraente - che spicca così che tutti lo possono vedere e avvicinarvisi. Le alte colonne di marmo levigato, le balaustre marmoree, il pavimento di marmo, le immagini luminose, tutto parla la stessa lingua. E una volta leggera corona l'insieme.

Ma forse io seguo la tendenza delle persone anziane, che hanno visto abbastanza cose tristi da ritenersi dispensate da una tristezza espressamente e intenzionalmente voluta - e come i giovani preferiscono l'autunno e i vecchi la primavera, i giovani la tragedia e i vecchi la commedia, così, nel cerimoniale religioso, io lascio che i giovani preferiscano il gotico, una volta che tollerino la mia debolezza che chiede l'italiano. È così riposante e gradevole, dopo le torride vie, entrare in questi interni delicati, benché ricchi, che fanno pensare ai boschetti del paradiso o a camere angeliche".

E in un'altra lettera: "C'è nello stile italiano una tale semplicità, eleganza, bellezza, chiarità - implicate, credo, nella parola "classico" - che mi sembrano convenire al concetto di angelo e di santo. Potrei percorrere per tutto un giorno questa bella chiesa col suo altare sorridente e seducente, senza stancarmi. E poi essa è così calma che è sempre un riposo per lo spirito entrarvi. Nulla si muove se non la lontana lampada scintillante che segnala la presenza della nostra Vita immortale, nascosta ma sempre attiva, pur essendo entrata nel suo riposo".

Aggiunge Newman: "È davvero stupendo vedere questa divina Presenza che dalle varie chiese quasi guarda fuori nelle strade aperte, così che a S. Lorenzo abbiamo veduto che la gente si levava il cappello dall'altra parte della strada quando passava".

Con le chiese, infatti, è la pietà dei milanesi a suscitare in Newman la più viva ammirazione: "Nella città di sant'Ambrogio - osserva - uno comprende la Chiesa di Dio più che non nella maggior parte degli altri luoghi, ed è indotto a pensare a tutti quelli che sono sue membra. E inoltre non si tratta di una pura immaginazione, come potrebbe essere trovandosi in una città di ruderi o in un luogo desolato, dove una volta dimoravano i Santi - c'è invece qui una ventina di chiese aperte a chi vi passi davanti, e in ciascuna di esse si trovano le loro reliquie, e il SS. Sacramento preparato per l'adoratore, anche prima che vi entri. Non v'è nulla che mi abbia mostrato in maniera così forte l'unità della Chiesa come la Presenza del suo Divin Fondatore e della sua Vita dovunque io vada".
 
Aggiunge: "Le chiese sono molto sfarzose. Il Duomo è tutto di marmo. Qui il marmo è praticamente il materiale ordinario delle chiese - e ancora più comune è il granito. Il granito proveniente dal Lago Maggiore sembra essere stato in uso da tempo immemorabile".

Un giorno comunica: "Come sta diventando buio, benché ora siano le 6. Faccio fatica a vederci. Il Duomo è l'edificio più incantevole che mai abbia visto. Se si va per la città, i suoi pinnacoli assomigliano a neve luminosa contro il cielo blu. Siamo stati due volte sulla sua cima, dalla quale appaiono belle le Alpi, specialmente il Monte Rosa".

In particolare Newman è impressionato dal duomo come luogo di devozione e ne parla abitualmente nelle sue lettere. La partecipazione alle assemblee liturgiche del Duomo di Milano gli rivelano che cosa sia "la liturgia come fatto oggettivo": "Una Cattedrale Cattolica - scrive - è una specie di mondo, ciascuno dei quali si muove intorno alla propria attività, solo che questa è di tipo religioso; gruppi di fedeli o fedeli solitari - in ginocchio o in piedi - alcuni presso le reliquie, altri presso gli altari - che ascoltano messa e fanno la comunione - flussi di fedeli che si intercettano e si oltrepassano a vicenda - altare dopo altare accesi per la celebrazione come stelle nel firmamento - o la campana che annuncia ciò che sta incominciando nei luoghi sottratti al tuo sguardo - mentre nel contempo i canonici in coro recitano le loro ore di mattutino e lodi o vespri, e alla fine l'incenso sale a volute dall'altare maggiore e tutto questo in uno degli edifici più belli del mondo, e ogni giorno - alla fine senza esibizione o sforzo alcuno, ma come ciò che ciascuno è solito fare - ciascuno occupato al proprio lavoro, così come lascia l'altro al suo".
 
Newman rimane specialmente colpito dal numero di comunioni che si fanno nelle chiese di Milano: "Ho riscontrato questo in Duomo, a San Fedele, che è stata la nostra chiesa parrocchiale, e a Sant'Ambrogio. Nella chiesa un altare è riservato alla comunione, e io penso di non aver visto una Messa senza che ci fosse chi si comunicava - oltre le comunioni fuori della Messa".

A Milano ricorre il primo anniversario della conversione cattolica di Newman e il 9 ottobre scriverà: "Oggi è un anno dacché sono nella Chiesa Cattolica e ogni giorno benedico Lui, che mi conduce dentro sempre più. Sono passato dalle nubi e dalle tenebre alla luce, e non posso guardare alla mia precedente condizione senza provare l'amara sensazione che si ha quando si guarda indietro a un viaggio faticoso e triste".
Nel duomo di Milano Newman incontrava esattamente uno degli aspetti e dei momenti più espressivi della Chiesa cattolica.

A Milano Newman trova poi un rito diverso da quello romano, a sua volta significativa testimonianza di antichità; egli ne rimane attratto: "È tuttora in vigore la vecchia liturgia ambrosiana, o Messa, che riporta indietro proprio all'età del grande Santo. Per alcuni aspetti mi piace più di quella romana". Milano è per Newman soprattutto la "città di sant'Ambrogio". Egli ripeterà, scrivendo ai suoi amici d'Inghilterra: "È una benedizione così grande quella di poter entrare, quando camminiamo per la città, nelle chiese - sempre aperte con larga e generosa gentilezza - piene di preziosi marmi da ammirare, di reliquiari, di immagini e di crocifissi, tutti disponibili al passante che voglia personalmente inginocchiarvisi accanto - dappertutto il SS. Sacramento, e abbondanti indulgenze".

"È meraviglioso andare nella chiesa di Sant'Ambrogio - dove si trova il suo corpo - e inginocchiarsi presso le sue reliquie, che sono state così portentose, e di cui io ho sentito e letto più che di ogni altro Santo fin da quando ero ragazzo. Sant'Agostino qui si è convertito! Qui venne anche santa Monica a cercarlo. Sempre qui, nel suo esilio, venne il grande Atanasio per incontrare l'Imperatore. Quanta tristezza quando dovrò partire!"; "Io non sono mai stato in una città che mi abbia così incantato - scriverà alla sorella l'ultimo giorno di permanenza a Milano: stare davanti alle tombe di grandi Santi come sant'Ambrogio e san Carlo e vedere i luoghi dove sant'Ambrogio ha respinto gli Ariani, dove santa Monica montò la guardia per una notte con la "pia plebs", come la chiama sant'Agostino, e dove lo stesso sant'Agostino venne battezzato. Le nostre più vecchie chiese in Inghilterra non sono nulla quanto ad antichità rispetto a quelle di qui, e a quel tempo le ceneri dei Santi sono state gettate ai quattro venti. È cosa così grande essere dove i "primordia", la culla, per così dire, del cristianesimo continuano ad esserci".

Per Newman dire il duomo è dire "il grande san Carlo", e di san Carlo egli parla diffusamente con i suoi corrispondenti, raccontando della sua vita e della sua morte, della sua estrema austerità, delle sue opere e del significato della sua azione nella Chiesa, che ben conosceva. Si intrattiene sulla "grandezza impressionante di san Carlo", che "fino ad oggi - dice - è proprio la vita" di Milano: "Nonostante ogni sorta di male, di genere politico o altri; nonostante la mancanza di fede e altri cattivi spiriti del giorno, c'è un'intensa devozione per san Carlo. E la disciplina del clero è sostenuta dalle sue norme in modo più esatto di quello che noi abbiamo trovato in Francia o di quanto lo sia a Roma"; "Tu vedi i suoi ricordi da ogni parte - il crocifisso che fece cessare la peste quando egli lo portò lungo le vie - la sua mitra, il suo anello - le sue lettere. Soprattutto le sue sacre reliquie: Ogni giorno si celebra la Messa presso la sua tomba. Egli fu suscitato per opporsi a quella terribile burrasca sotto la quale è caduta la povera Inghilterra, e come ai suoi giorni egli ha salvato il suo paese dal Protestantesimo e dai suoi mali collaterali, così noi stiamo tentando di fare qualche cosa per opporci a simili nemici della Chiesa in Inghilterra e quindi non posso che aver fiducia che egli farà qualche cosa per noi lassù, dove è potente, questo benché noi siamo da una parte delle Alpi e egli sia appartenuto all'altra. Così io confido, e la mia mente fu colma di lui, al punto che mi sono persino sognato di lui - e noi vi andiamo la maggior parte dei giorni e ci inginocchiamo presso le sue reliquie".

Ma a Milano Newman non visitò soltanto la chiesa di San Fedele, il duomo e Sant'Ambrogio. Abbiamo già ricordato l'accenno alla basilica di San Lorenzo. Ma egli parla anche della chiesa di San Satiro e di Sant'Eustorgio, dove assiste alla Messa solenne nella festa della Madonna del Rosario e che descrive come "un'ampia chiesa" che "contiene le reliquie di parecchi martiri, e piena di monumenti e cappelle.

Newman parla anche di "Monza, distante 12 miglia", dove "si trova la corona ferrea composta con uno dei chiodi che Costantino pose nel proprio diadema come uno dei chiodi della vera Croce, vi sono anche dei doni che papa Gregorio Magno inviò alla longobarda regina Teodolinda".
Nel soggiorno milanese Newman avrebbe desiderato incontrare Rosmini e Manzoni.

A proposito di Rosmini scrive nella sua prima lettera da Milano: "Ci siamo trovati in mezzo agli amici di Rosmini, e siamo sorpresi di trovare quanto facciano i Rosminiani in queste parti (...). Abbiamo una missiva per Rosmini, che è comunque assente". Di fatto l'incontro non avverrà, e la ragione sembra a Newman piuttosto esile: "Rosmini è passato da Milano - è detto in una lettera del 18 ottobre - mi ha inviato un cortese messaggio, spiegando che non ci ha chiamati perché lui non sa parlare latino e io italiano. Non è sufficiente per spiegare la sua non chiamata. Ghianda ha una grande ammirazione per lui, come anche Manzoni. Vorremmo avere molto di più da dire di lui, ma non riesco a cogliere l'essenza della sua filosofia. Mi piacerebbe credere che tutto sia giusto, benché si abbiano dei sospetti".

Anche l'incontro con Manzoni non poté avvenire. "Non abbiamo visto Manzoni e credo che per questo egli sia anche più spiacente di noi. Non che a noi non dispiaccia, ma è una cosa così grande essere nella città di sant'Ambrogio". Di Manzoni Newman già conosceva I Promessi Sposi. In una lettera alla sorella Jemina scriveva di averne fatto una lettura deliziosa e in un'altra dirà di fra' Cristoforo: "Il Cappuccino nei "Promessi Sposi" ha conficcato nel mio cuore come una freccia".

(©L'Osservatore Romano - 26 marzo 2009)

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00giovedì 4 giugno 2009 12:56
Il nesso tra fede e ragione in John Henry Newman
«Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio»

    Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni tenute al convegno "John Henry Newman oggi, logos e dialogo" in corso a Milano all'Università Cattolica del Sacro Cuore.

    di Fortunato Morrone

    Il tema che mi è stato affidato è di bruciante attualità; pensiamo solo brevemente agli interrogativi posti dalle biotecnologie all'intelligenza della fede o alle sollecitazioni critiche rivolte al credente dalle scienze cosiddette esatte o dalle scienze sociali. Nel corso di quest'anno in cui si celebra il bicentenario di Darwin l'intelligenza dei credenti, e le esigenze che ne derivano per il discorso teologico, è ancora una volta provocata positivamente a dire la fede nel Creatore dialogando con chi non professa la nostra speranza.

Pur mutando i tempi e le stagioni, il rapporto tra fede e ragione non è mai stato pacifico o scontato per quella pretesa tutta cristiana che confessa in Gesù il Logos del Padre fatto uomo. Per questa ragione propria della fede che ama la terra, fin dal tempo dei Padri, ha ricordato Benedetto XVI nel Convegno della Chiesa italiana a Verona, c'è stato un umanesimo cristiano capace di ammirare e promuovere ciò che di vero, di bello e di giusto è presente in ogni cultura e di cogliere attraverso l'alfabeto delle scienze la corrispondenza fra ragione e Logos, una corrispondenza ancora più radicale nell'annuncio cristiano del Logos incarnato culmine della rivelazione del Dio della vita, un Dio per gli uomini.

    La fede non può tradursi in storia senza fare appello, anzi allearsi alla ragione. D'altra parte il filosofo tedesco Jürgen Habermas, epigono della Scuola di Francoforte, negli ultimi anni è tornato più volte a richiamare l'attenzione sulla necessità di un dialogo etico tra credenti e laici, svolto tra l'altro con l'allora cardinale Joseph Ratzinger.

    I problemi e i drammi del nostro villaggio globale d'altra parte incrociano direttamente gli interrogativi centrali circa la condizione della fede oggi, in un contesto culturale a dir poco complesso segnato da un diffuso relativismo espresso dal cosiddetto "pensiero debole" post-moderno che predica l'irrilevanza della ricerca di risposte definitive contestando fortemente la possibilità dell'uomo di accedere alla realtà, alla verità, se mai ne esista una. Se fino a qualche decennio fa almeno in Italia qualcuno affermava che culturalmente non possiamo non dirci cristiani (Croce), oggi "gran parte dell'umanità ha imparato a vivere senza Dio".

Il cristianesimo, con la sua proposta forte di umanesimo, è ormai divenuto estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo. Da qui nella complessa e variegata cultura odierna il cui orizzonte comune rimane il nichilismo, la negazione di ogni verità oggettiva è diventato il pilastro dogmatico del nuovo pensiero che come ha ammonito Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio si risolve inesorabilmente in "negazione dell'umanità dell'uomo e della sua stessa identità". Il rifiuto sistematico del possibile accesso alla verità ha, infatti, ricadute antropologiche negative. Il rapporto fede e ragione non è perciò un problema accademico, quanto piuttosto e anzitutto una questione pratica della speranza annunciata dai credenti in questo mondo e per questo mondo. Ebbene ciò che oggi sembra essere posto in discussione è il legame profondo che unisce la persona con la realtà, un legame che fa parte dell'intimità della persona in quanto tale e che investe la sua coscienza. Posta di fronte alla realtà la persona interagisce con la sua razionalità facendola entrare nel suo orizzonte cosciente e in questo incontro con la realtà, la ragione stabilisce nessi di significato in relazione a tutti quei fattori che la riguardano.

Il soggetto è così posto di fronte all'oggettività del reale interferendo mediante quella ragionevolezza che accoglie e si sottomette all'esperienza. Riconoscere che l'essere non dipende dal soggetto, che è parte integrante dell'essere persona, permette al singolo di essere leale con la realtà che si offre all'intelligenza evitando la trappola del soggettivismo.

                             

    Di fronte all'odierna deriva del nichilismo o dello scientismo, ecco come Newman replicherebbe a una tale visione riduttiva del reale e del soggetto.

Siamo nella Grammatica:  "Ci troviamo immersi in un mondo di fatti che noi usiamo continuamente perché non c'è nient'altro da usare (...) Io sono quello che sono oppure non sono niente... non posso evitare di bastare a me stesso perché non posso fare di me qualcos'altro, e cambiarmi significa distruggermi. Se non uso l'io che sono, non ho altro da usare".

    La ragione va colta nella concretezza dell'esperienza umana dei singoli, fatta di relazioni, di immaginazione, di sentimenti, di puntuali e limitate contingenze storiche. Questa preziosa facoltà umana possiede una sua dinamica che tende inevitabilmente alla verità. Ora questa tensione è incomprensibile al di fuori dell'atto creativo di Dio il quale costituendo l'uomo come spirito incarnato, lo rende capace di Sé. Perciò la complessità dell'uomo non può essere ridotta alla capacità di raccogliere dati sensibili e di catalogarli secondo lo schema razionalistico.

A Locke Newman rimprovera che "gli stessi modi di ragionare e convincimenti che per me sono naturali e legittimi per lui sono irrazionali, emotivi, spuri ed immorali; e ciò, credo, perché egli si richiama ad un suo ideale di come la mente dovrebbe agire, anziché indagare la natura reale della mente umana". È una filosofia della scienza che, pur riconoscendo una sua dignità alla religione, la relega nell'angolo del sentimento privato che non fa "fede" in termini di conoscenza certa.

A ben vedere, rileva Newman, l'ambito della ragione empirica è, tutto sommato, ristretto rispetto all'intera realtà che non è riducibile né mossa da questa "ragione", ma da altre ragioni non meno reali. In fondo la stessa tradizione empirica ammette dei limiti alla ragione:  è il buon senso dello "spirito filosofico" che con umiltà cerca di interpretare i fatti secondo la lezione iniziata da Bacone. Nel rispetto di tali limiti si può giungere a risultati validi nel campo della conoscenza.

    Ma separare la razionalità dalla totalità del soggetto, posto di fronte alla realtà con cui inferisce, con la capacità di giudicare e di concludere, fa intendere Newman, è contro la struttura stessa della mente umana. Si tratta invece di avere una visione della razionalità ben più ampia rispetto a questa tradizione filosofica.

Certo Newman non si trova a dialogare con un pensiero debole, ma il problema di fondo per un credente rimane il medesimo:  come rendere ragione della speranza ad ogni generazione che ne chiede conto. E soprattutto come mostrare che l'atto del credere in quanto è compiuto dal medesimo soggetto che nel suo relazionarsi con la realtà impiega una razionalità implicita, è il medesimo che utilizza un procedimento razionale esplicito simile al procedere argomentativo della scienza. Entrambi i movimenti razionali sono frutto della mente umana che non può essere assente nell'assenso che la fede richiede.

    Quando nel processo mentale che conduce alla certezza personale viene posta una dicotomia tra ragione e fede, il semplice credente - sul terreno delle ragioni da esibire - è banalmente ritenuto un minus habens, un credulone, un tranquillo uomo religioso la cui fede è una semplice opinione ridotta a credenza. D'altra parte chi intendesse difendere la ragionevolezza della fede alla stregua dell'argomentazione scientifica con prove chiare e distinte, ridurrebbe i misteri della fede ad un'articolata esposizione di dati sillogisticamente controllabili, mentre il sottrarsi alla provocazione se pur arrogante della ragione relegherebbe i credenti in un intimismo religioso stucchevole e astorico.

La difesa della fede non può prescindere dall'essere atto intellettuale dell'uomo che nella sua interezza si apre al mondo. Confortato dalla Scrittura Newman nel decimo sermone universitario ribadisce che "è chiaramente impossibile che la fede sia indipendente dalla ragione, che sia un nuovo modo di raggiungere la verità:  il Vangelo non altera la costituzione della nostra natura, non fa che integrarla e perfezionarla; ogni conoscenza comincia con la vista e si completa con l'esercizio della ragione... (tuttavia) la ragione non è necessariamente l'origine della fede quale essa esiste nel credente, per quanto la controlli e la verifichi".

    In sostanza Newman si è trovato da una parte con una visione di una fede concepita come il classico "salto nel buio", con il conseguente abbandono di ogni pretesa di razionalità umana e fondata unicamente sul sentimento del cuore, tipico della confessione evangelical e, dall'altra, si è dovuto misurare con l'altezzosità di una certa razionalità scientista e positivista che, presente anche in una parte della teologia liberale del tempo, proponeva una lettura esclusivamente razionale della Rivelazione isolando la fede in un immanentismo chiuso al Trascendente, secondo la moda dell'esaltazione della ragione e della libertà di pensiero.

In questo clima, così succintamente delineato, Newman, appellandosi alla ragionevolezza dell'atto di fede del credente, rivendicherà al cristianesimo "piena dignità culturale e filosofica", come ha ben argomentato Michele Marchetto nella sua ponderosa monografia introduttiva agli scritti filosofici di Newman.

    "Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio, come concepisco io la questione:  difficoltà e dubbio non possono assolutamente essere poste a confronto"; in questo famoso passaggio dell'Apologia Newman parla di sé, della sua esperienza credente, non razionalizzabile secondo le misure della ragione illuministica, ma ragionevole e sensata secondo la misura del cuore, lì dove la ragione è intimamente legata alla libertà e la persona è coinvolta totalmente, è interpellata ad offrire una risposta concreta, esistenziale con tutto il suo carico di rischio. Quest'ordine di idee fa da substrato, di conseguenza, al confronto che Newman ha sostenuto con le scienze naturali in piena fioritura nell'epoca vittoriana.

    Negli anni dell'insegnamento ad Oxford il futuro cardinale annotava:  "Il cristianesimo è stato descritto come un sistema che sbarra la via al progresso, in campo politico come in campo educativo o scientifico ... Il sentire sospetto e mostrare timidezza (da parte dei cristiani), nell'assistere all'ampliamento del sapere scientifico, equivale a riconoscere che tra esso e la rivelazione possa sussistere qualche contraddizione".

Se la scienza è ricerca di verità, un possibile conflitto con la fede è frutto o di equivoci, o è una conseguenza della perdita dell'orizzonte veritativo dell'annuncio cristiano:  solo l'arroganza della ragione o la miopia di una fede chiusa al dialogo possono creare quel terreno di ostilità o di contrapposizione che non poche volte ha caratterizzato, almeno dopo l'illuminismo, i rapporti tra il cristianesimo e le scienze.

In questa via Newman forte della sua esperienza oxoniana, si impegnerà al progetto dell'Università di Dublino immaginata quale luogo del dialogo e del confronto tra le scienze e la teologia, scienza della fede, senza minimizzare il dato della conflittualità tra la scienza e le fede. Perciò Newman riteneva indispensabile un'università attrezzata teologicamente e culturalmente per non cadere da una parte nelle trappole del bieco dogmatismo religioso e dall'altra nei riduzionismi dello scientismo razionalistico, tipico dello spirito del tempo.



(©L'Osservatore Romano - 27 marzo 2009)
Cattolico_Romano
00giovedì 4 giugno 2009 12:57
John Henry Newman e la ricerca della verità

«Finalmente libero dopo un viaggio faticoso e triste»



Riportiamo ampi stralci dell'omelia del cardinale arcivescovo di Milano tenuta durante la messa di chiusura del convegno "John Henry Newman oggi:  logos e dialogo", celebrata nella cappella dell'Università Cattolica del Sacro Cuore venerdì 27 marzo.
 

di Dionigi Tettamanzi

Si presenta davvero interessante e originale la vicenda biografica di Newman:  è come un itinerario pasquale, un cammino difficile e insieme affascinante che lo conduce a raggiungere la luce della verità, la verità tutta intera.

Newman sapeva entrare con passione nella storia della Chiesa, nella vita dei santi, nella loro vita interiore. Così lo sentiamo molto vicino a questo nostro tempo e - vorrei aggiungere - veramente in sintonia con la Chiesa milanese. Come sappiamo, mentre era in viaggio verso Roma, Newman soggiornò poco più di un mese a Milano nel 1846. Il 9 ottobre di quell'anno, ricorrendo il primo anniversario della sua conversione, scriverà:  "Oggi è un anno dacché sono nella Chiesa cattolica e ogni giorno benedico Lui che mi conduce dentro sempre più. Sono passato dalle nubi e dalle tenebre alla luce, e non posso guardare alla mia precedente condizione senza provare l'amara sensazione che si ha quando si guarda indietro a un viaggio faticoso e triste". E qui, "nella città di sant'Ambrogio - rileva - uno comprende la Chiesa di Dio più che non nella maggior parte degli altri luoghi ed è indotto a pensare a tutti quelli che sono sue membra".

E aggiunge:  "Inoltre non si tratta di una pura immaginazione, come potrebbe essere trovandosi in una città di ruderi o in un luogo desolato...". E ancora:  "È meraviglioso andare nella chiesa di Sant'Ambrogio - dove si trova il suo corpo - e inginocchiarsi presso le sue reliquie, che sono state così portentose, e di cui io ho sentito e letto più che di ogni altro santo fin da quando ero ragazzo. Sant'Agostino qui si è convertito! Qui venne anche santa Monica a cercarlo. Sempre qui, nel suo esilio, venne il grande Atanasio per incontrare l'imperatore. Quanta tristezza quando dovrò partire!...". Infine un'ultima testimonianza che troviamo nell'Apologia pro vita sua e che ci dice il tipo di conoscenza necessario per giungere alla verità e per vivere l'esperienza cristiana come esperienza di Chiesa:  "Sentivo tutta la forza della massima di sant'Ambrogio, il quale scriveva nel De fide:  "Non piacque a Dio di operare la salvezza del suo popolo mediante la dialettica"". E ancora:  "Per me non era la logica a farmi andare avanti, ... si ragiona con tutto l'essere, nella sua concretezza" (Apologia pro vita sua, pp. 196-197).
 
Quella di Newman fu sempre una appassionata, rigorosa e completa ricerca della verità, che alla fine lo avrebbe condotto a riconoscere la persona e la missione di Cristo, così come è custodita dalla Chiesa cattolica.

La verità è un'esperienza molto complessa nella quale convergono gli elementi oggettivi e l'apporto intero e diretto di tutta la persona che cerca, spera ed è disposta a trovare. La verità si raggiunge attraverso la cosiddetta "grammatica dell'assenso", che è chiara nel suo procedere - non confusa, non incerta, non equivoca o ambivalente - e che insieme esige anche un chiaro e impegnativo coinvolgimento di chi indaga, un ossequio della sua mente e del suo cuore, un'esperienza di meraviglia, di riconoscenza, di obbedienza. La verità quindi si dà soltanto in un incontro storico e reale. In concreto la verità è un rapporto profondo che si stabilisce con la persona di Gesù.

Aderire alla rivelazione divina dunque non è questione semplicemente intellettuale, razionale, ma è questione densamente antropologica, che coinvolge la totalità della persona nel suo rapporto con la persona di Cristo, più precisamente con Cristo che soffre, muore e risorge per noi; che ci promette il suo Spirito - anima vera della storia, alimento di ogni nostro pensare e sentire - lo Spirito che raduna e dispone nella Chiesa ogni approdo di ricerca e di fedeltà.

Un altro passo. Nella ricerca sincera della verità, Newman ci insegna la gioia del dialogo, che dice la valorizzazione, l'apprezzamento dell'onestà intellettuale del proprio interlocutore e insieme il rispetto reciproco di fronte a qualcosa che ci precede e che è più grande di noi. La verità infatti non dipende innanzitutto dal soggetto che indaga, ma piuttosto si mostra nella forma di una rivelazione gratuita:  proprio questo rende fruttuoso l'incontro tra coloro che dialogano davvero.

E con il dialogo, ecco che Newman con la sua esperienza di vita e di ricerca della verità ci apre al concetto di missione. Essere missionari significa stabilire una relazione diretta tra maestro e discepoli; significa che lo spirito dell'uno si incontra con quello dell'altro, che una buona predisposizione li lega e li costringe a un benefico confronto, insegnando loro l'ascolto vero e il rispetto nobile.

In particolare è nei suoi Sermoni che Newman mette in luce come deve essere la figura del predicatore, che oggi chiameremmo la figura del cristiano missionario. Egli è convinto che per trasmettere la verità della fede in Gesù Cristo non bastano le parole di un ragionamento ben strutturato sotto il profilo razionale, ma è necessaria una persona che incontra con determinatezza il cuore dell'altro. "Determinatezza" è per Newman un termine molto ricco e denso:  significa un ragionare ordinato, una passione viva e un'esperienza reale. La determinatezza esige aderenza ai bisogni delle persone, comporta coinvolgimento affettivo. Ecco, per esempio, come descrive il rapporto tra il predicatore del Vangelo e coloro che ascoltano la Parola:  "Essi pendono dalle sue labbra non come potrebbero pendere dalle pagine di un libro. La determinatezza è la vita della predicazione... Il sermone non potrà venire da qualcosa di anonimo, da qualcosa di morto e di passato e neppure da qualcosa che è di ieri, per quanto in se stesso utile e religioso" (Sermoni universitari. L'idea di università, Torino 1988, p. 1102).

Ora, continua Newman, l'apostolo per declinare efficacemente la sua testimonianza dovrà vivere un'esperienza di intensa preghiera. Il pensiero alla Pasqua, nella quale Gesù muore per noi, conduce Newman a indicare nell'umiltà e nella riparazione la via autentica verso la contemplazione della passione del Signore. E così Gesù, il "povero maltrattato", diventa l'oggetto della sua preghiera e il giusto perseguitato diventa il suo salvatore:  "Dio mio, che ne sarà di me? - scrive Newman - Dove andrò a finire se sarò abbandonato a me stesso? Che cosa posso fare se non andare da colui che ho gravemente offeso e insultato, e chiedergli di rimettermi il debito che ho con lui? O Gesù, mio Signore, il cui amore per me è stato così grande da scendere dal cielo per salvarmi; mostrami caro Signore il mio peccato, insegnami a pentirmene, e perdonami nella tua grande misericordia" (Meditations and devotions, 251-252).

In realtà la preghiera in tutte le sue forme ed espressioni ha sempre vivificato la mente e il cuore di Newman, dalla sua infanzia fino al giorno della sua morte. Si tratta di una preghiera che per lui è sempre stata fondata nella fede in un Dio personale. Ha sempre sentito nel cuore una voce più grande del dettame della sua natura e questo lo manifesta scrivendo che si tratta "dell'eco di una persona che mi parla. Essa porta con sé la prova della sua origine divina. La mia natura la sente in tutto e per tutto come una persona. Quando le disobbedisco mi sento afflitto, proprio come quello che provo nel compiacere o nell'offendere un amico degno di rispetto" (Callista, 314).

Nell'intreccio inseparabile tra l'affermazione di un Dio personale, la coltivazione della coscienza e la conoscenza del dogma, Newman ha sempre considerato la preghiera come un dovere e come un privilegio. È stato profondamente affascinato dalla preghiera di intercessione, da lui definita come "la prerogativa e il dono degli obbedienti e dei santi". Nella preghiera di intercessione mette in risalto la dignità divina, la possibilità che il peccatore diventi un amico, un confidente di Dio, in grado di raccogliere l'universo intero e di presentarlo al suo Signore. In questa preghiera Dio ci concede il potere fortissimo di influire non solo sul percorso vitale della nostra anima, ma sul futuro di tutta la storia.

A un certo punto, nella sua lunga esperienza di preghiera, di mortificazione e di penitenza, accompagnata sempre da una adorazione umile e perseverante, apparve a Newman quella luce che lo condusse il 9 ottobre 1845 a "sentirsi raccolto nell'unico ovile di Cristo" (Apologia, 207). "Avevo l'impressione - scriveva nel 1864 - di entrare nel porto dopo una traversata agitata; per questo la mia felicità, da allora fino a oggi, è rimasta inalterata" (Apologia, 211). Era questa solo una tappa del suo lungo viaggio:  sarebbe continuata in lui un'eroica e incessante lotta interiore, accompagnata sempre da una grande libertà di coscienza. Le questioni religiose e filosofiche della sua epoca si sarebbero progressivamente risolte attraverso una singolare capacità di dialogo con molte persone. Il suo procedere apologetico lo rendeva metodico e preciso. Con la sua capacità di umiltà e di perseveranza, divenne un esempio di guida spirituale, temprata dalle lotte affrontate e dalla diffidenza da cui in diverse occasioni si sentì circondato.

Possiamo certamente dire che la sua vita, definita da molti un "olocausto alla verità", rimane un punto di riferimento per tutti noi. Di fronte alle nostre preoccupazioni e ai difficili discernimenti che la società contemporanea ci impone, Newman ci insegna attraverso i suoi scritti e con il suo esempio a mantenere un certo distacco dalle preoccupazioni materiali della vita, per lasciar posto dentro di noi alla crescita dell'amore di Dio, perché ogni nostro affanno, ogni atteggiamento di fede e ogni moto interiore della preghiera devono nascere e trovare il loro compimento solo nella carità divina.

I nostri giorni ci obbligano a ritrovare un pensiero robusto e una pratica cristiana aperta e lungimirante, dentro la quale la ricerca teologica, l'interpretazione della cultura e il sentire ecclesiale siano sempre accompagnati da una vera esperienza spirituale.

È il nostro cammino verso la Pasqua nella quale ritroviamo sempre la rivelazione della gloria di Dio nella vita della Chiesa e nella storia del mondo. Al termine di questo cammino ci attende la pace vera.



(©L'Osservatore Romano - 29 marzo 2009)
Cattolico_Romano
00giovedì 4 giugno 2009 12:58
Newman e i Padri della Chiesa:  un incontro decisivo

Gli amici del quarto secolo che fanno bella ogni stagione

di Inos Biffi

    Il 13 marzo 1864, domenica di Passione, alle sette del mattino, nel Testamento scritto in attesa della morte, Newman dichiarava:  "Affido l'anima mia e il mio corpo alla Santissima Trinità e ai meriti e alla grazia di nostro Signore Gesù, il Dio Incarnato; all'intercessione e alla compassione della nostra cara madre Maria; a san Giuseppe; a san Filippo, mio padre, padre di un figlio indegno; a san Giovanni evangelista; a san Giovanni Battista; a sant'Enrico; a sant'Atanasio, a san Gregorio di Nazianzo; a san Giovanni Crisostomo e a sant'Ambrogio. L'affido altresì a san Pietro, a san Gregorio i, a san Leone e al grande apostolo san Paolo".

                                         

    Non sorprende che nell'attesa della morte - che sarebbe sopravvenuta più di un quarto di secolo dopo, nel 1890 - Newman si affidasse alla Santissima Trinità, a Gesù Cristo, a Maria e a Giuseppe, a san Filippo Neri, fondatore degli oratoriani - ai quali apparteneva, e del quale era devotissimo - a san Giovanni Battista e agli apostoli Giovanni, Pietro e Paolo, e a sant'Enrico, del quale, con quello di Giovanni, portava il nome.

    Non è però neppure sorprendente - ma molto significativo - che, dopo aver "passato la sua vita nell'intimità dei Padri" (Henri Brémond), Newman si affidasse in morte a quei padri e dottori che rappresentavano ai suoi occhi la gloriosa Chiesa antica:  dopo la frequentazione durante tutta la sua vita, a partire dall'adolescenza, non poteva, certo, dimenticarli in morte. Essi erano stati "le sorgenti della sua conversione e della sua vita interiore" (Denis Gorce); li aveva cantati nelle sue più belle liriche; li aveva raccolti con premurosa devozione, in edizioni raffinate, nella sua biblioteca, per stare con loro; li aveva studiati a lungo e con entusiasmo:  non poteva dubitare che si sarebbero presentati ad accoglierlo sulla soglia dell'eternità.

    L'incontro di Newman con i Padri, con "queste prime luci della Chiesa", come egli li chiama, fu un incontro precoce. Era il 1816, quando questo "sublime inquieto" (Gorce) sperimentò - lo scrive nell'Apologia pro vita sua - "un grande rivolgimento di pensieri", incominciando "a subire l'ascendente di un credo ben definito" e ad accogliere "nella mente certe impressioni sul dogma che, per la grazia di Dio, non sono mai più scomparse né sbiadite".

    La storia dei Padri diviene allora, in certa misura, la storia di Newman. E il pensiero va a quello che per lui aveva significato lo studio degli "amici del secolo iv", "il secolo di elezione di Newman", nel quale egli "si trova tutt'intiero" e che è "il suo luogo intellettuale (...) il paesaggio dell'anima che porta nel proprio intimo e trasfigura le sue giornate" (Gorce) - e va al Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana, che si concluderà con la scelta dolorosa e doverosa, e insieme gioiosa e liberante, della conversione alla Chiesa cattolica, quando, proprio alla scuola dei padri, sentì sciogliersi l'ostacolo che lo teneva lontano da essa.

    Dal dicembre 1832 al giugno 1833 Newman avrebbe compiuto il celebre viaggio nel Mediteranno da cui resterà incantato. Quelle acque, scriverà alla madre il 19 dicembre 1832, gli ricordavano Atanasio, che le aveva attraversate - "Qui il grande Atanasio viaggiò verso Roma" - e lo avvicinavano alle terre dei padri greci, e particolarmente dei "suoi Cappadoci". Il loro ricordo si trasfigura allora in poesia:  la poesia che, d'altronde, anima tutta l'opera di Newman.

    A bordo della Hermes, tra Zante e Patrasso, Newman canta i Padri greci, "la pagina variegata, tutta splendore di Clemente", "e Dionigi, guida saggia nel giorno del dubbio e della pena", "e Origene dall'occhio d'aquila", e, dopo Basilio, - col suo "alto proposito di colpire l'eresia imperiale" - "la grazia divinamente insegnata del Nazianzeno", e "Atanasio dal cuore regale", che altrove definirà "instancabile Atanasio"; mentre un'intera poesia sarà dedicata a Gregorio di Nazianzo.

    Né meno poeticamente ispirato è un brano di prosa del saggio sul Crisostomo, dove quattro dottori della Chiesa sono paragonati alle quattro stagioni:  "(Basilio) somigliava a una calma, mite, composta giornata d'autunno; san Giovanni Crisostomo era invece una giornata di primavera, luminosa e piovosa, splendida fra sprazzi di pioggia. Gregorio era l'estate piena, con un lungo intervallo di dolce quiete; la sua monotonia era interrotta da lampi e tuoni. E sant'Atanasio ci dà l'immagine dell'inverno rigido e accanito, con i suoi venti violenti, i terreni incolti, il sonno della grande madre, e in cielo le stelle luminose".

"I Padri mi fecero cattolico":  Newman stesso lo dichiara a Edward B. Pusey. Questi aveva criticato il culto cattolico a Maria, ritenendolo uno sviluppo anomalo della pietà cristiana e un grave ostacolo per l'intesa degli anglicani coi cattolici, e Newman nella nota lettera a Pusey risponderà:  "Non mi vergogno di basarmi sui Padri, e non penso minimamente di allontanarmene. La storia dei loro tempi non è ancora per me un vecchio almanacco. I Padri mi fecero cattolico (The Fathers made me a Catholic), ed io non intendo buttare a terra la scala con la quale sono salito per entrare nella Chiesa".

    E, dopo aver terminato The Church of the Fathers, scriverà:  "La mia Chiesa dei Padri è ora terminata. È il libro più bello - the prettiest book - che io abbia scritto. E non c'è da sorprendersi, dal momento che si compone tutto di parole e di opere dei Padri".

    È lui stesso a riferire quanto si diceva:  "Intorno a noi da ogni parte si alzavano voci, a gridare che i Tracts e gli scritti dei Padri ci avrebbero portato al cattolicesimo prima che ci avvedessimo" e a ricordare il suo prosternarsi "con amore e venerazione ai piedi di coloro - sta parlando dei padri calcedonesi - la cui immagine ebbi sempre davanti agli occhi e le cui armoniose parole risuonarono sempre al mio orecchio e sulle mie labbra".

Si viene drammaticamente accorgendo che l'antica ortodossia patristica e conciliare continuava nella Chiesa di Roma, e la sua coscienza gli imponeva di prendere la decisione coerente:  "Se sant'Ambrogio e sant'Atanasio tornassero all'improvviso in vita - scrive nello Sviluppo della dottrina cristiana - non vi ha dubbio quale confessione riconoscerebbero come la loro".

Commenta con finezza il Gorce:  "Newman non ha che da cantare il Nunc dimittis (...) Dopo essere stati gli strumenti della sua agonia, i Padri sono diventati finalmente gli artefici della sua risurrezione".

    Newman stesso nell'Apologia pro vita sua ricorderà come nella stesura de Gli ariani del iv secolo i Padri abbiano via via influito su di lui. Così, scrive:  "La vasta filosofia di Clemente e Origene mi entusiasmò (...) Certe parti del loro insegnamento, di per sé magnifiche, mi giungevano come una musica nell'orecchio della mia anima, quasi fossero la risposta a idee che, con ben poco incoraggiamento all'esterno, io accarezzavo da tanto tempo".

    Fatto quindi cattolico, Newman affermerà che la lettura dei Padri era per lui fonte di "delizia"; egli li sentiva e li considerava come suoi familiari. Alcuni di essi erano i suoi "vecchi amici del secolo iv". Gli scritti dei padri erano i suoi "archivi di famiglia".

    "Mi ricordo bene - scrive Newman - come, entrato finalmente nella comunione cattolica, baciavo i volumi di sant'Atanasio e di san Basilio con delizia, con la percezione che in essi ritrovavo molto di più di quello che avevo perduto, e come dicevo a queste pagine inanimate, quasi parlando direttamente ai gloriosi santi che le hanno lasciate in eredità alla Chiesa:  "Ora, senza possibilità alcuna di errore, voi siete miei, e io sono vostro"".

    I Padri - è l'osservazione del geniale Brémond - sono rievocati da Newman non come figure definitivamente perdute nel passato, ma come suoi veri contemporanei:  "Poeta, veggente, la Chiesa dei Padri gli è presente e familiare quanto i suoi amici di Oxford e di Birmingham", così come "Ciro, in cui Teodoreto vive in esilio, "uggiosa, banale, con la sua popolazione insignificante", è Birmingham. Antiochia, l'elegante e la raffinata, ora che Alessandria ha perso il suo Atanasio, Antiochia è Oxford".

    "Sempre il ricordo dei Padri - annota il Gorce - dorme in fondo alla sua anima, pronto a rivivere e a manifestarsi. Passando a Milano, nel recarsi a Roma, (...) egli si sentirà perfettamente at home nella grande città patristica". Newman aveva scritto:  "Questo è il luogo più meraviglioso (...) Milano presenta maggiori richiami, che non Roma, con la storia che mi è familiare. Qui ci fu sant'Ambrogio, sant'Agostino, santa Monica, sant'Atanasio".

    D'altronde, Newman non accostava i padri in modo astratto, unicamente interessato, da storico e da teologo, allo studio della loro dottrina, ma al fine - sono le sue parole - di penetrare nella loro "vita reale, nascosta, ma umana o, come si dice, l'"interno" di queste gloriose creature di Dio".


(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2009)
Cattolico_Romano
00giovedì 4 giugno 2009 12:59
Nella primavera del 1879 Leone XIII creò cardinale John Henry Newman

Dicevano
che fosse troppo liberale



di Inos Biffi

Parlando di Newman, Leone XIII lo chiamava "il mio cardinale", e aggiungeva "non è stato facile, non è stato facile. Dicevano che fosse troppo liberale, ma io avevo deciso di onorare la Chiesa onorando Newman. Ho sempre avuto un culto per lui. Ho dato prova che ero capace di onorare un tale uomo". Il Papa lo diceva a Lord Selborne che, in una udienza del 26 gennaio 1888, gli consegnava un messaggio da parte di Newman. Infatti già da nunzio in Belgio (dagli inizi del 1843 agli inizi del 1846), Pecci era ben informato sul movimento di Oxford. Ed è interessante che l'affermazione:  "Ho sempre avuto un culto per lui" venga dal Papa dell'Aeterni Patris e della rinascita del tomismo.

Quella nomina, auspicata particolarmente dal laicato cattolico inglese e di cui già si vociferava, era stata piuttosto laboriosa per il fraintendimento della sua difficoltà a lasciare l'oratorio di Birmingham:  intenderlo e presentarlo al Papa come un rifiuto non era dispiaciuto troppo al cardinale Manning, nel quale la porpora di Newman non suscitava un eccessivo entusiasmo. Newman poi precisò che non si trattava di un rifiuto, e il Papa stesso era disposto a una deroga.
 
Il duca di Norfolk, che sosteneva fortemente quella nomina, già nel dicembre del 1878 l'aveva prospettata a Leone XIII, trovando che il Papa non aveva nessun pregiudizio contro Newman e nessuna avversione nei confronti dei suoi scritti.
La questione venne risolta con la lettera del Segretario di Stato, il cardinale Lorenzo Nina, che  il  15 marzo 1879 comunicava ufficialmente a Newman la decisione di Leone XIII di conferirgli la porpora.

Newman giunse a Roma il 24 aprile e vi rimase fino al 4 giugno, presso l'Hotel Bristol, in via Sistina 48, in uno stato di salute estremamente precario.

Scrivendo al suo vescovo Ullathorne, il 3 luglio, mentre ricordava la "simpatia" e "gli onori" smisurati di cui era stato fatto oggetto, e in particolare la "tenerezza", l'"affettuosa tenerezza" del Papa, lo informava di non aver potuto celebrare l'Eucaristia più di tre volte, e del resto alcune sue lettere le aveva dettate dal letto.

Durante quelle settimane venne ricevuto due volte da Leone XIII, che si informava continuamente della salute del "suo" cardinale.

La prima udienza avvenne il 27 aprile. Ricordandola in una lettera del 2 maggio all'oratoriano Henry Bittleston, Newman scrive:  "Il Santo Padre mi ha ricevuto molto affettuosamente, stringendo la mia mano nella sua. Mi ha chiesto:  "Intende continuare a guidare la Casa di Birmingham?". Risposi:  "Dipende dal Santo Padre". Egli riprese:  "Bene. Desidero che continuiate a dirigerla", e parlò a lungo di questo".

Il Papa gli rivolge ancora "diverse domande" sulla casa di Birmingham, se fosse bella, sulla chiesa, sul numero dei religiosi, sulla loro età, su dove avesse studiato teologia.
 
Prima di congedarsi, Newman fece omaggio a Leone XIII di una copia dell'edizione romana delle sue quattro Dissertazioni Latine, e aggiunge, nella stessa lettera a Bittleston, d'aver rilevato la larga bocca del Papa, il suo ampio e gradevole sorriso, la sua "carnagione molto chiara" e il suo "parlare lento e nitido all'italiana".

La seconda udienza, di congedo, avvenne il 2 giugno, nell'imminenza del ritorno in Inghilterra. Newman sottopose al Papa varie richieste, e il 4 lasciò Roma per Livorno, dove rimase, malato, fino al 20 giugno, per arrivare a Birmingham il primo luglio.

Aveva ricevuto il Biglietto, recatogli da monsignor Romagnoli, la mattina del lunedì 12 maggio, presso il Palazzo della Pigna. Il giorno dopo il Papa gli avrebbe imposto la berretta cardinalizia, e nel concistoro pubblico del 15 seguente il galero. Insieme, tra gli altri, con Giuseppe Pecci, fratello del Papa, Tommaso Maria Zigliara, domenicano - tutt'e due eminenti studiosi di filosofia e teologia tomista - e il celebre storico Joseph Hergenröther.

Come cardinale diacono gli era stato assegnato il titolo di San Giorgio al Velabro. Il motto dello stemma, attinto a san Francesco di Sales, era suggestivo ed eloquente, Cor ad cor loquitur, e rendeva perfettamente lo spirito di Newman, per il quale la parola non si comunica per pura ed esclusiva via astratta ma per i rapporti concretamente creati da una interiore affinità; d'altra parte, si conosce non solo con la mente, ma con tutta la persona, e quindi con l'affectus, secondo l'affermazione di Gregorio Magno:  Amor ipse notitia, l'amore è in se stesso fonte e principio di conoscenza, ossia amare è conoscere.

I testimoni di quel concistoro pubblico hanno riportato l'impressione e il commento che la figura diafana di Newman, dai capelli bianchi e dal marcato profilo, avvolta nella porpora, suscitava nelle dame di Roma:  "Che bel vecchio! Che figura! Pallido sì, ma bellissimo!" (cfr. Sheridan Gilley, Newman and his age, p. 402).

Un oratoriano della comunità, parlando di Newman, tornato a Birmingham e presente alle celebrazioni nella chiesa di Edgbaston, osservava:  "Il suo aspetto era magnifico, mentre stava seduto di fronte ai fedeli che riempivano il tempio. Il suo volto sembrava quello di un angelo, con i suoi lineamenti, ormai familiari per noi, addolciti e spiritualizzati adesso dalla salute fragile, e con la sua delicata costituzione e i capelli argentei, che contrastavano con le sfumature rosse dei suoi splendidi e insoliti vestiti" (citato da José Morales Marín, John Henry Newman. La vita).

Il cardinalato e l'accoglienza di Leone XIII, oltre che una riparazione per la diffidenza che per anni aveva circondato la vita e l'opera di Newman, erano soprattutto il riconoscimento del valore del suo ampio e lungo magistero. Ed è molto significativo che "L'Osservatore Romano" del 14 maggio, la vigilia del concistoro pubblico, pubblicasse in prima pagina il discorso pronunziato da Newman dopo la consegna del Biglietto di nomina, il 12 maggio, dove faceva un rapido bilancio della sua vita e dove trattava di un tema che appare ancora di impressionante attualità:  quello del liberalismo religioso.

Newman, dopo aver iniziato a parlare "nell'armoniosa lingua" italiana, continuando in inglese, manifestava la sua "meraviglia e gratitudine profonda" per la sua nomina, dichiarando di sentirsi sopraffatto dall'"indulgenza e dall'amore del Santo Padre" nell'eleggerlo a un "onore tanto smisurato":  "È stata una grande sorpresa. Siffatta esaltazione non mi era mai venuta in mente e pareva non avere attinenza alcuna con il mio passato. Avevo incontrato molte traversie, ma erano finite, e ormai era quasi giunto per me il termine di ogni cosa. Stavo in pace". "Il Santo Padre ebbe simpatia per me, e mi disse perché mi sollevava a sì alto posto. Egli giudicava questo atto un riconoscimento del mio zelo e del mio servizio per tanti anni nella Chiesa cattolica; riteneva inoltre che qualche attestato del suo favore avrebbe fatto piacere ai cattolici inglesi e anche all'Inghilterra protestante".

Aggiungeva il neoeletto cardinale:  "In un lungo corso di anni ho fatto molti sbagli. Sono lontano da quell'alta perfezione che è propria degli scritti dei santi (...) ma ciò che confido di potermi attribuire in quanto ho scritto è questo:  la retta intenzione, l'immunità da interessi privati, la disposizione all'obbedienza, la prontezza a essere corretto, il grande timore di sbagliare, la brama di servire la Santa Chiesa, e, per divina misericordia, sufficiente buon successo".

E proseguiva:  "Godo nel dire che a un gran male mi sono opposto fin dal principio. Per trenta, quaranta, cinquant'anni anni ho resistito, con tutte le mie forze, allo spirito del liberalismo religioso, e mai la Chiesa ebbe come oggi più urgentemente bisogno di oppositori contro di esso, mentre, ahimé, questo errore si stende come una rete su tutta la terra".

"Il liberalismo religioso è la dottrina secondo la quale non esiste nessuna verità positiva in campo religioso, ma che qualsiasi credo è buono come qualunque altro; e questa è la dottrina che, di giorno in giorno, acquista consistenza e vigore. Questa posizione è incompatibile con ogni riconoscimento di una religione come vera. Esso insegna che tutte sono da tollerare, in quanto sono tutte materia di opinione. La religione rivelata non è verità, ma sentimento e gusto, non fatto obiettivo (...) Ogni individuo ha diritto a interpretarla a modo suo (...) Si può andare nelle chiese protestanti e in quelle cattoliche; si può ristorare lo spirito in ambedue e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare insieme in pensieri e affari spirituali, senza avere dottrina comune o vederne la necessità. Poiché la religione è un fatto personale e un bene esclusivamente privato, la dobbiamo ignorare nei rapporti reciproci".
 

Newman aggiungeva:  "La bella struttura della società che è l'opera del cristianesimo, sta ripudiando il cristianesimo"; "Filosofi e politici vorrebbero surrogare anzitutto un'educazione universale, affatto secolare (... che) provvede le ampie verità etiche fondamentali di giustizia, benevolenza, veracità e simili"; sennonché - osserva Newman - un tale progetto è diretto "a rimuovere e ad escludere la religione".

È difficile non riconoscere la rovinosa attualità di questo liberalismo religioso, che preoccupava Newman nel 1879:  oggi si sta esattamente e largamente avverando e diffondendo la persuasione che le religioni siano equivalenti, che sia indifferente e non pertinente la questione della loro verità, che una confessione o una Chiesa si equivalgono. E che, in ogni caso, la religione appartiene esclusivamente all'ambito privato e personale, senza riflessi sociali. A non mancare di equivocità è talora lo stesso dialogo interreligioso:  quando cioè dovesse attutire la coscienza che, alla fine, a importare è la religione vera. La confusione che al riguardo si sta creando, all'interno stesso di esperienze cristiane elitarie, e "profetiche", come le chiamano, è mirabile e singolare, ma è assolutamente contraria al Vangelo e alla tradizione ecclesiale. Parlano del Popolo di Dio e ne annebbiano le certezze.
 
Anche l'altro, e connesso, rilievo di Newman appare di sorprendente attualità:  quello relativo allo smantellamento della "cultura" cristiana e delle sue risorse educative, con il pretesto della "laicità" e dei valori "laici", come diciamo oggi:  il neocardinale parlava di "giustizia, benevolenza", noi solitamente di "solidarietà". Ma una pura educazione "laica" condotta nell'indifferenza religiosa è incapace di fondare un'etica ed è fatalmente destinata a educare al nulla.
 
Oggi chi afferma una cosa stramba o antiecclesiale si autofregia del titolo di profeta; lo fu invece davvero Newman, le cui opere con la loro finezza storica e psicologica, con la loro bellezza poetica, e con lo splendore della loro verità, hanno impreziosito per sempre la Chiesa.



(©L'Osservatore Romano - 20 maggio 2009)
Cattolico_Romano
00mercoledì 15 luglio 2009 10:47
La guida preziosa di John Henry Newman

A lezione dal Dottore del concilio


Da pochi giorni è stato ripubblicato il volume John Henry Newman. A Biography (Oxford, Oxford University Press, 2009, pagine 784, euro 30). All'edizione del 1988 è stata aggiunta una postfazione che confuta le recenti insinuazioni sulla sua sepoltura. L'autore del libro, che è il maggior conoscitore della figura e dell'opera di Newman, ha tracciato per "L'Osservatore Romano" un suo profilo.

di Ian Ker

Il venerabile John Henry Newman sarà il primo inglese, dai tempi della Riforma, elevato agli onori degli altari senza essere stato martirizzato. E tuttavia ha dovuto sopportare molte sofferenze nel corso della sua vita. Fu denigrato come anglicano quando, attraverso il Movimento di Oxford, tentò di recuperare l'eredità cattolica della Chiesa d'Inghilterra. In seguito, da cattolico, il suo lavoro per la Chiesa fu minato dagli estremisti ultramontani che lo sospettavano di liberalismo mentre i cattolici liberali lo attaccavano per la sua obbedienza all'autorità.

Sebbene non sia stato martirizzato come san Tommaso Moro - autore di Utopia e amico di Erasmo - anche Newman fu un grande umanista. L'altare della sua cappella privata nell'oratorio di Birmingham non è sormontato da immagini di san Filippo Neri (il fondatore dell'Oratorio), ma da quelle del grande santo umanista della Controriforma, Francesco di Sales, il cui detto cor ad cor loquitur fu adottato dallo stesso Newman come motto cardinalizio. Aveva già citato queste parole in The Idea of University (1873), un classico della prosa inglese e la più influente opera mai scritta sull'educazione universitaria. In verità Newman scrisse una volta:  "Ora, dall'inizio alla fine l'educazione (...) è la mia linea guida". Da giovane, del resto, era stato un pioniere del sistema tutoriale a Oxford e in seguito fondò l'università cattolica in Irlanda e la scuola dell'Oratorio di Birmingham. Come scrittore ha raggiunto il livello dei maggiori prosatori inglesi, mentre il suo poema The Dream of Gerontius (1865) fu messo in musica da Edward Elgar nel suo celebre oratorio.



Nel periodo del Movimento di Oxford Newman pronunciò nella chiesa universitaria di Saint Mary the Virgin, di cui era vicario, non solo i suoi Oxford University Sermons (1843), di taglio accademico, ma anche numerose prediche, poi raccolte nel volume Parochial and Plain Sermons (1868). Questi testi, che si nutrono di Sacre Scritture e di patristica, sono divenuti un classico della spiritualità cristiana. I suoi Oxford University Sermons, la sua opera fondamentale, esplorano la relazione tra fede e ragione, un'analisi che sarà poi completata nella sua Grammar of Assent (1870). L'originalità e la penetrazione della sua filosofia della religione è stata pienamente apprezzata soltanto negli ultimi anni.

Quando Newman divenne cattolico, nel 1845, era il più importante convertito alla Chiesa dalla Riforma. La sua teologia scritturale e patristica era estranea a una Chiesa allora dominata da un pensiero scolastico alieno a successivi recuperi scritturali, patristici e tomistici. Fu il concilio Vaticano ii - di cui Newman è spesso definito "il padre" - a riscattare finalmente la sua teologia. Il compianto cardinale Avery Dull lo definì il teologo cattolico più fecondo del diciannovesimo secolo. Il suo classico Essay on the development of Christian Doctrine (1845) - che fu oggetto di sospetto da parte dei due più importanti teologi romani del tempo - può essere considerato come il punto di partenza della moderna teologia cattolica dello sviluppo. La sua opera On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine (1859) - denunciata a Roma da un membro della gerarchia inglese e gallese - precorse di più di cento anni il decreto conciliare sull'apostolato dei laici e la sezione sul laicato della Lumen gentium. L'ultimo capitolo di questa costituzione dogmatica, dedicato alla Beata Vergine Maria è il risultato della decisione del concilio di non redigere un documento separato su Nostra Signora; la teologia scritturale e patristica di Newman è in sintonia con la sua mariologia in A letter to Pusey (1866). La sua interpretazione della definizione data dal concilio Vaticano i dell'infallibilità del Papa - così come articolata in Letter to the Duke of Norfolk (1875) - fu sgradita agli estremisti ultramontani ma, in quel tempo, fu scagionata dal vescovo Fessler - già segretario generale del concilio - in Die wahre und die falsche Unfehlbarkeit der Päpste, un libro che ricevette l'approvazione ufficiale di Papa Pio IX. Il famoso "brindisi" di Newman alla coscienza nella stessa opera si riferisce alla possibilità di rifiutarsi, appunto secondo coscienza, di obbedire agli ordini papali, ma non alla possibilità del cosiddetto dissenso, in coscienza, agli insegnamenti del Pontefice, come spesso erroneamente si è supposto. Ma se Newman è considerato il "padre del concilio Vaticano ii", in caso di canonizzazione egli sarà certamente dichiarato Dottore della Chiesa. E in questo caso sarà visto - ne sono convinto - come il Dottore della Chiesa postconciliare. Poiché la sua teologia, che al tempo appariva tanto radicale da essere pericolosa, fu sempre profondamente storica, sensibile alla tradizione e rispettosa dell'autorità magisteriale della Chiesa. Una volta, com'è noto, scrisse:  "Per essere profondamente nella storia bisogna smettere di essere protestanti". L'idea che il Vaticano ii abbia rappresentato una frattura totale nella storia della Chiesa, una nuova alba analoga alla Riforma secondo il punto di vista dei protestanti, gli sarebbe apparsa non solo come indice di incredibile ignoranza della storia e di indifferenza alla tradizione, ma anche come una forma di disprezzo per il magistero permanente della Chiesa. Come Benedetto XVI anche Newman credeva nell'"ermeneutica della continuità". Al tempo del concilio Vaticano i scriveva:  "Non ci muoviamo alla velocità di un treno nelle materie teologiche, nemmeno nel diciannovesimo secolo".



La miniteologia dei concili che Newman tratteggiò nelle lettere private al tempo del concilio Vaticano i offre un'ermeneutica di valore inestimabile sia per il Vaticano ii sia per gli sviluppi ulteriori e le alterazioni degli insegnamenti conciliari. Newman avrebbe considerato il caos e il dissenso successivi come inevitabili conseguenze per qualsiasi concilio e soprattutto per uno dall'agenda a così lungo termine. Il concilio Vaticano i terminò da una parte con il trionfalismo degli estremisti ultramontani e dall'altra con la scomunica di Döllinger e dello scisma dei vecchi cattolici. Anche il Vaticano ii vide l'emergere di due reazioni estreme e opposte, ma fortemente concordi sulla sua natura rivoluzionaria.

Profondamente nella storia, Newman comprese molto chiaramente che i concili procedono "con dichiarazioni contrarie (...) che si perfezionano, si completano e si integrano reciprocamente". Così la definizione del Vaticano i sull'infallibilità del Papa andava completata e modificata da un insegnamento più ampio sulla Chiesa e Newman predisse con esattezza che un altro concilio avrebbe fatto esattamente questo. Ma allo stesso modo il Vaticano ii ha bisogno di completamento e modifiche. Newman apprezzava profondamente il fatto che i concili avessero conseguenze inattese in virtù sia di quanto detto sia di quanto taciuto. Il dire tende all'esagerazione, come è accaduto nella scia del concilio Vaticano ii, quando sembrava che la Chiesa non avesse altro di cui occuparsi se non di giustizia e pace, di ecumenismo, dialogo interreligioso e così via. Tuttavia, anche ciò di cui i concili non si occupano, e quindi trascurano, ha un grande significato:  quindi il concilio Vaticano ii fu silenzioso in modo assordante su quella che sarebbe poi divenuta la preoccupazione principale del pontificato di Giovanni Paolo II:  l'evangelizzazione.

Nei decenni che precedettero l'ultima assise ecumenica Newman fu fonte d'incoraggiamento e d'ispirazione per quanti auspicavano il rinnovamento della Chiesa. Il ritorno alle fonti patristiche che caratterizzò il Movimento di Oxford - di cui Newman fu capo e teologo  guida - anticipò il grande ressourcement francese del ventesimo secolo di Jean Daniélou, Henri de Lubac e Yves Congar, senza il quale il rinnovamento del concilio Vaticano ii sarebbe stato quasi impossibile. Nel periodo postconciliare in cui viviamo credo che John Henry Newman sia una guida inestimabile per una comprensione autentica del concilio, libera da travisamenti ed esagerazioni, una comprensione informata da un senso della storia, dallo sviluppo della dottrina e da un apprezzamento dei limiti dei concili e del loro rapporto reciproco.


(©L'Osservatore Romano - 15 luglio 2009)
Cattolico_Romano
00giovedì 23 luglio 2009 11:30



La silenziosa ricerca della verità di John Henry Newman

E il cardinale rispose al bambino


di Inos Biffi

Nel firmamento della Chiesa sta per accendersi una nuova luce:  quella del beato John Henry Newman. Sarà così riconosciuta la santità di una vita trascorsa silenziosamente nell'infaticabile ricerca della verità, nell'adesione a Dio e nel consenso alla coscienza, nell'operoso e prolungato servizio alla Chiesa, nella serena e dolorosa sopportazione di incomprensioni e di isolamenti.

Sul finire dei suoi anni, al bambino che - in visita con la nonna Jemima, la sorella di Newman - contravvenendo alla raccomandazione di non fare domande, gli aveva chiesto:  "Chi è più grande:  un cardinale o un santo?", l'anziano zio rispose:  "Vedi, piccolo mio, un cardinale appartiene alla terra:  è terrestre; un santo appartiene al cielo, è celeste". Il cardinalato gli era giunto, sorprendentemente e non senza penosi intralci, ormai al tramonto della vita:  egli non lo aveva desiderato, anche se lo aveva gradito, come riconoscimento della sua opera e soprattutto come apprezzamento per la Chiesa cattolica inglese; però, sapeva bene che la santità era tutt'altra cosa.

D'altra parte, di là dall'altezza del suo ingegno, penetrante e versatile, di là dai suoi raffinati gusti estetici, dal suo "stile incantatore" (Piero Chiminelli), dalla discrezione del comportamento distinto, dalla elevatezza e nobiltà dei suoi sentimenti, la santità di Newman non mancava di essere diffusamente presentita.

Vedendo la sua salma esposta nella chiesa dell'Oratorio di Birmingham - era morto l'11 agosto del 1890 - un visitatore annotò:  "Il cardinale, come i resti mortali di un santo, spiccava sul feretro, pallido, distante, logorato. Era come se un intero ciclo di esistenza e di pensiero umani si fossero concentrati in quell'augusto riposo. Una dolce luce aveva condotto e guidato Newman fino a questa singolare, brillante e incomparabile meta". Ma già qualche anno prima, il vescovo di Birmingham, Ullathorne, dopo averlo incontrato, commentava:  "Mi sono sentito rimpicciolito davanti alla sua presenza. Dentro quest'uomo c'è un santo".

Ed era, alla fine, la stessa persuasione del cardinale Manning. Al discorso funebre per Newman nella chiesa del Brompton Oratory di Londra, quando ormai le polemiche erano lontane e il tempo aveva dileguato le diffidenze, l'arcivescovo di Westminster, dopo aver rievocato "la sua figura, la sua voce, e le parole penetranti che uscivano dalle sue labbra nella chiesa universitaria di Oxford", affermava:  "A nostra memoria, nessun inglese è stato oggetto di una venerazione così viva e sincera. Qualcuno ha detto:  "Lo canonizzi o meno Roma, egli sarà canonizzato nella mente della gente religiosa di tutte le confessioni in Inghilterra". È vero. E se questo fatto equivale a una nobile testimonianza di riconoscenza a una grande vita cristiana, è anche una magnifica prova dell'equità e della giustizia del popolo inglese. Egli è sempre stato lo stesso, unito a Dio e aperto nella carità a tutti quelli che avevano bisogno di lui. Fu centro di numerose anime, che erano andate da lui, come maestro, guida e consigliere durante molti anni. Una vita bella e nobile".

Forse la via più illuminante e suggestiva per comprendere la concezione e i lineamenti della santità di questa "vita bella e nobile" consiste nel percorrere i profili dei Padri della Chiesa, tracciati da Newman con  penna  finissima  e  intima  consonanza.

Potremmo, anzi, dire che, nella "fraternità d'anime" con queste "preziose creazioni di Dio" - come li definiva - e nella loro assidua e degustata frequentazione, si veniva plasmando e maturando la sua stessa vita spirituale, mentre nelle loro vicissitudini egli leggeva, quasi in una profetica filigrana, le sue peripezie e insieme ritrovava disvelate le proprie emozioni e la propria umanità.

Scriveva il penetrante, e un po' deviante, Bremond:  "In ciascuno dei Padri Newman cerca anzitutto l'uomo, il santo. Prima di prenderli come maestri, egli li vuole avere per amici". "Si scelgono gli amici come si vuole. Newman li vuole santi, e vuole che le ore che dedica loro siano ancora una specie di preghiera", e aggiungeva:  "Chi non ama la santità, non ama i santi". Newman mostra di amare sia i santi sia la santità.

E tra i santi sopra tutti lo attraeva Giovanni Crisostomo. Newman stesso si domandava:  "Da dove viene questa devozione a san Giovanni Crisostomo, che mi spinge a fissare il pensiero su di lui, e mi infiamma al solo suo nome?". E rispondeva:  "Penso che il fascino di san Crisostomo si trovi nella sua profonda solidarietà e compassione per il mondo intero; non solo nella sua forza, ma nella sua debolezza".

Newman è attirato dal fatto che, per quanto posseduto dal fuoco della divina carità, il Crisostomo "non ha perso una fibra, non manca di alcuna vibrazione del complicato organismo del sentimento e dell'affetto umano":  "Egli scrive come chi scruta con occhi acuti ma compassionevoli il mondo degli uomini e la loro storia".

Senza dire che per un altro aspetto Newman sentiva consonante col proprio il temperamento del Crisostomo, ed è il vivo senso dell'amicizia, che fu motivo per Newman di intima gioia e di profonda sofferenza: 

"Nessuno poteva vivere più intimamente nei propri amici come san Giovanni Crisostomo:  non aveva lo spirito di distacco proprio del monaco, che lo rendesse indifferente alla presenza, alla corrispondenza, all'azione, al benessere dell'anima e del corpo di coloro che, come lui, erano figli della stessa grazia ed eredi della medesima promessa". E concludeva:  "San Giovanni Crisostomo appartiene a quella schiera scelta di personaggi che gli uomini iniziano a comprendere e a venerare dopo che ne vengono privati. È la legge generale del mondo, che la nuova legge del Vangelo non ha capovolto":  sarebbe avvenuto così anche per lui.

Senza dubbio, l'itinerario e la forma della santità sono aperti soltanto allo sguardo di Dio, così come essa è possibile solo all'opera misteriosa e fantasiosa della sua grazia.
Tuttavia, forse, riusciamo a sorprendere alcuni momenti in certo modo decisivi del tragitto interiore di Newman. Ci sembra che uno di questi momenti sia quello della conversione di questo "ipersensibile", insieme dotato "di una docile volontà" e di una "fermezza d'acciaio" (Bouyer).

Era l'autunno del 1816, e nel "grande rivolgimento di pensieri" - com'egli nell'Apologia pro vita sua chiama la conversione - gli brillò l'evidenza di due esseri:  il suo "io" e il suo "Creatore". Mentre ogni altra realtà sbiadiva ai suoi occhi e veniva guardata con sospetto, questo eccezionale quindicenne con una fermezza estrema si sentì ancorare "al pensiero di due e solo due esseri assoluti, di un'intrinseca e luminosa evidenza, che lo segnerà per sempre:  me stesso e il mio Creatore". Così, Dio, il Dio vivo della Scrittura, "gli si impose, in modo intimo, senza intermediario, personale", con la conseguenza che i grandi dogmi, come l'incarnazione, la redenzione, la Trinità, gli apparvero "non come idee astratte, ma come fatti vitali" (Bouyer), ai quali corrispondere con la sua condotta.



E sempre nel tempo della sua conversione lo aveva colpito un'espressione, che divenne un programma, di Walter Scott:  "La santità più che la pace", e lui stesso scriverà che il grande fine del ministero "è la santità".

Un altro momento cruciale nel cammino spirituale di Newman fu, senza dubbio, quello del viaggio nel Mediterraneo, con la sua malattia in Sicilia. Negli anni che lo hanno preceduto, "cominciavo - egli afferma - a preferire l'eccellenza intellettuale all'eccellenza morale", e a cedere al liberalismo.

Quel viaggio, coi rimorsi e i pentimenti che suscitava e la lucidità interiore che vi accendeva sul suo "orgoglio", fu provvidenziale. In quelle settimane Newman ebbe l'"intuizione" e il presentimento di una sua missione che lo attendeva, insieme con la persuasione da un lato di non aver mai peccato contro la Luce e di avere assolutamente bisogno di Luce. Fu allora che scrisse l'inno inglese più cantato nelle chiese cattoliche e protestanti, Lead kindly Light, che è una confessione sincera della sua presunzione, e una appassionata e umile implorazione di quella Luce. "In mezzo al buio" che lo avvolgeva, egli la invocava come guida, che illuminasse non "l'orizzonte lontano", ma tanto quanto bastasse per compiere un passo. La santità di Newman appare come il crescere silenzioso e perseverante di questa fedeltà alla Luce.

Certo, durante "la sua così lunga e spesso penosa vita" non sarebbero mancati difficili situazioni di prova e profondi motivi di sofferenza, di fronte a chiari segni di sfiducia, a manovre non limpide, ad anni di emarginazione e di isolamento.

Nel 1860 constatava e scriveva nel suo diario:  "Non ho nessun amico a Roma, ho lavorato in Inghilterra dove non sono stato capito e dove mi hanno attaccato e disprezzato. Pare che sia incorso in molti fallimenti", e aggiungerà:  "Credo di dire tutto questo senza amarezza".

Si era anche affacciata la possibilità che fosse fatto vescovo; gli era anche stata promessa autorevolmente quella nomina che poi svanì. Viene in mente che anche a Rosmini era stata assicurata la nomina cardinalizia, poi intralciata e revocata. E come Rosmini, la cui stella si è inattesamente e felicemente da poco accesa nello stesso firmamento del santorale della Chiesa, anche Newman non ebbe per questo parole di amaro risentimento. D'altronde, egli riconosceva serenamente:  "Io non ho il talento, l'energia, le risorse, lo spirito, la capacità di governare, necessari per occupare l'alta carica di vescovo. Non ho mai occupato in vita mia cariche di potere. Il mio modo di esercitare una qualche influenza è completamente diverso".

E fu esattamente così. La sua influenza non fece che accrescere, come riflesso della luminosità garbata, e pure intensissima della sua intelligenza, che sa toccare in profondità la mente e sa parlare al cuore. Cor ad cor loquitur si legge nel suo stemma cardinalizio.

E non meno attraente è la santità di Newman, contrassegnata da equilibrio alieno da rigide e mortificanti ascesi. Essa ci appare la santità di un gentiluomo che, con incrollabile fede, seppe sopportare per amore della verità e della Chiesa innumerevoli tribolazioni, abitualmente nascoste sotto la sua cortese e un po' distaccata amabilità, nel silenzio lucido della sua coscienza, aperta a Colui che solo assolutamente gli importava, secondo l'intuizione della sua prima conversione, a quindici anni:  "Io e il mio Creatore".

Cattolico_Romano
00giovedì 23 luglio 2009 13:49
La beatificazione di Newman per far risorgere l’Europa cristiana

Segno di contraddizione per la Modernità che rifiuta Dio



di Paolo Gulisano



ROMA, mercoledì, 22 luglio 2009 (ZENIT.org).-

John Henry Newman, nato in Inghilterra nel 1801 e morto nel 1890, uno dei più grandi pensatori cristiani degli ultimi secoli, convertito al Cattolicesimo, sarà presto annoverato tra i beati della Chiesa Cattolica. Si tratta di un avvenimento che lascerà il segno, e non solo nella Chiesa che è in Inghilterra, ma per tutta la Cristianità.

Newman nell’800 positivista e scientista che aveva cominciato a rifiutare Dio fu un segno di contraddizione che aveva scosso l’Inghilterra sia cattolica che protestante.

Da anglicano aveva dato vita al Movimento di Oxford, teso ad approfondire la ricerca teologica, specie nel campo della Patristica (la teologia del tempo in cui la Chiesa era ancora una e indivisa) e a confrontarsi con le sfide della modernità. Questa ricerca della verità lo aveva fatto infine approdare, quarantenne, al cattolicesimo. Un distacco, quello dall’anglicanesimo a vantaggio di Roma, che fece scalpore.

Peraltro, divenuto cattolico, non mancarono a Newman altre contrarietà se non ostilità. Il suo genio teologico, la sua grande libertà con cui anteponeva il primato della coscienza ad ogni semplicistico dogmatismo suscitarono invidie e sospetti. Anche nella stessa gerarchia non mancò chi giudicava Newman non sufficientemente “romano”, non abbastanza polemico nei confronti di quell’anglicanesimo che aveva lasciato.

Newman attraversò anche queste prove, sostenendo sempre che “diecimila difficoltà non fanno un dubbio, se io capisco bene la questione”.L’ex grande protagonista della vita culturale di Oxford venne messo in disparte nella sua nuova chiesa, dove gli si rimproverava di non attuare abbastanza conversioni.“Per me le conversioni non erano l’opera essenziale, ma piuttosto l’edificazione dei cattolici”, scrisse. Entrato a far parte della Congregazione di San Filippo Neri, si stabilì a Birmingham, fondandovi un Oratorio. Qui il grande pensatore, l’intellettuale brillante, si trovò accanto alla miseria degli slums, in una realtà ecclesiale dove pochi erano quelli che si erano potuti permettere un’istruzione, e proprio qui, e a partire da qui, la Grazia di Dio che era in lui cominciò a seminare a piene mani.

“Il vero trionfo del Vangelo- aveva scritto- consiste in ciò: nell’elevare al di sopra di sé e al di sopra della natura umana uomini di ogni condizione di vita, nel creare questa cooperazione misteriosa della volontà alla Grazia… I santi: ecco la creazione autentica del Vangelo e della Chiesa.” Oggi la Chiesa indica proprio in Newman una di queste figure di santità. Che cosa significa la beatificazione di Newman nella realtà britannica ed anglosassone? Vuol dire riproporre ancora una volta un modello di santità fondato sulla sequela di Cristo.

Significa non rassegnarsi all’idea di un mondo che sembra totalmente secolarizzato, significa – per il mondo britannico- offrire una via d’uscita alla crisi gravissima dell’anglicanesimo. “La Chiesa Cattolica è per i santi e per i peccatori, per le persone rispettabili è sufficiente la Chiesa Anglicana”: così aveva scritto Oscar Wilde in procinto di convertirsi al Cattolicesimo.

Oggi la Chiesa Anglicana ha perso anche questo aplomb di rispettabilità formale: tra pastori smarriti che cercano di inseguire le varie mode ideologiche a vescovi che dichiarano pubblicamente di non credere nei fondamenti della Fede cristiana a reverende donne, in tutta questa confusione c’è una parte non trascurabile di fedeli anglicani che non si ritrovano più in questa chiesa, che tra l’altro alla morte della Regina Elisabetta II avrebbe formalmente come capo il panteista Carlo. La beatificazione di Newman potrebbe rappresentare un momento di riflessione per questo mondo anglicano smarrito.La sua teologia, che quando era in vita appariva “liberale”, in realtà fu sempre profondamente sensibile alla tradizione e rispettosa dell'autorità magisteriale della Chiesa.

Le obiezioni cessarono quando fu elevato alla porpora cardinalizia da Leone XIII alla soglia degli ottant’anni, un riconoscimento dovuto per la sua opera e per la nobiltà della sua figura. Venne altresì nominato Fellow onorario del Trinity College di Oxford, un riconoscimento accademico straordinario, se si pensa che era dai tempi della Riforma, tre secoli prima, che un tale riconoscimento del massimo istituto accademico inglese non veniva più dato ad un cattolico.Nonostante la mitezza, quasi la fragilità della sua persona. Il volto magro e solcato di rughe profonde in cui splendevano due occhi intrisi di ideale che avevano scrutato per anni in quella difficile Inghilterra dell’epoca vittoriana, John Henry Newman fu un apostolo e un profeta. Quando si spense a Birmingham nel 1890, la Chiesa cattolica in Inghilterra era in piena rifioritura, dopo tre secoli di persecuzione e emarginazione.

Newman lasciò il segno in generazioni di cattolici britannici, tra i quali numerosissimi convertiti. Tutta la grande cultura cattolica anglosassone gli è in qualche modo debitrice: senza Newman non avremmo avuto Chesterton, Belloc, Tolkien, Bruce Marshall e tanti altri ancora.

Il suo pensiero, la sua Fede coniugata alla Ragione sono più che mai attuali, e per questo motivo la sua beatificazione suscita in certi ambienti fastidio e irritazione. Il mondo anglosassone è veramente incredibile: mantiene sempre un impostazione puritana, e mentre da una parte promuove e diffonde la cultura del libertinismo sessuale, dall’altra appena la Chiesa cattolica prova a far emergere qualcosa di buono, bello e santo, trova il modo di attaccarla duramente. Lo si è visto quando recentemente - proprio in vista del buon esito del processo di beatificazione - si è reso necessario riesumare il corpo di Newman, provocando così diverse reazioni, in particolare da parte della lobby omosessuale inglese, secondo cui egli non dovrebbe essere separato dal suo grande amico e collaboratore, padre Ambrose St John, insieme al quale Newman era stato sepolto, in accordo con le sue volontà testamentarie.

L'implicazione di tali proteste è chiara: Newman avrebbe voluto essere seppellito con il suo amico perché legato a lui da qualcosa di più di una semplice amicizia. Si adduca sostegno di questa tesi ciò che il cardinale scrisse alla morte di padre Ambrose, suo confratello nell’ordine oratoriano e stretto collaboratore:“Ho sempre pensato che nessun lutto fosse pari a quello di un marito o di una moglie, ma io sento difficile credere che ve ne sia uno più grande, o un dolore più grande, del mio”. In questa frase c’è semplicemente un riferimento al senso di una perdita, non certamente un’equiparazione di stato di vita.

Newman inoltre fu sempre un sostenitore decisissimo della castità e del celibato sacerdotale, tanto che lo definiva “uno stato superiore di vita, al quale la maggioranza degli uomini non possono aspirare”. I maliziosi hanno addirittura visto nel motto di Newman, cor ad cor loquitur, “il cuore parla al cuore”, un criptato riferimento ai suoi sentimenti per Padre Ambrose, ignorando grossolanamente che questa è un’espressione di san Francesco di Sales.In realtà quella tra Newman e St. John fu la storia di una grande amicizia fondata sul comune amore per Cristo e la sua Chiesa. Quando Padre Ambrose morì, stava lavorando su indicazione di Newman alla traduzione di un testo teologico a sostegno del Dogma dell’infallibilità papale: una strana occupazione per una improbabile “coppia di fatto” ecclesiastica.

Ma la cultura libertina e pansessualista sembra non volere ammettere che possano esistere rapporti di amicizia puri, gratuiti: sembra che non riesca a concepire il bello morale che Cristo ha manifestato.

Anche per questo beatificare Newman è un segno della Chiesa per salvare e far risorgere l’Europa Cristiana. Sulla sua tomba il grande convertito aveva voluto che fossero incise queste parole: Ex umbris et imaginibus ad veritatem. Andiamo verso la verità passando attraverso ombre e immagini. Questo è il destino dei cristiani nei nostri tempi difficili.
S_Daniele
00giovedì 29 ottobre 2009 16:37


Pubblicati gli atti del convegno internazionale sul grande teologo inglese

Quando il «Times» canonizzò Newman


Il libro Una ragionevole fede raccoglie gli atti del convegno internazionale su John Henry Newman che si è svolto a Milano presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore il 26 e il 27 marzo 2009 (Milano, Vita e Pensiero, 2009, pagine 252, euro 20). Pubblichiamo quasi per intero la prefazione dei curatori.

di Evandro Botto e Hermann Geissler

Quando Newman fu elevato alla dignità cardinalizia (1879), scelse come motto le parole cor ad cor loquitur, il cuore parla al cuore. Tale motto ci presenta la figura di Newman come uomo di dialogo. In questo contesto può essere opportuno ricordare tre caratteristiche che hanno contraddistinto l'impegno dialogico di Newman. 

La prima caratteristica è la passione per la verità. Sin dalla sua "prima conversione" (1816) Newman cercò la luce della verità e seguì questa "luce benevola" con grande fedeltà. Promosse il Movimento di Oxford (1833) per riportare la Chiesa d'Inghilterra alla libertà e alla verità delle origini. Si convertì al cattolicesimo proprio perché trovò in esso la pienezza della verità (1845). Nel suo lavoro su Lo sviluppo della dottrina cristiana scrisse:  "Vi è una verità; vi è una sola verità; l'errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell'errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne sostenitori; si deve temere l'errore; la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l'acquisizione della verità non assomiglia in nulla all'eccitazione per una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è, quindi, superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla (...) Questo è il principio dogmatico, che è principio di forza". Newman fu un appassionato ricercatore e veneratore della verità:  nell'impegno personale, nei rapporti con gli altri, nel confronto con le scienze, nella lotta contro la faziosità delle ideologie del suo tempo. In modo lungimirante presentì il sorgere e il diffondersi di teorie relativistiche, secondo le quali si danno soltanto opinioni diverse, non verità che richiedono un assenso incondizionato. Newman fu dominato dalla persuasione che la verità esiste, che solo dalla ricerca della verità fluisce il vero dialogo, che solo la verità ci fa autentici e liberi e ci apre la strada verso la realizzazione di noi stessi.

Tale passione per la verità spinse Newman a un costante impegno per la formazione integrale dell'uomo. Affermò in un sermone:  "Voglio che un intellettuale laico sia religioso e un devoto ecclesiastico sia intellettuale". Quando gli fu affidata la responsabilità pastorale per i fedeli di Littlemore, presso Oxford, fece costruire in quel villaggio sia una scuola sia una Chiesa - segno eloquente del suo impegno per la formazione integrale delle persone. Nel suo saggio su L'idea di Università ribadì che le molteplici dimensioni del sapere formano un tutt'uno e non possono essere separate, frammentate. L'università ha il compito di offrire una formazione universale, non escludendo dal confronto sereno e aperto nessuna dimensione del sapere. Per Newman fu evidente che a detta formazione universale appartiene anche quella etico-religiosa, la quale possiede una sua propria razionalità, che va rispettata, difesa e promossa.
 
Quanto alla formazione dei fedeli laici, che gli stava molto a cuore, Newman scrisse:  "Voglio un laicato non arrogante, non precipitoso nel parlare, non litigioso, ma fatto di uomini che conoscono la loro religione, che vi entrano dentro, che sanno benissimo dove si trovano, che sanno quello che possiedono e quello che non possiedono, che conoscono la propria fede così bene che sono in grado di spiegarla, che ne conoscono la storia tanto a fondo da poterla difendere. Voglio un laicato intelligente e ben istruito (...) Desidero che allarghiate le vostre conoscenze, coltiviate la ragione, siate in grado di percepire il rapporto fra verità e verità, che impariate a vedere le cose come stanno, come la fede e la ragione si relazionino fra di loro, quali siano i fondamenti e i principi del cattolicesimo (...) Sono sicuro che non diventerete meno cattolici familiarizzandovi con questi argomenti, purché manteniate viva la convinzione che lassù c'è Dio, e ricordiate che avete un'anima che sarà giudicata e dovrà essere salvata". Newman si distinse per uno straordinario impegno formativo, valorizzando pienamente lo sviluppo di tutte le scienze e ribadendo nel contempo il ruolo insostituibile che svolgono la fede e la morale per la crescita integrale della persona e per il bene della società.

L'impegno di Newman per la formazione trovò espressione in una terza caratteristica:  la sua premura di stabilire relazioni personali. Guidando il Movimento di Oxford, ribadì l'importanza della testimonianza personale. In tutta la sua vita accompagnò molti nel loro cammino umano e spirituale. Scrisse più di ventimila lettere che costituiscono una prova impressionante del suo zelo per le anime, della sua capacità di dialogare e di relazionarsi con altri. Uno dei suoi Sermoni all'Università di Oxford si intitola Il contagio personale della verità. In tale sermone Newman parte dalla constatazione che nessuno può essere conquistato alla causa della verità con le sole argomentazioni razionali. La verità, così scrive, "è rimasta salda nel mondo non per virtù di un sistema, non grazie a libri o argomentazioni, non per merito del potere temporale, ma grazie all'influenza personale di uomini (...) che ne sono in pari tempo i maestri e i modelli". Newman invita tutti a occuparsi della verità sul piano della ricerca intellettuale, ma al tempo stesso sottolinea che influisce di più - sul permanere, sullo svilupparsi e sul comunicarsi della verità - colui che vive la verità e ne diventa un testimone. Scrisse circa la forza persuasiva di un tale testimone:  "Mentre egli è sconosciuto al mondo, nell'ambito di quanti lo conoscono egli ispirerà ben altri sentimenti che non sia solita destare la mera superiorità intellettuale. Gli uomini illustri agli occhi del mondo sono molto grandi alla distanza. Avvicinati, rimpiccioliscono. Ma l'attrattiva che si sprigiona da una santità ignara di essere tale è di una forza irresistibile; persuade i deboli, i timidi, gli incerti, chi è alla ricerca della verità".

Non deve meravigliarci, pertanto, che, quando fu onorato con la porpora, Newman scelse, come motto, le parole cor ad cor loquitur. Secondo lui, la verità viene trasmessa soprattutto cor ad cor:  in modo personale, tramite l'esempio, la fedeltà e l'amore di testimoni convinti e credibili.

Il processo di beatificazione di Newman, iniziato già nel 1958, era ormai prossimo a concludersi nel momento in cui si è celebrato il nostro convegno; a pochi mesi di distanza, in data 3 luglio 2009, Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto riguardante un miracolo, attribuito proprio all'intercessione del venerabile servo di Dio John Henry Newman. Fra qualche mese, quindi, verrà proclamato beato. L'avvenimento conferma e propone alla venerazione di tutta la Chiesa ciò di cui sono da sempre ben consapevoli studiosi e amici di Newman, e quanti si accostano senza pregiudizi alla sua figura e ai suoi scritti:  il noto convertito inglese non fu soltanto un pensatore con doti eccezionali, ma un uomo nel quale la genialità del pensiero faceva tutt'uno con la santità della vita quotidiana.

Quando egli in tarda età sentì dire che l'avrebbero chiamato santo, scrisse:  "Non sono portato a fare il santo, è brutto dirlo. I santi non sono letterati, non amano i classici, non scrivono romanzi. Sono forse, alla mia maniera, abbastanza buono, ma questo non è alto profilo (...) Mi basta lucidare le scarpe ai santi, se san Filippo in cielo avesse bisogno di lucido da scarpe". Lungo tutta la sua vita Newman pensò di essere ben lontano dalla perfezione cristiana. Ma dalla sua "prima conversione" la sua aspirazione fu tutta rivolta a Dio, che aveva riconosciuto come il fulcro della sua vita. Da allora in poi seguì due principi:  "La crescita è la sola dimostrazione della vita" e "la santità piuttosto che la pace".

Il genio di Newman, sebbene sempre ammirato e venerato, fu riscoperto dal concilio Vaticano II, di cui è stato un precursore profetico. Jean Guitton scrisse in proposito nel 1964:  "I grandi geni sono dei profeti sempre pronti a rischiarare i grandi avvenimenti, i quali, a loro volta, gettano sui grandi geni una luce retrospettiva che dona loro un carattere profetico. E come il rapporto che intercorre tra Isaia e la passione di Cristo, reciprocamente illuminati. Così Newman rischiara con la sua presenza il Concilio e il Concilio giustifica Newman". Il Vaticano II ha recepito e consacrato tante intuizioni di Newman, ad esempio sul rapporto tra fede e ragione, sul significato della coscienza, sull'educazione universitaria, sul valore dei Padri e della storia in generale, sul mistero della Chiesa, sulla missione dei laici, sull'ecumenismo, sul dialogo con il mondo contemporaneo - grandi tematiche che vengono ampiamente trattate nel presente volume.

Nei pronunciamenti del Magistero postconciliare la dottrina di Newman viene continuamente valorizzata.
Basta menzionare alcuni documenti di particolare rilevanza dottrinale in cui si trovano riferimenti espliciti al pensiero di Newman:  le Lettere encicliche Veritatis splendor e Fides et ratio come anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, che contiene non meno di quattro testi di Newman (cfr. nn. 157, 1723, 1778, 2144) - un fatto notevole, perché di solito il Catechismo cita solo autori già canonizzati.

Accanto al suo pensiero forte, gli ultimi Pontefici presentano come esemplare anche la vita di Newman. Limitiamoci a citare tre testi significativi. In un discorso del 7 aprile 1975, rivolto ai partecipanti di un simposio accademico Paolo VI disse:  Newman, "che era convinto di essere fedele tutta la sua vita e con tutto il suo cuore votato alla luce della verità, diventa oggi un faro sempre più luminoso per tutti quelli che sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione sicura attraverso le incertezze del mondo moderno - un mondo che egli stesso profeticamente aveva preveduto".

In una lettera del 14 maggio 1979, indirizzata all'arcivescovo di Birmingham in occasione del centenario del cardinalato di Newman, Giovanni Paolo II scrisse:  "L'elevazione di Newman a cardinale, come la sua conversione alla Chiesa cattolica, è un avvenimento che trascende il semplice fatto storico e l'importanza che ciò ha avuto per il suo Paese. I due eventi hanno inciso profondamente nella vita della Chiesa molto al di là dei confini dell'Inghilterra. Il significato provvidenziale e l'importanza di questi eventi per la Chiesa in generale sono stati più chiaramente compresi nel corso di questo nostro secolo. Lo stesso Newman, con visione quasi profetica, era convinto che egli stava lavorando e soffrendo per la difesa e la promozione della causa della religione e della Chiesa non solo nel periodo a lui contemporaneo ma anche per quello futuro. La sua influenza ispiratrice di grande maestro della fede e di guida spirituale viene percepita sempre più chiaramente proprio nei nostri giorni".

Il cardinale Joseph Ratzinger, ora Benedetto XVI, disse in una conferenza tenuta nel 1990, parlando del suo incontro con Newman nel seminario di Frisinga:  "La dottrina di Newman sulla coscienza divenne per noi il fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti con il suo fascino. La nostra immagine dell'uomo, così come la nostra concezione della Chiesa, furono segnate da questo punto di partenza. Avevamo sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la coscienza del singolo. Goering aveva detto del suo capo:  "Io non ho nessuna coscienza. La mia coscienza è Adolf Hitler". L'immensa rovina dell'uomo che ne derivò ci stava davanti agli occhi. Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il "noi" della Chiesa non si fondava sull'eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza. Tuttavia proprio perché Newman spiegava l'esistenza dell'uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e l'anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all'individualismo, e che il legame alla coscienza non significava nessuna concessione all'arbitrarietà".

Nel famoso Biglietto-Speech, pronunciato in occasione del ricevimento della bolla di nomina a cardinale, Newman, guardando alla sua vita passata, confessò:  "Nel corso di lunghi anni ho fatto molti sbagli. Non ho nulla dell'alta perfezione che si riscontra negli scritti dei santi, nei quali non ci possono essere errori; ma credo di poter affermare che in tutto ciò che ho scritto ho sempre perseguito nobili intenti, non ho cercato fini personali, ho tenuto una condotta ubbidiente, mi sono dimostrato disponibile a essere corretto, ho temuto l'errore, ho desiderato servire la santa Chiesa e ciò che ho raggiunto lo devo alla misericordia di Dio". Queste parole mostrano l'umiltà propria soltanto di un vero uomo di Dio.

Tutta la vita di Newman fu dedicata al servizio della verità e alla lotta contro il liberalismo religioso e morale (da non confondersi con il liberalismo politico), che considerava il più subdolo nemico della fede. Ebbe uno spiccato senso della vicinanza di Dio, valorizzò pienamente la ragione e le capacità naturali dell'uomo, compì il suo dovere con grande competenza e dedizione, amò la Chiesa e toccò la coscienza e il cuore di tantissime persone di ogni ceto sociale. Nei suoi ultimi anni condusse una vita di preghiera e di raccoglimento ancora più intensa. Per la fedeltà alla chiamata di Dio dovette sopportare innumerevoli sofferenze che resero più nobili e più carichi di attrattiva perfino i tratti del suo volto.

Il quotidiano londinese "The Times" pubblicò il giorno seguente la morte di Newman, avvenuta l'11 agosto 1890, un lungo elogio funebre che terminava con le seguenti parole:  "Di una cosa possiamo essere certi, cioè che il ricordo di questa pura e nobile vita durerà e che (...) egli sarà santificato nella memoria della gente pia di molte confessioni in Inghilterra (...) Il santo che è in lui sopravvivrà".


(©L'Osservatore Romano - 29 ottobre 2009)
S_Daniele
00giovedì 17 dicembre 2009 07:01
 


Newman sull'onda dei ricordi

Un silenzioso e gentile compagno di viaggio


È appena uscito il volume Newman, ossia:  "i Padri mi fecero cattolico". Un profilo (Milano, Jaca Book, 2009, pagine 111, euro 12). Ne pubblichiamo l'inizio.

di Inos Biffi

Ora che si è fatto sera ed è giunto il tempo di sciogliere le vele, mi ritrovo, tra i più cari e assidui compagni di viaggio, prima di passare all'altra riva, il cardinale John Henry Newman, soprattutto con i suoi Parochial and Plain Sermons, i suoi Sketches, con i mirabili profili dei Padri, e le Prayers, Verses and Devotions.

Risalendo l'onda dei ricordi, rintraccio il mio primo incontro con lui negli anni del liceo nel seminario di Venegono, credo nella primavera del 1952. A presentare a noi studenti, poco più che quindicenni, la figura del prestigioso iniziatore del movimento di Oxford fu il rettore Giovanni Colombo, durante le impareggiabili conferenze, che egli ci teneva il tardo pomeriggio delle domeniche, prima di cena, e che noi studenti aspettavamo con impazienza.

Erano incontri informativi e soprattutto formativi:  una meraviglia di intuito e di finezza educativa, teorica e pratica. Ci insegnava come redigere una lettera, come stare a tavola, come usare le posate e i tovaglioli, come mangiare le ciliegie e i kaki, che egli però chiamava "globi d'oro", e noi pensavamo che la suggestiva immagine fosse sua; in realtà più tardi venni a scoprire che essa si trovava in una poesia di Ada Negri.
Per quegli incontri il rettore leggeva e commentava degli appunti scritti su quaderni di scuola, dalla copertina nera. Quanto avrei desiderato allora di poterli avere tra mano e leggerli direttamente!  Ne  immaginavo  il  valore inestimabile.  Mi  sembravano scrigni preziosi, in  cui  erano custodite le cose meravigliose che ci veniva dicendo.

Quel desiderio si compì molti anni dopo, quando potei disporre di quei quaderni, riguardo ai quali credo di aver concorso alla loro conservazione. Ne parlai rispettosamente con il cardinale, riuscendo in qualche misura a convincerlo di non distruggerli, ma di lasciarne erede il suo segretario monsignor Francantonio Bernasconi. Dopo averli esaminati, sono persuaso che quei quaderni, diligentemente trascritti e studiati con attenzione, sarebbero una fonte incomparabile per la conoscenza e l'interpretazione della singolare figura di Giovanni Colombo, dell'altezza del suo ingegno e della profondità della sua esperienza spirituale e della laboriosità della sua vita intellettuale.

Con l'incanto della sua parola egli ci leggeva e commentava in particolare la poesia Lead, kindly Light (Guidami, Luce benigna), composta da Newman alle Bocche di Bonifacio, di ritorno dal viaggio nel Mediterraneo, dove ricorre il verso, sul quale Colombo amava soffermarsi:  "Non chiedo di vedere l'orizzonte lontano, un solo passo basta per me".

Ci richiamava allora l'enigmatica affermazione che Newman ripeteva durante la malattia in Sicilia:  "Io non ho peccato contro la Luce", intrattenendosi a spiegarci il significato del peccato "contro la Luce". Mi dilettavo particolarmente in quegli anni del delizioso saggio di Newman, edito nel 1950 nella collana "I Fuochi" della Morcelliana, dal titolo Malato in Sicilia, a cura di Giuseppe De Luca, del quale avrei in seguito gustato i bellissimi articoli e le brillanti versioni di testi di Newman pubblicati in un denso volume del 1975.

E sempre durante i corsi liceali il rettore Colombo non si lasciava, poi, sfuggire occasione per comunicarci alcuni pensieri di Newman, che gli erano specialmente cari, come quello sul gentiluomo - colui che non crea mai disagio al prossimo - o sulle mille difficoltà che non fanno un dubbio, o sulle certezze concrete ferme e inconfutabili, simili a funi resistentissime, che, formate dall'intreccio di singoli fili in sé estremamente fragili, non si lasciano spezzare.


(©L'Osservatore Romano - 17 dicembre 2009)
S_Daniele
00domenica 21 febbraio 2010 06:21
I padri della Chiesa e la conversione di John Henry Newman

Quei buoni amici del quarto secolo


di Inos Biffi

All'apparire della costituzione apostolica Anglicanorum coetibus (4 novembre 2009) sull'accoglienza di gruppi anglicani "nella piena comunione cattolica", il pensiero si volge spontaneamente a John Henry Newman, che, dopo un laborioso e tribolato cammino, il 9 ottobre 1845 veniva accolto nella Chiesa cattolica dal passionista Domenico Barberi - beatificato nel 1963 - che per caso passava da Littlemore.
Nel suo Diario Newman scrive:  "In serata venne Padre Domenico. Iniziai la mia confessione". "L'8 ottobre - egli annota nell'Apologia (1864) - scrissi a vari amici la seguente lettera:  "Littlemore, 8 ottobre 1845. Stasera aspetto padre Domenico, il passionista che, fin dalla gioventù, è stato ispirato a occuparsi in modo diretto e specifico, prima dei paesi del Nord, poi dell'Inghilterra. Dopo quasi trent'anni di attesa fu mandato qui senza che lui l'avesse chiesto. (...) È un uomo semplice e santo, e allo stesso tempo dotato di notevoli qualità. Non conosce le mie intenzioni, ma intendo chiedergli l'ammissione nell'unico ovile di Cristo"".

 Quella sera piovosa Newman incominciò, dunque, la sua confessione generale presso il fuoco a cui il passionista, giunto tutto bagnato fradicio, si riasciugava. La preparava da giorni e la terminò l'indomani, il 9 ottobre, quando, verso le sei del pomeriggio, fece la professione di fede, seguita dal battesimo sotto condizione; il giorno seguente partecipò alla messa e fece la comunione.
"Avevo l'impressione - ricorderà sempre nell'Apologia - di entrare in porto dopo una traversata agitata; per questo la mia felicità, da allora ad oggi, è rimasta inalterata". "Mai la Chiesa Romana, dopo la riforma protestante, - avrebbe commentato il primo ministro britannico William E. Gladstone - ha riportato una vittoria più grande!".
A proposito di questa Chiesa nel maggio del 1843 aveva comunicato a Keble:  "Temo di credere che la comunione cattolica romana sia la Chiesa degli apostoli. Sono assai più sicuro del fatto che la Chiesa anglicana si trovi in loco haereseos, che non del fatto che le aggiunte romane al Credo originale non siano altro che sviluppi scaturiti da un'esperienza viva e penetrante del deposito della fede". E il Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana cui si stava dedicando gliene dà una conferma sempre più chiara.

A Henry H. Manning aveva scritto che le sue dimissioni da vicar di St. Mary's non erano dovute a delusione né a irritazione, ma alla sua convinzione che "la Chiesa di Roma è la Chiesa cattolica", mentre non lo era quella anglicana. Alla sorella Jemima, angosciata dalla scelta del fratello come chi viene a sapere "che un caro amico deve morire", diceva in una delle lettere tormentate e piene di affetto di quel tempo:  "Una chiara convinzione della sostanziale identità fra Cristianesimo e sistema romano occupa la mia mente da tre anni"; l'"unica ragione" del suo gesto era "semplicemente quella di credere che la Chiesa romana è quella vera". D'altronde egli non poteva fare diversamente:  "Non vedo nulla che mi possa spingere alla decisione, se non il pensiero che offenderei Dio, non facendolo".

Nel suo soggiorno a Milano, nel 1846, osservava:  "Oggi è un anno dacché sono nella Chiesa Cattolica - e ogni giorno benedico Lui, che mi conduce dentro sempre più. Sono passato dalle nubi e dalle tenebre alla luce, e non posso guardare alla mia precedente condizione senza provare l'amara sensazione che si ha quando si guarda indietro a un viaggio faticoso e triste".

Il distacco dalla Chiesa anglicana era stato dolorosissimo, e tutti, in lacrime, lo avevano avvertito nella cappella di Littlemore il 26 settembre del 1843, quando Newman pronunziò il suo ultimo sermone anglicano - "La separazione dagli amici" - ossia la separazione, come egli diceva, da quella Chiesa che non lo riconosceva più e da quei fratelli, "teneri e affettuosi", ai quali domandava che pregassero "perché conoscesse la volontà di Dio e fosse pronto ad attuarla". L'unico suo timore - avrebbe scritto ancora alla sorella Jemima - era quello di "tradire la grazia divina".

La conversione segnava l'approdo di un cammino interiore arduo e lucido, in cui si intrecciava la sua fedeltà alla coscienza che via via trovava la sua illuminazione nella storia stessa della Chiesa. Dal profilo della fedeltà alla Grazia e alla coscienza si potrebbe dire che quel cammino era incominciato quando nella sua prima conversione (1816) brillò in lui, con la diffidenza per "la verità dei fenomeni mutevoli", "l'idea di due e solo due esseri assoluti di piena evidenza:  Io e il mio Creatore" - Creatore che parla e si rivolge a lui personalmente nella Scrittura - e la persuasione che "la santità è preferibile alla pace" e che "la crescita è segno della vita".
Ma va segnata un'altra tappa nell'iter interiore di Newman, quando, in circost
anze di viva sofferenza e di prostrazione, nel 1827, si risvegliò bruscamente dalla seduzione dell'intellettualismo e del liberalismo. Venne poi il viaggio nel Mediterraneo del 1833 e la malattia in Sicilia, durante la quale andava ripetendo di "non aver mai peccato contro la Luce", la Luce che brillava nel suo spirito illuminato dalla Parola di Dio.

Intanto si dedicava allo studio appassionato dei Padri della Chiesa, e particolarmente dei suoi "amici del secolo iv", che erano "Atanasio dal cuore regale", il "maestoso Ambrogio", il "glorioso predicatore" Crisostomo, paragonato a "una giornata di primavera, luminosa e piovosa, che riluceva e brillava della pioggia", e Basilio, simile a "una giornata d'autunno, calma, mite e uggiosa", e Gregorio di Nazianzo, un'"estate piena, con lunghe ore di dolce quiete, e la monotonia spezzata da lampi e tuoni".

"Sempre il ricordo dei Padri - annota Denys Gorce - dorme in fondo alla sua anima, pronto a rivivere e a manifestarsi. Passando a Milano, nel recarsi a Roma, (...) egli si sentirà perfettamente at home nella grande città patristica". Newman aveva scritto:  "Questo è il luogo più meraviglioso. (...) Milano presenta maggiori richiami, che non Roma, con la storia che mi è familiare. Qui ci fu Sant'Ambrogio, Sant'Agostino, Santa Monica, Sant'Atanasio".
Dichiarerà a Pusey:  "I Padri mi fecero cattolico (The Fathers made me a Catholic)" e chiederà al Signore "il senso dei santi Padri", così da dire quello che essi hanno detto e da pensare quello che essi hanno pensato.

Furono, quelli, per Newman anni di assidua e sofferta ricerca e di penetrante e rigorosa valutazione intellettuale. Ma egli si accorgeva che, per una "verità intera", non poteva più accontentarsi di una "via media", e che i suoi Tracts - che gli provocavano violente reazioni e forti condanne - lo inducevano al distacco definitivo e traumatico, d'altronde rasserenato da sicura coscienza. Il "Movimento di Oxford", che egli aveva suscitato, come una primavera, maturava in lui nell'adesione alla Chiesa di Roma, pur continuando a portare nel cuore e nella memoria il bene ricevuto e l'attaccamento alle valide tradizioni conservate nella sua Chiesa.

Newman entrava, secondo le parole della costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, in quell'"unica Chiesa di Cristo che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica", quale "sussiste nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui".
Newman non si sarebbe mai pentito del passo fatto. Trent'anni dopo la conversione avrebbe confidato:  "Dal 1845 non ho mai esitato, neppure per un solo istante, nella convinzione che fosse mio preciso dovere entrare, come allora ho fatto, in questa Chiesa cattolica che, nella mia propria coscienza, ho sentito essere divina".

E quando si sussurrava che, deluso del trattamento che gli era riservato nella Chiesa Cattolica, avesse intenzione di ritornare alla Chiesa anglicana, egli smentì con indignazione quelle voci:  "Non ho mai vacillato un istante nella mia fiducia nella Chiesa Cattolica, da quando sono stato accolto nel suo grembo. Sarei un perfetto imbecille - per usare un termine moderato - se nella mia vecchiaia abbandonassi "la terra dove scorrono latte e miele", per la città della confusione e la casa della servitù".


(©L'Osservatore Romano - 21 febbraio 2010 )
S_Daniele
00venerdì 9 aprile 2010 14:16
Nel "discorso del biglietto" Newman rispose agli attacchi della società secolarizzata

Una trappola mortale su tutta la terra


In vista della prossima beatificazione del cardinale John Henry Newman, l'International Centre of Newman Friends ha inviato alle migliaia di "amici di Newman" una lettera circolare con il famoso "discorso del biglietto":  testo pronunciato da Newman in occasione della sua nomina a cardinale. La mattina di lunedì 12 maggio 1879 l'oratoriano si recò a Palazzo della Pigna a Roma - residenza del cardinale Edward Charles Howard - portando con sé il biglietto con il quale il cardinale segretario di Stato, Lorenzo Nina, lo informava che Leone xiii aveva deciso di crearlo cardinale. A mezzogiorno, in una sala affollata di cattolici inglesi e americani, ecclesiastici e rappresentanti della nobiltà romana, il messo concistoriale gli consegnò il messaggio che lo informava che il Papa gli avrebbe conferito la berretta cardinalizia il mattino seguente. Newman rispose con un discorso che pubblichiamo integralmente in una nuova traduzione. Il testo fu subito trasmesso dal corrispondente romano dell'inglese "The Times" che lo pubblicò integralmente il giorno successivo. "L'Osservatore Romano" del 14 maggio lo pubblicò in una traduzione del gesuita Pietro Armellini e in seguito "La Civiltà Cattolica" commentò il discorso qualificandolo come importantissimo.

 La ringrazio, Monsignore, per la partecipazione dell'alto onore che il Santo Padre si è degnato di conferire sulla mia umile persona [parole pronunciate da Newman in italiano] e se Le chiedo il permesso di continuare il mio discorso non nella Sua lingua così musicale, ma nella mia cara lingua materna, è perché in questa posso esprimere meglio ciò che sento all'annuncio che Lei mi ha comunicato.
Vorrei anzitutto esprimere lo stupore e la profonda gratitudine che ho provato e che ancora provo per la magnanimità e l'amore del Santo Padre per avermi prescelto ad un onore così immenso. È stata davvero una grande sorpresa. Non mi era mai passato per la mente di esserne degno e mi è sembrato così in contrasto con le vicende della mia vita. Ho dovuto passare attraverso molte prove, ma avvicinandomi ormai alla fine di tutto, mi sentivo in pace. Tuttavia non è forse possibile che io sia vissuto tanti anni proprio per vedere questo giorno?
Difficile anche pensare come avrei potuto affrontare una tale emozione se il Santo Padre non avesse compiuto un ulteriore gesto di magnanimità nei miei confronti, mostrando così un altro aspetto della sua natura piena di finezza e di bontà. Egli intuì il mio turbamento e volle spiegarmi le ragioni per cui mi aveva innalzato a tanto onore. Insieme a parole di incoraggiamento, mi disse che la sua decisione era un riconoscimento del mio zelo e del servizio che avevo reso per tanti anni alla Chiesa Cattolica; inoltre, egli era certo che i cattolici inglesi e perfino l'Inghilterra protestante si sarebbero rallegrati del fatto che io ricevessi un segno del suo favore. Dopo queste benevole parole di Sua Santità, sarei proprio stato insensibile e ingrato se avessi avuto ancora delle esitazioni.

Questo egli ebbe la premura di dirmi, e che cosa potevo desiderare di più? Nella mia lunga vita ho commesso molti sbagli. Non ho nulla di quella sublime perfezione che si trova negli scritti dei santi, cioè l'assoluta mancanza di errori. Ma ciò che credo di poter dire riguardo tutto ciò che ho scritto è questo:  la mia retta intenzione, l'assenza di scopi personali, il senso dell'obbedienza, la disponibilità ad essere corretto, il timore di sbagliare, il desiderio di servire la santa Chiesa, e, solo per misericordia divina, un certo successo. E mi compiaccio di poter aggiungere che fin dall'inizio mi sono opposto ad una grande sciagura. Per trenta, quaranta, cinquant'anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione. Mai la santa Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimé! si tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra; e nella presente occasione, così grande per me, quando è naturale che io estenda lo sguardo a tutto il mondo, alla santa Chiesa e al suo futuro, non sarà spero ritenuto inopportuno che io rinnovi quella condanna che già così spesso ho pronunciato.

Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c'è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. È contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. La devozione non si fonda necessariamente sulla fede. Si possono frequentare le Chiese protestanti e le Chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare e avere pensieri e sentimenti spirituali in comune, senza nemmeno porsi il problema di una comune dottrina o sentirne l'esigenza. Poiché dunque la religione è una caratteristica così personale e una proprietà così privata, si deve assolutamente ignorarla nei rapporti tra le persone. Se anche uno cambiasse religione ogni mattina, a te che cosa dovrebbe importare? Indagare sulla religione di un altro non è meno indiscreto che indagare sulle sue risorse economiche o sulla sua vita familiare. La religione non è affatto un collante della società.

 Finora il potere civile è stato cristiano. Anche in Nazioni separate dalla Chiesa, come nella mia, quand'ero giovane valeva ancora il detto:  "Il cristianesimo è la legge del Paese". Ora questa struttura civile della società, che è stata creazione del cristianesimo, sta rigettando il cristianesimo. Il detto, e tanti altri che ne conseguivano, è scomparso o sta scomparendo, e per la fine del secolo, se Dio non interviene, sarà del tutto dimenticato. Finora si pensava che bastasse la religione con le sue sanzioni soprannaturali ad assicurare alla nostra popolazione la legge e l'ordine; ora filosofi e politici tendono a risolvere questo problema senza l'aiuto del cristianesimo. Al posto dell'autorità e dell'insegnamento della Chiesa, essi sostengono innanzitutto un'educazione totalmente secolarizzata, intesa a far capire ad ogni individuo che essere ordinato, laborioso e sobrio torna a suo personale vantaggio. Poi si forniscono i grandi principi che devono sostituire la religione e che le masse così educate dovrebbero seguire, le verità etiche fondamentali nel loro senso più ampio, la giustizia, la benevolenza, l'onestà, ecc.; l'esperienza acquisita; e quelle leggi naturali che esistono e agiscono spontaneamente nella società e nelle cose sociali, sia fisiche che psicologiche, ad esempio, nel governo, nel commercio, nella finanza, nel campo sanitario e nei rapporti tra le Nazioni. Quanto alla religione, essa è un lusso privato, che uno può permettersi, se vuole, ma che ovviamente deve pagare, e che non può né imporre agli altri né infastidirli praticandola lui stesso.

Le caratteristiche generali di questa grande apostasia sono identiche dovunque; ma nei particolari variano a seconda dei Paesi. Parlerò del mio Paese perché lo conosco meglio. Temo che essa avrà qui un grande seguito, anche se non si può immaginare come finirà. A prima vista si potrebbe pensare che gli Inglesi siano troppo religiosi per un modo di pensare che nel resto del continente europeo appare fondato sull'ateismo; ma la nostra disgrazia è che, nonostante, come altrove, conduca all'ateismo, qui esso non nasce necessariamente dall'ateismo. Occorre ricordare che le sette religiose, comparse in Inghilterra tre secoli fa e oggi così forti, si sono ferocemente opposte all'unione della Chiesa e dello Stato e vorrebbero la scristianizzazione della monarchia e di tutto il suo apparato, sostenendo che tale catastrofe renderebbe il cristianesimo più puro e più forte. Il principio del liberalismo, poi, ci è imposto dalle circostanze stesse. Consideriamo le conseguenze di tutte queste sette. Con tutta probabilità esse rappresentano la religione della metà della popolazione; e non dimentichiamo che il nostro governo è una democrazia. È come se, in una dozzina di persone prese a caso per la strada e che certamente hanno la loro quota di potere, si trovassero fino a sette religioni diverse. Ora come possono trovare unanimità di azione in campo locale o nazionale quando ciascuna si batte per il riconoscimento della propria denominazione religiosa? Ogni decisione sarebbe bloccata, a meno che l'argomento religione non venga del tutto ignorato. Non c'è altro da fare. E in terzo luogo, non dimentichiamo che nel pensiero liberale c'è molto di buono e di vero; basta citare, ad esempio, i principi di giustizia, onestà, sobrietà, autocontrollo, benevolenza che, come ho già notato, sono tra i suoi principi più proclamati e costituiscono leggi naturali della società. È solo quando ci accorgiamo che questo bell'elenco di principi è inteso a mettere da parte e cancellare completamente la religione, che ci troviamo costretti a condannare il liberalismo. Invero, non c'è mai stato un piano del Nemico così abilmente architettato e con più grandi possibilità di riuscita. E, di fatto, esso sta ampiamente raggiungendo i suoi scopi, attirando nei propri ranghi moltissimi uomini capaci, seri ed onesti, anziani stimati, dotati di lunga esperienza, e giovani di belle speranze.

Ecco come stanno le cose in Inghilterra, ed è un bene che tutti ce ne rendiamo conto; ma non si pensi assolutamente che io ne sia spaventato. Certo ne sono dispiaciuto, perché penso possa nuocere a molte anime, ma non temo affatto che abbia la capacità di impedire la vittoria della Parola di Dio, della santa Chiesa, del nostro Re Onnipotente, il Leone della tribù di Giuda, il Fedele e il Verace, e del suo Vicario in terra. Troppe volte ormai il cristianesimo si è trovato in quello che sembrava essere un pericolo mortale; perché ora dobbiamo spaventarci di fronte a questa nuova prova. Questo è assolutamente certo; ciò che invece è incerto, e in queste grandi sfide solitamente lo è, e rappresenta solitamente una grande sorpresa per tutti, è il modo in cui di volta in volta la Provvidenza protegge e salva i suoi eletti. A volte il nemico si trasforma in amico, a volte viene spogliato della sua virulenza e aggressività, a volte cade a pezzi da solo, a volte infierisce quanto basta, a nostro vantaggio, poi scompare. Normalmente la Chiesa non deve far altro che continuare a fare ciò che deve fare, nella fiducia e nella pace, stare tranquilla e attendere la salvezza di Dio. "Gli umili erediteranno la terra e godranno di una gran pace" (Ps 37, 11).


(©L'Osservatore Romano - 9 aprile 2010)
S_Daniele
00venerdì 9 aprile 2010 14:19

Con la gioia pensosa e gentile dell'Oratorio


di Edoardo Aldo Cerrato


L'oratoriano cardinale John Henry Newman condividerà la gloria degli altari con san Filippo Neri e i discepoli del santo già riconosciuti dalla Chiesa come sicuri modelli di vita cristiana:  san Francesco di Sales (1567-1622), fondatore e primo preposito dell'oratorio di Thonon, sebbene per la sua azione pastorale e la grandezza di dottore della Chiesa egli travalichi ampiamente i confini dell'oratorio; san Luigi Scrosoppi (1804-1884), mite e forte servo della carità nella sua città di Udine; i beati Giovanni Giovenale Ancina (1545-1604), discepolo di padre Filippo nell'oratorio di Roma e poi vescovo intrepido e riformatore della diocesi piemontese di Saluzzo; Antonio Grassi (1592-1671), angelo di pace nella sua città di Fermo; Sebastiano Valfré (1629-1710), operoso apostolo di Torino nei più vari campi della evangelizzazione e della carità, del quale stiamo celebrando il iii centenario del dies natalis; José Vaz (1651-1711), indiano di Goa ed evangelizzatore dello Sri Lanka, "il più grande missionario dell'Asia per l'Asia" (Giovanni Paolo II) del quale ci si appresta a celebrare, nel 2011, il iii centenario della morte.

Appartenente alla famiglia di padre Filippo, John Henry Newman - di cui già Pio xii aveva confidato a Jean Guitton:  "Non dubiti, Newman sarà un giorno dottore della Chiesa" - appartiene, al tempo stesso, a tutti coloro che "sono alla ricerca - come disse Paolo vi - di un preciso orientamento e di una direzione attraverso le incertezze del mondo moderno". Anche Giovanni Paolo ii sottolineò l'universalità dell'oratoriano nella lettera commemorativa del secondo centenario della nascita:  "Mi unisco volentieri a una schiera di voci in tutto il mondo, nel lodare Dio per il dono del grande Cardinale inglese e per la sua duratura testimonianza. (...) La missione particolare che Dio gli affidò garantisce che John Henry Newman appartiene a ogni epoca, luogo e persona".
Nell'imminenza della beatificazione è bello riascoltare, insieme alle parole di questi romani Pontefici almeno quelle che il Papa Benedetto XVI ha rivolto, recentemente, ai vescovi di Inghilterra e Galles in Visita ad limina:  "Il cardinale Newman (...) ci ha lasciato un esempio eccezionale di fedeltà alla verità rivelata, seguendo quella kindly light ovunque essa lo conducesse, anche a un considerevole costo personale. Grandi scrittori e comunicatori della sua statura e della sua integrità sono necessari nella Chiesa oggi e spero che la devozione a lui ispirerà molti a seguirne le orme. Giustamente è stata prestata molta attenzione all'attività accademica e ai molti scritti di Newman, ma è importante ricordare che egli si considerava soprattutto un sacerdote. In questo Annus sacerdotalis, vi esorto a far presente ai vostri sacerdoti il suo esempio di impegno nella preghiera, di sensibilità pastorale per le necessità del suo gregge, di passione per la predicazione del Vangelo. Voi stessi dovreste offrire un esempio simile. Siate vicini ai vostri sacerdoti e riaccendete il loro senso di enorme privilegio e di gioia nello stare in mezzo al popolo di Dio come alter Christus".

Il grande Leone xiii, di cui ricorre quest'anno il secondo centenario della nascita, parlando della scelta di farlo cardinale nel primo concistoro del suo pontificato, confidava:  "Non è stato facile, non è stato facile. Dicevano che fosse troppo liberale, ma io avevo deciso di onorare la Chiesa onorando Newman. Ho sempre avuto un culto per lui". Lo considerò - e lo dichiarò - il "suo cardinale".
Per il concistoro in cui avrebbe ricevuto la porpora padre J. H. Newman, giunto a Roma, scriveva al suo vescovo:  "Il  Santo  Padre  mi  ha  ricevuto molto affettuosamente stringendo la mia mano nella sua. Mi ha chiesto:  "Intende continuare a guidare la Casa di Birmingham?". Risposi:  "Dipende dal Santo Padre". Egli riprese:  "Bene. Desidero che continuiate a dirigerla", e parlò a lungo di questo".

Una preziosa riflessione sul significato della scelta di Leone xiii - tenacemente voluta - di fare Newman a cardinale è stata offerta recentemente da monsignor Inos Biffi che scrive:  "Il cardinalato e l'accoglienza di Leone xiii oltre che una riparazione per la diffidenza che per anni aveva circondato la vita e l'opera di Newman, erano soprattutto il riconoscimento del valore dell'ampio e lungo magistero di Newman. Ed è molto significativo che "L'Osservatore Romano" del 14 maggio, la vigilia del concistoro pubblico, pubblicasse in prima pagina il discorso pronunziato da Newman dopo la consegna del Biglietto di nomina, il 12 maggio, dove faceva un rapido bilancio della sua vita e dove trattava di un tema che appare ancora di impressionante attualità:  quello del liberalismo religioso". Newman, infatti, dopo aver espresso la sua meraviglia, affermava in quel discorso:  "Godo nel dire che a un gran male mi sono opposto fin dal principio. Per trenta, quaranta, cinquant'anni anni ho resistito, con tutte le mie forze, allo spirito del liberalismo religioso, e mai la Chiesa ebbe come oggi più urgentemente bisogno di oppositori contro di esso, mentre, ahimé, questo errore si stende come una rete su tutta la terra. (...) Il liberalismo religioso è la dottrina secondo la quale non esiste nessuna verità positiva in campo religioso, ma che qualsiasi credo è buono come qualunque altro; e questa è la dottrina che, di giorno in giorno, acquista consistenza e vigore. Questa posizione è incompatibile con ogni riconoscimento di una religione come vera. Esso insegna che tutte sono da tollerare, in quanto sono tutte materia di opinione. La religione rivelata non è verità, ma sentimento e gusto, non fatto obiettivo (...) Ogni individuo ha diritto a interpretarla a modo suo (...) La bella struttura della società che è l'opera del cristianesimo, sta ripudiando il cristianesimo; filosofi e politici vorrebbero surrogare anzitutto un'educazione universale, affatto secolare che provvede le ampie verità etiche fondamentali di giustizia, benevolenza, veracità e simili; sennonché un tale progetto è diretto a rimuovere e ad escludere la religione".

Newman fu profondamente oratoriano. La scelta oratoriana compiuta dal neo-convertito - che tornò da Roma in Inghilterra portando con sé il breve Magna Nobis semper del 1847, con cui il beato Pio ix istituiva l'oratorio in Inghilterra dando a Newman facoltà di propagarlo in quella nazione - è dettata dall'amore per la proposta di vita sacerdotale che venne da san Filippo Neri e che Newman visse intensamente, come lucidamente la descrisse nei sermoni sulla Missione di san Filippo Neri (Birmingham, 1850), nelle Lettere inviate da Dublino nel 1856 alla sua comunità, in alcune preghiere - tra queste le preziose Litaniae - composte per chiedere al santo le grazie di cui egli fu singolarmente arricchito.
Che cosa, di padre Filippo, affascinò John Henry Newman, spingendolo a scegliere l'oratorio come forma e metodo della sua vita sacerdotale nella Chiesa cattolica?
Un solo elemento desideriamo sottolineare che ci pare esprimere in armoniosa sintesi tutto il mondo interiore di padre Filippo colto da Newman:  la "gentilezza".

Caratteristica del santo come dote temperamentale, questa "gentilezza" è, al tempo stesso, sintesi di alti valori acquisiti in un forte e dolce rapporto con la presenza viva di Gesù Cristo:  singolare libertà di spirito, amore per una vita autenticamente comunitaria normata da leggi di discrezione, rispetto delle doti di ognuno, sapiente semplicità che fece della gioia di Filippo "una gioia pensosa", secondo la bella formula di Goethe affidata al diario del suo Viaggio in Italia.
"Amo un vecchio dal dolce aspetto, - scrisse Newman in riferimento a san Filippo - lo ravviso nel suo pronto sorriso, nell'occhio acuto e profondo, nella parola che infiamma uscendo dal suo labbro quando non è rapito in estasi".

Nel momento in cui gli fu offerta la porpora romana, un favore Newman chiese a Papa Leone:  "Da trent'anni sono vissuto nell'Oratorio, nella pace e nella felicità. Vorrei pregare Vostra Santità di non togliermi a san Filippo, mio padre e patrono, e di lasciarmi morire là dove sono vissuto così a lungo".
Con tali espressioni padre John Henry si collocava sulla scia dei primi discepoli di Filippo Neri chiamati alla dignità cardinalizia, e anticipava la scelta fatta dall'ultimo cardinale oratoriano, padre Giulio Bevilacqua (1881-1965), il quale, accettando la porpora per le insistenze di Paolo vi, chiese e ottenne dal Papa di poter continuare il suo ministero di parroco nella comunità di Sant'Antonio, alla periferia di Brescia.


(©L'Osservatore Romano - 9 aprile 2010)
S_Daniele
00mercoledì 9 giugno 2010 16:52
L'edizione italiana degli "Scritti oratoriani"

John Henry Newman e il sorriso buono di san Filippo


Nel pomeriggio di martedì 8 giugno viene presentato a Genova, nell'Oratorio di San Filippo, il libro che raccoglie gli Scritti oratoriani di John Henry Newman in un'edizione curata da Placid Murray (Siena, Cantagalli, 2010, pagine 504, euro 17). All'incontro parteciperà anche il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana. Anticipiamo stralci della relazione del procuratore generale della Confederazione dell'Oratorio e, in basso, dell'intervento del direttore dell'Ufficio per la cultura dell'arcidiocesi di Genova.

di Edoardo Aldo Cerrato

I testi di Newman sull'Oratorio, che l'edizione presenta, mostrano chiaramente quanto la vocazione oratoriana abbia segnato la vita e l'opera del nuovo Beato e quanto profonda sia stata l'appartenenza all'Oratorio di Padre Filippo di colui che pure "appartiene - affermava Paolo vi - a tutti coloro che sono alla ricerca di un preciso orientamento e di una direzione attraverso le incertezze del mondo moderno"; che "appartiene a ogni epoca, luogo e persona", per dirlo con Giovanni Paolo ii; che è il teologo e uomo di Chiesa di cui oggi la Chiesa ha particolarmente bisogno, come ancor recentemente ricordava il Santo Padre Benedetto XVI parlando ai vescovi dell'Inghilterra e del Galles:  "Grandi scrittori e comunicatori della sua statura e della sua integrità sono necessari nella Chiesa oggi".
"Amo un vecchio dal dolce aspetto, - scrisse Newman in riferimento a san Filippo - lo ravviso nel suo pronto sorriso, nell'occhio acuto e profondo, nella parola che infiamma uscendo dal suo labbro quando non è rapito in estasi...".
 Newman fu oratoriano con la profondità che caratterizzò ogni scelta della sua vita e ogni opera intrapresa. E lo fu fino alla fine dei suoi giorni, anche rivestito della porpora romana di cui Leone xiii, sfidando il giudizio di altri, lo volle onorare. Giunto a Roma per il Concistoro del 1879, in cui sarebbe stato creato cardinale, Newman scriveva al suo vescovo:  "Il Santo Padre mi ha accolto molto affettuosamente (...). Mi ha chiesto:  "Intende continuare a guidare la Casa di Birmingham?". Risposi:  "Dipende dal Santo Padre". Egli riprese:  "Bene. Desidero che continuiate a dirigerla", e parlò a lungo di questo".
Non sfuggiva a Leone xiii l'importanza della presenza oratoriana iniziata da Newman in Inghilterra, quando vi fece ritorno, dopo l'ordinazione sacerdotale, portando con sé il Breve Magna nobis semper del 1847, con cui il beato Pio ix istituiva l'Oratorio nel Regno Unito e dava a Newman facoltà di propagarlo in quella Nazione; come non gli sfuggiva la triste situazione dell'Oratorio filippino, falcidiato in Italia dalle vicende storiche e politiche del xix secolo.
"Desidero che continuiate a dirigere (la Casa di Birmingham), e parlò a lungo di questo":  quella di Papa Leone non è solo benevola concessione per evitare a un uomo di veneranda età le comprensibili difficoltà di un trasferimento a Roma e i possibili inconvenienti derivanti dal lasciare la congregazione da lui fondata; è la testimonianza che il Papa aveva perfettamente colto ciò che l'Oratorio significava per Newman, il quale gli aveva detto:  "Da trent'anni sono vissuto nell'Oratorio, nella pace e nella felicità. Vorrei pregare Vostra Santità di non togliermi a san Filippo, mio padre e patrono, e di lasciarmi morire là dove sono vissuto così a lungo":  fervida espressione di amore per la propria vocazione.
L'Oratorio si affacciò sull'orizzonte di John Henry Newman fin dal momento del suo ingresso nella Chiesa cattolica, quando Nicholas Wiseman, vescovo coadiutore del Distretto centrale dell'Inghilterra, lo persuase a ricevere l'ordinazione sacerdotale, suggerendogli pure l'Oratorio di San Filippo Neri come la forma di vita più idonea a lui e ai suoi compagni che lo avevano seguito nel ritiro di Littlemore, mentre Newman, pur esaminando la possibilità di aderire a qualcuno dei grandi ordini religiosi esistenti, abbozzava il progetto di una realtà nuova che tanti elementi possedeva in comune con l'Oratorio filippino.
Sostenuto dalla convinzione che la sua vita doveva svolgersi in una comunità caratterizzata "da un acuto senso della cultura e dal gusto innato per l'umanesimo", accompagnati "dal rispetto verso le persone e dal rifiuto di ogni coazione" - scrive il cardinale Jean Honoré - Newman dedicò un anno abbondante al discernimento sulla propria vocazione.
Giunto a Roma nell'ottobre 1846 con alcuni compagni per frequentare i corsi ecclesiastici in vista dell'ordinazione, questo intenso cammino di ricerca e di riflessione conobbe una illuminazione particolare:  Newman comprese chiaramente che l'esperimento di vita comunitaria già intrapreso e l'esperienza della sua vita passata "potevano offrire un punto di partenza per il futuro", mentre la scelta di uno dei grandi ordini religiosi avrebbe comportato la dispersione del gruppo, oltre a non rispondere pienamente a ciò che si andava cercando.
La visita del gennaio 1847 all'Oratorio Romano in Santa Maria in Vallicella suscitò in Newman un profondo interesse, anche perché gli richiamò l'esperienza dei college universitari inglesi:  "i membri - scrisse - conservano i loro beni e la loro abitazione, vi sono poche leggi (...) e una splendida biblioteca".
Dal 17 al 25 di quello stesso mese Newman e il fedele amico Ambrose St. John chiesero luce sulla loro vocazione davanti al sepolcro di san Pietro e si dedicarono a studiare le costituzioni e la storia dell'Oratorio. All'inizio di febbraio la decisione era presa:  dopo l'ordinazione sarebbero stati iniziati alla vita oratoriana dai padri della Chiesa Nuova.
La figura di san Filippo Neri, di cui già nel periodo anglicano Newman aveva qualche conoscenza, si fece a lui più familiare:  "Mi ricorda in molte cose Kable - scrisse alla sorella Jemima - I due condividono la stessa totale avversione all'ipocrisia, il carattere gioviale e quasi eccentrico, un tenero amore agli altri e il rigore con se stessi".
Il 14 febbraio, anche a nome dei compagni, Newman presentava al cardinale Giacomo Filippo Fransoni, prefetto di Propaganda Fide, il progetto del futuro Oratorio inglese:  "Abbiamo scoperto - scriveva - un cammino intermedio tra la vita religiosa e una vita completamente secolare; il che si adatta perfettamente a ciò di cui sentiamo il bisogno". E il 21 febbraio, come amabile dono di compleanno per Newman, giungeva l'approvazione di Pio ix al progetto.
I sermoni predicati alla comunità in gennaio e febbraio del 1848 - Newman era giunto a Maryval il 2 febbraio e di lì si sarebbe trasferito a Birmingham l'anno seguente - tracciano, attraverso la ricostruzione storica del cammino della congregazione e la presentazione delle caratteristiche interne dell'Oratorio, una magnifica panoramica della vocazione oratoriana, non superata, in molti aspetti, neppure dalle acquisizioni future e sono il frutto immediato, ma sorprendentemente maturo, delle letture e delle riflessioni romane.
Filippo Neri vi è colto da Newman nella sua originalità di vir prisci temporis, uomo del tempo antico nel quale rivive la "forma primitiva del cristianesimo", caratterizzata dalla semplicità e dalla spontaneità, espressioni privilegiate della carità cristiana che è "vincolo di perfezione" (Colossesi, 3, 14):  "dodici preti che lavorano insieme:  ecco ciò che desidero - dirà Newman ancora nel 1878, alla vigilia del cardinalato - Un Oratorio è una famiglia e una casa".
San Filippo Neri e l'Oratorio facilitarono, senza dubbio, a Newman la felice sintesi tra pietà e cultura di cui egli trovò altissima espressione nell'"umanesimo devoto" di san Francesco di Sales, fondatore dell'Oratorio di Thonon.
Rimarcando la "influenza decisiva" di san Filippo Neri sulla spiritualità di Newman, Jean Honoré arriva a parlare di una "terza conversione" dopo la prima del quindicenne John Henry e la seconda, costituita dall'ingresso nella Chiesa cattolica. Essa si situa particolarmente negli anni oscuri della sua vita di cattolico, quando, al contrario di quanto gli accadeva da anglicano, la sua preghiera era "serena", ma la sua vita "triste".
Newman, che nei suoi scritti autobiografici confessava di amare, già nel periodo anglicano, di essere ignorato, come padre Filippo consigliava ai suoi discepoli (ama nesciri), ora chiedeva a Filippo che gli insegnasse a spernere se sperni, a disprezzar d'essere disprezzato.
La "mortificazione della rationale" - tanto insistitamente proposta da padre Filippo ai suoi - non è rifiuto della coltivazione dell'intelligenza, che può estendersi a tutti gli ambiti del sapere, né agli affetti umani, dal momento che è indispensabile l'amicizia tra i membri della Casa, e neppure dei beni temporali:  è la rinuncia alla "voluta propria" al fine di essere liberi ma non indipendenti, e solidali nella comune responsabilità.
Il secolo diciannovesimo aveva bisogno di una sintesi nuova tra "devozione" e "ragione" che solo una intelligenza poderosa e una spiritualità profonda come quelle di Newman potevano conseguire.
L'Oratorio di san Filippo Neri - scrisse l'oratoriano di Francia Louis Bouyer - "nasce dall'incontro, in san Filippo, tra un'anima eccezionalmente interiore e una mente eccezionalmente aperta":  sta qui la vocazione a cui Newman si sentì chiamato e alla quale rispose, per il resto della sua vita, con dedizione generosa e fedeltà creativa.


(©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)
S_Daniele
00mercoledì 9 giugno 2010 16:54

La sintesi equilibrata e gustosa dell'Oratorio


di Mauro De Gioia

Nessuno dei grandi temi del pensiero di Newman è argomento del volume che presentiamo, e questo può far sorgere il rischio di considerarci davanti a un "Newman minore", la cui conoscenza sia utile agli specialisti, ma di cui il lettore comune possa tranquillamente fare a meno. Due elementi emergono però immediatamente per la loro attualità.
La "persistenza dei tratti" caratteristici del ministero anglicano di Newman "nel suo ministero cattolico denota - scrive il curatore nell'introduzione - come anche i valori spirituali acquisiti fuori dell'ovile cattolico possano trovare una collocazione legittima all'interno della Chiesa". Inoltre, il volume, che esce proprio alla conclusione dell'anno sacerdotale, presenta una spiritualità che molto ha da offrire ai sacerdoti in generale".
 Credo infine che la scoperta di quanto profonda sia la dimensione "filippina" di Newman favorisca una comprensione più ampia ed equilibrata della sua vicenda biografica e, conseguentemente, anche del suo pensiero.
È certo ben noto agli studiosi di Newman come lo stile dell'Oratorio filippino gli fosse certamente congeniale da un punto di vista pratico e psico-affettivo. Dagli scritti qui raccolti emerge però con chiarezza che la scelta dell'Oratorio fu risposta a una vera vocazione:  per Newman la congregazione non è semplicemente una soluzione pratica per trovare un modo di conciliare la vita comunitaria con i suoi amici e l'insofferenza per più rigide e regolamentate forme di vita religiosa.
L'incontro di Newman con l'Oratorio non è semplice incontro con una istituzione, ma con la persona di san Filippo Neri.
Il rapporto tra Newman e san Filippo è la prospettiva spirituale nella quale inquadrare i testi sull'Oratorio e capire quale fosse l'autocomprensione che Newman avesse della sua propria vocazione.
In una sua riflessione sulla storia della Chiesa il nostro considera tre grandi periodi:  "l'antico, il medievale e il moderno, e in quei tre periodi ci sono rispettivamente tre ordini religiosi che si succedono sulla pubblica scena l'uno all'altro". I tre grandi ordini sono il benedettino, il domenicano e il gesuita:  "Benedetto ha ricevuto la formazione intellettuale antica, san Domenico quella medievale e sant'Ignazio quella moderna".
Potremmo sindacare sulla scelta di Newman di identificare le tre grandi ere della Chiesa col carisma di questi tre grandi santi, ma a noi interessa sottolineare come queste tre figure, Benedetto, Domenico e Ignazio, siano poste in relazione con Filippo Neri. Nei due Sermoni sulla missione di san Filippo Neri tenuti a Birmingham nel 1850, Newman lega infatti le tre tappe fondamentali della formazione della vocazione di Padre Filippo all'incontro con queste tre figure.
La prima educazione avvenuta a Firenze nel convento di san Marco collega Filippo col carisma domenicano. La svolta vocazionale avvenuta durante il giovanile soggiorno a San Germano viene messa in relazione con l'incontro col carisma benedettino. Infine a Roma il giovane Filippo conosce personalmente Ignazio di Loyola e la Compagnia di Gesù. E così conclude:  "Erano rifulse in Lui le vedute di san Domenico, la poesia di san Benedetto, l'intelligenza di sant'Ignazio, tutto accompagnato da una incomparabile grazia e da una avvincente dolcezza. Saremmo noi suoi figli di quest'Oratorio (...) saremmo noi capaci di tanto! Prendiamolo almeno come nostro modello".
Per Newman Filippo Neri è quindi una sintesi equilibrata e gustosa (parla di "incomparabile grazia" e "avvincente dolcezza") di quelle che considera le tre fondamentali correnti spirituali della storia della Chiesa. Se questa è stata la sua missione tale è anche la missione dell'Oratorio, e quindi la sua propria vocazione, la sua vita di cattolico, di sacerdote, di oratoriano.


(©L'Osservatore Romano - 9 giugno 2010)
S_Daniele
00mercoledì 1 settembre 2010 13:28

Newman e il “discorso del biglietto”

Il 4 settembre uscirà nelle librerie l'ultimo libro di Cristina Siccardi intitolato “Nello specchio del Cardinale John Henry Newman", edito da Fede & Cultura (14,50 euro). Newman fu un “prete” anglicano convertitosi al cattolicesimo dopo aver constatato gli errori teologici presenti nella Comunione Anglicana. Verrà beatificato il prossimo 19 settembre dal Romano Pontefice Benedetto XVI. I modernisti hanno tentato di impossessarsi della figura di questo dotto Cardinale facendolo apparire come un anticipatore delle loro idee, in realtà Newman fu un uomo fedele alla Tradizione, e nemico giurato del liberalismo, come viene documentato nel “discorso del biglietto”, pronunciato da Newman in occasione della sua nomina a cardinale il 12 maggio 1879 nel Palazzo della Pigna a Roma. Il testo fu subito trasmesso dal corrispondente romano dell’inglese “The Times” che lo pubblicò integralmente il giorno successivo. “L’Osservatore Romano” del 14 maggio lo pubblicò in una traduzione del gesuita Pietro Armellini e in seguito “La Civiltà Cattolica” commentò il discorso qualificandolo come importantissimo. Eccone il testo:

La ringrazio, Monsignore, per la partecipazione dell’alto onore che il Santo Padre si è degnato di conferire sulla mia umile persona [parole pronunciate da Newman in italiano] e se Le chiedo il permesso di continuare il mio discorso non nella Sua lingua così musicale, ma nella mia cara lingua materna, è perché in questa posso esprimere meglio ciò che sento all’annuncio che Lei mi ha comunicato.

Vorrei anzitutto esprimere lo stupore e la profonda gratitudine che ho provato e che ancora provo per la magnanimità e l’amore del Santo Padre per avermi prescelto ad un onore così immenso. È stata davvero una grande sorpresa. Non mi era mai passato per la mente di esserne degno e mi è sembrato così in contrasto con le vicende della mia vita. Ho dovuto passare attraverso molte prove, ma avvicinandomi ormai alla fine di tutto, mi sentivo in pace. Tuttavia non è forse possibile che io sia vissuto tanti anni proprio per vedere questo giorno?

Difficile anche pensare come avrei potuto affrontare una tale emozione se il Santo Padre non avesse compiuto un ulteriore gesto di magnanimità nei miei confronti, mostrando così un altro aspetto della sua natura piena di finezza e di bontà. Egli intuì il mio turbamento e volle spiegarmi le ragioni per cui mi aveva innalzato a tanto onore. Insieme a parole di incoraggiamento, mi disse che la sua decisione era un riconoscimento del mio zelo e del servizio che avevo reso per tanti anni alla Chiesa Cattolica; inoltre, egli era certo che i cattolici inglesi e perfino l’Inghilterra protestante si sarebbero rallegrati del fatto che io ricevessi un segno del suo favore. Dopo queste benevole parole di Sua Santità, sarei proprio stato insensibile e ingrato se avessi avuto ancora delle esitazioni.

Questo egli ebbe la premura di dirmi, e che cosa potevo desiderare di più? Nella mia lunga vita ho commesso molti sbagli. Non ho nulla di quella sublime perfezione che si trova negli scritti dei santi, cioè l’assoluta mancanza di errori. Ma ciò che credo di poter dire riguardo tutto ciò che ho scritto è questo: la mia retta intenzione, l’assenza di scopi personali, il senso dell’obbedienza, la disponibilità ad essere corretto, il timore di sbagliare, il desiderio di servire la santa Chiesa, e, solo per misericordia divina, un certo successo. E mi compiaccio di poter aggiungere che fin dall’inizio mi sono opposto ad una grande sciagura. Per trenta, quaranta, cinquant’anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione. Mai la santa Chiesa ha avuto maggiore necessità di qualcuno che vi si opponesse più di oggi, quando, ahimé! si tratta ormai di un errore che si estende come trappola mortale su tutta la terra; e nella presente occasione, così grande per me, quando è naturale che io estenda lo sguardo a tutto il mondo, alla santa Chiesa e al suo futuro, non sarà spero ritenuto inopportuno che io rinnovi quella condanna che già così spesso ho pronunciato.

Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo cui non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro, e questa è una convinzione che ogni giorno acquista più credito e forza. È contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni. La religione rivelata non è una verità, ma un sentimento e una preferenza personale; non un fatto oggettivo o miracoloso; ed è un diritto di ciascun individuo farle dire tutto ciò che più colpisce la sua fantasia. La devozione non si fonda necessariamente sulla fede. Si possono frequentare le Chiese protestanti e le Chiese cattoliche, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare e avere pensieri e sentimenti spirituali in comune, senza nemmeno porsi il problema di una comune dottrina o sentirne l’esigenza. Poiché dunque la religione è una caratteristica così personale e una proprietà così privata, si deve assolutamente ignorarla nei rapporti tra le persone. Se anche uno cambiasse religione ogni mattina, a te che cosa dovrebbe importare? Indagare sulla religione di un altro non è meno indiscreto che indagare sulle sue risorse economiche o sulla sua vita familiare. La religione non è affatto un collante della società.

Finora il potere civile è stato cristiano. Anche in Nazioni separate dalla Chiesa, come nella mia, quand’ero giovane valeva ancora il detto: “Il cristianesimo è la legge del Paese”. Ora questa struttura civile della società, che è stata creazione del cristianesimo, sta rigettando il cristianesimo. Il detto, e tanti altri che ne conseguivano, è scomparso o sta scomparendo, e per la fine del secolo, se Dio non interviene, sarà del tutto dimenticato. Finora si pensava che bastasse la religione con le sue sanzioni soprannaturali ad assicurare alla nostra popolazione la legge e l’ordine; ora filosofi e politici tendono a risolvere questo problema senza l’aiuto del cristianesimo. Al posto dell’autorità e dell’insegnamento della Chiesa, essi sostengono innanzitutto un’educazione totalmente secolarizzata, intesa a far capire ad ogni individuo che essere ordinato, laborioso e sobrio torna a suo personale vantaggio. Poi si forniscono i grandi principi che devono sostituire la religione e che le masse così educate dovrebbero seguire, le verità etiche fondamentali nel loro senso più ampio, la giustizia, la benevolenza, l’onestà, ecc.; l’esperienza acquisita; e quelle leggi naturali che esistono e agiscono spontaneamente nella società e nelle cose sociali, sia fisiche che psicologiche, ad esempio, nel governo, nel commercio, nella finanza, nel campo sanitario e nei rapporti tra le Nazioni. Quanto alla religione, essa è un lusso privato, che uno può permettersi, se vuole, ma che ovviamente deve pagare, e che non può né imporre agli altri né infastidirli praticandola lui stesso.

Le caratteristiche generali di questa grande apostasia sono identiche dovunque; ma nei particolari variano a seconda dei Paesi. Parlerò del mio Paese perché lo conosco meglio. Temo che essa avrà qui un grande seguito, anche se non si può immaginare come finirà. A prima vista si potrebbe pensare che gli Inglesi siano troppo religiosi per un modo di pensare che nel resto del continente europeo appare fondato sull’ateismo; ma la nostra disgrazia è che, nonostante, come altrove, conduca all’ateismo, qui esso non nasce necessariamente dall’ateismo. Occorre ricordare che le sette religiose, comparse in Inghilterra tre secoli fa e oggi così forti, si sono ferocemente opposte all’unione della Chiesa e dello Stato e vorrebbero la scristianizzazione della monarchia e di tutto il suo apparato, sostenendo che tale catastrofe renderebbe il cristianesimo più puro e più forte. Il principio del liberalismo, poi, ci è imposto dalle circostanze stesse. Consideriamo le conseguenze di tutte queste sette. Con tutta probabilità esse rappresentano la religione della metà della popolazione; e non dimentichiamo che il nostro governo è una democrazia. È come se, in una dozzina di persone prese a caso per la strada e che certamente hanno la loro quota di potere, si trovassero fino a sette religioni diverse. Ora come possono trovare unanimità di azione in campo locale o nazionale quando ciascuna si batte per il riconoscimento della propria denominazione religiosa? Ogni decisione sarebbe bloccata, a meno che l’argomento religione non venga del tutto ignorato. Non c’è altro da fare. E in terzo luogo, non dimentichiamo che nel pensiero liberale c’è molto di buono e di vero; basta citare, ad esempio, i principi di giustizia, onestà, sobrietà, autocontrollo, benevolenza che, come ho già notato, sono tra i suoi principi più proclamati e costituiscono leggi naturali della società. È solo quando ci accorgiamo che questo bell’elenco di principi è inteso a mettere da parte e cancellare completamente la religione, che ci troviamo costretti a condannare il liberalismo. Invero, non c’è mai stato un piano del Nemico così abilmente architettato e con più grandi possibilità di riuscita. E, di fatto, esso sta ampiamente raggiungendo i suoi scopi, attirando nei propri ranghi moltissimi uomini capaci, seri ed onesti, anziani stimati, dotati di lunga esperienza, e giovani di belle speranze.

Ecco come stanno le cose in Inghilterra, ed è un bene che tutti ce ne rendiamo conto; ma non si pensi assolutamente che io ne sia spaventato. Certo ne sono dispiaciuto, perché penso possa nuocere a molte anime, ma non temo affatto che abbia la capacità di impedire la vittoria della Parola di Dio, della santa Chiesa, del nostro Re Onnipotente, il Leone della tribù di Giuda, il Fedele e il Verace, e del suo Vicario in terra. Troppe volte ormai il cristianesimo si è trovato in quello che sembrava essere un pericolo mortale; perché ora dobbiamo spaventarci di fronte a questa nuova prova. Questo è assolutamente certo; ciò che invece è incerto, e in queste grandi sfide solitamente lo è, e rappresenta solitamente una grande sorpresa per tutti, è il modo in cui di volta in volta la Provvidenza protegge e salva i suoi eletti. A volte il nemico si trasforma in amico, a volte viene spogliato della sua virulenza e aggressività, a volte cade a pezzi da solo, a volte infierisce quanto basta, a nostro vantaggio, poi scompare. Normalmente la Chiesa non deve far altro che continuare a fare ciò che deve fare, nella fiducia e nella pace, stare tranquilla e attendere la salvezza di Dio. “Gli umili erediteranno la terra e godranno di una gran pace” (Ps 37, 11).

tratto da L’Osservatore Romano del 9 aprile 2010
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