Siyr: «Descrivetemi. Se fossi un animale, un elemento e così via. Quello che pensate, e non quello che pensano gli Dei.»
Indovino: «Quando ero giovane, davanti alla mia casa c'era un albero e su quell'albero viveva uno scoiattolo. Ogni giorno vagava per il giardino e anche oltre alla ricerca di cibo, che portava ai suoi cuccioli. Io mi divertivo a seguirlo, altri lo scacciavano. Pensavo che fosse un animale grazioso, carino. Ma un giorno un serpente strisciò fino alla sua tana. Spalancò le zanne, accingendosi a divorare i cuccioli inermi. Lui piombò all'interno del nido e azzannò la serpe al collo. Il rettile si divincolava ma lui mordeva, e mordeva, e mordeva... Rosicchiava. Alla fine, arrivò quasi a decapitarlo, la testa attaccata al corpo solo attraverso un sottile brandello di carne. Per un istante, non lo scorderò mai, ebbi paura. Di quello scoiattolo, piccolo e grazioso. Ti hanno mai paragonata a uno scoiattolo, Siyr Djubrek?»
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Aveva appena compiuto sette anni, la sera in cui scoprì per quale motivo il viso dei suoi genitori si rabbuiava il giorno in cui lei compiva gli anni. Non tanto quello di suo padre, ma sua madre diventava distaccata e spariva dalla Sala, per rintanarsi nelle sue stanze.
La Sala dello Jarl le era sempre sembrata infinita, senza rendersi conto che era lei ad essere davvero piccola. Era solita passare diverse ore a guardare la parete dietro l’enorme poltrona intarsiata di suo padre Sigurd, ai cui fianchi erano presenti quella di sua madre Hjordis e la sua, decisamente di dimensioni inferiori.
Gli scudi le parlavano. Assieme alle armi, raccontavano di razzie, battaglie e guerre a cui si aggiungevano le storie di coloro che veramente le avevano vissute; non venivano mai risparmiati i dettagli e lei prestava attenzione anche quelli più cruenti, che si tingevano di sangue, dolore e morte. C’erano tesori infiniti da portarsi dietro, terre conquistate da popolare e conoscenze che a loro, fino a quel momento, erano state precluse. Voleva impugnare uno di quegli scudi e farne la sua forza. Voleva essere come le donne delle leggende, capaci di opporre resistenza costruendo un muro con i propri scudi e le proprie asce.
Voleva essere una
guerriera.
La prima volta che impugnò una vera ascia fu proprio davanti al braciere, osservata da mille e più occhi di legno. E subito dopo fu la volta di una spada. L’unico problema palese era che la sua forza era decisamente esigua per impugnarle a dovere e per questo, nel mentre cercò di rimediare in altri modi, allenando il proprio corpo per poter essere veloce come le acque delle cascate. Solo che lei preferiva salire invece di scendere, arrampicarsi nei luoghi più improbabili per poter arrivare in cima e, da lì, cercare di vedere oltre i confini, verso terre sconosciute.
La sera del suo settimo compleanno, dall’interno del braciere si sprigionavano i profumi intensi delle erbe che rendevano la stanza satura, quasi soffocante: era la norma quando ci si riuniva attorno a quella struttura di pietra per raccontare le storie degli dei, di creature ormai scomparse e di quelle che alcuni avevano avuto la fortuna di vedere; ciò accadeva soprattutto durante i festeggiamenti. Lei, per di più, era la figlia dello Jarl Sigurd Henrik Djubrek e consorte, Hjordis Jorunn Dahl. Colei che avrebbe ereditato tutto quanto.
Eppure, quando si voltava per cercare gli sguardi dei suoi genitori, la prima cosa che vedeva era la mano di Sigurd su quella di Hjordis. Un contatto che durava pochi istanti, frantumato dalla donna nel momento in cui raccoglieva le pieghe preziose della gonna composta da tessuti raffinati e costosi. In quel momento sentiva le proprie spalle stringersi e il proprio volto rabbuiarsi, nel chiedersi che cosa turbasse così tanto sua madre. Lo sguardo, chiaro come quello del ghiaccio, la seguiva fino a quando non spariva prima di posarsi su suo padre… e anche lui faceva la stessa fine. Abbassò il mento, lasciando che le dita della mano destra andassero a tormentare il torque che portava al polso sinistro, come se fosse qualcosa capace di consolarla là dove non riuscivano ad arrivare le braccia e le parole di sua madre. E raramente arrivavano da qualche parte, il più delle volte inconsistenti… inesistenti.
La giustificazione di quelle assenze veniva data da qualcosa che lei accettò fin da subito: se voleva essere una guerriera doveva imparare a prendersi cura di sé stessa, senza aspettare che qualcun altro si preoccupasse delle sue ferite, dei suoi malumori e di tutto ciò che la indeboliva. Lei doveva essere la sua forza.
Fu così che, nel bel mezzo di una di quelle storie che lei adorava tanto ascoltare, si allontanò dalla Sala. I passi silenziosi non destarono sospetti e la stanza era fin troppo piena perché qualcuno si accorgesse che si era allontanata. Si arrampicò, prestando attenzione a dove metteva i piedi, e raggiunse il punto desiderato: una delle finestre aperte che dava sulla stanza dei genitori. Lì, appesa come uno scoiattolo, seppe che, quella stessa notte in cui lei nacque, persero una figlia. Brynhild, sua sorella.
Non ci mise molto a scendere, correndo come mai aveva fatto in vita sua per raggiungere la capanna dell’Indovino, gettandogli addosso tutta la sua incomprensione, tutto il suo rifiuto. Nell’innocenza pura e incontaminata che solo i bambini di quell’età possono avere, chiese che le venisse raccontato tutto quanto. E lui lo fece.
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Le urla di Hjordis si mischiavano perfettamente a quelle della battaglia che aveva luogo fuori dalla Sala. Le acque le si erano rotte poco dopo che si era unita a Sigurd, in quel conflitto nato principalmente a causa di Brynhild, la loro prima figlia: la testardaggine della giovinezza, dove ci si fa manipolare tranquillamente, in nome dell'amore.
Un amore in cui Hjordis non credeva affatto, spinta dalla conoscenza della famiglia Svjersson, subdola fino al midollo. Ma Brynhild aveva preferito stare dalla loro parte, innamorata del giovane Egil, piuttosto che da quella della sua famiglia, accusandoli di serbare troppo rancore. Sigurd, però, da buon padre testardo e orgoglioso, aveva fatto di tutto per cercare di farla ragionare, fino a quando Leif, lo Jarl Svjersson non decise che tutto questo sarebbe terminato con un duello: o la sua morte, o quella di Sigurd.
Si mossero all'imbrunire, il ventiseiesimo giorno di Seithen, senza rendersi conto che erano tenuti d'occhio, ritrovandosi il villaggio di Snøskred unito su tutti i fronti. Era una notte in cui la tempesta non si era risparmiata nei tuoni e nei fulmini e l'acqua scendeva forte e perpendicolare al terreno.
Fu così che Hjordis si fece aiutare ad indossare l'armatura, sotto il notevole disappunto di suo marito.
Erano passati quindici anni da quando era nata Brynhild e quella seconda gravidanza era arrivata inaspettata. Non che non ci avessero provato ad avere un altro figlio ma, per quanto si sforzassero, nulla funzionava alla loro causa. Né le erbe né i sacerdoti di Leira. Solo l'Indovino disse qualcosa al riguardo: uno scoiattolo avrebbe ridato loro speranza. Parole incomprensibili per Hjordis, le quali erano state immagazzinate in un angolo della mente, prima di pagare il prezzo della Vista e lasciare la casa.
Coloro che erano pronti ad attaccare l'Indovino vennero fatti fuori in un batter d'occhio, fino a quando non sentì qualcosa rompersi dentro di sé, come il fulmine caduto a non molta distanza da lei. La spada cadde a terra, in un clangore coperto dagli altri rumori, mentre la mano sinistra cercava sostegno sulla parete della casa, trovandolo però in un uomo vecchio e cieco. Le acque si erano rotte ma era la presenza di sangue ad averla fatta andare nel panico, soprattutto perché mancavano almeno due mesi al termine della gravidanza.
Sii risvegliò nelle sue stanze, mentre il corpo le chiedeva di spingere, di farsi forza e far uscire quel bambino che così a lungo aveva desiderato assieme a Sigurd. Pregò tutti gli dei, senza alcuna eccezione fino a quando non sentì di potersi rilassare. Era nato. Ma allora perché non sentiva piangere?
Silenzio.
È ciò che chiese più volte fino a quando, finalmente, non si smise di borbottare. Ma lo sguardo delle donne si spostava da Hjordis a quell'esserino nato prematuro, mentre la tensione si faceva sempre più palpabile nell'aria. Passò un'infinità di tempo, fino a quando quel silenzio richiesto non venne squassato da un tuono sopra alle loro teste, seguito prima da un gemito e solo dopo da un pianto vigoroso. Pianto che si unì a quello di Hjordis, fino a quando non si ritrovò tra le braccia quella bambina che aveva avuto così tanta fretta di nascere, come a volersi unire in battaglia anche lei, al fianco del padre.
Una femmina. Seppur piccola e apparentemente fragile, si vide subito che aveva la stoffa della guerriera: Siyr Synnøve Djubrek, lo scoiattolo nato nella Tempesta.
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Con quella nuova verità dentro di sé, fu lei a sparire ad ogni suo compleanno. Preferiva molto di più trascorrere il proprio tempo ad osservare mentre venivano costruite le navi, apprendere le conoscenze necessarie affinché, un giorno, potesse replicarle lei stessa. Apprese l’arte medica, asfissiando coloro che già la maneggiavano a dovere, studiando lei stessa i corpi, quando poteva. E, non da meno, continuò ad allenarsi senza che però riuscisse a sopperire alcune mancanze: era una donna e la figlia dello Jarl, nonostante niente di lei lo dimostrasse se non quando sua madre le imponeva la decenza totale. Per questo nessuno osava insegnarle a combattere corpo a corpo e fu uno dei principali motivi per cui finì per sviluppare una maggiore destrezza rispetto alla forza.
Ma le voci circolavano. Lo facevano sempre tra coloro che non avevano di meglio da fare e in molti rivedevano in lei sua sorella. Una ragazzina viziata che non sarebbe mai riuscita a dimostrare che era ben più di un titolo acquisito dalla discendenza del sangue.
Lei, però, non si vedeva diversa dagli altri e fu così che, a diciassette anni, prese poche cose necessarie per sopravvivere in mezzo alle montagne. La presenza di un piccolo rifugio l’aiutò nelle sue intenzioni, nel bel mezzo di una natura selvaggia, aspra e ostile. Inadatta all’uomo.
Nessuno seppe cosa accadde e lei non racconto niente ma quando tornò, un mese dopo, era cambiata. Era cresciuta.
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La prima volta che lasciò il Nord, era mossa dal desiderio di restituire a sua madre un briciolo di felicità, nel cercare di convincere sua sorella a tornare a casa. Non l’aveva mai conosciuta ma alcuni, nel villaggio, dicevano che era stata vista a Sud. E si mosse verso Sud.
Arrivò a Dalen e passarono i giorni ma non vide nessuno che si somigliasse anche solo lontanamente a lei o ai coniugi Djubrek. Imparò a fondersi completamente con la città, cercando informazioni dove gente per bene non avrebbe mai osato cercare.
Ciò che trovò, invece, fu la criminalità in cui si infilò a testa bassa, affinando abilità che mai si sarebbe sognata. Un gruppo abbastanza unito, in cui si mischiavano diverse razze e che le permise di ampliare le proprie conoscenze. Poco importava di che tipo queste fossero. Le missioni erano chiare, rapide e più o meno pulite. Il suo compito principale era quello di studiare i villaggi o le città da attaccare, carpirne i punti deboli e poi riferirli al capo in modo che tutti quanti potessero avere la loro parte e il giusto compenso se riuscivano a rimanere vivi.
Una di quelle missioni, in un territorio ben lontano da Dalen, fu quella che segnò la sua rovina. Una rovina che aveva un nome: Mia Farrow.
Era una città sotterranea, costituita da minerali preziosi che facevano decisamente gola al gruppo, il cui intento era quello di razziarlo fino a quando non ci fosse stato più nulla. Ancora una volta si preparò, portandosi dietro poche cose e le sue armi. Ma era ben diverso da come si sarebbe aspettato.
Venne accolta nel migliore dei modi e, alla sua richiesta di conoscere chi governava quella città, fu portata a palazzo. Le armi vennero consegnate, nonostante il suo disappunto, e le porte si chiusero alle sue spalle. Ciò che la colpì fin da subito era il fatto che lì erano le donne ad avere il potere assoluto e che gli uomini non erano altro che i loro succubi, esseri privi di midollo e incapace di imporsi. Accettavano semplicemente tutto quanto, anche se questo li conduceva alla morte.
Nonostante tutto, riuscì a trovare il modo di divertirsi spudoratamente anche lì, prendendo decisioni che le sarebbero costante care. Esattamente come accadeva a Snøskred, oltre all’alcool e al cibo cercò di soddisfare ben altri appetiti. Il problema si venne a creare esattamente il giorno successivo, quando ritrovò, fuori dalla porta della stanza che le era stata assegnata, l’imposizione dell’uomo con cui aveva trascorso la notte precedente.
Era in una gabbia dorata, una prigione da cui non poteva uscire. Ciò che inizialmente fu per lei fonte di piacere, diventò il peggiore degli incubi, perpetrato ogni notte da uomini diversi. Il dolore era una costante viva e opprimente, nella violenza che la lasciava priva di forze e che la costringeva a raggomitolarsi in un angolo del letto, fino a quando, all’alba, non si ritrovava le mani di un vecchio sopra il suo ventre. Ogni giorno che avanzava era un giorno in più in cui si annullava, si aggrappava alla speranza che prima o poi avrebbe trovato il modo per scappare. Avrebbe trovato il modo di svegliarsi.
Lasciò la sua stanza, mischiandosi alle ombre dei corridoi, rischiarate dalla luce debole delle fiamme che coronavano le torce appese alle pareti. Gli sguardi che si posavano su di lei avevano tracce di ammirazione che la spingevano a corrucciare la fronte, non riuscendo a spiegarsi quel cambiamento repentino.
Trovò la risposta nelle parole che il vecchio proferì per Mia Farrow: era incinta. Gli uomini che l’avevano violentata, con l’unico scopo di procreare, erano morti. Solo uno, l’ultimo, era riuscito dove gli altri avevano fallito e sedeva al fianco destro della Governatrice. Ma la verità più dolorosa è che lei, secondo la donna, avrebbe dovuto partorire un maschio. E i bambini maschi, ogni due anni, venivano sacrificati.
Non la vide nessuno mentre sprofondava nell’oscurità più totale, lasciando spazio a ciò che lei non era mai stata, toccando il fondo: una bestia. Si avvicinò a Mia e ciò che vide nel suo sguardo le fece capire che probabilmente aveva ormai perso la sua purezza. La uccise con una lucidità mossa da sentimenti ben più oscuri dell’odio, perché voleva solo l’annientamento di quella città e di tutti quelli che l’abitavano. Fu colpita da una freccia ma non percepì alcuna sorta di dolore, anzi. Sorrise, perché involontariamente le concessero un’arma e la sofferenza che si sprigionò lungo l’arto fu una scossa che le impose di essere rapida. Un colpo secco, all’altezza del cuore, che si trascinò dietro la morte di tutti quanti, fra urla disumane che supplicavano di essere risparmiate. Ma lei voleva solo la sua salvezza e la ottenne.
Tornata a Dalen si liberò anche del regalo di Mia, mettendo in pratica la sua conoscenza delle erbe che funzionarono ben diversamente da quanto aveva sempre creduto. Non c’era nessuno ad aiutarla mentre il suo corpo si spaccava in due e quel processo di purificazione – come lo chiamava la vecchia che l’aveva istruita – durò diversi giorni. Fu allora, quando tutto finì, tra le lenzuola madide di sudore e intrise di sangue, che capì: era e sarebbe sempre stata sola; niente avrebbe mai cambiato quella certezza.
E di quella solitudine avrebbe dovuto sempre farne la propria forza.
Una solitudine che si trascinava dietro ogni mese, quando sentiva nuovamente il corpo spezzarsi in due, nel viso che affondava nel cuscino, affilato dalla stretta dei denti. Le mani stringevano le lenzuola, in quell'unico appiglio dove le era possibile rilasciare tutta la sua forza e la rabbia. Solo le sue urla rompevano il silenzio, fino a quando non si ritrovava senza fiato. Nell'oscurità della propria stanza, aveva luogo quella che per lei era a tutti gli effetti una maledizione, costringendola a rivivere costantemente il "processo di purificazione".
Una maledizione che si impose sulle sue spalle, fino a quando, anche quella, semplicemente non cessò di esistere.
Si lasciò dietro tutto quanto, come se non fosse mai successo nulla e, quando sulla sua pelle non ci fu più alcuna traccia della sofferenza, tornò a casa. Qui, durante la guerra degli Orchi che scosse il Brehorn ma soprattutto i Fiordi, scoprì le responsabilità che le spalle di suo padre dovevano sopportare, pagando il prezzo delle sue decisioni e imparando cosa volesse dire
comandare.
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Indovino: «Hai sofferto, lo so, e stai soffrendo. Soffrirai ancora prima che questo ultimo capitolo si sarà concluso ma la tua sofferenza sarà necessaria per la salvezza di molti, non solo umani, se questo ti è di consolazione. Sei pronta ad ascoltare la storia di cui ti ha parlato tuo padre?»
Siyr: «La mia sofferenza è dovuta da coloro che sono morti ma se ciò è necessario per la salvezza di molti, beh... Sono qui anche per questo.»
Indovino: «Accadde tutto circa cento anni fa ormai. C'era a quei tempi uno stregone e sacerdote di Khorr che aveva sperimentato così a fondo la magia da avere sviluppato un potere senza pari. Dall'animo crudele e combattivo, prendeva tutto ciò che voleva spazzando via i suoi nemici con uno schiocco delle dita e la benedizione di Khorr, che osservava compiaciuto la sua forza esercitarsi nel mondo. Molti villaggi venivano distrutti al suo passaggio, la popolazione ridotta alla servitù, la terra devastata. Interi eserciti si erano piegati alla sua potenza, tutti lo temevano, nessuno osava opporsi a lui. Un giorno, tuttavia, arrivò a Snoskred... A Snoskred accadde l'impossibile. Quando tutti avevano paura, un solo uomo trovò il coraggio di ergersi a difesa di quella sperduta cittadina. Era lo Jarl di Snoskred, Bjergssen Djubrek, il tuo bisnonno. Era quasi ridicolo. Impugnava quella sua inutile spada mettendosi sulla strada di un uomo che era infinitamente più potente di lui. Lo stregone lo colpì, mandando in frantumi la sua spada. L'attacco successivo sbriciolò l'armatura dello Jarl ma lui non indietreggiò. Disarmato, senza difese, non intendeva cedere il passo, voleva difendere la sua gente. Lo stregone ne fu divertito. Per scherno, si ritirò, dicendogli di trovare una nuova spada e una nuova armatura. Sarebbe tornato l'indomani: non aveva fretta di ucciderlo. Tuttavia, nell'alto della sua dimora celeste, Khorr aveva assistito alla scena. Stupito e compiaciuto dal coraggio e dalla forza d'animo dello Jarl, decise di intervenire in suo aiuto. Lo stregone aveva un figlio e Khorr gli parlò, mostrandogli le crudeltà compiute dal padre, la malvagità che l'aveva avvinto, nonostante il suo infinito potere. Il bambino ne fu disgustato e decise di porvi fine. Derubò il padre di un potente amuleto protettivo e, nella notte, lo portò allo Jarl, dicendogli di indossarlo l'indomani, quando l'avrebbe affrontato di nuovo. Bjorgssen gli diede ascolto e il giorno dopo era di nuovo all'ingresso di Snoskred, con al collo quel talismano. Quando iniziò lo scontro, Khorr spezzò la magia dello stregone che risiedeva nell'amuleto e la sostituì con la sua. L'amuleto protesse lo Jarl dagli attacchi dello stregone come uno scudo d'infinita potenza, sufficiente, anche se a malapena, a salvarlo. Il duello successivo distrusse l'intera città ma alla fine lo Jarl ne emerse vittorioso, strappando la testa dello stregone... salvando il suo popolo.»
Siyr: «Magari questa cosa funziona solo perchè sono l'unica sua discendente giovane in vita?»
Indovino: «Oh no, niente di così banale. L'amuleto è benedetto da Khorr, funziona solamente quando il portatore può dimostrare di possedere un coraggio pari a quello di Bjergssen. Nessun prezzo da pagare questa volta, solo la scelta di mettere a rischio la tua vita. Se il tuo coraggio dovesse vacillare, l'amuleto non sarà più in grado di proteggerti. Quando lo scontro si concluse, e lo stregone era ormai morto, lo Jarl andò dal figlio di quell'uomo malvagio e lo ringraziò per il suo aiuto, lodandolo per il suo coraggio e senso della giustizia. Gli restituì l'amuleto che era stato di suo padre, chiedendogli di conservarlo se ce ne fosse mai stato di nuovo bisogno. Ma fece anche altro: prese con sè il bambino, crescendolo come figlio suo.»