Bush smentito dall'intelligence: dopo l'Iraq, terrorismo più pericoloso

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vanni-merlin
00domenica 24 settembre 2006 23:53
Bush smentito dall'intelligence: dopo l'Iraq, terrorismo più pericoloso



L'intelligence statunitense smentisce il presidente americano George W. Bush: l'invasione dell'Iraq non ha diminuito, ma ha anzi acuito, la minaccia del terrorismo contro gli Stati Uniti, provocando l'emergere di una nuova generazione di islamici radicali, integralisti e fondamentalisti.

L'America e il mondo non sono quindi un «posto più sicuro», adesso che Saddam Hussein non è più al potere, come ama dire il presidente statunitense. Di fronte agli effetti potenzialmente devastanti delle conclusioni dell'intelligence in vista delle elezioni di midterm del 7 novembre, il presidente Bush corre ai ripari con una replica affidata a un portavoce domenicale: le sintesi del rapporto d'intelligence anticipato online dal New York Times e pubblicato da tutta la grande stampa Usa «non sono rappresentative del documento nel suo complesso».

Senza indicare i contenuti del documento, che sono riservati, la fonte della Casa Bianca ha aggiunto: «L'odio dei terroristi verso la libertà non s'è sviluppato da un giorno all'altro, i semi erano stati piantati da decenni. Invece di aspettare che preparassero attacchi contro americani innocenti, abbiamo preso l'iniziativa di andare a combatterli» sul loro territorio.

Il documento dell'intelligence che fa discutere risale ad aprile ed appartiene alla serie National Intelligence Estimates: testi ritenuti, in genere, molto seri e attendibili, i più autorevoli dei servizi d'intelligence Usa sulle questioni di sicurezza. Le National Intelligence Estimates si basano sulle analisi delle informazioni raccolte da tutte le 16 principali agenzie di spionaggio americane: per essere inviati all'Amministrazione devono avere il via libera del direttore nazionale dell'intelligence John Negroponte. La conclusione sulla minaccia terroristica dopo l'invasione dell'Iraq, decisa unilateralmente e con motivazioni rivelatesi tutte false, è univoca: la minaccia è cresciuta, rispetto all'11 Settembre 2001, non è diminuita, si afferma in quella che è l'analisi più completa del fenomeno terrorismo dall'invasione dell'Iraq. Del resto, la comunità dell'intelligence lo aveva previsto fin dal gennaio 2003: quando un rapporto del National Intelligence Council aveva avvertito che la guerra avrebbe accresciuto il sostegno nel mondo all'integralismo islamico.

Il New York Times, che ha anche sentito numerosi esperti in merito, scrive: «L'intelligence conclude che il movimento radicale islamico s'è allargato dal nucleo degli effettivi di al Qaida e dei gruppi affiliati fino a comprendere una nuova classe di cellule auto-generatesi, ispirate dalla leadership di al Qaida, ma senza connessione diretta con Osama bin Laden o con i suoi principali luogotenenti». Inoltre, al Qaida e gli altri gruppi, che pure hanno subito danni e perdite, sono diventati maestri nell'uso di internet per diffondere l'ideologia jihadista: «Il cyberspazio è così diventato un santuario per i terroristi che non dispongono più di rifugi geografici com'era l'Afghanistan». La pubblicazione delle sintesi del documento hanno suscitato immediati commenti politici. Uno dei leader dell'opposizione, il senatore democratico Ted Kennedy, sostiene che esso «pianta il chiodo nella bara» delle «false argomentazioni del presidente Bush sulla guerra in Iraq». Il capo della maggioranza al Senato, Bill Frist, fa, invece, orecchie da mercante e ripropone un'altra frase feticcio dell'Amministrazione repubblicana: «O andiamo a fare la guerra ai terroristi a casa loro, o loro verranno a farcela a casa nostra».

Le rivelazioni sul rapporto dell'intelligence coincidono con la ridda di voci sulla morte, vera o più probabilmente presunta, del capo di al Qaida, Osama bin Laden, mentre Bush si prepara a ricevere in settimana due alleati scomodi, ma irrinunciabili, nella lotta al terrorismo, i presidenti afghano Hamid Karzai e pachistano Pervez Musharraf, che rischiano di sciorinare in pubblico le loro divergenze.

In Iraq, il Ramadan affoga nel sangue per il secondo giorno consecutivo, nonostante l'appello all'unità del premier Nouri al Maliki e l'accordo per tenere nel cassetto per 18 mesi i progetti federali, mentre le perdite militari americane toccano le 2.700, secondo un calcolo ufficioso basato sui dati del Pentagono, ufficiali.

Ma di ritiro dall'Iraq non si parla. Anzi, in un'intervista a Newsweek, il presidente iracheno Jalal Talabani spezza una lancia perchè il contingente americano resti nel suo Paese: non, però, in funzione della riconciliazione nazionale, o della lotta al terrorismo, ma per dissuadere i vicini - l'Iran e la Siria – da avventure sul territorio iracheno.



da: www.unita.it/view.asp?IDcontent=59853

[Modificato da vanni-merlin 17/10/2006 19.13]

[Modificato da vanni-merlin 17/10/2006 20.43]

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