Anna e Marco

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
=boogus
00lunedì 6 agosto 2007 19:42
Anna e Marco

Arrivò trafelato al cartellone degli Arrivi. Era sempre così per lui la vita....... in ritardo. Lo era di cinque minuti ma stavolta erano troppi, forse. Col fiato corto andò a vedere il tabellone elettronico dei treni; 90 minuti di ritardo, per fortuna c’era chi era peggio di lui. Si sedette, più precisamente si lasciò cadere, sulla panchina di marmo della stazione di (beh, questo non ha importanza). Fredda, ma ci rimase lo stesso attendendo che la respirazione si regolarizzasse. Marco non era mai stato un tipo atletico, a trentaquattro anni aveva già sviluppato anche un po’ di pancetta. A lui non dispiaceva, ma questo era quello che diceva senza pensarlo veramente. Si laureò, in ritardo, in giurisprudenza; avrebbe voluto fare l’avvocato ma era in ritardo, aveva trent’anni e voleva cominciare a guadagnare, l’avvocatura poteva aspettare ancora. Si, voleva cominciare a guadagnare perché in quell’anno conobbe Anna che presto divenne la sua Anna. La conobbe a casa di amici ad una cena, una di quelle cene terribili in piedi dove si parla e si conversa facendo finta di poter mangiare in quegli improbabili piatti di plastica. Lui arrivò in ritardo e gli venne ad aprire la porta Anna. I suoi occhi lo colpirono, ma perché lei aveva quegli occhi? si chiedeva oggi. Passarono la serata a parlare, eh Marco a parlare si che era bravo, avrebbe dovuto proprio fare l’avvocato gli dicevano le sue vecchie zie. Lei rideva alle sue battute mentre lui sentiva di non poter più lasciare quegli occhi per nessuna ragione al mondo. Fu automatico che lui passò la notte da lei, “facciamo piano, se no svegliamo tutti” gli aveva sussurrato mentre salivano le scale, “divido l’appartamento con altre tre ragazze”. Quelle tre ragazze che al mattino ritrovò a far colazione allo stesso tavolo e quasi non lo degnarono di uno sguardo; “ciao, ciao, io sono Marco, ciao”. Cominciò ad essere una abitudine andare a dormire da lei e fare colazione con quelle quattro, qualche volta al tavolo della colazione c’era pure qualche ragazzo “ciao, ciao, io sono Marco, ciao”. Dopo tre mesi lui capì che dovevano cercarsi una casa, troppe colazioni, stava ingrassando. In affitto si trovavano dei piccoli appartamenti in centro ma lui era un neolaureato, in ritardo, squattrinato e lei era commessa e più di una camera in un appartamento in coabitazione non ci si poteva permettere. Lui scese orgogliosamente ad un compromesso, era la cosa che gli riusciva meglio il compromesso; soprattutto con se stesso. Andò da suo padre per dirgli che accettava, temporaneamente si intende, il lavoro che gli aveva tante volte proposto alla ferramenta, lavoro che lui aveva sempre snobbato, doveva diventare avvocato lui. Ma necessità fa virtù, come si dice. Adesso, ma solo adesso e purtroppo in ritardo, lui ricordava i giri fatti con Anna, la sua Anna, per trovare la casa. Ricordava gli occhi lucidi e bellissimi di lei di quando scelsero la tinta, un pastello tra il pesca e il rosa come lei diceva, per ridipingere quel monolocale. Ricordava le fredde notti invernali dove si rincantucciavano sotto le coperte stretti stretti perché i riscaldamenti andavano in blocco. Tre anni passarono così, felicemente si può anche dire; “si, si può dire felicemente” ripeteva orgogliosamente Marco dentro di se, ed inconsciamente mentre faceva questo gonfiava il petto. Anna un giorno cominciò a dare segni di voler però cambiare qualcosa. Quella casa cominciava a stargli stretta, e non solo la casa. Gli suggeriva, ormai senza neanche più tanta convinzione, di dare quel maledetto esame di stato, di fare quell’accidenti di praticantato. Lui rispondeva angelicamente: “ma non stiamo bene così, non ci manca nulla”. Alla fine a lui ora manca lei. Lei che un giorno, in macchina (la sua vecchia macchina che un giorno avrebbe cambiato) gli disse che doveva cambiare qualcosa nella loro vita altrimenti sarebbe impazzita. Lui non capiva, diceva che non era razionale, lei gli diceva che lo lasciava, lui che diceva che non era un motivo valido per lasciarsi, lei che piangeva, lui che avrebbe voluto consolarla stringendola a se ma che voleva mantenere il punto (ma proprio sta volta, l’unica volta nella sua vita) ed aspettava a fare il primo gesto. La mattina seguente lei non c’era più, dovette fare la colazione da solo. Tre mesi da allora e lei non chiamava, lui era tornato a vivere con i suoi per risparmiare l’affitto di casa. Marco prese carta e penna per cinque settimane, puntualmente tutte le sere per scriverle, per chiederle il perché (agli uomini piace sempre sapere i perché). Ma poi non si decideva, stracciava il foglio bianco. Ma ogni volta che provava a scriverle i sentimenti lo stracciavano dentro, il vuoto che provava diventava fisico. Non erano più importanti i perché. Così si decise e di getto scrisse una lunga lettera e la spedì. Lei era tornata al paese dove era nata lui lo seppe dalle vecchie compagne di casa di Anna, riuscì perfino a farsi dar l’indirizzo ma dovette portare brioches calde per tutti, a colazione.
Nella lettera lui diede il meglio di se, toccò i tasti giusti e suonò le note giuste, di questo era convinto. Concluse la lettera pregandola, implorandola di tornare da lui perché lui sarebbe cambiato e perché la vita senza di lei non aveva più senso. Mise anche il biglietto del treno nella busta, il treno che era in ritardo sul secondo binario della stazione di (beh, questo non è importante). Cominciava a fare freddo su quella panchina di marmo. Lui si alzo, il fiatone era ormai scomparso, e camminò nervosamente per il binario. Forse avrebbe dovuto comprare dei fiori per darglieli al suo arrivo, si chiese, chissà se qui alla stazione ne vendevano. Ma forse no, non doveva comprarli. Si prese un latte macchiato al bar della stazione, più per fare qualcosa che per altro. Lei a quella lettera non rispose ma lui era convinto, diciamo abbastanza convinto, che sarebbe arrivata. La conosceva bene lui, diciamo abbastanza bene. Pagò il latte e comprò un giornale nella speranza che l’avrebbe aiutato a passare il tempo, speranza vana; il tempo si era fermato. Per la decima volta si fermò sotto uno di quei nuovi monitor elettronici degli orari, ormai lo avevano messo in tutte le stazioni ed anche in quella di (beh, questo non è importante). Marco rilesse, di nuovo, il numero del treno, la sua provenienza, il ritardo. Certo, pensò tra se e se, quanto sono belli questi cosi che ti danno la risposta in tempo reale e tutte le informazioni che servono in una stazione. Marco si chiese anche se fosse stato possibile insieme all’orario del treno aggiungerci, ma l’elettronica sta facendo passi da gigante, l’informazione dei passeggeri del treno. E se questa informazione ci fosse stata, Anna sarebbe comparsa tra quei nomi? Ricominciò a passeggiare avanti e indietro.

Anna

Anna si alzo dal letto ed andò in bagno, l'acqua calda della doccia stentava a venire giù, lei si guardò allo specchio e si mandò un bacio. Spantofolando andò in cucina e si sedette a fare colazione: "ciao, ciao, ciao, io sono Anna" agli altri zombies che sedevano al tavolo e che faticosamente alzarono una mano in un gesto di saluto. Luca le comincio a imburrare una fetta di pane e la baciò sulla fronte "spicciati, dobbiamo andare o faremo tardi", come diavolo faceva ad essere già pronto? Il negozio andava bene, lui ci metteva l'anima come in tutte le cose che faceva. Un franchising di articoli sportivi, non proprio in centro ma in una buona zona.

Presto avrebbero avuto i soldi per comprarsi quella mansarda che avevano visto il sabato precedente. Presto. Lei era ancora assonnata, ma che fatica la mattina alzarsi, e lo ricambiò arruffandogli i capelli, ricci ed eternamente spettinati. Forse avrebbero preso un cane, la mansarda aveva un bel terrazzo, sarebbe stato bene. Ingollò il caffelatte ormai tiepido, non gli piaceva tiepido ma ci aveva messo troppo per farsi la doccia.

Torno in camera per trovare i vestiti dalla pila alta 10 metri di biancheria da stirare, tirò fuori qualcosa di meno peggio del resto e riscappò in bagno per vestirsi. Si truccava poco ma un filo di matita ci voleva, forse....Con l'occhio da mefistofele di coloro che si mettono la matita la mattina appena svegliate, per questo ci si chiude in bagno no? Si guardava e pensò alla lettera che ricevette il giorno prima da Marco. Quella lettera conteneva anche un biglietto del treno con la data di una settimana prima. E "come ti puoi sbagliare?" disse lei sorridendo quando la lesse.

Poi la stracciò e se ne disfece. "datti una smossa che facciamo tardi" sentì gridare da fuori la porta. Si vengo subito disse, e tra se e se.........non ti libererai di me, strizzò l'occhio allo specchio che ricambiò

Marco


Marco capì, era ormai sera e da(ma questo non è importante) arrivarono tutti i treni e su di essi Anna non c'era. Gettò in un cestino i fiori che non aveva comperato e scalciando i sassolini del brecciolino sul viale della stazione, come fanno i bambini per rompere le scarpe nuove, si diceva che andava tutto bene. Non era così, una lacrima non voleva neanche uscire dal suo occhio destro, gli rendeva solo la vista opaca. Si strofinò con il dorso della mano ed il suo aspetto risultò ancora più infantile. Erano le nove di sera e non aveva voglia di tornare a casa, a far che cosa poi. Per prender tempo decise di percorrere a piedi il tragitto fino al suo portone, sarebbe arrivato in una mezzora.

Aveva anche fame, non aveva pranzato temendo di perdere il treno, che comunque perse. Si fermò in un bar e si comprò delle patatine fritte ed una bibita, a quell'ora di più non trovava nei bar di(ma questo non è importante).

Si sbriciolò le patatine sulla felpa azzurra che indossava e si pulì le mani sui jeans puliti e stirati, oggi doveva essere un gran giorno pensava.."fanculo" si rispose. Bevve anche l'ultimo sorso dalla lattina che aveva comperato e la calciò via improvvisandosi rigorista, mancò clamorosamente il cassonetto dove diresse il tiro, beh è più difficile con una lattina.

Infilando le chiavi nella toppa del portone di casa sperò che i suoi fossero a dormire, non aveva voglia di parlargli.

Salì i quattro piani di scale con passo lento sperando che diventassero otto i piani. Al terzo piano qualcuno reagì al suo fischiettare, fastidioso e stonato peraltro. Si aprì una porta ed una ragazza si affacciò: "smettila che mi svegli la nonna". Lui la guardo cercando di ricordarsene il nome, la ricordava bambina che giocava con le bambole sulle scale mentre lui la guardava altezzoso dalla vetta dei suoi dodici anni. Ma come si chiamava? Lei intuì lo sconforto nei suoi occhi e gli disse: "Marco, sono Marina". Marina, era cresciuta la piccola; piccola si fa per dire.....niente neanche male, comincio a studiarla.

"Allora, che fai li impalato? entra che ti offro qualcosa, fai piano però; la nonna dorme". Lui ammiccò a un immaginario qualcuno dietro di se mentre varcava la porta di casa, aveva ormai ripreso la sua sicurezza. Chissà cosa mangiava la nonna per colazione, si chiese.
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 04:22.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com