Anche gli animali vanno in Paradiso, storie di cani e di gatti oltre la vita

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taxizoo
00domenica 21 maggio 2006 15:58
Anche gli animali vanno in Paradiso, storie di cani e di gatti oltre la vita
Di Stefano Apuzzo e Monica D’Ambrosio –
Edizioni Mediterranee 2001
Con il contributo di www.bau.it
Prefazione
a cura di Giorgio Celli
Se il Paradiso esiste è giusto che sia popolato di animali. Ve lo immaginate un Eden senza il canto degli uccelli, il garrire delle rondini, il belare delle caprette e l’apparire del buffo e curioso musetto di un coniglio? Di sicuro nel mio Paradiso ideale non possono non echeggiare miagolii da ogni angolo. Il festoso abbaiare di cani che giocano finalmente sereni.
Vogliamo negare anche questo ai poveri animali?
Si può essere credenti e praticanti o assolutamente atei, ma ciò non ci da il diritto di chiudere in faccia agli altri abitanti del pianeta le porte del Paradiso, di un sogno, di una speranza di liberazione e riscatto. Sono tante le sofferenze a cui sottoponiamo queste creature innocenti; vogliamo aggiungere alla crudeltà umana anche l’esclusiva dell’amore divino per il nostro genere ? Ma forse la preclusione “zoofobica” teologica di alcune confessioni è connaturata all’uso corrente degli animali nella vita quotidiana: allevati, divorati, cacciati, torturati, sacrificati. Ammettere che gli animali hanno un’anima significherebbe dover rivedere molte delle nostre certezze antropocentriche e rimettere in discussione il nostro rapporto con il Creato. Significherebbe, probabilmente, non comportarsi più da padroni assoluti dell’universo, bensì da padri coscienziosi che difendono i propri figli e, si sa, la responsabilità paterna o materna non è facile da assumere consapevolmente.
Nella discussione se gli animali hanno un’anima o meno ci vedo la contraddizione tra chi ritiene di avere avuto la terra in prestito e in dono e chi ritiene di averla vinta o conquistata. Per questi ultimi, gli animali, la natura, le risorse della Terra, sono beni materiali di immediato consumo e non rappresentano invece un patrimonio inestimabile da proteggere e conservare.
Bene, io credo che al di là delle convinzioni religiose, mistiche e spirituali di ognuno, il rispetto verso gli animali e la natura, madre di tutti noi, debba rappresentare un presupposto, un comune denominatore del convivere civile. Se gli uomini si attribuiscono l’anima questa non può essere negata a tutti gli altri animali, cugini e fratelli del genere umano, coinquilini nel grembo di “Gaia” (la Terra, vista come un unico organismo vivente, nella teoria del filosofo inglese James Lovelock). Negare questa possibilità, scindere in maniera così netta e violenta il genere umano dagli altri abitanti del pianeta significa una supponenza e presunzione che può avere solo conseguenze drammatiche: gli animali sono oggetti, “materia vivente inanimata” senza sentimenti, intelligenza e capacità di soffrire ed è quindi lecito abusarne a nostro piacimento. Sono convinto che le nuove generazioni rifiutano questa logica distruttiva da generali conquistatori, sadici e violenti. Spesso i predatori del mondo hanno bisogno di supporti ideologici e religiosi per compiere le loro nefandezze: non offriamoglieli.
Introduzione
Di Stefano Apuzzo
“Anche gli animali vanno in Paradiso, le più belle storie di tutti i tempi e Paesi sull’immortalità di cani, gatti ed altri animali”
Questo libro aiuterà ad amare gli animali ancora di più e con maggiore generosità. Le testimonianze e le storie che raccoglie, scritte da famosi medium, da mistici e teologi ma anche da gente comune, saranno di sicuro conforto per chi ha perso il proprio fedele compagno a quattrozampe. Questo libro vi aiuterà a ritrovare il vostro amico, a continuare ad amarlo, a parlargli, perché la vita sulla Terra non è che un passaggio, una scuola, una esperienza che ci prepara alla vera vita, alla vita eterna.
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Nell’ottocento un gruppo di vescovi si interrogava se gli indiani d’America avessero o meno l’anima. Molti, troppi, oggi si interrogano sull’eventualità che gli animali abbiano l’anima. Eppure anche il Papa (Giovanni Paolo II) ha già detto una parola chiara in proposito: “negli animali c’è qualcosa di molto simile al soffio divino vitale”. I nativi d’America, che sulla spiritualità ci hanno donato esempi di rara bellezza e lungimiranza non hanno mai avuto dubbi sull’anima degli animali. Lo stesso vale per altre nazioni tribali, come i Pigmei, che chiedono scusa all’animale ed alla sua anima se sono costretti ad ucciderlo per cibarsene. Lo stesso vale per molte confessioni orientali. Ancorata a schemi antropocentrici risulta, invece, la confessione tradizionale della Chiesa romana e, troppo spesso, i messaggi chiari ed inequivocabili di San Francesco e dello stesso Gesù vengono ignorati. Ma qualcosa anche nella Chiesa cattolica si muove. Sono sempre più i teologi e gli uomini di fede disposti a riconoscere senza dubbio che gli animali hanno l’anima.
Ho voluto raccogliere studi, citazioni ed opinioni di differenti credi religiosi, convinto come sono che ogni coscienza mistica e confessione religiosa abbia da offrirci brandelli di verità e barlumi di luce utili a vivere con maggior amore e rispetto con tutte le creature.
Ho la speranza che imparare ad amare ed a rispettare di più gli animali da morti possa contribuire ad amarli ed a rispettarli da vivi, evitando tante sofferenze e crudeltà gratuite. Il libro raccoglie, oltre ai testi di autori noti (da Kardek alla Altea, da Pratesi a don Mario Canciani, fino a Margherita Hack), anche storie di quotidiano amore, che ognuno può sentire più vicine alla propria esperienza vissuta. Sono state scritte pagine meravigliose sugli animali, da vivi e da morti, sulla loro sensibilità, intelligenza e disarmante altruismo. Alcune delle pagine più belle, di tutti i tempi, le culture e le letterature sono qui pubblicate grazie all’impegno di ricerca di Stefano Carnazzi. L’amore per tutte le creature e l’insegnamento unico di San Francesco, il Santo “animalista” per eccellenza, sono distillati negli accattivanti racconti di padre Nazareno Fabbretti. Le esperienze di amore di Gesù verso gli animali sono testimoniate brillantemente sia dal teologo don Mario Canciani, sia dall’amica “medium” Dina Lucchini Dell’Orto, che con il suo gruppo delle “Mamme di via Pacini” ha restituito amore e serenità a tante madri “orfane dei propri figli”. Una parte dei racconti e delle testimonianze sono tratte da due libri molto preziosi e purtroppo non più in commercio, “Gli animali hanno un’anima” di Ernesto Bozzano e “Gli animali sono immortali?” di Bill Schul. Alcune storie e racconti mi stanno particolarmente a cuore, perché scritti da una ragazza generosa e sensibile, Monica D’Ambrosio, che ha lasciato questa vita a 33 anni e la cui unica colpa “fù l’innocenza”, come incise sulla propria immaginaria lapide, prima di suicidarsi a 31 anni, lo svedese Stig Dagerman. Tutta la breve vita di Monica è stata testimonianza di altruismo verso uomini ed animali. E’ un onore per me, oltre che un gesto di amore senza tempo e senza spazio, averla come autrice di questo libro. Lei che ha sempre scritto in modo fluido, intingendo la penna nel cuore e nel sangue, nella passione e nelle proprie ferite. Il brano “Bu”, una storia realmente vissuta da bambina, è tratto dal libro “Il maiale è scappato, firmato la scimmia, storie di animali e di animalisti” (Stampa Alternativa). Grazie per avermi insegnato tutto quello che so sui cani, grazie per avermi insegnato ad amarli davvero e a capirli.
Il libro contiene anche il puntuale intervento dell’amico Edgar Meyer, storico dell’ambiente e presidente di “GAIA, animali & ambiente”, sui cimiteri per animali. Quelli che ho chiamato i “numeri dell’ecatombe” aiutano a renderci conto di quante vittime animali ogni anno nel mondo sono causate dalla cupidigia umana. Animali brutalmente uccisi per la caccia, la vivisezione, l’industria della pelliccia, della carne, della pesca, dal fenomeno del randagismo e degli abbandoni estivi. Ho voluto inserire questi numeri per sottolineare come, pur convinti che gli animali hanno una vita ultraterrena, dobbiamo impegnarci perché vivano felicemente i loro giorni su questa Terra. E ciò vale, evidentemente, anche per gli esseri umani. Desidero ringraziare tutte le amiche e gli amici che mi hanno aiutato nella redazione del libro e le case editrici che, generosamente, hanno concesso i diritti di pubblicazione di importanti testimonianze. Tra queste le Edizioni Mediterranee, la Sperling & Kupfer, le Edizioni Paoline, l’Agenzia Letteraria Internazionale, il Gruppo Geo-Armenia, Stampa Alternativa. L’acquisto del libro contribuirà a finanziare interventi concreti di cura ed assistenza di cani e gatti abbandonati in diversi rifugi. Spero di aver dato, con questo libro,
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un piccolo contributo alla causa degli animali e della pacifica convivenza sul pianeta, alla presa di coscienza che i nostri “fratelli minori”, come San Francesco definiva gli animali, non sono oggetti ma esseri senzienti, che amano e soffrono e che, un giorno, incontreremo nell’aldilà. Qualcuno ci chiederà conto, ne sono convinto, di come ci siamo comportati verso questi nostri, indifesi, fratelli.
Animali e religioni
di don Mario Canciani
Per Sigmund Freud “il timore proteggeva la vita dell’animale” che veniva considerato sacro come fosse un membro della comunità. Era proibito cibarsi della sua carne, salvo che in occasioni solenni e con la partecipazione di tutta la tribù. Il mistero della sua morte sacrificale si spiega con il fatto che costituiva il legame dei partecipanti tra loro e Dio. L’uccisione e la consumazione periodica del “totem” rappresenta l’elemento essenziale della religione totemica, per Freud la più antica.
A Dakshinkali, a sud-ovest di Katmandù nel Nepal, ho visto praticare sacrifici per placare la dea Kalì assetata di sangue, ma di soli animali maschi.
Per Giambattista Vico le saghe e le leggende che si rifanno a un’ancestrale “età favolosa” del mondo rappresentano il “mito” in cui convivono uomini e animali e l’espressione genuina di emozioni religiose. Spesso si trattava di riti religiosi segreti, che esigevano una graduale iniziazione. I principali misteri erano quelli Eleusini, della dea Cibele, di Iside, di Mitra.
Il discorso sul rapporto religioni-animali è complesso.
Il Libro dei morti, che ci riporta la confessione del defunto di fronte ai suoi giudici dell’altro mondo, testimonia la cura che gli egiziani avevano per gli animali. Vi si legge, tra l’altro: “Non ho maltrattato le bestie. Non ho dato la caccia agli animaletti nascosti tra i cespugli. Non ho intrappolato gli uccelli degli dei...”.
L’Inno al Sole del faraone Amenophis IV ha ispirato certamente il Salmo 104 della Bibbia:
Fai scaturire le sorgenti nelle valli
e scorrono tra i monti;
ne bevono tutte le bestie selvatiche
e gli onagri estinguono la loro sete.
Al di sopra dimorano gli uccelli del cielo,
cantano tra le fronde (...).
Gandhi sosteneva che il rispetto per gli animali era il dono dell’induismo all’umanità. Le religioni indiane, da sempre, in verità, li hanno protetti da ogni crudeltà. C’era una casta speciale, quella dei vaisyas, che doveva attendere alla loro cura, in base alle leggi scritte da Manou.
La legge non scritta del Karma riguarda tutt’oggi anche gli animali, oltre che gli uomini e gli stessi dei. Ogni azione viene premiata o punita nella catena della reincarnazione. A questo proposito riferisco un episodio che mi è capitato a Srinagar, la capitale del Kashmir. Stavo osservando con raccapriccio dei bottegai che uccidevano a bastonate un gattino. Un vecchio, dopo averlo gettato nel fiume, vedendo il mio dispiacere, mi ha detto: “Forse rinascerà persona”. Gli ho risposto: “Intanto non ha vissuto da gatto...”.
Nella Bhagavad Gità si narra di un eroe che accetta di entrare in paradiso solo se il suo cane potrà seguirlo. Buddha chiede dayà, compassione, anche per gli animali. Come Zarathustra, egli proibisce i sacrifici: “Invece di sacrificare gli animali, lasciateli liberi. Lasciateli cercare l’erba, l’acqua e la carezza del vento. Gli animali che uccidete vi hanno dato il tributo del loro latte e della loro lana. Hanno posto la fiducia fra le vostre mani che ora li sgozzano”.
Una volta, vide un agnello che, ferito da un sasso, non riusciva a tener dietro al gregge. Lo prese tra le braccia, dicendo: “Povera madre dal vello lanoso, dovunque tu vada porterò il tuo piccolo. È
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meglio impedire ad una bestia di soffrire, piuttosto che restare seduto a contemplare i mali dell’universo, pregando in compagnia dei sacerdoti”.
In India furono costruiti dai buddisti, al tempo dell’imperatore Acoka, che visse dal 264 al 227 a.C., i primi ospedali destinati agli animali ammalati o feriti. L’iniziativa fu poi ripresa nel XVIII secolo da Vivekananda.
In Iran, Zarathustra afferma in una sua Gathà che chi ha cura del bestiame senza nutrirsi della carne “massacrata e fatta a pezzi” avrà lo Spirito Santo e la Verità. Ha sostenuto anche: “Chi uccide un cane uccide la sua anima!”.
In Grecia, il profeta della Tracia, Orfeo, come tutti i grandi dello spirito, è attorniato dagli animali che vengono affascinati dal suo amore, dalla sua voce, dal suono del suo flauto. Il pensiero di questo vegetariano, sacerdote di Apollo-Sole, è rimasto nel cuore dei discepoli per un millennio, fino a raggiungere Pitagora e Plutarco. E Plutraco, storico greco che teneva a Roma conferenze in madrelingua, era stato iniziato in Egitto anche alla religione di Iside e di Osiride. Ripeteva le parole di Orfeo sugli animali: ”Come voi hanno un’anima... Astenetevi perciò dal mangiare il cibo a base di carne!”.
Era l’epoca delle catacombe cristiane. I discepoli di Gesù di formazione greco-latina, quando fecero scolpire nel IV secolo il Buon Pastore che porta sulle sue spalle l’agnello troppo debole per camminare, avevano certamente veduto le statue di Orfeo, che si possono ora ammirare nei musei, trovandovi una prefigurazione.
Plutarco ha espressioni delicatissime: “È una cosa barbara vendere i vecchi cavalli quando non sono più utili. Significa non avere riconoscenza per i servizi resi. L’uomo veramente buono deve tenere con sé i cavalli ed i cani anziani, anche se non sono più utili”.
Tutta la letteratura greca manifesta sentimenti nobili nei riguardi degli animali. Valga per tutti l’episodio del cane di Ulisse, Argo, che attende il padrone per morire, come leggiamo nell’Odissea.
Tra le grandi religioni, l’ebraico-cristiana, se si vuole essere oggettivi, è ambivalente. L’Antico Testamento, del quale tratteremo a parte, anche per maldestre interpretazioni, è stato causa di indifferenza, ma insieme anche di apprezzamento per gli animali. Il Libro della Genesi, che parla di “guida” e non di “dominio” da parte dell’uomo su di essi, annuncia l’alleanza di Dio con gli uomini, gli uccelli, il bestiame e tutti gli animali della terra che “sono con voi”.
Nimrod, figlio di Kush, fondatore di Ninive, è l’antenato degli Assiri, grandi massacratori di popoli. Di lui è detto che “fu un cacciatore, a dispetto dell’Eterno”. Saranno i profeti Amos, Osea, Isaia e Geremia, a condannare i sacrifici, purtroppo senza alcun esito. Geremia ha perfino l’ordine di Dio di mettersi sulla porta del Tempio per dissuadere coloro che vi entravano per offrire sacrifici.
Con il Nuovo Testamento, la venuta del Figlio di Dio libererà finalmente il mondo non umano dalle crudeltà del sacrificio rituale. L’Ultima Cena sarà lo spartiacque tra due epoche, la cerniera tra la barbarie dei sacrifici antichi, un vero mattatoio biblico, e il sacrificio di Cristo. Il suo sangue sostituisce quello degli animali. È lui, ora, l’Agnello di Dio. “È impossibile che il sangue dei tori e dei caproni” scrive l’Autore della Lettera agli Ebrei “liberi dai peccati”.
Purtroppo, come ha dimostrato Robert Smith, il sacrificio sull’altare costituisce parte essenziale del rito delle religioni antiche. L’altare è nato per il sacrificio. Ogni altare ci ricorda perciò inevitabilmente le immani sofferenze degli animali.
La spiegazione delle cosiddette “ecatombi”, che venivano compiute in Grecia e dappertutto, deriva dalla funzione “vicaria” che veniva attribuita agli animali, che morivano al posto dell’uomo.
Nei sacrifici una parte consistente della vittima apparteneva ai sacerdoti. Si può capire, allora, come il monoteismo di Akenaton fallisse, avversato dai sacerdoti degli altri templi che erano stati fatti chiudere dal faraone. Si comprende anche come i sacerdoti del tempio di Gerusalemme avessero, oltre ai dolori reumatici perché dovevano camminare scalzi sui pavimenti marmorei, malattie uricemiche, avendo l’azotemia alta per il continuo uso della carne.
Oltre a questo carattere “sostitutivo” sacrificale, gli animali nelle antiche religioni hanno sempre avuto un valore in sé, fino ad essere creduti dotati di anima immortale. Pitagora e Anassagora, a differenza degli Stoici che ritenevano l’animale un’emanazione divina, pensavano che le anime
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degli animali, imperiture come quelle degli uomini, scaturissero dall’Anima del Mondo, forza e sostanza intermedia tra il cosmo e Dio. Così pensavano anche Platone e gli Alessandrini.
Aristotele distingue tre anime: vegetativa o nutritiva, sensitiva e razionale. Attribuisce la prima alle piante, la seconda agli animali, la terza agli uomini. Sarà il filosofo inglese Bacone a rifiutare l’anima vegetativa. Cartesio, in seguito, dichiarando che gli animali sono automata, “macchine”, li priva dell’anima sensitiva.
I cattolici, facendo propria l’opinione di Cartesio, con l’intento di conciliare fede e scienza, si immettono in una via sbagliata. L’oratoriano Malebranche, dando un calcio a una cagna gravida che lo importunava con i suoi guaiti, mentre discorreva di filosofia con un amico, si giustificò così: “Non si preoccupi! Questa grida, ma non ha sensibilità”.
Kant e Bentham riproporranno il problema della sofferenza degli animali. La Chiesa uscirà dal buio del Medioevo che vedeva sovente in essi delle manifestazioni demoniache, con Giovanni Paolo II, il Papa che parlando del “soffio divino” presente anche negli animali e non soltanto nell’uomo, ha ridato a queste creature il valore e la dignità che esse meritano.
L’amore per gli animali è un nuovo segno dei tempi, intuito dai movimenti ecologisti e portato avanti dagli etologi, che stanno accumulando sempre più preziose conoscenze a riguardo.
Giovanni Paolo II, nella Sollecitudo rei socialis ha spronato i teologi a studiare un “nuovo rapporto uomo-animale”. Il credente, con rinnovata responsabilità, è chiamato a prendere sul serio la Creazione. Ha il compito di custodire e coltivare, di portare a compimento quanto Dio gli ha consegnato in “dono”.
La pace di Dio Creatore è anche pace e salvaguardia di tutto il Creato. Questa “nuova-antica” teologia della Creazione deve essere riscoperta e subito tradotta in prassi di fede. L’Universo, come dice il termine “universus”, deve tornare a rivolgersi “verso” l’infinito Iddio se vuol comprendere il mistero di se stesso e di ogni singola creatura.
UN CUCCIOLO DI NOME BU
Di Monica D’Ambrosio
Era piccolo. E grasso, con la pancia tonda, e morbidissimo.Aveva orecchie lunghe e tenere e due occhi che sembravano laghetti neri e profondi si agitava e non piangeva come gli altri cuccioli, ma premeva Il corpicino contro la rete, per mantenere il più possibile il contatto con la mia mano.Era tutto biondo e tremante, era la cosa più bella che avessi mai visto. -
Poi me lo misero in braccio, e mi leccò la faccia, tutta la faccia; il resto fu un sogno.Ci misero insieme ed eravamo troppo piccoli e troppo felici tutti e due per fare caso a ciò che avveniva.
Non ricordo niente di quel che dissero a mia madre quelli del canile, nè di quello che disse lei a me.Continuavo a pensare “questo è il momento più bello di tutta la mia vita”. Il Bu stava in braccio a me, e nelle mie braccia era quasi senza peso, morbido fiducioso e caldo.
Ecco, forse un’altra cosa che ricordo bene è la sua fiducia Non aveva, e non ebbe mai in seguito, nessun elemento, nessuno per fidarsi di me, ma si abbandonò ciecamente. I cani, i gatti, e soprattutto i loro cuccioli, hanno questa cosa che rende particolare il nostro rapporto con loro. Si fidano di noi, hanno questa meravigliosa fiducia che noi continuiamo a tradire.
Ogni volta, quando siamo bruschi o ingiusti col nostro cane, dovremmo ricordarci che non può capire i nostri cambiamenti d’umore, che ha riposto in noi tutta la sua fiducia, e se solo potessimo immaginare quanto ciò è importante per lui, non lo tradiremmo tanto spesso e ingiustamente. La giustizia è per il cane netta mano del padrone come per noi è nella mano di Dio. Siamo per lui l’infinito, per lui risolviamo ogni cosa. Il cane capisce se siamo giusti e coerenti, ha bisogno delta nostra coerenza per il suo stesso equilibrio. La qualità della sua vita dipende esclusivamente da noi, ed è questo che dobbiamo pensare quando prendiamo un cane, un gatto, o qualsiasi animate.
Il Bu era il primo cane che raccoglievo da un canile. Quelli che avevo avuto prima appartenevano già alla mia famiglia, o li avevo ricevuti in dono. Ma adottarne uno era quello che avevo sempre
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desiderato: salvarne almeno uno, e fargli vivere una vita bellissima e felice, il più a lungo possibile... Avevo undici anni, lui due mesi. Seduta in macchina di fianco a mia madre con lui in braccio andai a casa. Lo portai in camera mia e lasciai che si ambientasse. Lui, curiosissimo, annusava ogni cosa e ad ogni nuova scoperta correva da me a cercare protezione. io mettevo la faccia atta sua altezza e gli mormoravo paroline rassicuranti, allora tornava tutto vibrante e rimbaldanzito verso nuove avventure... Cercavo di non toccarlo mai per prima, aspettando che fosse lui a venire da me spontaneamente, come sapevo andava fatto quando un cucciolo varca per la prima volta la soglia di casa; lui comunque non sembrava affatto a disagio. Era visibilmente fuori di se dalla gioia: correva, saltava, ringhiava per invitarmi al gioco. Solo quando qualcuno faceva capolino dalla porta della mia camera, tremava e correva a rifugiarmisi in braccio. Giocò per un bel pezzo, fece diverse pozzettine di pipì e alla fine si addorment6 sfinito dalle emozioni tra te mie braccia.
Restammo così io immobile per non svegliarlo, lui che dormiva profondamente, coi piccoli scatti dei sogni che hanno cuccioli. Passarono più di due ore, netta mia camera si fece buio, e non osavo muovermi per accendere la luce. Poi si svegliò e cercò da bere: terminò in quel momento tutta la nostra breve enorme felicità, quando gli portai dell’acqua e la vomitò poco dopo.
A me fu concesso di vederlo giocare solo quell’unica volta, a lui di essere un cucciolo come gli altri solo quel pomeriggio con me. Poi cominciò il calvario.
Al primo vomito non feci caso. Ero ancora troppo piccola per intendermi di malattie animati. La sera preparai la sua pappa un po’ più abbondante del dovuto, ma lui era così grasso, e aveva giocato così tanto, che ero sicura che non gli avrebbe fatto male. Invece vomitò tutto dopo cinque minuti. E cominciò a tossire: era la tosse più terribile che avessi mai sentito, e più era scosso dalla tosse e dai tremiti e più mi guardava e mi chiedeva scusa. Scusa per aver sporcato per terra, scusa per non aver mangiato, scusa perchè lo guardavo così preoccupata.
La tosse era molto brutta, scassava tutto il suo corpicino in modo impietoso e lo lasciava letteralmente sfinito, privo di forze. Mia mamma e suo marito si guardavano perplessi, senza dir niente.
Poi Bu sembrò riprendersi, la brutta tosse cessò, e ricominciò a cercare di tirarsi su a giocare. Lo riportai in camera mia, e lui non mi mollava un attimo. Era evidente che si era affezionato a me in maniera smisurata nel giro di poche ore, come nessun cane che avevo avuto prima aveva mai fatto. La sua dipendenza era commovente: se solo mi allontanavo per un attimo, attaccava a piangere disperato, e non appena tornavo, cercava in tutti i modi di arrampicarsi, insinuarsi addosso a me per addormentarsi in braccio. Conoscevo abbastanza bene i cani per capire che quel cucciolo aveva una straordinaria sensibilità e una intelligenza non comune. Capiva per istinto ogni stato d’animo di chi amava e cercava, per quanto poteva, di prevenirlo. Pur così piccolo, registrava ogni minima variazione o tono di voce e vi si uniformava; era praticamente impossibile nascondergli qualcosa: aveva troppo bisogno di sicurezze, calore e conforto, i suoi occhioni nocciola non mi perdevano mai di vista.
Venne l’ora di dormire e me lo portai a tetto. L’emozione, quella giornata, era stata grande per tutti e due, crollammo uno vicino all’altra come sassi.
Sentire il suo pancino caldo e il suo respiro lieve accanto al mio mi faceva nascere dentro sentimenti assoluti di protezione. L’avrei difeso io da tutto ‘il resto del mondo. Continuavo a pensare che gli avrei dato una vita bella, bellissima. Purtroppo per6 non potevo difenderlo da se stesso. Quella notte il Bu scivolò giù dal mio letto e and6 in un angolo della stanza a fare i suoi bisogni. L’odore era tanto forte e nauseabondo che mi svegliai di soprassalto. Accesi la luce: e negli occhi del Bu c’era di nuovo quell’aria colpevole. Mi avvicinai per pulire e mi accorsi che quella roba liquida e maleodorante... si muoveva! Era tutta un movimento, sembrava avere vita.
Spaventata corsi a svegliare i miei, che vennero a vedere. Fu chiaro che il Bu aveva i vermi. o meglio: era letteralmente divorato dai vermi. Il suo pancino non era grasso, come all’inizio
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avevamo pensato: era soltanto pieno, gonfio di parassiti. Ecco perchè vomitava tutto ciò che mangiava. Ripensandoci adesso, doveva già trovarsi alto stadio finale: i vermi, che prima si nutrivano di quello che mangiava, adesso non tolleravano più nessuna influenza esterna. Erano autosufficienti all’interno del suo organismo. Dire che quelli del canile avrebbero dovuto curarlo prima e comunque avvisarci era solo una sterile considerazione.
Il mattino dopo eravamo dal veterinario. Ma non ne avevamo ancora uno nostro, di fiducia e, soprattutto, vent’anni fa non esistevano ancora le cliniche veterinarie e tutta la serie di nuove tecniche e acquisizioni che ci sono adesso. Più di tutto, non esisteva ancora, nei veterinari, come nei proprietari, il valore delta vita animate. La via più ricorrente e più comoda era rappresentata ancora dalla facile eutanasia.
Net caso nostro, del Bu in particolare, penso che non ci presero mai molto sul serio, che non si interessarono mai al suo caso. Tra l’altro il povero Bu non aveva neanche quella piccola cosa che avrebbe dato un significato alla sua esistenza: un pedigree. Ricordo che ero piccola, e completamente nelle mani di quei due veterinari, ma mi vennero ugualmente questi pensieri. Fin dal primo momento.
Avevo curato dai vermi tanti e tanti cuccioli, quelli che la mia cagna da pastore Cockey aveva partorito nelle sue numerose cucciolate, e quelli che avevo visto nascere alla Leal, nella casa di campagna di mio nonno. E non mi ricordavo che avessero dato mai veri e propri problemi. Bastava sverminare i cuccioli in tempo e periodicamente, fino a che non avessero sviluppato una flora intestinale adeguata che combattesse da sola contro le parassitosi.
Ii Bu invece aveva “vermi speciali’, così ci dissero. Molto più pericolosi dei comuni ascaridi dei cuccioli, e lui era troppo piccolo per reggere una “terapia d’urto abbastanza efficace da eliminare questi vermi che lo stavano divorando vivo. Bisognava curarlo coi metodi tradizionali e sperare. Sperare e stare a guardare.
Agli occhi di quei veterinari — non ai miei — il Bu era un “pacco”. Continuavano a scaricare la colpa della loro inefficienza ripetendo che questi sono i risultati del prendere un cane dal canile: non si sa mai cosa ti porti in casa!
Bellissimo e paffuto, un vero cucciolo il Bu lo era sembrato solo quel primissimo giorno. Già il giorno dopo aveva perso la gaiezza tipica dei cuccioli.
Net giro di pochi giorni cominciò come a sparire sotto i miei occhi poco alla volta Ma per me, che passavo 24 ore su 24 con lui, il Bu non era un pacco. Era un vero cane. Probabilmente il cane più eroico e coraggioso che avessi mai visto. Era attaccato a me e alla vita, e voleva vivere. Continuava a cercare di darmi dimostrazioni del suo affetto come poteva, in ogni momento, in ogni modo possibile. Sopportava tutto, ogni cosa che gli capitava, ogni cura, ogni eccesso della sua malattia con autentico eroismo. La sua fiducia in me era tale che non una volta protestò per le cure, che pure erano dolorose; accettava tutto pazientemente, e non trascurava mai, alla fine di ogni cura, di leccarmi la mano.
Ormai le manifestazioni con le quali poteva dimostrarmi il suo affetto erano molto ridotte, a fatica riusciva ad alzarsi in piedi per venirmi incontro; cercava di alzarsi e finiva per dover accontentarsi di dimenare la coda e darmi la zampa. Io ormai non andavo neanche più a scuola Vegliavo su di lui notte e giorno, come mi avevano detto, ma era una vera tortura vedere questo esserino che non aveva fatto male a nessuno e cercava solo di vivere, lottare così disperatamente contro la sua malattia, e vederlo sempre più soccombere, perdere ogni vitalità e ogni forza e farsi sempre più magro.
Adesso, tutti i pomeriggi dovevo prendere il mio fagottino di ossa e portarlo nello studio del veterinario a fargli fare la flebo: ormai non assimilava più niente per bocca, il suo stomaco non tollerava nemmeno più l’acqua, e ogni pomeriggio me lo riportavo via col suo gonfiore tipo una patta, causato dalla flebo, che risaltava impietosamente sul corpicino pelle e ossa. In capo a una settimana il Bu era lo spettro di se stesso, faceva pena a guardarlo. Di lui rimanevano ormai solo le lunghe orecchie e gli occhi, che diventavano sempre più grandi, smisuratamente allargati, dentro al musetto scheletrico.
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Se ancora oggi, dopo tanto tempo, e dopo tutte te cose brutte che ho visto capitare agli animati, scrivo, ricordo e sento ancora così dolorosamente tutto questo. E perchè la morte che ha fatto quel cucciolo è stata tanto ingiustificata quanto terribile. Nessuno ha fatto realmente niente per curarlo. Nessuno, a parte me che ho vissuto tutta intera quell’agonia, sa quanto questa sia stata crudele e quanto tutto questo poteva essere evitato.
Allora avevo undici anni e non lo sapevo, ma quella terapia, oltre che lenta e dolorosa, era semplicemente e grossolanamente errata.
Nessuno voleva più entrare in camera mia per non doverlo vedere. Inoltre l’odore che cominciava a formarsi era inequivocabilmente quello della morte. Vicino alle sue coperte, dove ormai stava tutto il giorno, tranne che per andare a fare la flebo, c’era un catino di plastica arancione contenente la verde bile vischiosa degli accessi di vomito sempre più forte, che gli avevano divelto il fegato. Non si capiva bene come quel mucchietto di ossa potesse avere ancora la forza di scodinzolare e di essere contento quando lo accarezzavo, ma lo faceva. La vita adesso era solo dentro ai suoi occhi. Sollevarlo per portarlo a fare la sua flebo era sempre più penoso: anche se come al solito mi lasciava fare, si capiva che non ne poteva più: il più piccolo movimento era per lui faticoso. Un giorno dissi a mia madre che non l’avrei portato più. Tutta quella tortura non serviva a niente, ormai. Il Bu era allo stremo delle sue forze, respirava sempre più a fatica e chiedeva solo di essere lasciato in pace. Io piangevo, urlavo che l’avevano torturato per niente, che l’avevano. ammazzato con le loro inutili terapie, ero arrivata anch’io, credo, al limite delle mie forze, e adesso non avevo più fiducia in nessuno. Istintivamente avevo capito che era arrivata la fine e dissi a mia madre che l’unica cosa di cui il Bu aveva bisogno erano le mie carezze, il mio conforto, che mi sarei chiusa in camera vicino a lui e che non volevo che nessuno entrasse o bussasse alta porta.
Credo che si rendesse conto quanto me che stava morendo, e i suoi grandi occhi riconoscenti, benchè pieni di paura e stremati, si illuminarono di gioia quando mi sdraiai accanto a lui. Ebbe un piccolo sospiro di soddisfazione e si sistemò più vicino a me. Io continuavo ad accarezzarlo piano, a dirgli non so più cosa, cercavo di non mettermi a piangere perchè sapevo che se ne sarebbe accorto. Riflettevo anche sui perchè, che allora mi sembravano incomprensibilmente ingiusti, pensavo a Dio, a tante cose... A un tratto il Bu fu preso da una delle sue tossi violente. Questa volta era peggiore di tutte le altre vomitava bava e sangue e io non potevo fare assolutamente nulla.
Cercavo di sorreggerlo, di calmarlo, lui mi guardava ancora come per chiedermi scusa e subito dopo era colto da uno spasmo sempre più violento. Mia mamma e suo marito spaventati corsero in camera e il Bu tossì ancora più forte. Io li cacciai via urlando, tenevo il Bu tra le braccia ed era come tenere un mucchietto d’ossa, fragile e doloroso. Poi come era venuta, la tosse passò e lui crollò addormentato. Lo tenevo in braccio e gli parlavo, e a un certo punto credo di essermi addormentata anch’io, perchè quando riaprii gli occhi era già sera, e il Bu mi stava leccando la mano. Mi spiava con occhi ansiosi, aveva paura che mi alzassi, che lo abbandonassi. Aveva intuito quel che volevo fare, perchè in effetti volevo sgranchirmi te gambe. Ero tutta intorpidita, e avevo male alla schiena per la giornata passata senza muovermi... e lui, nella sua meravigliosa sensibilità, che non si era attenuata con la malattia, l’aveva intuito, e adesso mi guardava ansioso. Non voleva che andassi via. Anche guardarmi gli costava fatica, respirava solo di tanto in tanto, come a singulti, ma continuava a guardarmi. Era come se stesse cercando di dirmi qualcosa, qualcosa che sentiva e che gli faceva paura... Quel piccolo cane che per tutti quei giorni aveva lottato tanto coraggiosamente contro la morte stava per perdere la sua battaglia, e voleva dirmelo, ma non aveva più nè le forze, né i mezzi. Mi sistemai meglio vicino a lui dicendo “Non vado via, Bu, sto qui con te”. Bu alzò gli occhi e mi leccò la mano. Continuò a leccarmi la mano, fino a che, poco dopo, la morte non glielo impedì.
Sono sicura che in quell’estremo sforzo di amore e di affetto aveva voluto dirmi grazie. Grazie per tutto, grazie di nulla. I miei presero il suo corpicino e lo portarono via, io non mi curavo più di niente. Fu un sollievo per tutti che il Bu fosse morto, anche per me che lo avevo amato così tanto.
Ancora oggi penso che la fine delle sue sofferenze sia l’unica cosa buona della sua breve esistenza.
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Dopo il mio lungo viaggio ho incontrato di nuovo il mio Bu, ora sta bene, non ha più i vermi ed è un cane forte e felice. Ha conservato tutta la morbidezza del suo pelo, il tartufino umido e scodinzola da vero cane. Ha continuato a crescere. E’ stato uno dei primi a venirmi incontro, ad assalirmi leccandomi la faccia come faceva quando era vivo. Poi sono corsi Sasha, l’husky Arturo, Chetzu e Kajsentalija.
Sono felice qui con loro ed è troppo reale per essere solo un sogno.
KARMA
Di Rosmary Altea
«Gli animali sopravvivono?»
Questa è una domanda che mi viene posta di frequente e sebbene ne abbia già parlato brevemente in “Una lunga scala fino al cielo” raccontando la storia di un uomo che arrivò dal mondo degli spiriti con due oche sottobraccio, ho pensato che sarebbe stato bello condividere con voi altre storie di animali.
La risposta alla domanda è: “Si, gli animali, quelli che abbiamo amato, quelli con cui avevamo avuto un rapporto speciale, sopravvivono alla morte. Vedo spesso degli animali, sia in consulti privati sia durante le conferenze. Vengono inseriti nella comunicazione da un parente stretto o da un amico intimo. Mi trovavo una volta in una libreria di Danbury, nel Connecticut, per firmare copie del mio libro e ho potuto riferire a una donna che il cavallo da lei adorato, morto tragicamente agli inizi dell’anno, era in un posto sicuro e stava bene.
Naturalmente ho molti clienti che hanno perso i loro animali da compagnia. Me ne viene in mente una in particolare. Quando mi telefon6 per fissare un appuntamento mi chiese se mi sarebbe stato possibile stabilire un contatto con la sua cagnolina, Susie, che era morta poche settimane prima. Era questo l’unico motivo per cui veniva a trovarmi, perchè, disse, i cani erano tutto per lei, erano la sua famiglia. Quando venne per il consulto, non solo vidi Susie, che essendo un cane piccolo, era stato portato in braccio dalla nonna della donna, ma mi fù mostrato anche un giardino, un posto in cui crescevano alberi e piante e splendidi fiori. In questo giardino vidi molti animali: cani, gatti, conigli, che giocavano insieme felicemente. Potei quindi dire alla mia cliente che Susie sgambettava spesso in quel giardino, che giocava con gli altri animali e che era felice.
Una mia amica e studentessa, Joan Carter, aveva perso il suo piccolo yorkshire terrier ed era disperata. Un giorno, due o tre settimane dopo, mentre ci trovavamo nell’aula e stavamo per iniziare la lezione, alzai gli occhi dalla cartella che tenevo sulle ginocchia e vidi quel piccolo cane, sano e felice, seduto sulla spalla della mia amica, proprio come era solito fare prima di morire. Joan si emozionò quando glielo dissi. Il sapere che era al sicuro l’aiutò nel suo dolore.
Forse però 1’esempio migliore che posso raccontare nasce dalla mia stessa esperienza dell’aver perso e poi ritrovato i miei amati cagnolini. Comincerò dall’inizio.
Karma morì il primo di giugno del 1994. Mentre lo seppellivo in giardino, sotto un rododendro dai grandi fiori bianchi, mi tornarono in mente ricordi del nostro incontro, avvenuto tredici anni prima. Mia figlia Samantha, che allora aveva dodici anni e mezzo, mi aveva implorata di prenderle un cane, un King Charles Cavalier, uno spaniel bianco e marrone rossiccio. Era stata molto precisa circa la razza e il colore, ma sebbene avessi fatto una minuziosa ricerca per tutto il paese, non mi era riuscito di trovare un allevamento di cani che avesse ciò che volevamo. Per di più, ogni volta che chiedevo aiuto ad Aquila Grigia, lui mi mostrava la fotografia di un cucciolo dalle lunghe orecchie beige pallido.
Ebbene, sono certa che sapete già che cosa sto per raccontarvi. Quando avevamo oramai perso ogni speranza di trovare il cucciolo, chiamai l’ultimo allevamento dell’elenco. No, non mi potevano aiutare, ma, ecco, avevano sentito parlare di una donna che di tanto in tanto aveva a disposizione delle figliate di cani di quella razza. Non aveva un vero e proprio allevamento, li tirava su in casa. Mi diedero ii nome della signora Rix, ma non avevano il suo numero di telefono. Quando udii ii nome lo collegai immediatamente a quello di una mia cliente. Poteva trattarsi della stessa persona?
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Era un ultimo tentativo che comunque valeva la pena fare.
Sfogliai il mio schedario, trovai il numero di telefono e lo composi. Parlai con una giovane che mi disse di essere la figlia della signora Rix e io le domandai titubante se erano loro i Rix che allevavano spaniel King Charles. «Si», rispose. «Ora abbiamo una figliata, tre femmine e un maschio.» Le dissi che avrei richiamato e le chiesi di riferire a sua madre che ero interessata al cagnolino maschio, quindi le posi la domanda di cui già conoscevo la risposta: «Di che colore sono?»
«Blenheim», rispose la ragazza. «Bianco e beige.»
Quello stesso giorno Marie Rix ci portò il cagnolino; aveva solo due settimane di vita, era tanto piccolo che stava nel palmo della mia mano. Era vivace e agitato, ma quando me lo posi istintivamente sul collo, lui si raggomitolò e quasi s‘addormentò.
Marie sorrise. «Crediamo di essere noi a scegliere cani», disse, «ma in realtà sono loro che scelgono noi e io penso, Rosemary, che lui ti abbia appena scelta.»
Samantha era felicissima e attendeva con ansia il giorno in cui ce lo saremmo finalmente portato a casa. Quattro settimane più tardi Marie Rix ci telefonò per informarci che potevamo andare a prenderlo, due settimane prima di quanto avessimo programmato inizialmente. «Sta facendo impazzire le sorelle, insegue senza sosta le loro code e si sta rendendo insopportabile», disse ridendo. «Per essere sincera, temo che lo troverete piuttosto difficile da trattare.»
Ma io non ero preoccupata. Dopotutto Aquila Grigia mi aveva guidata verso quel cucciolo, ne ero certa. E cosi, insopportabile o no, era destinato a me.
Lo chiamai Karma, dal termine indù che indica la forza generata dalle azioni di una persona, o anche il respiro della vita. Forza, energia. vibrazione, respiro, in qualsiasi modo venga chiamata, io avevo l’impressione che quella forza, quell’energia fosse in parte questo cucciolo a me destinato.
Quando non aveva ancora un anno d’età, decisi che aveva bisogno di un compagno di giochi. per cui mi guardai in giro e, con molta minore difficoltà, questa volta trovai Jasper, un altro spaniel. Divennero immediatamente amici e per i tre anni seguenti li osservai crescere e giocare insieme.
Sebbene fossero della stessa razza, trovai stupefacente la loro diversità di carattere. Jasper era vivace, saltellante, sempre pronto a balzarmi in grembo appena mi sedevo; Karma, dopo i suoi vivaci giorni da cucciolo, era più malinconico, un cagnolino dolce e quieto.
Quando Jasper aveva due anni e mezzo e Karma uno di più, seppi che uno dei miei due piccoli amici sarebbe morto. Un giorno stavo parlando di loro a un’amica quando ebbi una visione, o più precisamente, vidi un’immagine, lo spirto di Jasper che si dirigeva verso il cielo, e ne rimasi turbata. Chiesi ad Aquila Grigia altre informazioni, pensando che avrei potuto impedire la morte di Jasper se ne avessi conosciuto le circostanze, ma non ricevetti ulteriori dettagli. Capii che ciò che avevo visto era inevitabile.
Ciò nonostante, la speranza non muore mai. Tre mesi più tardi, dopo avere catturato e scrollato a monte un grosso topo che aveva trovato nel frutteto, Jasper ebbe una grave emorragia che lo ridusse quasi in fin di vita (Scoprimmo in seguito che il topo aveva ingoiato del veleno). Mi convinsi che doveva essere quello l’episodio che avevo previsto.
Due mesi dopo, furibondi temporali e forti venti misero fuori posto alcune assi del recinto del giardino, creando una apertura alla base, tanto piccola da sfuggirmi, ma abbastanza grande per lasciare passare un animaletto curioso come Jasper. Lui corse fuori in strada, direttamente davanti a un camion.
L’autista pigiò i freni troppo tardi per evitarlo e Jasper, tra le mie braccia, visse quel tanto da potere udire la mia voce che gli diceva quanto l’amavo. Mi guardò un’ultima volta e io vidi i suoi occhi appannarsi. Trasse un profondo respiro, sospirò e morì. Con il cuore infranto, piansi per giorni e per molte settimane, addirittura mesi; ogni volta che entravamo in casa Karma correva in giro, su e giù per le scale, alla ricerca del suo amico.
Anch’io l’avevo cercato, in modo diverso, con la speranza di intravedere lo spirito di Jasper nel mondo ultraterreno. Passarono molti mesi prima che ci riuscissi, e poi mi capitò di farlo in modo piuttosto inaspettato. Era mattino. Karma era seduto sul letto con me e io stavo per alzarmi quando
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sentii qualcosa di caldo e di umido sulla nuca. Stupita, mi girai per capire che cosa fosse e vidi molto chiaramente Jasper mettere il naso nei miei capelli, fiutando e spingendo come era solito fare. Sentii il suo respiro e il suo odore e vidi anche la reazione di Karma. Scodinzolava a tutto spiano e piangeva dall’eccitazione. Per almeno dieci minuti noi tre fummo di nuovo insieme, i miei «ragazzi» e io. Poi, rapidamente come era venuto, Jasper se ne andò.
Da quella volta lo rividi spesso e capii così che stava bene e che era felice. Non presi mai un altro cane, anche se ci pensai di tanto in tanto, ma avevo l’impressione che Karma fosse felice cosi com’era e per i seguenti dieci anni fu il mio unico e fedele compagno.
Invecchiando, Karma cominciò a soffrire di un soffio al cuore, le sue giunture si erano irrigidite e lui si muoveva a fatica, pieno di dolori. Anche quando soffriva era comunque sempre un essere amorevole, un cagnolino gentile.
Nel corso degli anni gli ho imposto spesso le mani per curarlo. Era un piccolo animale sensitivo e a volte, senza un motivo apparente, si sedeva di colpo e fissava il soffitto o gli angoli della stanza, muovendo bruscamente la testa da un punto all’altro come se stesse seguendo qualche movimento. Le persone che non ci conoscevano trovavano il suo modo di fare irritante, ma io sorridevo e le rassicuravo dicendo loro che si trattava solo di qualcuno che era venuto a trovare Karma.
Durante gli ultimi mesi di vita il suo stato si aggravò. I polmoni gli si erano riempiti di liquido e aveva il cuore debole. Gli imponevo le mani ogni giorno anche parecchie volte, cosa che riusciva sempre a confortarlo e a calmarlo. Come sempre sentivo il centro dei miei palmi scaldarsi e pulsare, segno che l’energia fluiva da me al cane.
Karma non era un animale particolarmente canino. Era strabico, con l’età cominciò a puzzare in modo tremendo e perdeva i peli a ciocche. Ma era un piccolo cane gentile e affettuoso, molto amato da me e da Samantha. Quando si ammalò, trovai conforto nel fatto che, imponendo le mani su di lui e usando la mia energia combinata con l’energia di Dio che invocavo di ricevere, riuscivo ad alleviare il suo dolore.
So che quelli di voi che amano gli animali, e che hanno vissuto situazioni simili, vorrebbero possedere la capacità di guarire. E anche coloro che hanno vicino una persona cara ammalata e sofferente.
Sono certa che tutti noi, fino a un certo punto, abbiamo il dono di guarire, che siamo nati con questo dono. Quando per esempio un bambino cade e si ferisce a un ginocchio, istintivamente lo facciamo sedere e, mettendo le nostre mani sul punto leso, diciamo: «Vedrai che cosi guarisce meglio». Se abbiamo mal di testa, istintivamente portiamo le mani sulla fronte e ci massaggiamo le tempie. Abbiamo una capacita innata di curare toccando, trasmettendo energia. Nel mio prossimo libro approfondirò questo tema e vi mostrerò come, con semplici esercizi, possiamo tutti sviluppare in una certa misura questo dono.
Alla fine venne il giorno, il giorno che tutti noi che amiamo i nostri animali temiamo. Era giunta l’ora di prendere la decisione finale, quella che avevo pregato di non dovere mai prendere. Non mi stupiva il fatto che Karma stesse morendo, Aquila Grigia mi aveva avvisata in anticipo, come aveva fatto con Jasper, indicandomi addirittura il mese. Ancora una volta ebbi una visione: il mio cagnolino era sdraiato sull’erba, come se stesse dormendo, sotto il sole che brillava; era giugno.
Avevo avuto quella visione quasi un anno prima. Ora era l’inizio di giugno e Karma era tanto peggiorato che capii che non potevo più rimandare. Non riusciva a sdraiarsi, a malapena stava seduto e ce la faceva soltanto appoggiandosi alla parete. Quando lo guardavo leggevo nei suoi dolci occhi 1’implorazione: «Fai qualcosa, aiutami».
Nel comporre il numero sentii il mio cuore farsi greve. Come avrei potuto farlo? mi chiesi. Quelli di voi che si sono trovati in una situazione simile lo sanno: la forza la si trova nell’amore.
Lo portai con me in giardino e me lo distesi sulle ginocchia, abbracciandolo seduta sull’erba. Quando la veterinaria avvicinò l’ago, per un attimo mi venne voglia di gridare: «No, no!» Mi morsi le labbra e, mentre le lacrime mi scorrevano copiose lungo le guance, lo strinsi ancora di pii a me, mormorandogli dolci parole d’amore. Lo guardai morire tra le mie braccia.
Non sentii la veterinaria andarsene, era venuta da me un’amica che l’aveva accompagnata alla
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porta. Per un bel po’ rimasi in serena solitudine, non volevo ancora lasciare andare quel piccolo animale che per tredici anni era stato mio amico.
Alla fine lo deposi a terra, sapendo che avrei dovuto portarlo nel suo posto preferito, il bosco in cui amava scorazzare, per seppellirlo sotto il grande rododendro dai fiori bianchi. Quando tomai per caricarlo in macchina, mi fermai e lo guardai sdraiato a terra, sembrava dormisse serenamente sull’erba, allora ricordai perfettamente la visione che Aquila Grigia mi aveva inviato l’anno prima e mi confortò il fatto che fosse giunto il suo momento.
La casa era tanto vuota. Samantha era andata a vivere da sola due anni prima e ora era morto il mio cane. Ogni sera andavo a letto con il cuore che mi doleva, perchè, per quanto puzzolente e rognoso fosse stato negli ultimi anni, Karma aveva sempre dormito accanto al mio letto e l’ultima cosa che facevo prima di addormentarmi era accarezzarlo.
La terza sera, nel bel mezzo della notte, mi svegliai, mi girai e, come sempre, allungai la mano lungo il bordo del letto per dare a Karma un colpettino rassicurante. Mentre lo accarezzavo mormorai le solite parole: «Va tutto bene, piccolino, sono qui» e «Cerca di dormire ora, ti curerò» e “Si, si, sei il mio splendido ragazzo».
Solo dopo parecchi minuti, ricordando che Karma era morto, mi svegliai del tutto. Sobbalzai seduta sul letto, la mano, la mia mano che aveva accarezzato Karma, bloccata a mezz’aria. E allora lo vidi, seduto ben dritto accanto al letto, appoggiato per metà al bordo come era solito fare. Allungai la mano e lo sentii sotto di me, compatto e sodo, peli sulla testa morbidi come seta sotto le mie dita. Girò a metà la testa e mi fissò, con un’espressione tranquilla sul viso. Il suo respiro era forte e regolare, il suo alito caldo.
Lo accarezzai ancora una volta, dicendogli quanto lo amavo. Poi, con un sorriso sul volto, sapendo che Karma era arrivato sano e salvo e che era felice, mi sdraiai di nuovo e mi riaddormentai.
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