Anarchica e peccatrice la Parigi di Léo Malet

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martee1964
00martedì 10 agosto 2010 12:23

Dal ponte di Tolbiac a rue des Rosiers, dal Marais al Louvre è facile ritrovare i luoghi delle avventure di Nestor Burma, il suo detective squattrinato
BRUNO VENTAVOLI
PARIGI

Il giallo è un genere letterario che si presta per statuto a raccontare luoghi. Così siamo andati a cercare in alcune città le tracce dei detective o degli investigatori che lì risolvevano i casi più o meno intricati creati dalla fantasia dei loro autori.

Parigi, prima la amò da lontano, poi, la conobbe pietra per pietra. Purché fossero sporche, vilipese, trascurate. Per questo Léo Malet è stato il grande raccontatore della capitale francese, il ruvido cartografo della sua anima, come pochi hanno saputo fare così minuziosamente con altre distese di strade e uomini. Era nato nel 1909 in provincia, a Montpellier, da dove Parigi si contemplava lontana come fornace di luci e sogni. Lui, povero, vagheggiava i caffè delle chansons, le case editrici, i fogli che volevano sovvertire il mondo.

Dopo la morte dei genitori, Malet era stato allevato dal nonno bottaio che gli insegnava a usare bene le mani e a coltivare la cultura. Era troppo giovane per aver visto la guerra, ma s’innamorò di quegli anarco-pacifisti che proprio dall’orrore delle trincee avevano tratto la forza di urlare. Un giorno a Montpellier ne arrivò uno, André Colomer, per una conferenza. Malet s’infatuò, e andò poi a cercarlo a Parigi, a 16 anni. Lì incontrò anarchici, surrealisti, poeti, gente stramba. Abitò qualche tempo vicino a Prévert, Breton gli fece da mentore tra gli artisti, scavezzava con Eluard, Giacometti, Aragon. Per campare le provò tutte. Scriveva poesie e faceva il magazziniere, scriveva manifesti e sgobbava come commesso o telefonista, scriveva canzoni per un cabaret che poi non pagava e si proponeva come comparsa cinematografica. Così imparò a conoscere le facce, i mestieri, le vite della città.

Appena messo piede a Parigi, Malet finì in rue Tolbiac. Mangiava in un ristorante vegetariano, filosofava tra vegetariani, e a furia di non mangiare carne capì che l’uomo è solo un dettaglio nella catena alimentare, e forse nel cosmo intero, nonostante l’arroganza che riversa sul resto del Creato. Non se la passava bene con le finanze. Talvolta dormiva sotto i ponti. E lì un giorno lo arrestarono e finì in prigione. Così conobbe anche le rive umide dei clochard, le celle stipate di dolenti spiantati, genie di delinquenti, tutti potenziali Villon.

Ormai passata la seconda guerra mondiale, e diventato scrittore di polizieschi sotto vari pseudonimi, Frank Harding, Leo Latimer, John Silver Lee, Omer Refreger, Lione Doucet, John Silver Lee... Malet propone all’editore Laffont una serie per celebrare la metropoli con piglio inedito. «Basta guardarsi intorno, il metrò aereo sul ponte di Passy, la Senna, la Tour Eiffel - dice - sono scenari straordinari che nessuno ha mai utilizzato veramente, a parte certi film». Ottima idea. Nascono così i Nouveaux Mystères de Paris, ispirati da Eugène Sue, padre di tutti i feuilleton. Il progetto è scrivere un romanzo ambientato e dedicato ad ognuno dei venti arrondissement della capitale. Tra il ’54 e il ’59 ne pubblica 15. Poi la serie si interrompe. Anche perché non riscuote il successo sperato, spesso le glorie letterarie si godono postume o in ritardo. Ma quel blocco costituisce una fantastica insuperata odissea per le strade della città, lungo l’incerto confine tra bene e male, legalità e giustizia.

Il suo Ulisse, una specie di Joyce rosolato da Chandler, è un detective privato che si chiama Nestor Burma. Alter ego di Malet, Burma è un tipo duro ma romantico, metodi spicci e anticonvenzionali nelle indagini, sagace come un veggente ma anche ingenuo e fallace, fedele agli amici, sempre a corto di quattrini, conscio di non essere superuomo né nel mestiere né nella vita. Stenta a pagare regolarmente la segretaria Hélène (unico personaggio femminile fisso, abita nel quartiere della Gare de Lyon) e si appoggia alla collaborazione di un giornalista, uno di quei mastini della cronaca che non esistono più. Sbraita, beve, fuma, guida una Dugat 12. È stato anarchico in gioventù, la vita l’ha reso più realista, gode a smascherare i mascalzoni ricchi, e non disdegna l’uso privato della vendetta. Il suo ufficio, l’agenzia Fiat Lux, si trova dove Malet ragazzo vendeva giornali come strillone.
Malet inventava Burma tra fumi di tabacco, scriveva anche cinquanta ore di fila, per tenersi su prendeva Corydrane, un cocktail di anfetamine messe fuorilegge quando si scoprì che dopava i ciclisti. «Me lo vidi apparire la prima volta nel silenzio notturno e restò sempre un uomo di notti - diceva Malet, ricostruendo la sua genesi -. Non so perché gli diedi quel nome, suonava un po’ esotico, e un po’ baraccone da luna park. Non l’ho mai saputo descrivere bene fisicamente. Magro? Grasso? Piccolo? Nella mia mente era impreciso, cambiava spesso forma».

Nestor Burma si muove nella Parigi Anni 50. Dove c’è il cinema, sordide storie maturate durante la guerra, una grandeur coloniale che va in frantumi pronta a consegnarsi al gaullismo, dove brulicano ricchi, poveri e mascalzoni, donne che perdono la testa o rendono folli. Assassini, benpensanti, politici, puttanieri, industriali. Tutti un po' colpevoli, tutti molto avidi. Compie indagini dove gli capita, al ponte Tolbiac, a rue de Rosiers, ovunque. E intanto si porta appresso il lettore nel labirinto della città, che Malet conosce bene. Ogni pedinamento di Nestor Burma è preciso. Un bistrò. Una panchina. Un marciapiede. Un concierge. Una verduraia. Prende l’avenue, taglia il boulevard, attraversa il parco, svolta a sinistra, poi entra nel secondo vicolo a destra. Le descrizioni topografiche nei romanzi sono come un gps, ma i navigatori non esistevano ancora, e talvolta i lettori si smarrivano in una «rue» di second’ordine, sperduta, infrattata tra casamenti trascurati. Altre volte si sbaglia anche lui, Nestor Burma, il cacciatore di crimini: nel XVI arrondissement, finisce nel tortuoso Passage des Eaux, luogo sconsigliato dai flic, e lo aggrediscono.

Malet tiene tutta la città nei libri. C’è da fare nei quartieri eleganti, al Louvre, sugli Champs-Élysées. Ma Nestor Burma lì si trattiene il meno possibile. Qualche rigo nascosto per dire quel che sono, poi se ne va via subito. Preferisce cercare storie in luoghi che si vedono meno in cartolina. Per esempio, in rue Vaugirard, nel XV, che ha fama di essere zona d’artisti, o tra le fabbriche del XIII, un po’ operose un po’ abbandonate, con carcasse di macchinari, depositi fantasmatici.

È una città vera e autentica quella che Malet racconta. Gli bastano poche parole per fotografare i luoghi. E chi passeggia con i suoi libri in tasca può davvero divertirsi a ricostruire tappe, provando quel delizioso senso di euforia che sempre induce il ricordo di una finzione tradotto in situazione viva, come trovarsi d'improvviso in una piazzetta nota ed esclamare all'amata, «questa l'ho letta». Ma la metropoli che Malet in fondo voleva raccontare era quella degli uomini, che costruiscono case e monumenti solo per tenere più nascosti i propri peccati e le proprie ingordigie. I palazzi del Marais, per esempio, sono frutto delle malversazioni d'antichi gabellieri, o di investimenti studiati da chi ha tanti soldi perché ha evaso il fisco. E nelle bettolacce dove bazzicano antichi guerrieri di sinistra, pochi hanno ancora in tasca il lievito dell’onestà, l'unico che fa fermentare i sogni belli. Parigi, come la vita, «è uno schifo». D’altronde si intitolava così anche un suo romanzo. C’era una volta un sindacalista che rapinava banche per sovvenzionare scioperi. Ma tutti l’hanno abbandonato. E lui è scivolato nella violenza, in quella città che si mangia e digerisce ogni destino.
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