Alone, toghether

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=Ereandil=
00venerdì 12 giugno 2009 17:11


Tratta da : Cowboy Bebop



Alone, together

di Stella



Ha capito che era lei nel momento stesso in cui ha messo piede nella stanza. È come se stesse cercando di farsi prendere, o di farsi ammazzare, il che praticamente è la stessa cosa. Non sta rincorrendo altro da mesi, da anni. Gli indizi che ha lasciato portano inciso il suo nome a caratteri d’oro. Impronte digitali, capelli, perfino la sua voce registrata sulla segreteria telefonica.

"Sto arrivando. Preparati."

L’appartamento è stato messo a soqquadro, ed è riuscito a entrare esibendo a una matricola troppo inesperta un vecchio tesserino che, in tempi migliori, non avrebbe fregato neanche l’addetto alle pulizie. I vicini parlano dell’ennesimo ladro, non si può stare tranquilli nemmeno di giorno, una volta questo era un quartiere rispettabile… il solito repertorio che ogni poliziotto che abbia fatto un po’ di servizio sulle strade conosce a memoria.

L’appartamento è il suo, l’ha preso tanti anni fa usando un nome di copertura che nessuno collegherebbe mai a lui. Come abbia fatto lei a scoprirlo, è una delle cose che le chiederà quando le metterà le mani addosso. A una prima occhiata non manca nulla, ma questo non lo stupisce affatto. Un vero tocco di classe; la sua unica intenzione era comunicargli che sapeva come e dove trovarlo.

Stava per prenderla il mese scorso, ma gli era sfuggita all’ultimo momento, un guizzo felino e si era già dileguata nelle tenebre. Avrebbe potuto inseguirla, o spararle nel buio, ma non ha fatto nessuna delle due cose. Non gli interessa la taglia, che pure ha più zeri di tutti quelli che gli sia mai capitato di incrociare in tanti anni di onorata carriera.

Non ha fretta, è solo questione di tempo.

Esce in strada, ma si ferma un attimo nel vano della porta. Dal cielo cade una pioggia nera e pungente che si attacca ai vestiti e graffia la pelle. Quel tipo di pioggia che sembra penetrare ogni singola fibra dell’organismo, per annidarsi in fondo ai polmoni e tagliare il respiro. Alza gli occhi, si passa una mano sul mento ispido e osserva le gocce scendere senza un suono.

È ferita, seriamente questa volta, e le serve un posto dove riposarsi. Non ha molta scelta, ha fatto terra bruciata degli altri e lui si sta già dirigendo nell’unico posto abbastanza sicuro che conoscono entrambi.

Sto arrivando, preparati.

"Lo so che sei qui." Il dito è sul grilletto, ha rinunciato alla sua arma preferita in favore di una pistola dalla canna lunga, simile a quella che usava lui. Leggera, bilanciata, ideale per gli ambienti chiusi e spaziosi come questo capannone nei pressi del porto.

"Lo so che sei qui", ripete più forte, come se volesse tenersi compagnia con la sua stessa voce. Una volta era più semplice, una volta c’era qualcuno a coprirgli le spalle, qualcuno su cui contare. E questo mestiere aveva in sé qualcosa di romantico e nobile, oltre che di rischioso. Avevano avuto la possibilità di tracciare un confine, una linea sottile ma concreta e solida tra il bene e il male, tra l’onore e il tradimento, tra la paura e la codardia.

Tra l’odio e l’amore, forse, anche se alla fine nessuno di loro ci era poi riuscito. Erano finiti tutti stritolati dalle spire dell’odio e dei ricordi, che si rifiutavano caparbiamente di cedere il passo al presente. Dell’amore non era rimasto che una flebile traccia, mentre dell’odio… di quello ne rimane sempre, ce n’è sempre in abbondanza.

Le luci del porto illuminano deboli l’interno, una scia scura che serpeggia lungo il pavimento e una sagoma addossata alla parete. Sembra addormentata, ma ha già visto questa scena e non ha dimenticato l’ultimo ingenuo che ha fatto l’errore di sottovalutarla. Si ricorda quel che stava per succedergli, se lui non avesse fatto fuoco per primo. L’aveva nel mirino, il suo viso oppure il suo cuore, aveva solo l’imbarazzo della scelta, e ha optato per un punto a caso al di sopra della spalla. Una nube di polvere, frammenti di muro che rimbalzano sul suo viso e sulla sua pelle, le sue labbra che si curvano in un sorriso e gli occhi che incrociano i suoi, che scavano nei suoi anche a quella distanza, anche se lui è nascosto e la sta osservando attraverso un mirino telescopico a raggi infrarossi.

Si è sempre chiesto perché abbia mancato il bersaglio, quella volta, lui che non sbagliava un colpo da… da sempre, a occhio e croce. Adesso conosce la risposta.

Il dolore, la delusione, l’impotenza, la fragilità, l’umiliazione… e l’amore, naturalmente. Tutte emozioni inaspettate e indesiderate, e che le sono rovinate addosso con la forza devastante di un sogno che muore. Lei, così abituata a prendere senza chiedere, si è ritrovata nello spazio di una notte svuotata come il più fragile dei forzieri, scoperta come la più banale delle combinazioni.

"Quella ferita, dovresti medicarla."

"Tu dici?"

Fa un passo avanti, circospetto. Lei si muove appena, un rumore metallico tradisce le sue intenzioni.

"Non ci provare, Faye. Non con me." Fa scattare il grilletto, tanto perché sia chiaro che non si è presentato all’appuntamento a mani vuote, dopo tanto tempo.

"Mi spareresti sul serio?"

"Non lo so, ma non ti conviene mettermi alla prova una seconda volta."

Lei ride, un suono gutturale e morbido. Gli è sempre piaciuta la sua risata, ironica, sprezzante o sincera che fosse.

"Sei venuto per la taglia, Black Dog?"

Lui si irrigidisce. Stringe le dita intorno al calcio della pistola. Sono pochi quelli che conoscono la genesi di questo nome, e ancora meno quelli che sono sopravvissuti al tempo in cui l’utilizzava. Lei l’ha pronunciato con consapevole freddezza, al solo scopo di amplificare la distanza che li separa, non solo quella fisica.

"Sono venuto per te."

"Oh. Davvero?"

Adesso che gli occhi si sono abituati alla penombra, distingue perfettamente i suoi contorni. Si sta stringendo il braccio, lungo il quale cola qualcosa di vischioso. La tiene sotto tiro, ma si avvicina ancora, finché non è a meno di un metro. Adesso vede bene i suoi lineamenti contratti nello sforzo di controllare il dolore, il suo petto alzarsi e abbassarsi veloce.

Paura? Rabbia? Lei solleva piano il braccio ferito, la pistola è piccola ma da quella distanza può fare molto male, se si mira al punto giusto. E lei sta puntando diritto agli occhi.

Il suono di una sirena, lontano. Poi, un silenzio che si dilata veloce nello spazio, secondo dopo secondo.

"Bang", dice lei un attimo prima di svenire.

Ha medicato la ferita alla meglio, poi l’ha sollevata tra le braccia, leggera come un sussurro nel buio. Ha raggiunto in fretta un altro dei suoi rifugi, uno di quelli che usava prima di conoscere Spike, a prova di bomba. L’ha depositata sul letto, l’ha coperta con delicatezza e infine si è seduto a guardarla, finché non si è svegliata. Lei si è tastata il braccio e la spalla, ha fatto una smorfia e si è sollevata a sedere, scostando il lenzuolo.

"Perché?", ha chiesto semplicemente.

"Perché no?", è stata la sua risposta. C’è un mare di cose che vorrebbe dirle, che deve dirle, ma in questo momento le parole sarebbero solo patetiche caricature di un’intera esistenza, marionette che cercano disperatamente di prendere vita e sciogliere i fili che governano i loro movimenti. Dicono invece molto di più lo sguardo di lui cupo e impassibile e quello di lei spaesato e ferito, la macchia di sangue sulla fasciatura che di lì a poco dovrà cambiarle, la pistola che, nonostante tutto, continua a tenerla implacabile sotto tiro.

"Quella, almeno, posso curarla. Per le altre ti devi arrangiare."

Lei sorride amara, ma non risponde.

"Tocca a me, ora, chiederti perché."

"Perché cosa, Jet?"

"Quello che è successo negli ultimi due anni. Perché?"

Faye fa scorrere lo sguardo sulle pareti spoglie della stanza, valuta la distanza dal letto alla porta e quanto dovrebbe essere veloce per riuscire a scappare, ma le appare subito chiaro che non ci sono vie di fuga, né da questa camera, né da Jet, né dai ricordi.

"Per vendetta", risponde piano. "E per gelosia." Stringe la stoffa tra le mani. "Perché alla fine lui ha scelto lei, capisci? Lei, non noi… non me…"

Jet annuisce.

"Lei, non me", ripete a se stessa.

Finalmente Jet abbassa la pistola, la rimette nella fondina e si alza in piedi. È ancora più massiccio di come lo ricordava, la sua voce è un poco più profonda.

"Ti cambio la fasciatura, poi sei libera di andartene." Si mette all’opera con gesti rapidi ma non bruschi, attento a non causarle troppo dolore, giusto quello che non può proprio evitare. Quando finisce si allontana da lei come un artista che contempla il quadro cui ha appena dato l’ultima pennellata, sorride e le sfiora il viso. Faye chiude gli occhi, ma per un attimo soltanto.

"Mi lasci andar via?"

La sua risposta è volgerle la schiena per riporre bende e forbici, un gesto di fiducia estrema che la sorprende nella sua semplicità.

"Spike è morto, Faye. Come hai detto tu stessa, ha scelto lui quale strada percorrere."

Un singhiozzo.

Si chiede se abbia mai pianto, da quel giorno. Lui non l’ha fatto, e probabilmente neppure lei.

"Per tutto il tempo che è rimasto con noi", continua calcando la voce sul bellissimo plurale che un tempo sono stati, "era in realtà solo, trincerato dietro una porta chiusa." Fa una breve pausa, per darle il tempo di assimilare il significato delle sue parole, quindi prosegue. "Non fare il suo stesso errore. Non lasciarti intrappolare dalle tue ossessioni."

Dice queste cose senza guardarla in viso, continuando a darle le spalle. Quando però i singhiozzi si trasformano in pianto si gira e allarga piano le braccia, e in un attimo si ritrova a stringere il suo corpo magro in un abbraccio delicato e triste.

La notte trascorre così, silenziosa e densa. Il mattino li ritrova ancora abbracciati, sul viso di Faye adesso le lacrime si sono seccate e la gola di Jet non è più serrata. Non sarà più come prima, niente lo è mai, ma non sarà necessariamente peggio di come è stato. C’è ancora un’eco, una dissonanza in fondo ai loro occhi, visibile come una lunga cicatrice che corre sulla pelle candida. Ma è comunque un inizio, perché una cicatrice è anche il ricordo indelebile di una ferita che, in qualche modo, si è chiusa.

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