=Phoenix=
00mercoledì 26 aprile 2006 22:29
Solo.
Ero solo. In un castello enorme, dove ogni altra persona era mia nemica. Non la migliore compagnia. Certo, Banshee era mia amico nonostante l’avessi affrontato varie volte, ma era ancora un mio avversario. E non era quindi diverso da Locker o Bruce. Tre nemici, io ero solo. Solitudine, triste, tremenda, solitudine. Avevo passato giorni e giorni così, avendo come compagnia soltanto i miei avversari nei match di eliminazione. Ma almeno ogni tanto avevo Elaine. Ancora una volta la fortuna mi aveva favorito, riuscivo a chiamare con il mio cellulare nonostante mi trovassi in un castello. Sarei impazzito altrimenti, l’isolamento porta alla follia. Seduto su quel divano vittoriano, avevo l’impressione di trovarmi in un déjà-vu. Come quando venni a sapere della morte di mio padre. Speravo che ora non succedesse una cosa così nefasta. Già… la morte di mio padre… ogni volta che ci ripensavo avevo una fitta al cuore. Non avevo mai perso un familiare che avessi conosciuto, mio padre fu il primo. Sapevo che poteva provocare dolore, ma pensavo si limitasse al dolore mentale. Invece ora era come se mi stessero infilando un ago gelato dentro al costato. Dovevo chiamare Elaine, come facevo in questi momenti di tristezza che mi prendevano pensando a mio padre. Presi il mio cellulare, ultimo modello, ma probabilmente durante la mia permanenza nel castello già n’erano usciti di nuovi, rendendo così il mio cellulare quasi obsoleto. Scelsi dalla rubrica il numero d’Elly e mi misi il telefono all’orecchio per iniziare la mia telefonata.
Dopo pochi secondi Elaine ancora non rispondeva, raro, lei teneva sempre il cellulare a portata di mano. Ma probabilmente aveva qualcosa da fare. Era una donna occupata, in fondo. Per prima cosa era la fidanzata di un famoso wrestler, e questo volente o nolente porta a degli impegni. Aveva abbandonato il suo lavoro, il mio salario e la mia fortuna accontentavano entrambi, però aveva comunque impegni con le amiche. E magari, chissà, ora stava scopando con un suo amante. Immaginavo n’avesse, per una donna come lei era normale, neanche io le ero fedele. Però, screditando ogni mia ipotesi od idea che la immaginasse impegnata, rispose al telefono.
-Elaine… sei tu?- lo dissi cercando un tono neutro, senza però evitare di tradire una punta di tristezza interiore mischiata alla felicità provocatami dalla sua risposta.
-Sì, Sam.- Era raro usasse il nome di mio padre, particolarmente da quando era trapassato. Mi preoccupava, senza alcun dubbio, soprattutto dalla voce seria della mia amante, così diversa dalla sua solita voce cristallina e dolce.
-Elaine? Ma… come mai così seria? Non è normale… ti avevo chiamato, magari per parlare un po’, mi sento così solo… tu sei il mio solo contatto con il mondo esterno… sai che ho rinunciato a parlare con mia madre…- Era in parte vero. Elaine non era il mio unico contatto con il mondo esterno, di tanto in tanto chiamavo qualche conoscente per farmi raccontare in modo freddo e distante cosa accadeva al di fuori del castello. Però mia madre non l’avevo sentita più da qualche giorno precedente alla mia entrata nel castello. Avevamo avuto una discussione, lei voleva lasciassi il wrestling per potermi dedicare alle proprietà di mio padre. Logicamente io ero contrario, non avevo mai apprezzato svolgere quell’ingrato lavoro.
- Mi dispiace dirti una cosa simile via telefono, sai, preferisco parlarti di persona.- Fu lì che iniziai a preoccuparmi. Dannazione… perché dovevo preoccuparmi, Elaine era perfetta… cosa poteva dirmi di così spiacevole in fondo?
-Garet… sai… ho meditato molto sulle parole che sto per dirti. Come prima cosa ti chiedo scusa. Scusa, anche se probabilmente queste parole faranno più male a me che a te. Garet, io ti amo, e ti amerò per sempre. Ma ti chiedo di dimenticarmi. Perché io non posso stare con te. Non può funzionare, l’hanno dimostrato i mesi che abbiamo passato come coppia. Quante volte, dimmi, quante volte siamo stati insieme? Poche. Sei troppo occupato, non riesco a seguire i tuoi ritmi. Mi spiace, quindi, ma sono costretta a chiederti di dimenticarmi. E preferirei che noi non parlassimo più, soffriremmo solo.
Freddo. D’un tratto il calore del camino che avevo di fronte si trasformò in gelo. Fu la prima cosa che sentii.
-Ok. Ciao- non me la sentivo di replicare. Aveva ragione.
Al freddo si aggiunsero lentamente altre emozioni. Rabbia, disperazione, tristezza. Era vero, io amavo solo me stesso. Ma oramai Elaine era parte di me. E l’avevo persa, quella parte. Come se mi avessero amputato una parte del corpo. Era come se fossi morto. Un’altra volta, dopo la scomparsa di mio padre. Mi tornò in mente di quando la incontrai, in quel bar, dopo un’altra vittoriosa partita a poker. Con i suoi capelli d’oro e i suoi occhi turchesi mi aveva stregato. Una fitta di dolore fisico e mentale mi fece però tornare al presente. E fu in quel momento che mi resi conto di quello che era successo.
Elaine mi aveva lasciato. E non solo, chiedendomi di tagliare completamente i ponti con lei aveva negato ogni nostra possibilità di riconciliazione. Non gli avrei più detto parole dolci mentre la stringevo forte a me, non avrei più assaggiato le sue labbra dolci, non avrei più provato l’inestimabile ardore che provavo facendo sesso con lei. Sofferenza… sofferenza… infinita sofferenza. Dopo poco poggiai a terra il cellulare, ancora appoggiato al mio orecchio per lo shock che mi aveva colpito qualche minuto prima. Oramai non provavo neanche più emozioni. Era come se ogni sentimento che provavo avesse tentato di introdursi in una porta troppo stretta allo stesso momento. Non sentivo più nulla. Iniziai a fissare il camino, senza pensare, senza vederlo. Troppi pensieri mi avevano costretto a fermare per qualche minuto le mie idee, cercando in qualche modo di riorganizzarle. Poi un sentimento si fece strada fra gli altri.
La pazzia.
Pazzia che mi si insinuava, come una malattia, nelle vene. Avevo sentito delle voci secondo le quali il castello rendesse folli, ma non le avevo mai dato ascolto. Ma ora, l’insania aveva trovato la mia debolezza su cui fare leva. Caddi a terra, e iniziai a tirare pugni al suolo. Più ne tiravo, più le mie nocche si spellavano. Dopo poco iniziai a macchiare il pavimento del mio sangue, fino a che le mie braccia non si fermarono. E cominciai a pensare.
“Elaine… Elaine… perché… perché l’hai fatto? Io sono Garet Jax, uno degli uomini più ricchi al mondo. Ho un bell’aspetto e sono anche parecchio intelligente a detta di molte persone. Perché, quindi, perché? Lo so io il perché. La colpa è di questo castello, che mi lascia solo e senza Elaine. Sì, è colpa sua.”
Comincia a colpire il muro, con calci pugni e con ogni altra tecnica rozza e stolta che conoscevo. Non successe niente, com’era logico. Era un muro che aveva resistito probabilmente ad assalti ben peggiori dei colpi di un innamorato col cuore spezzato. Continuai così per poco tempo, fino a che non caddi a terra, esausto, senza forze. Mi appoggiai al pavimento, reggendomi con i gomiti. Lacrime rigavano la mia faccia, come tante già ne avevo versate con la morte del mio genitore. Ma in realtà sapevo perché mi accadeva tutto questo.
“Fortuna. Ancora una volta mi fai soffrire. Ancora una volta fai soffrire il tuo protetto…” Presi un coltello da là vicino e comincia a tagliarmi sulle braccia, come per far uscire la fortuna insieme al sangue che versavo al suolo.“Queste ferite, so che saranno inutili, non riuscirò mai a liberarmi di te, vero? Perché tu sei la mia maledizione. Già, e non come molte persone pensano, la mia benedizione. No, perché non sanno che essere il prediletto della Fortuna non è così bello come può sembrare. Sei vendicativa, Fortuna. Tu volevi che incontrassi Elaine, vero? Volevi vedere se ti tradivo, vero? È per questo che ora non ho più la mia amata, vero? Sì, è così, ne sono sicuro. Mi hai voluto punire per il mio tradimento, e così hai voluto uccidere mio padre e dividermi dalla mia amata. Hai vinto, Fortuna, ora sto soffrendo come mai nella mia vita è successo prima. Ed è per colpa tua, che ora sono nel castello, per cui ora Elaine mi ha lasciato. Hai vinto, Fortuna.”
Impugnai il coltello e cominciai a colpirmi il volto con la lama, provocandomi numerosi tagli al viso. No, non sarei morto, la fortuna avrebbe voluto farmi soffrire ancora. Mi colpii gli occhi, il sangue offuscò ulteriormente la mia vista già annebbiata dalle lacrime.
Ero ceco.
Ceco, anche solo per mio volere. Non volevo osservare un mondo di sofferenza, dove ogni persona poteva sentirsi come me. Un mondo così disastroso, preferivo non vederlo. Caddi a terra, ormai il sangue aveva sortito un effetto inebriante, costringendomi ad avere un equilibrio precario. Unito alla mia cecità mi aveva fatto cadere. Fortunatamente i miei riflessi si erano mossi con scioltezza e mi avevano protetto da una probabile frattura nasale. Non provai neanche a rialzarmi, non ne valeva la pena. Posai la testa lentamente sul pavimento, sdraiandomi così completamente al suolo. Non volevo rialzarmi, no, non volevo rialzarmi per soffrire ancora una volta. Per continuare ad affezionarmi a delle persone che poi per colpa della mia fortuna avrei perso. No, sarei rimasto lì, per terra. Non m’importava della scommessa di mio padre, la fortuna mi avrebbe impedito di fare anche quello se voleva. Senza speranze, senza futuro. La mia vita era solo esistenza dettata dalla fortuna. No, non mi sarei rialzato. Avrei solo sofferto ancora. Eppure mi rialzai, anche se nolente, però lo feci. Non mi si era rialzato l’umore, sarebbe rimasto così probabilmente per molto tempo se non per sempre.
Mi sedetti sul divano d’epoca vittoriana, e mi ci sdraiai. Non era molto comodo, ma non era l’agio che cercavo. Comincia a pensare. Pensavo a quello che mi era successo, agli avvenimenti della giornata. Pensavo al mio odio per me stesso. Mi odiavo, perché mi affezionavo alle persone.
Bingo.
Le persone. Le persone, mi facevano soffrire. Non potevo e non dovevo fidarmi più di nessuno. Solitario, dovevo essere un solitario. La fiducia. Ecco cosa mi provocava il dolore. Non potevo mai più fidarmi di nessuno se non volevo continuare a soffrire. Io ero l’uomo fortunato, l’uomo maledetto dalla fortuna. Sì, era la mia maledizione. Però è sempre stata l’unica cosa che mi era vicina in ogni momento. L’unica cosa che mi ha sempre permesso di andare avanti. Io la odiavo, in ogni caso, ma non potevo andare contro un avversario che non potevo sconfiggere. Elaine, mio padre, mia madre. Nessuna di queste persone mi avrebbe più fatto soffrire. Ero solo. Volevo rimanere solo, sarebbe stata una pazzia legarmi ad altre persone. L’unica cosa, anche se io ero riluttante ad ammetterlo, era fidarmi della mia fortuna. E a Simphony of Darkness sarebbe stata l’unica cosa brillante da fare. Ma non volevo nessuno a guardarmi dall’alto. Non volevo nessun oggetto che mi proteggesse. Ero solo, senza speranze, senza la voglia di vincere. Eppure io avrei combattuto per questo. Solo per dimostrare che potevo farlo, nonostante fossi solo. Anzi, avrei usato la solitudine come punto di forza. Non potevo essere deluso, tradito o ferito. Avevo incontrato ognuna di queste cose. Eppure non le avevo superate, per colpa dei miei legami con il passato. Ma ora io, Garet Jax, non avevo un passato… perché non c’era più nessuno che me lo ricordasse. L’unico legame ancora vivo era la fortuna, ma sapevo che non mi avrebbe mai ricordato il passato, perché la fortuna voleva vincere. E rimembrandomi il mio ieri non avrebbe fatto altro che garantirmi la sconfitta.
Ero solo e come unica compagna avevo la fortuna.
Finalmente.