Agriturismo, ovvero la noia a tavola

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centrosardegna
00martedì 28 agosto 2007 15:18
Non c'è da stupirsi: in cucina
eredi di generazioni cresciute a pani e casu

di Franco Cabras





Il mio paese fondava la sua economia quasi esclusivamente sull'agricoltura. I pastori erano pochissimi, con greggi non numerose. Erano costretti a recarsi ogni giorno al fiume, percorrendo anche molti chilometri, per consentire alle pecore di abbeverarsi. Esclusi i pochi orti dotati di pozzo, si coltivavano terreni non irrigui, spesso pietrosi. Le attrezzature erano quelle omeriche, o quasi, e la maggior parte dei prodotti agricoli era destinata all'autoconsumo e, in parte residuale, agli scambi in natura. Denaro ne circolava pochissimo.

Erano rari gli uomini adulti che, pur non facendo i contadini a titolo principale, non dedicassero una parte del loro tempo alla campagna. Si trattava di qualche commerciante e dei pochi forestieri residenti in paese: appartenenti alle forze dell'ordine, medico, farmacista, qualche insegnante. Anche i maestri elementari, gli impiegati comunali e gli artigiani, salvo rarissime eccezioni, coltivavano i propri terreni. Il mio barbiere, ziu Valeri, faceva il contadino dal lunedì al venerdì e apriva la bottega il sabato e la domenica mattina. La domenica sera, forse, si riposava.

La coltivazione più diffusa era ovviamente il frumento: grano tenero, ma soprattutto grano duro, nelle varietà Mentana e Cappelli. Il grano tenero serviva per ottenere su pòddine, che al mio paese indica il fior di farina, mentre in campidanese pòddini significa crusca. Il grano duro era ideale per ottenere la semola e il semolato utilizzato per produrre, esclusivamente in famiglia, il pane. Al mio paese su pane senza alcuna aggettivazione era il pane carasatu, mentre il pane di negozio, destinato ai forestieri, era chiamato coccone.

I contadini lasciavano la propria casa prima dell'alba e vi rientravano al tramonto o dopo di esso. Il loro pasto in campagna era costituito dal pane accompagnato da formaggio, o lardo, ovvero da ortaggi crudi. Nelle loro case, sopra il tavolo c'era il canestro (su canistreddu) in asfodelo contenente il pane impilato, con a fianco la forma di formaggio, il lardo e, nel caso di alcuni meno malestanti di altri, la salsiccia, che costituivano la base fondamentale dell'alimentazione.

Minestre, pasta e verdure: troppo poco
per far crescere una tradizione ai fornelli
Nelle loro famiglie si mangiavano le verdure crude e si cucinava poco: minestre e minestroni di patate con verdure fresche o legumi secchi, pasta fatta in casa, minestre con latte, verdure cotte miste (irvuzu), patate cucinate in vario modo e poco altro. Occorreva aspettare la primavera per disporre dei carciofi, che venivano cucinati insieme ai legumi freschi (fave e piselli), e l'estate per avere a disposizione i prodotti dell'orto. Tra questi un ruolo fondamentale era assegnato ai pomodori, ai fagiolini, alle zucchine e alle melanzane. Queste ultime venivano cucinate in vari modi, ma soprattutto al forno, a pizzarellu (alla pizzaiola) e a tuntunninu (a funghetto).

La frutta era poca, anche se molto buona. In particolare, era possibile mangiare splendide pere camusine ed eccellenti fioroni (sa icu 'e Santu Juanne), che oggi rappresentano beni rari, da utilizzare come preziosissimi regali. Si trattava di frutta e verdura di ottima qualità. Ciascuna verdura e ciascun frutto, pur non essendo sempre di bell'aspetto, aveva il sapore e il profumo suo proprio, ed era immune dall'omologazione al sapore neutro che, purtroppo e spesso, hanno da decenni i prodotti di serra e quelli concimati o trattati con sostanze chimiche usate in maniera scriteriata e talvolta criminale.

Mio suocero, campidanese, già quarant'anni fa raccomandava in continuazione al mezzadro, che coltivava uno dei suoi terreni, di bloccare il trattamento chimico dei carciofi almeno trenta giorni prima del loro taglio. La risposta era sempre affermativa: Sissi Signor Ninu, atturet tranquillu (Sì Signor Nino, stia tranquillo). Una volta lo aveva scoperto in flagranza mentre effettuava il trattamento una settimana prima del taglio e lo aveva rimproverato malamente. Difesa: Non s'inchietiri, sa canciofa no est pro nosatrus, depit andai a Torinu (Non si adiri, i carciofi non sono per noi, devono andare a Torino). Considerazione finale di mio suocero: Ita, in Torinu sa genti non morit? (Forse che a Torino la gente non muore?).

I pescatori e pochi altri consumavano il pesce. La carne era appannaggio di pochi. Le macellerie come le intendiamo oggi non si sapeva cosa fossero. I quattro macellai operavano nei box comunali, posti sotto il sagrato della parrocchia, e vendevano quasi esclusivamente carni ovine: pecora e capra. Quando un bue non era più in grado di lavorare, lo macellavano e lo dividevano in quarti (uno per ciascuno di loro). La loro professionalità era approssimativa. I tagli erano soltanto due: purpa e peth'e ossu (polpa e carne con osso). Gli acquirenti erano i pochissimi che disponevano di denaro.

In tutte le case era presente il pollaio (uova) e si allevava almeno un maiale (lardo, strutto, salsicce). Inoltre, in molti avevano la mucca e alcuni la capra, che assicuravano il latte per l'autoconsumo o per lo scambio. Infine, quasi tutti i contadini avevano due o tre agnelli, che venivano portati al pascolo, ai margini delle strade, dal figlio minore in età scolare, fino a farli diventare agnelloni, per poi macellarli per le feste grandi: Pasqua, San Giacomo, Madonna del Rimedio.

Erano le poche, e per taluni le sole, occasioni per mangiare carne in famiglia. Altrimenti, bisognava aspettare i matrimoni, il cui menù, salvo rarissime eccezioni, era il seguente: minestra in brodo di pecora a rasu (piatto colmo fino all'orlo), macarrones a cuccuru (piatto di maccheroni colmo col contenuto ammonticchiato), bombas (polpette, sempre di pecora) a cuccuru, petha a budditu (bollito, ancora di pecora) a cuccuru. Nei matrimoni dei meno malestanti era talvolta possibile mangiare la carne arrosto (ovina o suina), ovvero la gallina bollita ripiena, o il top dei top rappresentato dal pollo arrosto ripieno. Poteva esserci anche il contorno di verdura rigorosamente di stagione, in quanto le serre non esistevano.

Più quantità che qualità,
l'importante era riempire lo stomaco
La situazione negli altri paesi della Sardegna, fatte salve alcune tradizioni locali, non differiva di molto da quella del mio paese. Probabilmente, nei paesi nei quali l'economia prevalente era quella pastorale, si consumava più carne e più formaggio, ma c'era scarsità di grano e di verdura. Mentre il contadino la sera rientrava a casa e aveva la possibilità di consumare un pasto caldo, sia pure modesto, il pastore non poteva permettersi questo lusso ed era anch'egli costretto a mangiare prevalentemente pane, formaggio e lardo. I cibi cotti, sia pure raramente, venivano preparati dallo stesso pastore.

In conclusione, nella quasi totalità delle famiglie dei contadini e dei pastori si cucinava pochissimo, si preparavano pietanze qualitativamente banali, che non andavano al di là, nella migliore delle ipotesi, della mediocrità. Il problema che occorreva risolvere quotidianamente era quello di riempire lo stomaco in maniera sufficiente. Purtroppo non sempre ci riuscivano. La varietà e la qualità non le conoscevano e tutto sommato non gliene importava nulla. L'importante era la quantità.

Questa mentalità è rimasta in molti eredi di queste persone, anche oggi che viviamo nel benessere e nell'opulenza. Sono quelli che per esprimere piena soddisfazione, alla domanda: Comment'it su pranzu? (Com'era il pranzo?) rispondono: It tottu bundante (Era tutto abbondante). È chiaro che per costoro conta ancora solo ed esclusivamente la quantità, mentre la qualità è qualcosa che non sanno apprezzare e che forse non meritano. Per farli contenti, dategli pure da mangiare porcherie, purché in abbondanza. Ho il sospetto che avesse ragione Zio Pietrino, un fratello di mia nonna che faceva il commerciante, quando diceva: a zente oldinaria, roba oldinaria (a gente ordinaria, roba ordinaria). Egli usava l'aggettivo ordinaria col significato di scadente, che vale poco.

Quali le cause del fatto che in queste famiglie si cucinasse poco e male? Certamente occorre mettere nel conto la miseria, la scarsità di materie prime, la mancanza di attrezzi adatti. Ma la causa fondamentale, la causa efficiente, va a mio parere ricercata nella mancanza di sapere professionale. Detto in maniera cruda, ma si tratta della verità: non sapevano cucinare. Non per loro colpa, ma perché non avevano avuto la possibilità di apprendere l'arte culinaria, che si può benissimo applicare anche alle materie prime apparentemente poverissime, per ottenere pietanze succulente.

Ebbene, la maggior parte di coloro che gestiscono le aziende agrituristiche provengono da queste famiglie. Sono figli e nipoti di queste persone. Possono aver ricevuto dai nonni e dai genitori beni materiali e importantissimi valori, che li guidano nella loro vita, ma certamente non il saper cucinare, per il semplicissimo fatto, ben noto agli antichi romani, che nessuno può trasferire ad altri più di quello ha (nemo transferre potest plus quam ipse habet).

Fatte salve pochissime eccezioni, che esistono e sono da lodare, i gestori degli agriturismo hanno trasferito la cultura de su canistreddu fatta di pane, formaggio, lardo e salsicce, dal semplice e povero tavolo in legno della loro abitazione alla cucina in acciaio inossidabile delle loro aziende. Non hanno capito che l'attività dell'agriturismo è di tipo imprenditoriale e che l'impresa, qualsiasi impresa, è una collettività di soggetti umani che interagiscono in maniera permanente per conseguire l'obiettivo comune di produrre beni e servizi per il mercato, mediante l'espletamento di attività di vario tipo, che comportano l'utilizzazione di risorse e il rispetto di regole condivise.

Si tratta di una definizione alla quale non si può e non si deve applicare la proprietà invariantiva, in base alla quale cambiando l'ordine dei fattori il prodotto non cambia. Al contrario, se nelle imprese si cambia l'ordine dei fattori, cioè se i soggetti umani non sono collocati al primo posto, il risultato non solo cambia in peggio, ma può essere fallimentare. Voglio dire che per gestire l'agriturismo sono certamente necessarie strutture idonee (immobili, mobili, arredi, impianti e attrezzature) e materie prime di qualità soddisfacente. Ma questo non basta. Per erogare un buon servizio al cliente pagante e per far sì che, essendo soddisfatto, ritorni in azienda e ne parli bene, sono indispensabili i soggetti umani dotati di idonei saperi: cognitivo, professionale e relazionale.

Essi devono essere collocati al primo posto, perché il successo o il fallimento dell'attività imprenditoriale dipende prevalentemente da loro. È vitale che tra i soggetti di cui si avvale l'impresa ci sia qualcuno che conosca molto bene l'arte culinaria, cioè che sappia cucinare in maniera soddisfacente un numero di pietanze non troppo ridotto, in modo da variare il menù da offrire ai clienti.

Menù fisso per l'ospite-turista
Non si fa impresa senza professionalità
Queste condizioni sono generalmente rispettate nella nostra Isola? Salvo eccezioni, la risposta è, purtroppo, un no secco. La dimostrazione di quanto affermo è data dal menù standard, che viene servito ad ogni pasto, nella stragrande maggioranza di queste strutture: antipasto di salumi (salame, salsiccia, prosciutto, pancetta o guanciale, ecc.) con contorno di formaggi e di olive che, nonostante le eccellenti varietà prodotte in Sardegna, sono spesso di plastica nera; primo di malloreddus con sugo di pomodoro e salsiccia, nonché di ravioli, il cui ripieno cambia a seconda della zona in cui è ubicata l'azienda; secondo di carne arrostita allo spiedo (di solito porchetto o agnello), con contorno di verdura cruda mista (finocchi, sedani, ravanelli, lattuga, ecc.); formaggio; dessert costituito da dolci sardi e dalla sebada che, al di fuori del nuorese, non di rado diventa la sebadas. Avete voglia di spiegare che sebadas è plurale, che al singolare occorre togliere la esse finale, e chiarire che offrire una sebadas equivale a dire: volete una bottiglie di vino? Vi rispondono che al loro paese si dice la sebadas, il murales e così via. Frutta, non dappertutto e non sempre. Ovviamente il pasto è accompagnato da acqua, vino o birra e, per finire, dai liquori tipici preparati in azienda, o acquistati da terzi: filuverru, mirto, limoncello e altri.

Talvolta i cibi sono cucinati in maniera buona e, sia pur raramente, anche ottima. Ma il più delle volte si tratta di pietanze qualitativamente mediocri, che si situano tra la tavola calda dell'aeroporto e la mensa aziendale. Chi si ferma nell'azienda agrituristica per qualche giorno, ospitato in camere quasi sempre soddisfacenti, rischia fortemente di ritrovare ad ogni pasto (pranzo e cena) lo stesso menù.

La maggiore responsabilità di questa situazione è da ascrivere agli addetti alla cucina, maschi e femmine, che spesso sono cucinieri improvvisati. Non me la sento di chiamarli cuochi, neanche con la c minuscola. Non mi risulta che nessuno nasca cuoco e sono certo che nessuno può improvvisarsi cuoco. Cuochi si diventa, dopo aver appreso una serie complessa di nozioni, che consentono di acquisire un sapere professionale specifico. Per saper cucinare ci vuole formazione e addestramento, nonché aggiornamento. Se l'apprendistato non si è potuto effettuare in famiglia per assenza o forte carenza di tradizioni culinarie degne di questo nome (è il caso della quasi totalità delle famiglie, agro-pastorali e non solo, della Sardegna), occorre andare a scuola di cucina.

Quanti addetti alla cucina degli agriturismo hanno frequentato un corso specifico? Quanti sono in possesso del diploma, da intendere non come mero pezzo di carta, ma come attestazione e certificazione del meritato conseguimento di uno specifico sapere professionale? Sono convinto che qualcuno c'è. Ma sono pochi. Gli agriturismo, in base alla legislazione emanata dalla nostra Regione, sono definiti come “attività di ricezione ed ospitalità esercitate dagli imprenditori agricoli, attraverso l'utilizzazione della propria azienda, in rapporto di connessione e complementarità rispetto alle attività di coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento del bestiame, che devono comunque rimanere principali”.

Si tratta di attività socio economiche fondamentali e molto importanti: per far conoscere e diffondere la gastronomia locale, per integrare i magri redditi agricoli, per frenare il fenomeno dell'abbandono delle campagne e per assicurare posti di lavoro remunerati a persone spesso senza valide alternative. Inoltre l'agriturismo, talvolta nella forma dell'azienda didattica, consente ai bambini, e anche agli adulti, di entrare in relazione con un mondo abbastanza sconosciuto, a contato con la natura.

Pertanto, l'acquisizione e il miglioramento dei saperi professionali adeguati alle attività di tipo vario, che caratterizzano la gestione dell'agriturismo, è una condizione indispensabile per assicurare la sopravvivenza di queste imprese in condizione di salute, l'unica atta a garantirne lo sviluppo. Tra questi saperi rientra, in primo luogo, l'arte culinaria applicata ai prodotti del territorio, di cui è ricca la Sardegna e che, grazie a Dio, non si esauriscono nei menù fotocopia che ho riportato in precedenza. Signore e signori cucinieri, abbiate l'umiltà di andare a scuola, per apprendere quanto è necessario per potervi fregiare a buon diritto del titolo di cuoco. Dimostrerete di avere coraggio e di saper tutelare adeguatamente i vostri interessi.

Se siete già Cuochi (con la C maiuscola), confrontatevi con i vostri colleghi e non abbiate paura di aggiornarvi. I saperi non sono mai statici. Essi mutano e si affinano nel tempo. Una parte importante del vostro futuro dipende dalle vostre decisioni. Dovete fare in modo che alla domanda: Comment'it su pranzu? tutti gli interpellati con adeguata capacità valutativa della qualità, e una parte di coloro che attualmente danno importanza solo all'abbondanza, rispondano: it tottu bonu, de sinde lingher sos poddiches! (era tutto buono, da leccarsi le dita). Quando e se questo accadrà, sono convinto che i vostri affari non potranno che andare bene, perché nei luoghi dove si somministrano beni e servizi di buona qualità, a prezzi congrui, è sempre pieno di clienti paganti, il cui numero tende a crescere.

* docente all'Università di Cagliari

centrosardegna
00martedì 4 settembre 2007 15:10
“Sapori di Sardegna”, micio al cognac
dessert con fusa: e il cane in salmì?
Giornalismo trifolato, animalisti al ragù





Non è una di quelle ricette patinate da trovare posto tra i Sapori di Sardegna tanto pubblicizzati. Però sabato 1º settembre, con un gusto macabro da far rabbrividire qualunque maestro del noir, la “posologia” è stata spiattellata a pagina 5 dell'Unione Sarda. Così, senza problemi. Testuale: «Prendere il gatto, scuoiarlo, pulirlo, tagliarlo a pezzi, coprirlo di vino e unire una cipolla, una carota, del sedano, foglie d'alloro, bacche di ginepro e grani di pepe pestati e un pizzico di sale. Lasciare marinare per una notte intera…».

Scuoiarlo. Il gustoso box fa parte di un'intera pagina che denuncia la scomparsa di ben seimila gatti in Sardegna, votati sull'altare della superstizione, l'ignoranza, la follia, l'umana bestialità. Gatti uccisi per pratiche demoniache, massacrati per ignavia, mangiati se si ha fame come dicono, fosse in voga a Quartu o nel profondo Veneto, in tempi di magra. Paradossi giornalistici: un articolo di denuncia trasformato in suggerimento per delinquere.

Visioni dal Terrapieno: ogni punto che si muove fuori dalla traiettoria merita una “cura” ad hoc. E quindi scuoiamo, mariniamo, lessiamo perfino il micio che ci scorazza in casa. L'etica animalista è un abito sgualcito: fuori gli artigli e giù la mannaia.

«Al momento di cucinare sgocciolare il gatto dalla marinata. A parte rosolare del lardo e in seguito unire il gatto, dello scalogno tritato e del cognac (bisogna farlo evaporare completamente). A metà cottura aggiungere del vino, funghi tritati, salare e pepare. Infine, cinque minuti prima di togliere dal fuoco, aggiungere il fegato tritato».

Quale sorte riserveremo al cagnolino di casa? Capperi piuttosto che scalogno? O una bella e mortale bastonata, secondo la moda orientale, per rendere le carni ancora più tenere o succose? Nel solito inquietante silenzio isolano (questa stessa denuncia è stata inoltrata a tutte le associazioni animaliste senza risposta. Dal Wwf agli amici Vegan della Sardegna forse impegnati a scoprire le virtù della pompìa piuttosto che scomodarsi a riflettere sulla mattanza legalizzata), si procede per paradossi. Di là la lacrima da coccodrillo per l'estinzione dei gatti di Sant'Antioco, di manto bianco, di qua la ricetta per far fruttare la creatura e servirla in tavola come un sapido coniglio selvatico.

Gastronomia da sottani. Ma la realtà è che ampi pezzi di giornalismo si sono estinti, trifolati come un fungo, eguali a gelati sciolti al sole. E con essi se n'è morto lo sconcerto civile che in altre epoche avrebbe prodotto valanghe di lettere contro l'autore del misfatto informativo. La rabbia trasformata in livore, o meglio in oliva da antipasto. Il disgusto ridotto in paté de foie gras. Servire il tutto tiepido. Buon appetito. Le fusa le riserviamo al dessert.

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