Alessandria, Egitto, IV secolo dopo Cristo. La città è sotto l’egemonia dell’Impero Romano, il quale, stretta la sua alleanza con la Chiesa Cattolica, si serve dell’ignoranza dei cittadini per arrivare a colonizzarne le menti. Chiunque si opponga a questo spietato proposito, rischia la morte. Se poi è donna, il macello.
Agora ci racconta un capitolo di storia ancora troppo doloroso per i benpensanti, un’indelebile macchia con cui “certi uomini di potere” hanno sporcato le proprie vesti per poi coprirle con un setoso manto dorato. Alejandro Amenàbar decide di soffiare sotto quella seducente veste, ma ciò che in realtà copriva, lo lascia a malapena intravedere. Timido, il regista cileno non osa prender troppo fiato prima di emettere quel sospiro e crea un semplice venticello che, di tanto in tanto, forma delle pieghe oltre le quali è possibile solo scorgere.
Solo da qualche tempo a questa parte il mondo è tornato a parlare di Ipazia, l’emblematica figura storica che segnò la fine del paganesimo, il tramonto del progresso e della scienza. Un episodio che diede inizio a una serie di imperdonabili stragi d’innocenti, logica conseguenza del patto di sangue che l’Impero Romano aveva stretto con la Chiesa. Un accordo che, oltre a impedire la professione di culti diversi da quello cristiano, pretendeva che gli uomini arrestassero completamente il loro cammino verso il sapere; proseguire quell’opera di ricerca di un libero pensiero, era diventato reato: l’unico scopo era quello di svuotare le menti umane e incatenarle nella morsa di tiranni come Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Agostino e Cirillo per renderle più governabili. Ipazia non scese mai a compromessi con questi uomini di potere, non si chinò di fronte ai vescovi che le avevano promesso vita serena in terra ed eterna nei cieli. Determinata, la donna si dedicò per tutta la vita alla ricerca della verità, a porsi domande e studiare per trovare risposte. Erede del padre Teone, stette a capo della scuola Alessandrina dove passava le sue giornate a studiare e indottrinare il popolo.
Incarnata dalla bellissima Rachel Weisz, Ipazia fa parlare di sé per la prima volta attraverso una coraggiosa pellicola. Amenàbar, Oscar nel 2004 per "Il mare dentro", osa. E lo fa narrando la storia di una scienziata bella e coraggiosa, ribelle quanto bastava per essere diffamata e poi uccisa. Il racconto perde in parte la sua connotazione di documento storico e diviene, a tratti, romanzato: si commuove, lo spettatore, per la storia di Davo, il povero schiavo che dichiara la sua cristianità solo per guadagnarsi la libertà; si appassiona per la vicenda di Oreste che cerca continuamente di mediare il suo amore per la bella protagonista con il suo ruolo di prefetto di Alessandria; inorridisce di fronte al vescovo Cirillo e alle stragi da lui scatenate. Rimane, infine, raggelato di fronte al sacrificio di Ipazia.
Una trama come tante, una sceneggiatura, probabilmente, già testata. Con una postilla sul margine: si tratta di una storia vera.
Certo, affinché la vicenda acquisisse maggior risonanza, occorreva concentrarsi di più sul ruolo della Biblioteca Alessandrina e sulla sua importanza istituzionale; occorreva donare alla bellezza della protagonista un ruolo meno marginale, evitando di far passare il suo sacrificio per uno dei tanti che venivano commessi in un periodo di stragi. Il martirio di Ipazia fu una rappresentazione simbolica a tutti gli effetti: la donna non venne lapidata, come la pellicola vuol farci credere, bensì fatta a pezzi e poi bruciata. Un particolare, questo, che determina una domanda fondamentale, da cui far partire un’enorme ricerca: perché? Non sarebbe bastato accoltellarla, se era così “fastidiosa”?
Il regista omette dei dettagli fondamentali e fa sì che lo spettatore si ritrovi di fronte a una mezza verità, o, meglio, una verità edulcorata.