Segreto bancario: imminente la cacciata dal paradiso (fiscale)
Una missione difficile se non impossibile quella di difendere ad oltranza il segreto bancario, soprattutto con i tempi che corrono. Il tesoro “sepolto” nelle casse dei paradisi fiscali sarebbe stimato tra i 4mila e 5.600 miliardi di euro (al cambio attuale).
A guidare la crociata contro i paradisi fiscali sarebbero due paladini europei, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel. Il presidente francese, giusto una settimana fa, ha paventato la possibilità di inserire la Svizzera nella lista nera dei paradisi fiscali, quelli che non collaborano e che, anzi, ostacolano la vigilanza dei flussi di capitale.
Sarà posta all’ordine del giorno del prossimo G20 (del 2 aprile) la questione dei paradisi fiscali, da cui si partirà per ri-tracciare le linee della riforma dell’architettura finanziaria del pianeta. Anche perché i banchieri della Confederazione hanno già avuto il loro bravo scontro il mese scorso con gli americani, vittoriosi nel costringere l’Ubs a consegnare, pagando una salata multa, i nomi di trecento clienti a stelle e strisce sospettati di frode fiscale.
Gli ultimi paradisi d’Europa
Sono 35 i paese del vecchio Continente che dal 2000 hanno adeguato la loro legislazione alle “norme di comportamento” internazionali. Restano però almeno tre casi (Andorra, Liechtenstein e Principato di Monaco) di Stati individuati come “paradisi fiscali che non cooperano” a far cadere le barriere all’informativa. Anche se l’acqua nella quale nuotano gli evasori fiscali si va progressivamente asciugando, il rimpiattino tra guardie e ladri però non ha fine. Dal 1989 il riciclaggio di denaro è nel mirino della Task force internazionale sui problemi finanziari (Fatf-Gafi), istituita dal G7. Ma quando finalmente un Paese cede alle pressioni internazionali (come accaduto di recente per le Bermuda su pressione degli Usa e, in parte, per il Liechtenstein da parte della Germania e per la Svizzera sempre da parte di Washington) i capitali sono già emigrati in un altro paradiso fiscale.
Lo strano caso del Vaticano
Secondo un interessante articolo del Sole 24Ore ci sarebbe da menzionare un caso “sui generis”, ossia quello del Vaticano, dove l’unica banca attiva è l’Istituto Opere di Religione. Lo Ior, che non ha altre filiali, tra i clienti conta dipendenti e membri della Santa Sede, ordini religiosi e benefattori. Rapporti selezionati e non “a rischio” identificati solo attraverso un codice: alle operazioni non si rilasciano ricevute, non esistono assegni intestati allo Ior, depositi e movimenti avvengono tramite bonifici. Bilancio e investimenti dell’Istituto sono noti solo al Papa, al collegio dei Cardinali, al Prelato, al Consiglio di sovrintendenza, alla direzione e ai revisori dei conti dell’istituto.
Poiché ha sede in uno Stato sovrano, ogni richiesta di rogatoria allo Ior deve partire dal ministero degli Esteri del Paese richiedente. Finora nessuna rogatoria è stata concessa dal Vaticano, che non risulta aderire a organismi internazionali di controllo antriciclaggio ma partecipa – indirettamente – ai sistemi di pagamento dell’eurozona tramite banche tedesche e italiane. Che il Vaticano non si sia dotato di norme non significa però che la Santa Sede sia “meno virtuosa” di Paesi che le hanno: Stati con norme antiriciclaggio sono di certo meno attenti della Santa Sede nel combattere il fenomeno.