LE BALLE SULLA LIRA E L'EURO
Sulla questione dell'euro Berlusconi (e chi lo ascolta ignorando i fatti) fa un indegno polverone. Voluto, s'intende. E mirato a gettare discredito sul maggiore successo del governo Prodi, e cioè l'ingresso della lira nella moneta unica.
Il rientro nel meccanismo di cambio europeo (da cui la nostra moneta fu espulsa nel 1992 per effetto delle irresponsabili politiche clientelari di Craxi-Andreotti-Forlani, crollando fino a 1.275 contro il marco tedesco e facendo rischiare al paese una drammatica crisi finanziaria) fu tentato già dal governo Dini nel 1995. A Stresa, ai primi di settembre, l'allora cancelliere tedesco Helmut Kohl rispose "Nein".
Un anno dopo, il governo Prodi era indeciso sul da farsi. Sperava di potersi giocare la partita di un eventuale rinvio assieme agli spagnoli. Poi, a un incontro bilaterale, si scoprì che gli spagnoli (i cui fondamentali economici erano di gran lunga migliori dei nostri) avevano già ricevuto assicurazioni di poter entrare nell'euro come membri fondatori. Per Prodi e per Ciampi (al Tesoro) fu lo sprone decisivo: l'unica via di salvezza per l'Italia era cercare di farcela subito (si rischiava di restare fuori per sempre, con un'inflazione strutturalmente più alta che nel resto d'Europa, un cambio più fragile, un debito più elevato - insomma una barchetta abbandonata a sè in un mare in tempesta...).
La rincorsa all'euro fu tutta in salita. La nostra credibilità in Europa, e soprattutto in Germania (dopo gli anni del CAF e del suo erede Berlusconi), era molto scarsa. Ma non quella di Ciampi (sant'uomo!), che parlava tedesco, e con maggiore rigore e fermezza del più teutonico dei suoi interlocutori (il capo della Bundesbank, Tietmeyer).
Al decisivo incontro di novembre 1997, a Bruxelles, l'Italia si presentò con i conti pubblici molto migliorati, l'inflazione in calo, la pace sociale, un governo credibile, una crescita buona (insomma, l'esatto contrario di oggi...). E una classe dirigente (a parte Fazio, che difendeva il suo orticello, e forse qualche imprenditore parassita, che sperava di fare ancora i soldi in un'Italietta allo sbando) che pensava che non ci fosse alternativa all'euro.
L'incontro, nel corso di un tesissimo weekend, fu un braccio di ferro. Confindustria aveva a suo tempo sperato in un rientro nel sistema di cambi fissi il più morbido possibile (verso quota 1.050 contro il marco, nel timore che un cambio più forte avrebbe spiazzato l'export italiano), il governo mirava più realisticamente a quota 1.000, ma tedeschi e portoghesi puntarono i piedi su quota 960.
Tra 960 da una parte, e difesa di quota 1.000 dall'altra, fu solo la passione e l'autorevolezza di Ciampi (che a notte fonda mise alla fine a tacere Tietmeyer) a riuscire a strappare il più che onorevole compromesso di 990 - da cui poi è automaticamente derivato il cambio lira/euro di 1936,27.
Parlare, come fa Berlusconi, di una parità con l'euro a 1.500 lire (770 contro il marco tedesco?! Le ipotesi in campo allora, le uniche ritenute credibili, erano tutte in una forchetta tra 950 e 1050) è una castroneria che fa drizzare i capelli a chiunque ne capisca qualcosa. L'export sarebbe crollato (ma Berlusconi se ne frega, tanto lui è un monopolista dell'Italietta alla deriva, mica un capitalista dell'era della globalizzazione...). L'economia italiana sarebbe immediatamente entrata in recessione. I mercati finanziari non l'avrebbero mai considerata una parità difendibile, puntando sull'immediata espulsione dell'Italia dal sistema di cambio. Insomma un'idea demenziale!
Grazie all'euro abbiamo abbattuto il costo del debito, frenato l'inflazione, goduto di una valuta stabile e di mercati finanziari più liquidi ed evoluti.
Quanto alla sfida della Cina, era inevitabile e prevedibile da almeno 20 anni. L'Italia deve cambiare la sua struttura produttiva, studiare, investire, innovare e imparare ad affrontare mercati aperti e globalizzati.
Non sarà un monopolista, a cui la concorrenza dà l'orticaria proprio come il contradditorio in TV, a guidarla con successo in questa trasformazione.