03.07.2004 / D-DAY

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kurt2409
00sabato 3 luglio 2004 13:25
Nessuno sbarco in Normandia, oggi è il Dylan-DAY. In questo topic metterò foto, recensione mia + altre. Non aprite altri topic, tutti i commenti sul concerto metteteli qui!
kurt2409
00domenica 4 luglio 2004 14:10
Le foto del concerto sono buie...

DYLAN:



DYLAN:



BATTERIA E BASSISTA FIGO:



PALCO PRE-CONCERTO:



LUCA E CRUX:



ZIO E VEZZY:

Foto censurata per minaccia di denuncia per violazione privacy

GIULIA E GELATO:



HO SETTE FILMATINI AVI MOLTO CARINI, SE VOLETE VI FACCIO UN CD CON TUTTE LE FOTO (QUI NE MANCANO ALCUNE) E I FILMATI!
CIAO!

[Modificato da kurt2409 04/07/2004 14.48]

kurt2409
00domenica 4 luglio 2004 16:23
Recensione per www.unmute.net
Per aprire il “Rhythm of the Lake 2004”, l’annuale festival pop-rock comasco, la Four One è riuscita ad accaparrarsi quella leggenda vivente che risponde al nome di Bob Dylan, segnale indicativo di come questo festival diventi di anno in anno più importante e prestigioso (il 13 Luglio saranno i Deep Purple ad accendere la notte di Como). La discesa di Dylan in Italia era attesa da mesi e, dopo la data di Padova del 2 Luglio, il menestrello di Duluth è giunto all’ex-galoppatoio di Villa Erba, prestigiosa residenza a cinque minuti da Como, un tempo proprietà di Luchino Visconti e resa celebre negli ultimi tempi dalle star di Hollywood che, guidate dalla regia di George Clooney, vi hanno girato “Ocean’s Twelve”.
Il prato che sta di fronte allo spazioso palcoscenico è gremito già alle otto di sera e alle nove, quando Bob Dylan fa la sua entrata in scena, sono seimila gli spettatori pronti ad accoglierlo a suon di urla ed applausi commossi.
Ci sono i fans di vecchia data e ci sono i giovani: molti forse si aspettano un Dylan versione anni sessanta, molti poi saranno rimasti stupiti nel vederlo dietro ad una tastiera per tutta la durata dello spettacolo: problemi di schiena impediscono a Dylan di imbracciare la fedele sei corde, ma il supporto di una band validissima non gli impedisce di creare un sound perfetto per ogni singola canzone, sempre molto diversa da quelle che siamo soliti ascoltare su disco. Dylan è così, imprevedibile e geniale come lo è sin dai suoi primi concerti all’alba degli anni sessanta: entra su un’ottima “Maggie’s farm”, il sound è potente e rinvigorito dalla buona acustica dello spazio circostante, la voce è rauca, tanto rauca da renderla splendida e sensuale al punto giusto. E’ un altro grande successo, quella “The times they are a-changin’”simbolo delle contestazioni targate sixties, a portarci nel vivo dello show: Dylan alterna canzoni note e meno note, tutte suonate con un’ energia grandissima; ci sono pezzi recenti, come la grandissima “Every grain of sand”, c’è spazio per grandi emozioni con “The ballad of Hollis Brown” e l’acustica “Boots of spanish leather” e ci sono i classici immortali: “Just Like A Woman”, completamente differente dalla versione originale, fa venire la pelle d’oca, “Highway 61 Revisited” stupisce per l’energia che Dylan trasmette attraverso tastiera e microfono, mentre “Forever Young” è uno dei momenti culminanti dello show.
Dylan presenta la band, saluta ed esce dopo 14 canzoni incredibili. Ma non è ancora finita e la grande sorpresa arriva con i bis: bisogna aspettare le prime parole della canzone per capire che Bob ci sta regalando l’immortale “A hard rain’s a-gonna fall”, lenta e con un ritmo completamente trasformato, ben diversa tanto dalla versione acustica quanto da quel capolavoro rock immortalato sul “Live 1975”, penultima uscita della Bootleg Series; a seguire la consueta nuova versione di “Like a rolling stone”, che senza il suo ritmo travolgente perde senza dubbio qualcosa, per poi finire con una versione capolavoro di “All along the watchtower”, incredibile per perfezione, potenza ed intensità. Passano due minuti e Dylan è già sul bus personale con la sua band, diretto a Saint-Etienne per continuare il suo Neverending Tour.
Ci avviamo lentamente verso l’uscita: la soddisfazione è nell’aria, tutti sorridono e commentano quello che hanno appena avuto la fortuna di vedere. Ma c’è dell’altro: nei cuori di tutti c’è la ferma convinzione di aver assistito ad un qualcosa da raccontare ai propri figli. Perché che ci piaccia o no, ogni concerto di Dylan è un pezzo di storia, prezioso e magnifico.

Luca Meneghel
kurt2409
00domenica 4 luglio 2004 16:34
Recensione di Maurizio Pratelli per il Corriere di Como
Era un giorno molto atteso. Era il 'Dylan Day'. Uno degli avvenimenti che contribuiscono in maniera determinante a rendere magica una stagione lariana mai così ricca di eventi. Una conferma importante della capacità del nostro territorio di poter pensare davvero in grande.
E Bob Dylan "In Person", come recitavano i manifesti che promuovevano questo tour europeo, inserito ad inaugurare il ricco cartellone dell'edizione 2004 del festival musicale The Rhythm of The Lake, è arrivato ieri sera a Cernobbio portando con sé una parte fondamentale dello storia del rock.
Se l'anno scorso il sogno Van Morrison era stato spezzato, o meglio spazzato via, da un vento crudele, ieri sera anche il tempo ha voluto essere dalla parte degli organizzatori, FourOne in testa, che hanno lavorato per mesi affinché una delle due sole date italiane della tournée dell'autore di Blowin' In The Wind, toccasse Como.
Di Dylan si potrà dire di tutto, che la voce non è più quella dei tempi d'oro, che non suona più la sua inseparabile 'sei corde' e che vederlo seduto al pianoforte non è proprio la stessa cosa. Però, questo è certo, in pochi sanno ancora regalare, dopo quarant'anni di concerti, le stesse emozioni al primo accenno di una loro canzone: al canadese Neil Young basta un tocco della sua chitarra all'americano Bob Dylan qualche parola di un suo celebre brano.
E poco importa se spesso anche i vecchi fan devono cercarsi con gli occhi per riconoscere quale sia la canzone che sta eseguendo, questo è Dylan e loro lo sanno. L'ex Galoppatoio di Villa Erba, gremito fin dalle prime ore da un pubblico pacifico che attraversava, come le canzoni del menestrello di Duluth, molte generazioni, ha avuto reazioni diverse all'esibizione di Bob Dylan. Inevitabili, per chi lo segue da qualche lustro, i paragoni con il passato: con gli epici concerti degli anni'70 ma anche con le esibizioni più recenti degli anni '90.
Un po' frastornati i più giovani che per la prima volta entravano nel mondo live di Robert Allen Zimmerman senza sapere che le sue chitarre, anche quella acustica, erano state abbandonate e che quello che avevano ascoltato, e subito amato sui dischi, aveva subito una trasformazione profonda.
Ma per le seimila persone che hanno gremito il grande prato cernobbiese era l'evento che volevano, che aspettavano con ansia e inevitabilmente l'arrivo di Dylan sul palco è stato accolto con un tripudio di applausi, misti a quella commozione che davanti a certe icone della musica è difficile non provare. Scaletta come sempre imprevedibile nella quale le sorprese come la splendida roccheggiante Down Along The Cove sono state miscelate con qualche classico epocale come Maggie's Farm, The Times They Are A-Changin' e Just like a woman e con brani più recenti come una tambureggiante Every grain of sand. Grandi emozioni poi con l'acustica Boots of spanish leather, l'epica Ballad Of Hollis Brown e la struggente Forever young.
Grandiosa come sempre la band, Larry Campbell (spendido anche al violino) e Stuart Kimball non hanno fatto rimpiangere l'assenza della chitarra di Dylan ed impeccabile è stata la sezione ritmica, composta dalla batteria di George Receli e dal grande Tony Garnier che ha regalato il suo magico groove a più di un brano.
A chiudere lo show l'immortale Hard rain, la tanto contestata nuova versione di Like a Rolling Stone e una superba All Along The Watchtower.
Un evento che ha posto finalmente uno spartiacque definitivo tra la Como timida e riservata del passato e quella che ha capito che Lariowood non è solo un gioco di parole.

kurt2409
00martedì 6 luglio 2004 13:57
Recensione di Christian Verzeletti per www.mescalina.it
Un concerto di Bob Dylan è una sfida, non solo per quei fans che si sentono chiamati di volta in volta a seguire il loro idolo, a vaticinare sulla scaletta, a interrogarsi sulla opening track e sulle differenti versioni di ogni brano, più o meno riconoscibili. È una sfida che Bob Dylan lancia soprattutto a se stesso: l'andare on the road e salire sul palco è un mettere in discussione ogni volta una musica che è già stata consegnata alla storia del XX secolo. È questa la ragione che lo spinge ad andare ancora in tour, "Live and in person", piuttosto che a concentrarsi sul lavoro in studio o a godersi i frutti della propria arte: ogni concerto è un'improvvisazione che va al di là delle variazioni presenti in scaletta.
Con la sua band, formata dai fidi Larry Campbell, Tony Garnier e George Recile, a cui quest'anno si è unita la chitarra di Stu Kimball, Dylan lascia ai pezzi un margine molto ampio di libertà: può succedere, come è stato a Como, che le prime canzoni suonino a dir poco approssimative. In particolare l'esecuzione di "The times they are a-changin'" ha destato qualche sospetto sullo stato e sull'umore del suo autore, ma soprattutto sulla sua voce a cui non sono bastati ripetuti cambi di tonalità. Altrettanto dicasi per "Just like a woman", maltrattata con l'armonica in crescendo anche quando la batteria aveva ormai preso altre direzioni: l'impressione che Dylan, all'età di sessantrè anni, cominciasse ad essere vittima di qualche svarione e che i suoi musicisti andassero esitanti incontro all'ignoto, ignari delle intenzioni del loro leader, era concreta e si allungava come uno spettro sulla serata.
Invece, quando la voce si è scaldata e i suoni hanno preso una piega migliore, le versioni live delle canzoni hanno cominciato a mostrare uno spessore rock invidiabile, che meriterebbe di essere consacrato su un disco piuttosto che sui soliti bootlegs. Dylan è rimasto seduto al piano elettrico, ma ha cominciato a muoversi all'unisono con la band: a partire da "Floater", con il violino di Larry Campbell, il concerto ha cominciato a crescere fino a raggiungere l'obiettivo prefisso con la cavalcata di chitarre spigolose e acuminate di "Highway 61 revisited". Lo stesso Dylan, che era parso titubante nel tentativo di afferrare qualcosa che passava nell'aria, è diventato padrone del palco, come se le transenne in metallo fossero le pareti di casa sua e lui conoscesse alla perfezione ogni corrente che soffiava dai loro pertugi: le canzoni hanno mantenuto un senso di misteriosa improvvisazione, che Dylan riusciva ad afferrare, a stringere e a direzionare come voleva.
L'intensità acustica di "Boots of spanish leather" e di "Ballad of Hollis Brown" hanno incantato tanto quanto le suggestioni di una "Forever young" marcata dalla steel di Campbell, mentre "Honest with me" ha macinato un rock corposo e tagliente. Addirittura, cosa insolita per lui e rara per i suoi fans, Dylan non ha nascosto la propria soddisfazione concedendosi qualche giretto dalle parti della batteria e presentando la band in maniera visibilmente divertita. Il set è stato chiuso da una imperiosa "Summer days", partita swing con tanto di contrabbasso e finita con assoli elettrici a ripetizione.
I bis hanno visto una "A hard rain's a-gonna fall" vivere di splendide impennate, seguita quasi in medley dalla nuova versione di "Like a rolling stone" e da una "All along the watchtower", oscura e rallentata, con le chitarre che ne aprivano improvvisi squarci.
Alla fine è diventato chiaro a tutti il senso di quell'occhio, sormontato da una corona, che campeggiava sullo sfondo del palco, nel mezzo di un telo nero, a inquietare la cornice di Villa Erba: era il simbolo di un re che non smette mai di scrutare, di interrogare se stesso, le sue canzoni e il proprio pubblico. Lunga vita al re.
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